Scilicet minus beate vivebat dictator noster qui Samnitium legatos audit cum vilissimum cibum in foco ipse manu sua versaret — illa qua iam saepe hostem percusserat laureamque in Capitolini Iouis gremio reposuerat — quam Apicius nostra memoria vixit, qui in ea urbe ex qua aliquando philosophi velut corruptores iuventutis abire iussi sunt scientiam popinae professus disciplina sua saeculum infecit. Cuius exitum nosse operae pretium est. Cum sestertium milliens in culinam coniecisset, cum tot congiaria principum et ingens Capitolii vectigal singulis comisationibus exsorpsisset, aere alieno oppressus rationes suas tunc primum coactus inspexit: superfuturum sibi sestertium centiens computavit et velut in ultima fame victurus si in sestertio centiens vixisset, veneno vitam finivit. Quanta luxuria erat cui centiens sestertium egestas fuit! I nunc et puta pecuniae modum ad rem pertinere, non animi. Sestertium centiens aliquis extimuit et quod alii voto petunt veneno fugit. Illi vero tam pravae mentis homini ultima potio saluberrima fuit: tunc venena edebat bibebatque cum inmensis epulis non delectaretur tantum sed gloriaretur, cum vitia sua ostentaret, cum civitatem in luxuriam suam converteret, cum iuventutem ad imitationem sui sollicitaret etiam sine malis exemplis per se docilem. Haec accidunt divitias non ad rationem revocantibus, cuius certi fines sunt, sed ad vitiosam consuetudinem, cuius inmensum et incomprensibile arbitrium est. Cupiditati nihil satis est, naturae satis est etiam parum. Nullum ergo paupertas exulis incommodum habet; nullum enim tam inops exilium est quod non alendo homini abunde fertile sit.

Viveva meno felicemente – è chiaro – [quel] nostro dittatore che diede udienza ai messi dei Sanniti, mentre stava rimescolando sul focolare del cibo vilissimo con quella mano – con cui spesso aveva colpito il nemico e deposto la corona d’alloro in grembo [alla statua] di Giove Capitolino – di quanto non sia vissuto Apicio ai giorni nostri, il quale imbevve la sua generazione, facendo sfoggio di scienza culinaria, in quella città dalla quale, un tempo, fu ordinato ai filosofi di andarsene, come se fossero dei corruttori della gioventù. Vale la pena conoscerne la morte: avendo gettato in cucina cento milioni di sesterzi – dopo aver divorato tanti donativi d’imperatori e le singole entrate del tempio capitolino – oberato dai debiti, fu costretto, allora per la prima volta, a fare i conti: calcolò che gli erano rimasti dieci milioni di sesterzi e, come se fosse stato costretto a vivere nella fame estrema in [quei] dieci milioni di sesterzi, mise fine alla propria vita col veleno. Quanto lusso c’era in quell’uomo, che considerò misera la somma di dieci milioni di sesterzi! Va ora e continua a credere che sia la ristrettezza di denaro ad avere importanza per la questione, non quella dell’animo. Qualcuno ha avuto paura per dieci milioni di sesterzi e da ciò, cui gli altri aspirano nelle loro preghiere, se n’è fuggito con il veleno! A quell’uomo dalla mente tanto ria, la bevanda più salutare fu l’ultima: mangiava e beveva veleni dunque, non soltanto dilettandosi con smisurati banchetti, mettendo in mostra i suoi vizi, attirando sul suo lusso l’attenzione della città, stuzzicando la gioventù a imitarlo (già per se stessa docile [a tutto ciò] anche senza cattivi esempi!), ma vantandosene [pure]! Queste cose capitano a chi riconduce il denaro non alla ragione – i cui limiti sono [ben] definiti – ma alle cattive abitudini, il cui arbitrio è immenso e incommensurabile. Alla cupidigia nulla basta, alla natura basta anche ciò che sembra essere troppo poco. La povertà di un esule non ha dunque in sé alcun disagio: infatti, nessun luogo d’esilio è tanto povero, da non essere abbondantemente fertile per nutrire un uomo.