ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
Male enim se res habet, cum quod virtute effici debet, id temptatur pecunia. Sed quoniam non numquam hoc subsidium necessarium est, quemadmodum sit utendum eo dicemus, si prius iis de rebus, quæ virtuti propriores sunt, dixerimus. Atque etiam subiciunt se homines imperio alterius et potestati de causis pluribus. Ducuntur enim aut benivolentia aut beneficiorum magnitudine aut dignitatis præstantia aut spe sibi id utile futurum aut metu ne vi parere cogantur aut spe largitionis promissisque capti aut postremo, ut sæpe in nostra re publica videmus, mercede conducti. Omnium autem rerum nec aptius est quicquam ad opes tuendas ac tenendas quam diligi nec alienius quam timeri. Præclare enim Ennius: «Quem metuunt oderunt; quem quisque odit, perisse expetit». Multorum autem odiis nullas opes posse obsistere, si antea fuit ignotum, nuper est cognitum. Nec vero huius tyranni solum, quem armis oppressa pertulit civitas ac paret cum maxime mortuo interitus declarat, quantum odium hominum valeat ad pestem, sed reliquorum similes exitus tyrannorum, quorum haud fere quisquam talem interitum effugit. Malus enim est custos diuturnitatis metus contraque benivolentia fidelis vel ad perpetuitatem. Sed iis, qui vi oppressos imperio coercent, sit sane adhibenda sævitia, ut eris in famulos, si aliter teneri non possunt; qui vero in libera civitate ita se instruunt, ut metuantur, iis nihil potest esse dementius. Quamvis enim sint demersae leges alicuius opibus, quamvis timefacta libertas, emergunt tamen hæc aliquando aut iudiciis tacitis aut occultis de honore suffragiis. Acriores autem morsus sunt intermissae libertatis quam retentæ. Quod igitur latissime patet neque ad incolumitatem solum, sed etiam ad opes et potentiam valet plurimum, id amplectamur, ut metus absit, caritas retineatur. Ita facillime quae volemus et privatis in rebus et in re publica consequemur. Etenim qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est.
Pieter Paul Rubens, Saturno divora i figli. Olio su tela, 1638. Madrid, Museo del Prado
È cosa cattiva, infatti, quando ciò che si dovrebbe conseguire con il merito, si ricerca per mezzo del denaro. Ma poiché, talvolta, questo espediente è pur necessario, diremo in che modo si debba ricorrervi, se non prima di aver parlato di quelle cose che sono più prossime alla virtù. Inoltre, gli uomini si sottomettono al volere e al potere di un altro per molteplici motivi; sono spinti a ciò o dalla benevolenza, dalla grandezza dei benefici, o dalla superiorità del rango sociale, o dalla speranza di ottenere qualche profitto, o per paura di essere costretti a obbedire con la forza, o allettati dalla speranza di un donativo e da varie promesse, o, infine, indotti dal denaro, come spesso abbiamo assistito nel nostro Stato. Invero, fra tutte le cose non ce n’è alcuna più adatta a proteggere e conservare il potere dell’essere amati, e nessuna più contraria dell’essere temuti. Benissimo, infatti, afferma Ennio: «Odiano chi temono, e colui che ciascuno odia, desiderano che perisca» (F 17 Traglia). Recentemente si è capito – se già prima non si fosse saputo – che nessuna autorità possa resistere all’odio dei molti. E invero, non solo a questo tiranno, che la città sopportò oppressa dalle armi, e obbedisce più che mai, ora che è morto, dimostra quanto l’odio degli uomini valga a far cadere in rovina, ma lo dimostra anche la fine simile degli altri despoti, dei quali quasi nessuno scampò a una tale morte. La paura, difatti, è un cattivo custode di un prolungato dominio, mentre, al contrario, la benevolenza è un fedele garante per l’eternità.
Ma quelli che esercitano il comando opprimendo [i cittadini] con la forza, impieghino persino la crudeltà, come fossero fra schiavi, se non sono in gradi di governarli altrimenti; invero, per quelli che in un libero Stato fan di tutto (=si dispongono) per essere temuti, non può esistere niente di più folle. Benché le leggi siano conculcate e la libertà sia soffocata dalla prepotenza di qualcuno, tuttavia queste cose riemergono di quanto o in quanto o in taciti giudizi o nel segreto del voto. Più alacri sono i morsi di una libertà perduta che non di quella costantemente mantenuta. Attendiamoci, dunque, a questa constatazione, che ha validità amplissima e non soltanto sull’incolumità, ma anche sulla ricchezza e la potenza dei più, affinché si allontani la paura e si conservi la bontà. Così assai facilmente otterremo ciò che vorremo sia negli affari privati sia in quelli pubblici. Poiché coloro che vogliono essere temuti, è necessario che siano essi stessi ad aver paura, a loro volta, di quelli dai quali dovrebbero essere temuti.
Scilicet minus beate vivebat dictator noster qui Samnitium legatos audit cum vilissimum cibum in foco ipse manu sua versaret — illa qua iam saepe hostem percusserat laureamque in Capitolini Iouis gremio reposuerat — quam Apicius nostra memoria vixit, qui in ea urbe ex qua aliquando philosophi velut corruptores iuventutis abire iussi sunt scientiam popinae professus disciplina sua saeculum infecit. Cuius exitum nosse operae pretium est. Cum sestertium milliens in culinam coniecisset, cum tot congiaria principum et ingens Capitolii vectigal singulis comisationibus exsorpsisset, aere alieno oppressus rationes suas tunc primum coactus inspexit: superfuturum sibi sestertium centiens computavit et velut in ultima fame victurus si in sestertio centiens vixisset, veneno vitam finivit. Quanta luxuria erat cui centiens sestertium egestas fuit! I nunc et puta pecuniae modum ad rem pertinere, non animi. Sestertium centiens aliquis extimuit et quod alii voto petunt veneno fugit. Illi vero tam pravae mentis homini ultima potio saluberrima fuit: tunc venena edebat bibebatque cum inmensis epulis non delectaretur tantum sed gloriaretur, cum vitia sua ostentaret, cum civitatem in luxuriam suam converteret, cum iuventutem ad imitationem sui sollicitaret etiam sine malis exemplis per se docilem. Haec accidunt divitias non ad rationem revocantibus, cuius certi fines sunt, sed ad vitiosam consuetudinem, cuius inmensum et incomprensibile arbitrium est. Cupiditati nihil satis est, naturae satis est etiam parum. Nullum ergo paupertas exulis incommodum habet; nullum enim tam inops exilium est quod non alendo homini abunde fertile sit.
Tib. Claudio Nerone Cesare Augusto. Asse, Roma, 22 d.C., AE 10,89 g. Recto:Divuus Augustus Pater; testa diademata del Divo Augusto, voltata a sinistra.
Viveva meno felicemente – è chiaro – [quel] nostro dittatore che diede udienza ai messi dei Sanniti, mentre stava rimescolando sul focolare del cibo vilissimo con quella mano – con cui spesso aveva colpito il nemico e deposto la corona d’alloro in grembo [alla statua] di Giove Capitolino – di quanto non sia vissuto Apicio ai giorni nostri, il quale imbevve la sua generazione, facendo sfoggio di scienza culinaria, in quella città dalla quale, un tempo, fu ordinato ai filosofi di andarsene, come se fossero dei corruttori della gioventù. Vale la pena conoscerne la morte: avendo gettato in cucina cento milioni di sesterzi – dopo aver divorato tanti donativi d’imperatori e le singole entrate del tempio capitolino – oberato dai debiti, fu costretto, allora per la prima volta, a fare i conti: calcolò che gli erano rimasti dieci milioni di sesterzi e, come se fosse stato costretto a vivere nella fame estrema in [quei] dieci milioni di sesterzi, mise fine alla propria vita col veleno. Quanto lusso c’era in quell’uomo, che considerò misera la somma di dieci milioni di sesterzi! Va ora e continua a credere che sia la ristrettezza di denaro ad avere importanza per la questione, non quella dell’animo. Qualcuno ha avuto paura per dieci milioni di sesterzi e da ciò, cui gli altri aspirano nelle loro preghiere, se n’è fuggito con il veleno! A quell’uomo dalla mente tanto ria, la bevanda più salutare fu l’ultima: mangiava e beveva veleni dunque, non soltanto dilettandosi con smisurati banchetti, mettendo in mostra i suoi vizi, attirando sul suo lusso l’attenzione della città, stuzzicando la gioventù a imitarlo (già per se stessa docile [a tutto ciò] anche senza cattivi esempi!), ma vantandosene [pure]! Queste cose capitano a chi riconduce il denaro non alla ragione – i cui limiti sono [ben] definiti – ma alle cattive abitudini, il cui arbitrio è immenso e incommensurabile. Alla cupidigia nulla basta, alla natura basta anche ciò che sembra essere troppo poco. La povertà di un esule non ha dunque in sé alcun disagio: infatti, nessun luogo d’esilio è tanto povero, da non essere abbondantemente fertile per nutrire un uomo.
Numquid potes invenire urbem miseriorem quam Atheniensium fuit, cum illam triginta tyranni divellerent? Mille trecentos cives, optimum quemque, occiderant, nec finem ideo faciebant, sed irritabat se ipsa saevitia. In qua civitate erat Areos pagos, religiosissimum iudicium, in qua senatus populusque senatui similis, coibat cotidie carnificum triste collegium et infelix curia tyrannis augusta. Poteratne illa civitas conquiescere, in qua tot tyranni erant quot satellites essent? Ne spes quidem ulla recipiendae libertatis animis poterat offerri, nec ulli remedio locus apparebat contra tantam vim malorum: unde enim miserae civitati tot Harmodios? Socrates tamen in medio erat, et lugentes patres consolabatur, et desperantes de re publica exhortabatur, et divitibus opes suas metuentibus exprobrabat seram periculosae avaritiae paenitentiam, et imitari volentibus magnum circumferebat exemplar, cum inter triginta dominos liber incederet. Hunc tamen Athenae ipsae in carcere occiderunt, et qui tuto insultaverat agmini tyrannorum, eius libertatem libertas non tulit: ut scias et in afflicta re publica esse occasionem sapienti viro ad se proferendum, et in florenti ac beata petulantium, invidiam, mille alia inertia vitia regnare.
Jean Francois Pierre Peyron, La morte di Socrate (1786-87).
Puoi forse trovare una città più infelice di quanto non fosse quella degli Ateniesi, quando trenta tiranni la dilaniavano? Avevano ucciso 1300 cittadini, tutti fra i migliori, e non mettevano fine a [questa] crudeltà, ma essa si eccitava da sé. In questa città esisteva l’Areopago: il tribunale più sacro, nel quale – un consiglio e una moltitudine in tutto simili al Senato – si adunavano ogni giorno quel crudele consesso di assassini e la funesta cricca, resa ancor più stretta dal numero dei tiranni. Poteva, dunque, trovare sollievo quella città, nella quale c’erano tanti tiranni quanti fossero i loro tirapiedi? Non poteva essere offerta nemmeno una qualche speranza di riconquistare la libertà d’animo, né sembrava esserci adito a qualche rimedio contro una siffatta mole di mali: per la misera città, da dove [sarebbero potuti venire] cotanti Armodi? Tuttavia, Socrate [se ne] stava nel mezzo: consolava i buleuti in lacrime, rincuorava quelli che si disperavano per lo Stato, biasimava i ricchi, che si preoccupavano [unicamente] dei propri beni, il troppo tardivo pentimento di una pericolosa avidità e andava in giro portando un grande esempio per coloro che volessero imitarlo, incedendo – lui, libero – in mezzo a trenta aguzzini! Ciononostante, proprio la stessa Atene lo uccise, in carcere, e la libertà politica non tollerò la libertà di parola di colui che, senza colpo ferire, aveva offeso una schiera di tiranni.
Ti sia chiaro che in uno Stato prosternato c’è [sempre] occasione di manifestarsi per l’uomo saggio, mentre [invece] in uno florido e ricco regnano la sfrontatezza, l’invidia e moltissimi altri torpidi difetti.
Coperchio di sarcofago: il cosiddetto “Obesus Etruscus”. Statua in alabastro, 216x70x64 cm. Da Chiusi, arte etrusca. Prima metà del III secolo a.C. – II secolo a.C. ca. Museo Archeologico Nazionale, Firenze. Piano I, Sala X, N. Inv. 5482
Diodoro Siculo, in Bibliotheca V. 40, 3 dice che gli Etruschi «abitano una regione che produce di tutto e, impegnandosi nel lavoro, hanno frutti con cui possono non solo nutrirsi a sufficienza, ma anche concedersi una vita di piaceri e di lusso» (χώραν δὲ νεμόμενοι πάμφορον, καὶ ταύτην ἐξεργαζόμενοι, καρπῶν ἀφθονίαν ἔχουσιν οὐ μόνον πρὸς τὴν ἀρκοῦσαν διατροφήν, ἀλλὰ καὶ πρὸς ἀπόλαυσιν δαψιλῆ καὶ τρυφὴν ἀνήκουσαν). Dalle ricerche e dagli scavi archeologici condotti in Toscana si evince che fin dall’Età del Bronzo (epoca in cui sono state classificate le Culture di Rinaldone e Remedello) esistevano piccoli insediamenti agricoli che vivevano dei campi e dei pascoli all’intorno. Nell’età successiva (l’Età del Ferro), con lo sviluppo della Cultura Villanoviana, si afferma la “policoltura”, fondata su un’ampia varietà di cereali e legumi, sulla coltivazione dell’ulivo e sull’allevamento degli animali domestici. I semi di vite rinvenuti nelle tombe etrusche dell’area del Chianti dimostrano che fu questo il popolo ad introdurre da Oriente in Italia la coltura del vino. Alla cosiddetta “Età Aurea” della civiltà etrusca – corrispondente a tutto il VI secolo e agli inizi del V a.C. – l’alimentazione dei nobili etruschi prevedeva un considerevole apporto proteico dato da formaggi, pollame, ovini, caprini, suini, nonché da selvaggina (in particolare carni di cervo, cinghiale e lepre); quest’ultimo dato è evinto dall’analisi delle ossa rinvenute nelle sepolture, cioè da una maggiore presenza di zinco. Dai reperti sappiamo che la lepre con ghiande era uno dei piatti forti (l’uso delle ghiande nell’alimentazione umana risale alla preistoria), ma il preferito era il consumo di carne suina: la porchetta aromatizzata con fiori di finocchi. Il pane era formato con farina di farro o grano duro, particolarmente apprezzato per la sua maggiore durata di conservazione e – ma questo gli Etruschi non potevano saperlo – risultava più nutriente del pane normale in quanto contenente l’1% in più di proteine.
Giancarlo Signori, in una sua recente opera, sostiene che una delle caratteristiche principali del popolo etrusco doveva essere la gioia di vivere. Ad avvallare la sua affermazione, egli apporta a dimostrazione l’arte stessa degli Etruschi: «Un’esigenza la loro che non può prescindere dall’arte, dal piacere, da uno stile di vita che lascia confluire, saggiamente, la produttiva operosità in piacevoli e soddisfatti desideri». In particolare, a questo proposito, lo studioso si riferisce ai dipinti lasciatici dai Rasna nella cosiddetta “Tomba Golini I” di Orvieto (l’antica Volsinii), dove si illustra la preparazione del banchetto.
Un’altra importante fonte antica, a proposito dell’alimentazione presso la civiltà etrusca, ci è fornita da Posidonio di Apamea, scrittore siriaco del II secolo a.C. (purtroppo per fonte indiretta). Costui – nella sua analisi etnografica sugli Etruschi – precisa che essi «apparecchiavano le loro tavole ben due volte al giorno». Certamente anche presso i Greci si facevano due pasti al giorno, ma la cosa che ha stupito Posidonio è, con ogni probabilità, il fatto che gli Etruschi, piuttosto che fare uno “spuntino” del mezzogiorno, imbandivano veri e propri banchetti, e similmente facevano anche a sera, per cena. Il banchetto o comunque il simposio è il topos dell’iconografia etrusca: si pensi alla disposizione delle banchine funebri all’interno delle tombe ipogee, in Etruria meridionale, oppure alle figure di banchettanti dipinte negli affreschi delle tombe tarquiniesi; così, in epoca ellenistica, si diffonde l’uso del sarcofago, e proprio su di essi – in ambito etrusco – appaiono statue di persone semi-sdraiate, con ricche vesti e in atteggiamento simposiale. Il banchetto etrusco doveva andare ben oltre il concetto di nutrimento: come dimostrano gli affreschi funebri aveva sì una connessione alla ritualità e alla religione, ma soprattutto era un’occasione per mostrare lo status del defunto.
Ma veniamo al dunque: fu probabilmente da Posidonio che in epoca romana divenne luogo comune descrivere i Rasna come “amanti del lusso”, “amanti dell’ostentazione”. I Romani erano soliti definirli “schiavi del ventre” (per usare un termine greco: gastrodouloi). Tanto è vero che Catullo nei suoi Carmina XIL. 11 parla di un obesus Etruscus e parimenti fa Virgilio in Georgiche II. 193 indicando un pinguis Tyrrhenus.
Studiando le malattie che colpivano gli Etruschi e dall’esame delle ossa rinvenute, sono stati mostrati alcuni dati circa l’aspetto fisico e la dieta di questo antico popolo. Si badi bene: si sta naturalmente parlando di individui appartenenti ad una “fetta” della popolazione, quella ricca e benestante; però si potrebbe azzardare una generalizzazione. Avevano denti molto usurati, rare carie, ma soffrivano di piorrea e paradentosi; da ciò possiamo avanzare l’ipotesi che non curassero molto la propria igiene orale, o più semplicemente introducevano nell’organismo una grande quantità di calorie. Mirko Dražen Grmek e Danielle Gourevitch, in Le malattie nell’arte antica, tra l’altro, studiano il caso dell’obesità presso gli Etruschi. Già nell’antichità – come abbiamo già accennato – era diffuso lo stereotipo dell’obesus Etruscus; ma ciò sembra trovare riscontro da una gran copia di coperchi di sarcofago e di urna appartenuti a importanti personaggi, oggi conservati in vari musei etruschi italiani. Questi chiaramente rappresentano personaggi obesi, talvolta femminili, ma ancor più maschili, «contrariamente alla tendenza fisiologica normale», come affermano gli studiosi nel loro libro.
Uno dei maggiori esempi di questa caratteristica è dato dal coperchio di sarcofago, in alabastro, detto “dell’obeso”. È conservato nel Museo Archeologico Etrusco di Firenze e risale al III-II secolo a.C. La figura è stata scolpita a scalpello, come di solito avviene; le superfici sono state levigate e rifinite solo nella parte anteriore, mentre sono appena sbozzate in quella posteriore, dove sono ancora riconoscibili le tracce dei diversi strumenti usati. La statua raffigura con ogni probabilità il defunto, calvo ma con le tempie ancora coperte fin sopra le orecchie da abbondanti ciocche; il ricco signore è semidisteso sulla sua klìne (il lettuccio da banchetto), il suo braccio sinistro – flesso a sostegno del busto un po’ rialzato – poggia sui cuscini ed è drappeggiato con un mantello orlato, che lascia scoperta una spalla, ma lo ricopre appena sotto il grande ventre. Quest’ultimo, prominente, dà l’impressione di un’agiata opulenza, sottolineata ancor più dalla carnosità di membra e volto (dai folti sopraccigli), dalla rotondità del petto, e ulteriormente confermata dal ricco anello con castone centrale che l’uomo mostra alla mano sinistra. La pàtera – che ha un umbone centrale foggiato a testa femminile cerchiata di raggi – sembra in metallo sbalzato. Questo elemento è un chiaro rimando al mondo simposiale etrusco, come la fitta ghirlanda che il personaggio reca al collo. «La spinta ritrattistica che ha modellato la piccola testa calva con i grandi occhi sgranati dalle spesse palpebre e dai folti sopraccigli, con la bocca carnosa e mesta, ha continuato a notare anche gli altri aspetti fisici salienti del personaggio, sottolineandone tra l’altro la rotondità del ventre», viene annotato nella descrizione che ne fa il bollettino della Soprintendenza Archeologica della Toscana. Come dice Giancarlo Signori, «il suo sorriso pare confermarci come lui non abbia mai sentito parlare né di colesterolo né di trigliceridi». Mentre Jacques Heurgon afferma: «Non sembra essere consapevole della sua enorme grassezza, ma se si alzasse in piedi, diversi servitori non basterebbero a sostenerlo. La nudità di questo ombelico, centro del mondo, è quasi indecente, ma non glie ne importa nulla. Grazie ad una pancia dalle dimensioni ragguardevoli questo discendente degli antichi lucumoni proclama senza vergogna, e anche con una sorta di orgoglio di casta, in una morte che conserva l’aspetto di un banchetto, la sua soddisfazione a uscire da questa vista sazio e pieno».
Tuttavia è altresì probabile che questa statua raffiguri non propriamente il defunto, ma dia piuttosto l’immagine ideale del defunto stesso: cioè una tipizzazione. Si ricordi che nella cultura antica l’uomo grasso e ben pasciuto era colui che poteva permettersi di esserlo. Doveva essere quindi l’emblema, lo status symbol dell’aristocrazia etrusca, insomma una condizione sociale legata alla ricchezza e al potere.
Da:
Gabriella Scapaticci, Usi e rituale del banchetto funebre in Etruria. Soprintendenza per i beni archeologici del Lazio.
Giancarlo Signori, Storia delle abitudini alimentari. Dalla preistoria ai fast food. Tecniche Nuove, Milano 2010.
Massimo Pallottino, Etruscologia, Hoepli, Milano 1984.
Mirko Dražen Grmek – Danielle Gourevitch, Le malattie nell’arte antica. Giunti, Firenze 2000. Ciclostilato a cura della Sezione Didattica. Soprintendenza Archeologica della Toscana, Firenze.
«Per questo anche noi chiamiamo Giano “padre”, venerando con questo nome il Sole». Così si esprime Macrobio, per bocca del pontifexSolis Vettio Agorio Pretestato, nei suoi Saturnalia, opera di vasto sapere e alta dottrina composta nel V sec. d.C., chiarendo che l’antico dio solare dell’età del bronzo Ani si era trasmesso ai Romani col nome di Janus.
Giano Bifronte. Testa, terracotta, II sec. a.C. da Vulci. Roma, Museo di Villa Giulia.
In alcune serie di aes grave (bronzo pesante – le monete pesanti in bronzo dei primi tempi della Repubblica) del Lazio, dell’Umbria e dell’Etruria ricorre su una delle facce, in sostituzione della testa bifronte di Giano, una ruota, il disco del sole o addirittura la testa radiata del dio. L’iconografia delle monete, da cui traspare con molta evidenza la solarità come principale attribuzione di Ani-Janus attesta ancora nel III sec. d.C. una concezione religiosa più vicina a quella originaria, ancora fortemente radicata nelle popolazioni delle campagne. Il culto del Sole appare, infatti, preminente su ogni altro tra le genti italiche sin dalla più alta preistoria.
In Sardegna il Sole era la divinità primaziale, identificato e simboleggiato con il toro, come mostrano alcune monete che portano nel verso la rotella solare e il possente animale cornuto.
Alcuni nuraghi, costruzioni tipiche della civiltà sarda, sono calibrati in modo che, togliendo la pietra apicale, che alla sommità della pseudo-cupola chiude il vano interno (tholos), il raggio del Sole, che a mezzogiorno del solstizio d’estate penetra nella costruzione attraverso il foro, illumini una nicchia in cui doveva esser posta un’immagine del nume che appariva essere la sorgente della luce, risaltando in modo mirabile nel resto dell’ambiente immerso in un’oscurità più o meno profonda. La teofania era un evento palese per tutti gli astanti e la circostanza che la divinità si degnasse di visitare il tempio a lei innalzato, il nuraghe, in un solo periodo dell’anno, e cioè nel solstizio estivo, e per un certo lasso di tempo, doveva esercitare un’azione potente sulle genti che vi assistevano e che avrebbero propagato il fausto evento.
Un’illuminante connessione del dio Janus con la civiltà nuragica è offerta dalla presenza in Sardegna delle domus de Janas. La parola jana, che attualmente riveste il significato di «fata», è l’epigone semantica di una Dea Jana, corrispondente femminile di Janus, di cui parla Macrobio, esprimente il parallelismo della identificazione di Janus come divinità solare in Apollo e di Jana nella dea lunare Diana. Janus nella festa dedicatagli nel calendario romano al 9 gennaio (Agonium) è associato a Juno, suprema dea femminile, in un arcaico legame che risale alle origini pre-latine in cui l’etrusco Ani ha come paredra Uni. La diade etrusca Ani–Uni è il riflesso di una devozione ancora più antica, pre-etrusca, che affonda le sue radici nell’Italia primigenia. L’Ani etrusco della protostoria è il continuatore del Dio solare della civiltà neolitica e del bronzo.
Sol Invictus. Statuetta, bronzo, II sec. d.C. Milano, Museo Archeologico Nazionale.
In più di un centinaio di scene ritratte nelle incisioni rupestri della Valcamonica, in Lombardia, risalenti al II millennio a.C., il motivo del Sole appare illustrato nelle sue attribuzioni complesse. Si riconoscono anche costruzioni col disco solare, presumibilmente capanne dedicate al culto. Dalle incisioni camune emerge anche uno stretto rapporto tra il sole e il cervo, fra i raggi dell’astro lucente e le corna dell’animale, nonché tra culto solare e sessualità, come potenza creativa e della crescita. Alcuni personaggi fallici recano sulla testa un’acconciatura a raggi, la stessa che si vedrà nei bronzetti votivi di figurine di offerenti di epoca romana a dimostrazione dell’ininterrotta persistenza nel tempo del culto solare. La corona radiata, composta quasi sempre da un numero maggiore di cinque raggi, posta sul capo degli offerenti, la cui fattura spesso modesta induce a considerarli ex votis di ambiente rurale, ripete l’abbigliamento rituale di molti personaggi incisi sulle rocce camune, come la figurina di uno dei grandi massi di Cemmo che ha, oltre le braccia levate in atto di orante, la corona radiata che le orna la testa.
Apollo-Sol Invictus. Mosaico, II sec. d.C.
La preminenza del culto solare è dimostrata anche dalle numerose incisioni rupestri del monte Bego, nelle Alpi Marittime, oggi in territorio francese, santuario federale dei Liguri, sulle cui armi era raffigurato il cigno, nel quale era stato trasformato per pietà da Giove il loro re Cicno, disperato per la scomparsa di Fetonte, figlio del Sole. Fra le schiere degli alleati di Enea, scesi in lotta contro Turno, Virgilio presenta Cunaro, «duce dei Liguri», e Cupavone, figlio di Cicno, «dal cui cimiero si alzano delle penne di cigno». Ed era su un carro trainato da cigni che Apollo-Sole si muoveva dalle regioni boreali, su cui regnava, per raggiungere l’isola di Delo nell’Egeo, ove aveva visto la luce, allorché vi sbocciavano i primi fiori, nel corso di una processione che aveva come tappa principale il santuario epirotico di Dodona. Qui gli Iperborei erano accolti dai sacerdoti pelasgi custodi della profetica quercia sacra a Zeus, indicato con lo stesso epiteto Naiós, «piovoso», con cui era adorato anche a Delo. I documentati strettissimi rapporti religiosi tra il santuario epirotico e quello egeo ci inducono a comprendere l’origine pre-ellenica del culto di Apollo recato in Grecia dai divini Pelasgi, che come cicogne migrarono dall’antica madre italica per poi farvi ritorno, dopo aver civilizzato il Mediterraneo tutto. Anche l’oracolo di Apollo a Delfi era di fondazione italica, come ricorda Eschilo, narrando che il dio ne prese possesso «preceduto dai figli di Vulcano che gli sgombravano la via rendendo culto e sicuro l’infesto suolo». E se la sede di Vulcano era sull’Etna, i suoi figli non potevano che essere i Siciliani, i «Ciclopi» dalla vista circolare propria degli esseri onniveggenti quali sono per eccellenza gli dèi solari.
Tib. Claudio Nerone Cesare Augusto. Asse, Roma, 22 d.C., AE 10,89 g. R: Divus Augustus Pater. Testa radiata del Divo Augusto, voltata a sinistra.
È per tale ragione che Ottaviano Augusto, Pater Patriae e unificatore dell’Italia, nell’intento di ricostruire gli edifici sacri, di restituire la propria dignità ai santuari, di assumere nella sua persona una serie di precise cariche sacerdotali dai forti caratteri primordiali e rituali, eresse il tempio di Apollo all’interno del Pomerium, sul Palatino, ove soltanto i culti patri più vetusti potevano avere ingresso. Infatti Apollo-Sole godeva di un culto antichissimo nel Lazio. Evelino Leonardi ricorda che: «Da una radice *sur che significa “splendere”, si ha in sanscrito suria, che significa “sole”. E abbiamo nel nostro Soratte il “Monte del Sole”, “sacrum Phoebo Soracte”, come dice Silio; e a Terracina, il tempio ad An-Sur “il non spento”, “l’inestinguibile”, “il Sole”. Così l’etrusco Arrunte nell’Eneide pregava il Nume di concedergli l’onore di colpire l’amazzone Camilla che seminava morte tra le schiere tirreniche: «Sommo fra gli dèi, Apollo custode del Santo Soratte,/ tu che primi fra tutti veneriamo, a cui alimentiamo / le fiamme con cataste di pino e, fidando / nella pietà, camminiamo, noi tuoi adoratori, / tra il fuoco e su molta brace, concedi / di cancellare codesta vergogna / con le nostre armi, tu che puoi tutto»».
In tutte le opere di Virgilio la presenza di Apollo è fondamentale e l’attributo di phoebus, che si trova ripetuto molte volte nelle egloghe, sottolinea il suo legame con la luce e con lo splendore del sole e molto spesso è l’attributo che identifica Apollo con lo stesso astro diurno, il sole. È il Regnum Apollinis, annunciato dai Libri Sibyllini come il fine della funzione storica della gens Iulia, che Ottaviano intende restaurare. Svetonio riferisce che il padre del futuro Augusto, al momento della nascita del figlioletto, ebbe in sogno la visione di un sole che si levava dal seno della moglie. Nigidio Figulo, sapiente pitagorico, predisse per questo neonato un destino di dominatore universale, confermato dall’oracolo dionisiaco di Perperico, in Tracia (od. Bulgaria) nei monti Rodopi, sacri a Orfeo. Nella persona di Augusto si incarna una sorta di “luce divina”, una speciale “potenza radiante”, che avrebbe, poi, comportato per intrinseca capacità creativa, quella che fu chiamata non senza significato mistico, la pax Romana. È il titolo stesso più caratteristico di Ottaviano, Augustus, a designare colui che svela la presenza della forza creativa nel tessuto del mondo, comunicandola e restituendo al Lazio e all’Italia quella condizione aurea che gli apparteneva dal tempo di Saturno, dichiarando la fine delle guerre civili e proclamando l’instaurazione della pax deorum “fermata” sul piano rituale nell’edificio dell’Ara Pacis nel Campo di Marte. Ottaviano diviene così l’incarnazione stessa di un kosmokrátōr che dirige i destini del mondo e degli uomini, la personificazione del rector e del pacatororbis, un’epiclesi dell’Apollo solare. Il cammeo di Vienna documenta in modo inequivocabile il legame tra Augusto e il segno zodiacale del Capricorno, sotto la cui costellazione il principe era stato concepito, al punto di svolta dell’asse cosmico, il solstitium. La nascita del sole umano veniva, perciò, a coincidere con quella dell’astro celeste, mentre il cosmo e gli uomini si orientavano verso un destino di luce e splendore assicurato dalla renovatio mundi augustea.
Alla condizione dell’aureaætas richiama anche il mito solare della fenice, uccello che muore solo per rinascere più perfetto, che tanta fortuna ebbe tra i successori di Ottaviano. Il sole, appiccando con i suoi raggi fuoco alla pira funebre, rivolge all’augusto volatile dal piumaggio aureo, roseo, rosso e ceruleo, colori che tingono il cielo all’alba e al tramonto, questo incoraggiamento: mutata melior procede figura, muta di forma e apparirai più bello che mai.
Nessun altro mito si adatta in modo più compiuto al destino della Roma celeste, che Enea ammira nell’Elisio, simboleggiando nelle cicliche rinascite la sua imperitura energia solare di centro spirituale che intende condurre il mondo a uno stato superiore di giustizia e di pace, al di là di ogni possibile decadenza che possa affliggere la Roma visibile. Ed è proprio in una di queste periodiche crisi, nel III secolo d.C., che tra gli Eneadi perpetuamente rinnovantisi per mandato divino si leva l’invincibile braccio di Lucio Domizio Aureliano, assunto alla porpora in un Impero frammentato e sull’orlo del crollo. Sconfitti i barbari in Occidente e in Oriente, agli occhi del Senato e del popolo romano egli apparve come il Restitutor Orbis, il restauratore del mondo. Agli inizi del 274 d.C. Aureliano poteva così celebrare il suo glorioso e memorabile trionfo sui nemici dell’imperium restituito, salendo in Campidoglio sul carro appartenuto al re dei Goti e trainato da quattro cervi, che nelle raffigurazioni rupestri camune sono aggiogati al carro del sole. Il 25 dicembre 274 d.C., fissando il natale del Sole Invitto, Aureliano innalzava nel Campo Marzio un grandioso tempio all’astro lucente, ponendo sotto la sua tutela l’Impero di Roma. Il Sol Invictus appariva così la proiezione visibile dell’uno neoplatonico, il sommo principio divino dal quale promana l’essenza di cui sono composti anche gli dèi, testimoniando l’unitaria radice trascendente che sosteneva e legittimava dall’alto l’Impero di Roma. Scegliendo le pendici del Quirinale, ove già in epoca arcaica sorgeva il pulvinar Solis, per l’erezione del tempio al Sole Invitto, Aureliano dimostra inequivocabilmente di perpetuare un culto romano-italico proprio della vetustissima religio. È Tacito ad usare tale espressione descrivendo la congiuntura in cui tra le fiamme dell’incendio, che distrusse Roma all’epoca di Nerone, perirono le testimonianze più venerande della tradizione ancestrale, salvandosi, però, la vetus ædes Solis. Sol fu annoverato fra i Dii Indigetes, gli dèi “primordiali”, delle origini di Roma, non a caso Lido traduce Sol Indiges con «Hélios genárchēs», «Sole capostipite».
Aureliano stesso, inoltre, era figlio di una sacerdotessa del Sole, probabilmente liberta della gens Aurelia che a Roma prestava culto gentilizio al nume lucente. Festo e Paolo Diacono riportano che il nome più antico della gens aveva la forma Auselii, dal sabino Ausel, “Sole”, per effetto del rotacismo trasformatosi, poi, in Aurelii. Ma era l’intera Italia a esser chiamata dai Greci Ausonía, Ausones i suoi abitanti e Ausonio il mare che la circondava, a ulteriore conferma del prisco carattere nazionale del culto solare.
L. Domizio Aureliano. Antoniniano, Serdica, inizi 274 d.C. Æ-AR 3, 31 gr. Verso: Oriens Aug[ustus] P[ater]. Sol, radiato, stante, voltato a sinistra, reggente nella mano sinistra un globo, con la destra alzata sopra un prigioniero ai suoi piedi.
È questa la ragione per cui Enea, seguendo il vaticinio di cercare l’antica madre, da cui si era mosso per fondare Troia l’etrusco Dardano, reso a Delo dall’oracolo di Apollo, giunto nel Lazio, sbarcato nella costa laurentina, tra tutti gli dèi omaggiò per primo il Sole, costruendo sul posto un piccolo santuario con due altari in posizioni e altezze opposte: uno in alto, orientato dove sorge l’astro e l’altro in basso, ove tramonta. Anche a Laurento l’eroe troiano sacrifica al nume radioso con gli occhi rivolti all’astro nascente insieme a re Latino, nipote di Circe, «ricca figlia del Sole», abitante sul promontorio che da lei prese il nome, che spesso apparve ai naviganti quale isola per le basse lingue di sabbia che lo univano alla terra ferma. Testimonianza ne è offerta da Esiodo (VII secolo a.C.), il quale narrò che Circe sul carro del Sole raggiunse il mar Tirreno e abitò sull’isola che si trova lungo l’Etruria. Sul monte Circeo in epoca romana sarebbe sorto un santuario all’aperto in suo onore e ivi fu trovata una testa in marmo che la ritraeva con un diadema a sette raggi. Enea stesso deificato fu venerato quale Sol Indiges nel luogo della sua assunzione al cielo presso il fiume Numico nella costa laziale limitrofa a Lavinium, con ciò significando la radice solare della sua progenie destinata a fondare Roma.
Nell’Urbe anche l’area del Circo Massimo era consacrata al Sole e qui Augusto collocò un obelisco, dedicandolo al nume per commemorare la sottomissione dell’Egitto. Nel Circo Massimo il Sole è in stretto rapporto con il fondatore della città, Romolo Quirino, inventore della quadriga e dei giochi, e suo tramite con la sfera del potere regale cui dà conferma incessante la vittoria, ritualizzata nella vittoria ludica. Perché come fu scritto: «Roma non conobbe lo spirito nelle forme mistiche o filosofiche, per le quali essa nutrì una mal celata indifferenza; lo conobbe invece attraverso l’azione e lo testimoniò in istituzioni e tradizioni, dove l’azione – sin nei certamina dei circhi – diveniva un rito simbolico e un sacrificio; e nella gloria dell’Impero».
Oggi le ricerche e gli studi topografici dell’Università di Roma, condotti dal prof. Jaia, hanno restituito alla luce nei pressi di Pratica di Mare, l’antica Lavinium, il tempio del Sol Indiges. Possa questo rinvenimento essere foriero dell’alba di un nuovo giorno, dipanando le tenebre dell’imperversante ateismo e consentendo al popolo italiano di ritrovare nelle sue radici il culto avito che renda di nuovo la nostra terra Saturnia. Questo l’augurio. Quod bonum faustumque sit.
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