di B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, cap. I, Torino 2002, pp. 19-28
Con Aristarco, il grande filologo alessandrino, si è stabilito un principio fondamentale per l’interpretazione della lingua omerica: quello di evitare di tradurre i vocaboli omerici secondo il greco classico e di cercare di sottrarsi, nell’interpretazione della lingua omerica, all’influenza delle forme più tarde della lingua. Principio questo, dal quale noi possiamo attenderci un utile ancor maggiore di quanto non si aspettasse Aristarco. Se interpretiamo Omero attenendoci puramente alla sua lingua, potremo dare anche un’interpretazione più viva ed originale della sua poesia e far sì che le parole omeriche, intese nel loro vero significato, riprendano l’antico splendore. Il filologo, come il restauratore di un quadro antico, potrà ancor oggi scrostare in molti punti quell’oscura patina di polvere e di vernice che i tempi vi hanno deposto e ridare così ai colori quella luminosità che avevano al momento della creazione.
Quanto più allontaniamo il significato delle parole omeriche da quelle dell’era classica, tanto più evidente ci appare la diversità dei tempi e più chiaramente intendiamo il progresso spirituale dei Greci e la loro opera. Ma a questi due indirizzi – quello dell’interpretazione estetica, che ricerca l’intensità di espressione e la bellezza della lingua, e quello storico, che s’interessa alla storia dello spirito – se ne aggiunge uno ancora, speciale, di carattere filosofico.
In Grecia nacquero concezioni riguardanti l’uomo e il suo vigile e chiaro pensiero che influirono in modo decisivo sull’evoluzione europea dei secoli posteriori. Noi siamo propensi a considerare ciò che si è raggiunto nel secolo V, come valevole per tutti i tempi. Quanto da ciò sia lontano Omero, lo dimostra la sua lingua. Si è scoperto da tempo che in una lingua relativamente primitiva le forme d’astrazione non sono ancora sviluppate, ma che in compenso esiste un’abbondanza di definizioni di cose concrete, sperimentabili coi sensi, che apparirebbero strane in una lingua più progredita.

Omero usa per esempio una grande quantità di verbi che descrivono l’atto di vedere: ὁρᾶν, ἰδεῖν, λεύσσειν, ἀθρεῖν, θεᾶσθαι, σκέπτεσθαι, ὄσσεσθαι, δενδίλλειν, δέρκεσθαι, παπταίνειν. Di questi parecchi sono caduti in disuso nel greco successivo, per lo meno nella prosa, vale a dire nella lingua viva, per esempio λεύσσειν, δέρκεσθαι, παπταίνειν, ὄσσεσθαι. E a sostituirli troviamo soltanto due nuove parole dopo Omero: βλέπειν e θεωρεῖν. Dalle parole cadute in disuso si può vedere quali fossero le necessità della lingua antica, divenute estranee alla lingua più recente. Δέρκεσθαι significa: “avere un determinato sguardo”. Δράκων, il “serpente” il cui nome è tratto da δέρκεσθαι, viene chiamato così, perché ha uno “sguardo” particolare, sinistro. È detto il “veggente”, non perché ci veda meglio di altri e la sua vista funzioni in modo speciale, ma perché ciò che colpisce in lui è il guardare. Così la parola δέρκεσθαι indica in Omero non tanto la funzione dell’occhio, quanto il lampeggiare dello sguardo, percepito da un’altra persona. Si parla, per esempio, di Gorgo che ha uno sguardo terribile, del cinghiale infuriato che schizza “fuoco” dagli occhi (πῦρ ὀφθαλμοῖσι δεδορκώς). È una maniera molto espressiva di guardare; e che molti passi della poesia di Omero riacquistino la loro particolare bellezza soltanto quando ci si rende conto del vero valore di questa parola lo può dimostrare l’Odissea, V, 84: πόντον ἐπ᾽ἀτρύγετον δερκέσκετο δάκρυα λείβων. Δέρκεσθαι significa “guardare con uno sguardo particolare” e risulta dall’insieme che si tratta di uno sguardo pieno di nostalgia, che Ulisse, lontano dalla patria, manda di là dal mare. Se vogliamo rendere in modo esauriente tutto il significato della parola δερκέσκετο (e dobbiamo rendere anche il valore dell’iterativo), ecco che diventiamo prolissi e sentimentali: “sempre guardava con nostalgia…”, oppure: “il suo sguardo sperduto vagava sempre “ sul mare. Tutto ciò è contenuto a un dipresso nella singola parola δερκέσκετο. È un verbo che dà un’immagine precisa di un particolare modo di guardare, come per esempio in tedesco le parole glotzen (“spalancare gli occhi”) o starren (“fissare”), che determinano un particolare modo di guardare (per lo meno in maniera diversa dalla solita). Anche dell’aquila si può dire ὀξύτατον δέρκεται, “guarda con occhio molto penetrante”, ma anche qui non ci si riferisce tanto alla funzione dell’occhio, alla quale usiamo pensare noi quando diciamo “guardare acutamente”, “fissare qualcosa con sguardo acuto”, quanto ai raggi dell’occhio, penetranti come i raggi del sole, che Omero chiama “acuti”, poiché attraversano ogni cosa come un’arma affilata. Δέρκεσθαι viene poi usato anche con l’oggetto esterno, allora il presente significa press’a poco “il suo sguardo si posa su un oggetto” e l’aoristo “il suo sguardo cade su qualcosa”, “è diretto verso qualcosa”, “egli getta a qualcuno uno sguardo”. Ciò risulta soprattutto dai composti di δέρκεσθαι. Nell’Iliade, XVI, 10, Achille dice a Patroclo: “Tu piangi come una ragazzina che voglia essere presa in braccio dalla madre”, δακρυόεσσα δέ μιν ποτιδέρκεται, ὄφρ᾽ ἀνέληται. Piangendo essa “volge lo sguardo” verso la madre perché la prenda in braccio. Noi possiamo rendere bene questo significato con la parola tedesca blicken. Blicken significa originariamente “irradiare”; la parola ha affinità con Blitz (“lampo”), blaken.

Ma il tedesco bliken ha significato più vasto della parola greca βλέπειν, che nella prosa più tarda ha sostituito la parola δέρκεσθαι. Ad ogni modo nell’espressione omerica δέρκεσθαι non tanto si considera il vedere come funzione, quanto la particolare facoltà dell’occhio di trasmettere ai sensi dell’uomo certe impressioni.
La stessa cosa vale anche per una altro dei verbi nominati, caduti in disuso nella lingua successiva. Παπταίνειν è anch’esso un modo di guardare, di guardarsi intorno cercando qualcosa con sguardo circospetto o con apprensione. Indica anch’esso dunque come δέρκεσθαι un modo di guardare, non si appoggia alla funzione del vedere come tale. È caratteristico il fatto che questi due verbi (fa eccezione soltanto un passo di un’epoca più tardi con δέρκεσθαι) non si trovano mai alla prima persona: δέρκεσθαι e παπταίνειν sono dunque degli atti che si osservano negli altri e non si sentono ancora come atto proprio. Diverso è il caso per il verbo λεύσσειν. Etimologicamente ha affinità con λευκός, “brillante”, “candido”, e infatti dei quattro esempi dell’Iliade nei quali il verbo porta un oggetto all’accusativo, tre si riferiscono al fuoco e ad armi lucenti. Esso significa dunque: “guardare qualcosa di lucente”. Significa inoltre: “guardare lontano”. La parola ha dunque il valore che ha il verbo tedesco schauen (“guardare”) nel verso di Goethe: “Zum Sehen geboren, zum Schauen bestellt” (“Son nato a vedere; guardare è il mio compito”). È un modo di guardare con sguardo fiero, gioioso, libero. Λεύσσειν indica evidentemente determinati sentimenti che si provano nel vedere, soprattutto nel vedere determinate cose. Ciò è confermato anche dal fatto che in Omero si trovano espressioni come τερπόμενοι λεύσσουσιν (Od., VIII, 171), τετάρπετο λεύσσων (Il., XIX, 19), χαὶρων, οὕνεχ᾽ἑταῖρον ἐνηέα λεῦσσ᾽ἐν ἀγῶνι (Od., VIII, 200), nelle quali viene espressa la gioia che accompagna λεύσσειν; mai il verbo λεύσσειν viene usato con riferimento a cose angosciose e paurose. Anche questa parola riceve dunque il suo senso specifico dal modo di vedere, da qualcosa che è di là dalla funzione del vedere e che dà piuttosto valore all’oggetto veduto e ai sentimenti che accompagnano il vedere. La stessa cosa può dirsi del quarto verbo relativo all’atto di vedere, e che è caduto in disuso nel tempo post-omerico: ὄσσεσθαι. Esso significa “avere qualcosa dinanzi agli occhi”, più particolarmente “aver qualcosa di minaccioso dinanzi agli occhi”; si passa così al significato di “presentire”. Anche qui il vedere è determinato dall’oggetto e dal sentimento che l’accompagna.
Vediamo che in Omero anche altri verbi che significano “vedere” ricevono il significato autentico dall’atteggiamento che accompagna il vedere, o dal momento affettivo. θεᾶσθαι significa press’a poco: “vedere spalancando la bocca” (come gaffen o schauen in tedesco meridionale; così nella frase: da schaust Du: “stai lì a guardare”). E infine i verbi, ὁρᾶν, ἰδεῖν, ὄψεσθαι, che più tardi sono stati raccolti in unico sistema di coniugazione, ci dimostrano che prima non si poteva indicare con un unico verbo l’atto del vedere, ma che ne esistevano parecchi che designavano di volta in volta l’atto del vedere. Fino a che punto sia possibile determinare anche per questi verbi di Omero il significato primitivo, non è cosa che possiamo risolvere qui, perché esigerebbe una trattazione più ampia.
Una parola più recente per “vedere”, cioè θεωρεῖν, non era in origine un verbo, ma è tratta da un nome, da θέωρος, e deve dunque significare “essere spettatore”. Più tardi però si riferisce a una forma del vedere e significa allora “star a guardare”, “osservare”. Non si accentua quindi in questo caso il modo di vedere, il sentimento che l’accompagna, e neppure il fatto che si vede un determinato oggetto (per quanto in un primo tempo si trattasse forse proprio di questo): in genere con θεωρεῖν non viene indicato un modo determinato o affettivo di vedere, bensì un’intensificazione della vera e propria funzione del vedere. Si accentua cioè la facoltà che ha l’occhio di cogliere un oggetto. Questo nuovo verbo esprime dunque proprio ciò che nelle forme primitive era passato in seconda linea, ma che ne costituisce l’essenziale.
I verbi dell’epoca primitiva si formano prevalentemente secondo i modi intuitivi del vedere, mentre più tardi è la funzione vera e propria del vedere che determina esclusivamente la formazione del verbo. Le diverse maniere di vedere vengono più tardi indicate per mezzo di aggiunte avverbiali. Παπταίνω si trasformerà in περιβλέπομαι, “guardare intorno” (Etymol. Magnum) ecc.
Naturalmente, anche agli uomini omerici gli occhi servivano essenzialmente per “vedere”, cioè per cogliere percezioni ottiche; ma ciò che noi giustamente concepiamo come la vera funzione, come la parte “positiva” del vedere, non era per loro l’essenziale; anzi, se essi non avevano un verbo per esprimere questa funzione, ciò significa che non ne aveva neppure il senso.
Ci allontaniamo per un momento da queste considerazioni per chiederci quale parola usasse Omero per indicare il corpo e l’anima.

Già Aristarco osserva che la parola σῶμα, che più tardi significherà “corpo”, non viene in Omero mai riferita ai viventi: σῶμα significa “cadavere”. Ma che parola usa Omero per indicare il corpo? Aristarco pensava che δέμας fosse, per Omero, il corpo vivente. Ma ciò vale solo per certi casi. Per esempio la frase “il suo corpo era piccolo” è resa così da Omero: μικρός ἦν δέμας; e la frase “il suo corpo assomigliava a quello di un dio” è espressa a questo modo: δέμας ἀθανάτοισιν ὅμοιος ἦν. Ma δέμας è tuttavia un ben povero sostituto della parola “corpo”: esso si trova soltanto all’accusativo di relazione. Significa “di figura”, “di statura”, ed è quindi limitato a poche espressioni come essere piccolo o grande, rassomigliare a qualcuno o così via. Tuttavia in questo Aristarco ha ragione: fra le parole che troviamo in Omero quella che corrisponde forse più di tutte alla forma più tarda σῶμα è la parola δέμας. Ma Omero ha anche altre parole per indicare ciò che noi chiamiamo corpo e che i Greci del V secolo a.C. designano con σῶμα.
Se diciamo: “il suo corpo divenne fiacco”, ciò equivale, tradotto in lingua omerica, a λέλυντο γυῖα; oppure “egli tremava in tutto il corpo”: γυῖα τρομέονται; e ancora: alla nostra espressione “il sudore traspirava dal corpo” corrisponde in Omero a ἵδρως ἐκ μελέων ἔρρεεν. La frase “il suo corpo si riempì di forza” è espressa così da Omero: πλῆσθεν δ᾽ ἄρα οἷ μέλε᾽ ἐντός ἀλκῆς. E quindi abbiamo un plurale, mentre secondo i nostri concetti linguistici ci attenderemmo un singolare. Invece di “corpo” si parla di “membra”; γυῖα sono le membra in quanto vengono mosse dalle articolazioni, μελέα invece le membra in quanto ricevono forza dai muscoli. Vi sono inoltre in Omero, sempre a questo proposito, le parole ἅψεα e ῥέθεα. Ma qui possiamo trascurarle; ἅψεα si trova solo due volte nell’Odissea per γυῖα; ῥέθεα è del resto preso erroneamente in questo significato, come si potrà vedere in seguito.
Proseguendo nel gioco di trasportare non la lingua di Omero nella nostra, ma la nostra lingua in quella omerica, scopriamo altri modi di rendere la parola “corpo”. Come dobbiamo tradurre “egli si lavò il corpo”? Omero dice: χρόα νίζετο. Oppure, come dice Omero, “la spada penetrò nel suo corpo”? Qui Omero usa ancora la parola χρώς: ξίφος χροός διῆλθε. Riferendosi a questi passi, si è creduto che χρώς significasse “corpo” e non “pelle”.
Ma non c’è dubbio che χρώς sia davvero la pelle; naturalmente non la pelle in senso anatomico, la pelle che si può staccare, che sarebbe il δέρμα, bensì la pelle come superficie del corpo, come involucro, come portatrice di colore e così via. In realtà χρώς assume in una serie di frasi ancor più decisamente il significato di “corpo”: περί χροί δύσετο χαλκόν, cioè “egli cinse intorno al busto la corazza” (letteralmente, “intorno alla pelle”).
A noi sembra strano che non sia esistita una parola che esprimesse il significato di corpo come tale. Delle frasi citate che potevano essere usate in quel tempo per corpo al posto della più tarda espressione σῶμα, soltanto i plurali γυῖα, μελέα, ecc. stanno a indicare la corporeità del corpo, poiché χρώς è soltanto il limite del corpo e δέμας significa “statura”, “corporatura”, e lo troviamo soltanto nell’accusativo di relazione. Che in quest’epoca il corpo sostanziale dell’uomo venga concepito non come unità ma come pluralità, ce lo dimostra anche il modo di raffigurare l’uomo nell’arte greca arcaica.
Soltanto l’arte classica del V secolo a.C. rappresenta il corpo come un complesso organico, unitario, in cui le diverse parti sono in relazione le une con le altre. Precedentemente il corpo veniva proprio costruito mettendo insieme le singole parti, come ha dimostrato per primo Gerhard Krahmer. La raffigurazione del corpo umano al tempo dei poemi omerici è, però, notevolmente diversa da quella dataci, per esempio, dai disegni primitivi dei nostri bambini, per quanto anch’essi non facciano altro che mettere insieme le singole membra. Da noi i bambini, quando vogliono disegnare un uomo, in genere lo rappresentano come la figura 1. Nei vasi greci della fase geometrica, l’uomo è rappresentato invece come nella figura 2.
I nostri bambini mettono al centro, come parte principale, il corpo, e ad esso aggiungono il capo, le braccia e le gambe. Alle figure della fase geometrica invece manca proprio questa parte principale; esse sono cioè veramente μελέα καὶ γυῖα, membra con forti muscoli, distinte le une dalle altre da giunture fortemente accentuate. Certamente in questa differenza ha la sua parte anche l’abbigliamento, ma ancor più importanza ha qui quel particolare modo di vedere le cose in forma “articolata”, che è proprio ai Greci di questa prima era. Per loro le singole membra sono molto chiaramente distinte le une dalle altre, le articolazioni vengono accentuate in quanto sono le parti carnose. Il disegno greco primitivo coglie la mobilità del corpo umano, il disegno infantile ne rappresenta la compattezza. Il fatto che i Greci dei primi secoli non concepiscano il corpo come unità, né nella lingua né nell’arte plastica, conferma ciò che ci avevano dimostrato i diversi verbi di “vedere”. I verbi primitivi colgono quest’attività nelle sue forme evidenti, attraverso i gesti o i sentimenti che l’accompagnano, mentre nella lingua più tarda è la vera e propria funzione di quest’attività che vien posta al centro del significato della parola. È chiaro che la lingua tende sempre più ad avvicinarsi al contenuto; però il contenuto stesso è una funzione che non è legata, né nelle sue forme esteriori, né, come tale, a determinati, ben definiti, movimenti dell’animo. Ma, nel momento che essa viene riconosciuta e le viene dato un nome, essa acquista esistenza, e la consapevolezza della sua esistenza diventa ben presto una proprietà comune. Per quello che riguarda il corpo, la cosa si svolge probabilmente a questo modo: quando l’uomo dei tempi primitivi vuol indicare una persona che gli si presenta, basta che egli ne pronunci il nome, che dica: questo è Achille, oppure: questo è un uomo. Quando si vuol fare una descrizione più precisa, si indica prima di tutto quello che colpisce l’occhio, cioè le diverse membra; la relazione funzionale di esse viene soltanto più tardi riconosciuta come essenziale. Però anche in questo caso la funzione è qualcosa di reale, ma questa realtà non si rivela in modo così chiaro e a quanto pare non è la cosa che sia sentita per prima, neppure dalla persona stessa. Appena però quest’unità non ancor rivelata viene scoperta, essa s’impone in forma immediata.