ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
[2.1] Come nelle statue e nei quadri dei Dioscuri, pur nella somiglianza complessiva, si hanno differenze formali che distinguono il pugile dal corridore, così in quei giovani, nel complesso, c’era un grande trasporto verso virtù e saggezza, liberalità, riflessione, magnanimità, apparvero e si resero evidenti grosse diversità quanto alla vita pubblica; perciò, non mi pare fuori luogo accennare innanzitutto a quelle. [2] Per quanto riguarda il volto, il modo di guardare e di muoversi, Tiberio era mansueto e sereno; mentre Gaio appariva teso e impetuoso; l’uno pronunciava i suoi discorsi stando compostamente fermo dove si trovava; l’altro fu il primo Romano ad agitarsi sulla tribuna e a far cadere la toga dalla spalla, mentre parlava – come si racconta dell’ateniese Cleone, che, primo degli oratori, si tolse il mantello e si percosse la coscia (cfr. Plut. Nic. 8, 6).
di J. REDFIELD, L’uomo e la vita domestica, in J.P. VERNANT (ed.), L’uomo greco, Roma-Bari 2007, 157-163.
Sul piano della natura, il ruolo civile delle donne era quello di produrre cittadini, cioè eredi maschi dei capifamiglia che componevano la città; sul piano della cultura, le donne fungevano da pegno in una transazione fra suocero e genero. Questa transazione era la ἐγγύησις o ἐγγύη, la stipula di un accordo ufficiale tra il padre della donna e il suo pretendente, attraverso il quale la tutela e la dote (προίξ) erano trasferite dall’uno all’altro. Negli stessi termini avveniva il trasferimento in garanzia di qualsiasi altra cosa o merce. ἀλλ’ ἐγγυῶ παίδων ἐπ’ ἀρότῳ γνησίων / τὴν θυγατέρ’ ἤδη μειράκιόν σοι προῖκά τε / δίδωμ’ ἐπ’ αὐτῇ τρία τάλαντα («Ti affido mia figlia per la procreazione di figli legittimi e le assegno una dote di tre talenti»). Sono le parole con cui Callippide dà in sposa la figlia a Gorgia nel V atto del Dyskolos di Menandro (vv. 842-844). Il poeta comico riproduce nell’opera questa pratica con tanto di formula giuridica che sanzionava e certificava l’avvenuta transazione.
Signacolo funebre di Hegeso. Stele decorata a rilievo, marmo pentelico, c. 410-400 a.C. dal Ceramico. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Secondo il diritto attico, la dote formalmente non apparteneva mai al marito, che la teneva in custodia per i figli ed era tenuto a restituirla se il matrimonio fosse andato a monte; nondimeno, la dote costituiva spesso un’indubbia attrattiva per i giovanotti spiantati o con le finanze in pericolo! La sola condizione necessaria a siglare l’accordo era la generazione di figli legittimi: il suocero che, magari non aveva avuto figli maschi, era compensato nella perpetuazione della propria stirpe dalla prospettiva di avere dei nipoti. Nel mondo ellenico, infatti, il matrimonio era concepito come il mezzo tramite il quale un uomo poteva avere dei discendenti attraverso sua figlia. In cambio, il genero acquisiva certi diritti nei confronti del suocero.
Occorre precisare che in Grecia i matrimoni non erano “combinati”: gli antichi Greci non conobbero mai qualcosa di simile alla romana patria potestas; il pretendente, in quanto maschio adulto, “contrattava” la promessa sposa per proprio conto. Prendere moglie era una forma di acquisizione e sulla base di questo il matrimonio si poneva saldamente in un mondo maschile di pubbliche transazioni. Non aveva come suo centro la privata relazione tra marito e moglie.
Le storie di corteggiamento, sia chiaro, sono in realtà storie sull’ideale della relazione coniugale, perché il prezzo pagato per sposarsi forniva una valutazione dello stato coniugale. I personaggi femminili delle tragedie, per esempio, sono o vittime della forza (Ifigenia, Io) o furie vendicative (Clitemnestra, Medea): nella letteratura tragica, paradossalmente, la coppia più felice è forse quella di Edipo e Giocasta (naturalmente prima di conoscere la verità!).
Volgendo lo sguardo indietro all’epica arcaica, comunque, si riceve un’impressione del tutto diversa. L’Odissea, in fondo, è incentrata sulla ricostruzione di un matrimonio, così come un matrimonio da salvare è il casus belli della guerra di Troia. Con Priamo ed Ecuba, Ettore e Andromaca, Alcinoo e Arete, Odisseo e Penelope – per non parlare di Zeus ed Era – troviamo in Omero un’intera galleria di coppie sposate, e la rappresentazione del matrimonio è generalmente positiva.
Invero, nella tragedia, un tema ricorrente è la minaccia del potere femminile, il pericolo che gli uomini perdano il controllo delle donne. Questo timore ha il suo corrispondente comico nell’ipotesi fantastica avanzata da Aristofane di un’azione politica delle donne: il potere femminile è sempre trattato come uno sconvolgimento della natura delle cose, determinato per giunta dalla follia o dalla debolezza dei maschi. Sia la donna in questione Clitemnestra, Antigone o Lisistrata, la rivendicazione del potere da parte femminile è accolta dalle donne stesse come segno di un terribile orrore.
Le leggende greche parlavano anche di donne del tutto fuori di sé: erano le Menadi (Μαινάδες), letteralmente «le pazze» (dal verbo μαίνομαι, «impazzire», «folleggiare»). Di costoro si narra che lasciassero le città e si aggirassero per i monti, estatiche e violente, compiendo atti prodigiosi e sovrumani: giocavano con i serpenti, dilaniavano animaletti a mani nude, se s’imbattevano in uomini erano in grado di vincerli e di ucciderli. Il menadismo era di solito concepito come una punizione che ricadeva sulle comunità che osavano opporsi al potere di Dioniso (come narrano le Baccanti di Euripide). Il menadismo era la negazione della maternità e della successione, era un flagello paragonabile a una carestia, alla siccità o a un’epidemia; e, al pari di questi accidenti, si credeva di potervi trovare rimedio soltanto istituendo un giusto rapporto con la divinità.
Proprio nelle Baccanti euripidee il comportamento delle donne è una punizione alla resistenza a Dioniso, di cui il re di Tebe, Penteo, rifiuta di riconoscere la natura soprannaturale. Il dio allora spinge le Tebane, in preda alla follia estatica, a scorrere selvaggiamente le montagne della Beozia, attaccando villaggi e rapendo i bambini. Al loro posto si insediano in città le donne d’Asia che Dioniso ha portato con sé dalle remote piagge dell’India, sotto la sua protezione, fingendo di essere sacerdote di sé stesso. Penteo tenta di arrestare Dioniso, ma il dio si libera grazie a un prodigio, squassando il palazzo e offuscando poi la mente del sovrano, che viene indotto a raggiungere le donne per spiarne le azioni, travestendosi egli stesso da donna. Giunto sui monti, sarà la sua stessa madre, la regina Agave, a ucciderlo, squarciandogli il petto e facendolo a pezzi, avendolo scambiato per un leone.
Nient’altro era necessario a rendere effettivo un matrimonio se non la sua consumazione: il γάμος. Questo momento – la prima notte – era di solito l’occasione per celebrare una festa, chiamata allo stesso modo: attraverso questa si ritualizzava l’iniziazione sessuale della sposa, che era anche lo stadio più avanzato del suo percorso per entrare nell’età adulta. Fondamentale era il rito degli ἀνακαλυπτήρια, il cerimoniale con cui la matrona che se ne occupava (detta νυμφεύτρια) toglieva il velo dal capo della sposa e la presentava ufficialmente al consorte; questi allora la portava – a piedi o su un carro – nella propria casa, accompagnato da una processione con fiaccole e al suono dei flauti. La νυμφεύτρια li seguiva, mentre la madre della sposa li accomiatava e quella dello sposo dava loro il benvenuto. Dopo un rito di aggregazione, la νυμφεύτρια scortava la coppia al talamo.
Il giorno seguente poteva tenersi un altro corteo (la ἐπαύλια), con cui amici e parenti della donna portavano il suo corredo nella nuova casa. La regia del γάμος, comunque, era condotta principalmente dalle donne delle due famiglie e ruotava attorno alla sposa, alla sua vestizione: era senza dubbio lei la protagonista dell’evento. Mentre la ἐγγύη era l’atto di trasferimento, il γάμος era il rito della sua trasformazione.
Le attrattive di una donna erano caratteristicamente multiformi (ποικίλοι), e richiamavano quella superficie mutevole e complessa che, nella cultura ellenica, connotava le cose ingannevoli e avvolgenti. Secondo la concezione antica, i monili di una donna erano la rappresentazione materiale dei suoi modi adulatori e simboli del suo potere di seduzione: la femminilità avviluppa e intrappola l’uomo. L’epica, a questo proposito, fornisce l’esempio più notevole di questa concezione, cioè la cintura di Afrodite, una fascia i cui ricami rappresentano «l’amore e il desiderio e l’incontro, /la seduzione, che ruba il senno anche ai saggi» (Il. XIV 216-217). L’abbigliamento della sposa, infatti, includeva una cintura, perciò un eufemismo per indicare la consumazione del matrimonio era appunto «sciogliere la cintura». La sposa, in altri termini, era adornata in modo da poter sedurre lo sposo nel matrimonio. Ed è ciò che faceva Era, nell’Iliade, facendosi prestare da Afrodite la sua cintura, così da sedurre Zeus: il potere di Afrodite, infatti, si estende anche su di lui. E Zeus, di contro, ricambia rendendo la stessa Afrodite schiava del proprio potere e facendola innamorare di Anchise.
di G. CAMBIANO, Diventare uomo, in J.-P. VERNANT (ed.), L’uomo greco. Laterza, Roma-Bari 2007, 92-96.
Il sesso era l’altro decisivo fattore per determinare chi poteva diventare cittadino adulto in senso pieno: le donne erano escluse. Naturalmente esisteva qualche eccezione, soprattutto in età ellenistica e fuori Atene, ma generalmente e in particolare ad Atene una donna era integrata nella città non in quanto cittadina, bensì in quanto figlia o moglie di un cittadino. Solo in età ellenistica si ha qualche notizia di ragazza che s’impegna personalmente in un contratto di matrimonio col futuro sposo; in genere quest’impegno era assunto dal padre o dal tutore della ragazza. Il diventare adulte per la maggior parte delle ragazze greche di condizione libera era segnato dalla tappa decisiva del matrimonio. La differenza di condizione tra bambini maschi o femmine è ben espressa da un’alternativa posta nei Memorabili di Senofonte: εἰ δ’ ἐπὶ τελευτῇ τοῦ βίου γενόμενοι βουλοίμεθά τῳ ἐπιτρέψαι ἢ παῖδας ἄρρενας παιδεῦσαι ἢ θυγατέρας παρθένους διαφυλάξαι («e se, giunti alla fine della nostra vita, volessimo affidare a qualcuno i figli maschi da educare, le figlie ancora ragazze da custodire…?», Xen. Mem. I 5, 2). Alla παιδεία rivolta ai ragazzi corrispondeva, nel caso delle femmine, l’essere custodite (διαφυλάξαι): le ragazze, infatti, sono connotate come θυγατέρες παρθένοι, letteralmente “figlie vergini”, ma è preferibile rendere come «figlie ancora ragazze», cioè “nubili”, “non ancora sposate”, dato che l’appellativo παρθένος indicava ciò che oggi si direbbe lo stato civile della donna, più che la sua illibatezza. In ogni caso, alla verginità, invece, allude in modo implicito, ma inequivocabile, proprio il verbo διαφυλάξαι, che significa appunto “conservare”, “mantenere in un certo stato per un determinato periodo di tempo”. Il passo senofonteo è crudamente rivelatore di una precisa distinzione di ruoli sessuali: mentre al tutore di maschi adolescenti era affidato l’incarico di educarli (παιδεῦσαι), a quello delle ragazze spettava il compito di custodirle, come dice elegantemente l’autore.
Una legge attribuita a Solone stabiliva che, se il padre avesse scoperto che la figlia intratteneva rapporti sessuali prima del matrimonio – e il segno inequivocabile era la gravidanza –, ella cessava di appartenere alla famiglia e poteva essere venduta. Per lei si chiudevano le prospettive del matrimonio; di qui l’importanza della custodia, come garanzia di preservazione delle condizioni d’accesso alle nozze.
Pittore anonimo. Una ragazza in atto di acconciarsi i capelli. Pittura vascolare su λήκυθος attica a figure rosse, 425-400 a.C. ca. Palermo, Collezione archeologica del Banco di Sicilia.
Fin dalla nascita le ragazze trascorrevano gran parte della loro vita in casa, affidate alle cure della madre o delle serve. Il crescente fenomeno di urbanizzazione simultaneo alla formazione delle πόλεις – documentabile non prima della seconda metà del VII secolo – aveva determinato uno spostamento sensibile delle attività della donna all’interno della casa (οἶκος), lasciando agli uomini il libero movimento nello spazio esterno. Solo le donne più povere erano costrette a uscire dalla casa per lavorare nei campi o fare le venditrici. All’interno della casa, invece, le giovani di buona famiglia apprendevano ben presto i lavori domestici della filatura e della preparazione del cibo.
Solo le feste religiose delle città erano un’occasione di uscita, non certo i simposi, vietati a tutte le donne che non fossero etere, danzatrici o flautiste. Ma diversamente da quanto avveniva per i maschi, queste feste nell’Atene classica non coincidevano con momenti di iniziazione alla vita adulta per intere classi di età. L’iniziazione era compiuta soltanto da gruppi ristretti di ragazze, che venivano scelte a rappresentare l’itinerario di preparazione al matrimonio. Così ogni anno, in occasione delle Arreforie, due ragazze dell’aristocrazia, tra i sette e gli undici anni, davano inizio circa nove mesi prima delle Panatenee alla tessitura del peplo che in tale occasione sarebbe stato offerto ad Atena. La tessitura del peplo da parte di ragazze è documentata anche altrove, per esempio ad Argo in onore di Era; forse anche a Sparta le ragazze tessevano il chitone consacrato ogni anno ad Apollo alle Giacinzie.
Nei mesi antecedenti alle Panatenee le due ragazze conducevano un genere di vita speciale e, alla fine, si spogliavano dei loro abiti e dei monili d’oro rappresentanti la loro fanciullezza. Le Arreforie scandivano per costoro un momento di passaggio e di iniziazione: esse apprendevano i lavori femminili, la filatura e la tessitura, e si preparavano a essere spose e madri, assumendosi il compito di portare sul capo, di notte, dall’Acropoli a un giardino dedicato ad Afrodite, un canestro di cui dovevano ignorare il contenuto e che veniva riposto in un luogo sotterraneo, dal quale uscivano riportando altri oggetti sacri avvolti in un panno.
Nel canestro, invero, erano contenuti il simulacro del bambino Erittonio e il serpente, che simboleggiavano la sessualità e la generazione. Tra migliaia di bambine soltanto due erano le prescelte: ciò che anticamente forse costituiva il passaggio collettivo di un’intera classe di età a una nuova condizione, attraverso una fase di segregazione dalla comunità e una prova, in età classica divenne oggetto di una rappresentazione simbolica.
Si ha infatti notizia di casi di sacerdozio affidato a ragazze in età prematrimoniale in Arcadia e a Calaurea; le fanciulle di Locri erano addirittura costrette a un servizio a vita nel tempio di Atena. Ma normalmente la partecipazione delle ragazze a riti e cerimoniali religiosi era collegata simbolicamente alla svolta decisiva della loro vita, coincidente proprio con il matrimonio. Così, appunto, ad Atene accadeva per le feste Brauronie. Alcune bambine, di età compresa fra i cinque e i dieci anni, si dovevano consacrare al servizio di Artemide presso il santuario di Brauron, fuori Atene, per un periodo a noi non noto. In ricordo dell’orsa prediletta dalla dea, che, rifugiatasi nel suo tempio, era stata uccisa, esse erano chiamate «orse» (ἄρκτοι) ed espiavano questo sacrilegio col loro servizio (ἀρκτεία). Al tempo stesso, esse rifacevano il percorso dell’orsa da una condizione selvaggia, dalla quale si liberavano, per prepararsi a coabitare con lo sposo e integrare la propria sessualità nella cultura della città.
Scuola di Fidia. Scena della processione panatenaica. Marmo pentelico, 438-432 a.C. dal frontone est del Partenone. London, British Museum.
Ancora in età ellenistica l’analfabetismo sembra più diffuso tra le donne che tra gli uomini, stando alla percentuale di donne che ricorrevano ad altri per scrivere. Tuttavia, è noto che a Teo esisteva una scuola frequentata da allievi di ambo i sessi e che a Pergamo si tenevano gare di recitazione poetica e di lettura per ragazze, ma non si trattava di fenomeni tanto comuni, e anche l’educazione ginnica era prerogativa essenzialmente maschile. L’eccezione più celebre era costituita da Sparta, dove le bambine, ben nutrite quanto i maschi, anziché essere addestrate alla tessitura e alla preparazione del cibo, che sarebbero sempre rimaste occupazioni servili, non della moglie, erano ben presto avviate agli esercizi ginnici, nude e visibili anche ai maschi, nella corsa, nella lotta, nel lancio del disco e del giavellotto. Non sappiamo se sia stato questo esempio spartano a portare all’istituzione di corse femminili a piedi nel contesto delle Olimpiadi, anche se tenute in giorni diversi dalle competizioni riservate ai maschi. Pausania (V 16, 2-8) informa che si trattava dei «Giochi Erei» (ἀγῶνα Ἡραῖα), che, secondo la leggenda, sarebbero stati istituiti da Ippodamia, compagna di Pelope. A queste competizioni, suddivise in categorie per età, prendevano potevano partecipare sedici ragazze, vestite con una corta tunica che giungeva fino al ginocchio e lasciava scoperta una spalla. Come nel caso degli atleti olimpici, anche le vincitrici degli Erei ricevevano in premio una corona d’ulivo e una porzione di carne della vacca sacrificata in onore della dea dall’occhio bovino. Non è chiaro se a queste gare podistiche abbiano mai partecipato anche ragazze ateniesi.
Ragazza spartana in corsa. Statuetta, bronzo, 520-500 a.C. ca., dalla Laconia. London, British Museum.
Ancor più raro e difficile era per le giovani acquisire un’istruzione superiore. Un’eccezione è il caso delle etere, come Aspasia, vicina a Pericle e significativamente una straniera, non una cittadina. Un’altra eccezione è rappresentata dalla cerchia di Saffo nella Lesbo del VI secolo a.C., di cui non esistono simili contesti documentati per l’età classica. Si trattava di un’associazione cultuale nella quale ragazze di Lesbo, ma anche provenienti dall’antistante Ionia, si esercitavano nella danza e nel canto, imparavano a suonare la lira e a partecipare a feste nuziali, a officiare cerimoniali e forse prendevano parte a gare di bellezza, acquisendo le competenze e le qualità richieste perché convolassero a nozze con uomini di nobile stirpe. Ciò sembra confermare la maggiore libertà di cui avrebbero goduto le fanciulle aristocratiche nell’epoca arcaica rispetto alla segregazione così caratteristica nell’Atene classica. Nella cerchia di Saffo nascevano anche legami omoerotici, che per la Sparta del secolo VII a.C. sono ben documentati dai parteni di Alcmane, ma questo non implica che anche in Laconia le donne ricevessero un’educazione sessuale prematrimoniale.
Pittore di Amasis. Scena con corteo matrimoniale (dettaglio). Lekythos a figure nere, 550 a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.
Nella vita delle ragazze greche di condizione libera il matrimonio era il rito di passaggio obbligato e decisivo. Grazie a esso, la donna, più che l’uomo, compiva un mutamento radicale di status: diventare adulta, non essere più una παρθένος, coincideva per lei con l’essere sposa e divenire madre di futuri cittadini (preferibilmente maschi). Diversamente dai ragazzi, le figlie generalmente non restavano in casa del padre, ma andavano presto in spose, sovente prima di aver compiuto sedici anni, spesso maritate con uomini molto più grandi di loro.
Il fidanzamento o la promessa di matrimonio (ἐγγύησις), di norma, avveniva ancor prima: Demostene nell’accusa al cugino Afobo, disonesto tutore, spiega che, alla morte del padre, sua sorella a soli cinque anni era stata promessa a Demofonte con una dote di due talenti d’argento (Demosth. In Aphob. I 4). Una delle leggi che compare nel corpus di Gortina, a Creta (c. VI-V secolo a.C.), prevedeva che una πατροιοκός (“ereditiera”, corrispondente all’att. ἐπίκληρος) fosse «sposata dall’età di dodici anni in su» (ὀπυί-/εθαι δὲ δυοδεκαϝετία ἒˉ πρεί-/γονα, IC XII 17-19). Pare che la differenza di età, del resto, non contribuisse a potenziare i legami affettivi, spirituali e intellettuali tra gli sposi: Senofonte avrebbe attribuito la mancanza di educazione delle donne all’età precoce in cui venivano maritate (Xen. Oec. 7, 3-4).
Per comprendere i caratteri del matrimonio ateniese (ἐγγύησις) occorre ricordare che esso era un contratto fra due uomini, il padre, o il tutore, e il futuro sposo. Per le donne, invece, esso significava essenzialmente un trasferimento dalla casa del padre a quella dello sposo, passare dalla segregazione nella prima a quella nella seconda, dalla tutela di uno a quella dell’altro in ogni transazione giuridica. Nell’Egitto, che appariva a Erodoto e a Sofocle l’antitesi per eccellenza del mondo ellenico, erano invece le donne a uscire di casa per procurarsi il cibo, mentre gli uomini restavano in casa a tessere.
Ad Atene, la futura sposa si preparava al giorno delle nozze, offrendo ad Artemide i suoi giochi infantili e tagliando i capelli, segno del suo abbandono dell’adolescenza. Alla vigilia delle nozze i due futuri sposi si purificavano col rito del bagno al canto di imenei, che propiziavano la generazione di ottima prole, e il padre della sposa offriva un sacrificio a Zeus, Era, Artemide, Afrodite e Peitò. La cerimonia vera e propria, come itinerario della donna dalla casa del padre a quella dello sposo, confermava che la vera protagonista del rito di passaggio e del mutamento di stato era appunto la donna. L’inizio era costituito da un banchetto in casa del padre, ove un bimbo passava tra i commensali recando pane e pronunciando la frase: «Hanno fuggito il male; hanno trovato il meglio» (ἔϕυγον κακόν, εὖρον ἄμεινον, cfr. Demosth. De coron. XVIII 259). Il pane stava a significare la transizione da un regime selvatico a uno civilizzato. Al banchetto la ragazza assisteva velata e attorniata da amiche e solo alla fine forse mostrava il volto ai presenti. Dopo canti di imenei, libagioni e auguri, un corteo notturno illuminato da fiaccole accompagnava la ragazza, che su un carro giungeva alla casa dello sposo, dove entrava recando un vaglio da orzo, che prefigurava la sua nuova attività di preparazione del cibo. Presso il focolare della nuova casa essa riceveva l’offerta di dolci e fichi secchi, che sancivano la sua integrazione in essa. Successivamente i due sposi entravano nella camera nuziale, alla cui porta faceva la guardia un amico del marito, e consumavano il matrimonio. Nel suo stesso svolgimento spaziale la cerimonia nuziale appariva un transito da casa a casa, più che dallo spazio privato della casa a quello ampio e pubblico della città: con la sua mobilità, la ragazza consentiva l’istituzione di un legame tra due famiglie.
Il Caucaso è uno straordinario museo etnologico. Nel corso dei millenni, i suoi massicci montuosi, corrugati tra il Mar Nero e il Mar Caspio, hanno trattenuto molti piccoli popoli nelle vallate tra le montagne, conservandone i linguaggi, i costumi e le tradizioni. La ricchezza e la complessità linguistica della regione era nota fin dall’antichità. Strabone ricorda che nella città di Dioskouriás (georgiano Soxumi, abxaso Ak̄ǝa), sulla costa caucasica del Ponto Eusino, si radunavano settanta tribù diverse per svolgere le loro attività commerciali, e ciascuna aveva la propria lingua, «e questo perché, trattandosi di stirpi selvagge e arroganti, vivono sparse e senza mescolarsi» (Geografia, XI. 2, 16). Plinio assicura che a Dioskouriás i Romani negoziavano con l’ausilio di centotrenta interpreti (Naturalis historia, VI. 12). Anche i geografi arabi rimasero impressionati dalla varietà di etnie che s’incontravano nel Caucaso, tanto che la regione veniva definita come Ǧabal al-alsun, la «montagna delle lingue». Secondo lo storico Abū al-Ḥasan ʿAlī al-Masʿūdī, i monti del Caucaso erano abitati da così tante genti che solo Allāh avrebbe potuto contarle (Murūǧ aḏ-ḏahab wa maʿādin al-ǧawahir, 443).
Se l’alta densità linguistica è segnale di antichità, la maggior parte dei popoli del Caucaso devono essere presenti in situ da un’epoca incredibilmente remota. E se ci limitiamo allo strato autoctono, troviamo ben tre famiglie linguistiche serrate le une a ridosso delle altre.
A sud, la famiglia caucasico-meridionale, o cartvelica, dominata dal georgiano, oggi lingua ufficiale della repubblica di Georgia. Veicolo, fin dall’alto Medioevo, di una splendida e ricca letteratura, è l’unica delle lingue caucasiche a vantare una tradizione colta. A questo gruppo appartengono lingue minori come il mingrelio e lo svanete, parlati nella Georgia nord-occidentale, e il lazo, che è localizzato invece sulla costa sud-occidentale, presso il confine della Turchia.
A nord della Georgia, troviamo la famiglia caucasico-nordoccidentale. È dominata dall’abxasico, lingua del controverso stato di Abxazia, sito lungo la costa del Mar Nero. Il gruppo circasso (a sua volta distinto in adǝgė e cabardino) è invece sparso in diverse isole linguistiche oltre il confine russo. L’ubyx si è estinto nel 1992, con la morte del suo ultimo parlante, Tevfik Esenç.
Reinhold Begas, Prometheus. Statua, marmo di Carrara, 1900. Berlin, Akademie der Künste.
A nord e ad est della Georgia, in territorio russo, è invece stanziata la ricca famiglia caucasico-nordorientale. Esso è diviso a sua volta in due sottogruppi principali: quello delle lingue veynach, dominato dall’ingušo-čečeno, e quello daghestano, a sua volta suddiviso in dozzine di lingue e dialetti sparpagliati lungo la linea del Mar Caspio, fino al confine dell’Azǝrbaycan.
Le relazioni tra le tre famiglie linguistiche caucasiche non sono chiare. Esse vengono raggruppate insieme per comodità, ma i glottologi non hanno riscontrato affinità tali che si possa raggrupparle in macro-famiglie. Consenso vi è soltanto sulle lingue caucasico-meridionali o cartveliche, che formano un gruppo piuttosto compatto. Più complessa la questione sulle altre due famiglie, la nordoccidentale e la nordorientale, che molti linguisti ritengono correlate. Alcuni sostengono che le lingue veynach siano a loro volta un gruppo indipendente e intermedio tra gli ultimi due gruppi.
Nella regione sono però presenti anche alcuni popoli indoeuropei. Nel vasto acrocoro sotto le Alpi Pontiche, quasi a chiudere il Caucaso sul lato meridionale, sono stanziati gli Armeni, con la loro antichissima e ricca cultura nazionale. Gli Osseti, di lingua indoiranica, si sono insinuati in una piccola regione oggi tagliata in due dal confine tra la Georgia e la Russia. Gruppi di Curdi, sparsi tra Armenia, Turchia e Īrān, completano il quadro indoeuropeo.
Vi sono infine diversi popoli altaici, giunti nel Caucaso per buoni ultimi, di cui il più importante è quello degli Azeri, la cui lingua è oggi ufficiale nell’Azǝrbaycan. Altre lingue altaiche attualmente rappresentate nella regione sono il turkmeno, il karakalpaco, il nogai, il karačai, il balkario e il calmucco.
Queste note non sono inutili: chiariscono l’antichità e la complessità etnica di questa regione. È qui che il mito del prometeo incatenato è ben conosciuta, in molte varianti, su entrambi i versanti del massiccio caucasico. Il suo nome è Amirani presso Georgiani e Svaneti, Abrysk’yl presso gli Abxasi, Teʒau presso i Circassi Adǝgė, Nesren presso i Circassi Cabardini, sebbene esistano anche altre lezioni.
Tutti questi racconti, confinati per anni nell’ambito degli accademici russi, sono rimasti a lungo pressoché sconosciuti in Europa occidentale. Tra i primi a farne accenno, il danese Axel Olrik (1864-1917), ai primi del Novecento; ma è stato solo grazie agli studi pionieristici di Georges Dumézil (1898-1986) che la cultura mitologica del Caucaso ha cominciato ad avere i suoi primi riscontri in occidente. A spalancare il mondo caucasico agli studiosi europei è stato però il franco-georgiano Georges Charachidzé (Giorgi Šarašiʒe, 1930-2010), allievo di Dumézil, il quale ha analizzato minuziosamente il «ciclo amiranico», comparandolo con il mito greco.
di R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Gli Adelphi 2009, pgg. 202-207.
[…] Dopo aver soggiornato – non sappiamo quanto a lungo – presso Poseidone, Pelope si trovò alla testa del regno paterno. Presto i confinanti lo assillarono con attacchi. Pelope decise di traversare il mare con i suoi uomini e i suoi tesori, in cerca di una donna. Si sarebbe presentato a una principessa lontana, della Grecia che guarda verso Occidente: Ippodamia, figlia di Enomao.
Intorno all’entrata del palazzo di Enomao, sulla collina di Crono, a Olimpia, erano infisse tredici teste umane. Pelope varcò quella soglia come straniero, quattordicesimo pretendente di Ippodamia. Gli raccontarono che Enomao voleva raccogliere qualche altra testa per comporle poi tutte in un tempio per Ares, suo padre. Due violente passioni dominavano il re di Olimpia: i cavalli e la figlia Ippodamia. Proteggeva gli uni e l’altra con una legge. In Elide non dovevano nascere muli. Chi avesse fatto accoppiare un asino con una giumenta sarebbe stato ucciso. I pretendenti di Ippodamia avrebbero dovuto battere in velocità i magici cavalli di Enomao, dono di Ares. Considerava quei re stranieri animali inferiori, che volevano umiliare la magnifica giumenta Ippodamia, ingravidandola di un bastardo. Per lui i cavalli e la figlia, la “domatrice di cavalli”, formavano un anello. Un arco proseguiva nell’altro. A volte, a letto, vedeva spuntare dalla coperta una testa di giumenta bianca, ed era la figlia.
Pelope si guardò intorno e pensò che avrebbe vinto l’inganno con l’inganno. Se i cavalli di Enomao erano un dono di Ares, chi disponeva, se non Poseidone, di cavalli invincibili? E Poseidone non era stato il suo primo amante? Solo sulla spiaggia, Pelope evocò il dio ricordando il tempo dei loro amori. Voleva lasciarlo infilzare dalla lancia di un re truculento? Voleva che la sua testa finisse appesa accanto alle altre come un trofeo di caccia? Un giorno lo aveva rapito, con un carro volante: quegli stessi cavalli dovevano ora rapirlo alla morte. Poseidone accettò. Pelope guardava i suoi mirabili cavalli e rifletteva che Ares è, sì, un dio potente, ma non paragonabile a Poseidone, che spacca le rocce per aprire la via alle sue bestie – e le fa emergere dalla schiuma delle onde. Ma neppure quello bastava. Pelope pensò che tre imbrogli fossero più sicuri di uno soltanto. E volle conquistare Ippodamia già prima della gara. Ippodamia era abituata da qualche tempo al letto del padre. Anzi, lo aiutava a difenderlo. Aveva visto arrivare tredici stranieri, era salita sul loro carro, li aveva disturbati o distratti nella corsa, come il padre voleva. Sapeva dove andavano a finire le loro carcasse. Ma ora fu folgorata da quello straniero che luccicava d’avorio sulla schiena. Desiderò per la prima volta un letto diverso. Decise di rovinare il padre. L’auriga di Enomao era un ragazzo, Mirtilo, che smaniava per Ippodamia. La sera prima della gara, Ippodamia gli promise il suo corpo se avesse messo nelle ruote del carro di Enomao un perno di cera, invece che di ferro. Mirtilo pensava soltanto al corpo di Ippodamia e accettò. Pelope e Ippodamia concordarono che avrebbero eliminato Mirtilo appena possibile, una volta vinta la gara.
Il mattino della gara ci fu un momento di quiete spaventosa. Erano tutti presenti, e quasi pronti. In mezzo a loro, più grande e visibile, Zeus. Teneva la folgore con la sinistra, l’altra mano era abbandonata sul fianco, ma emanava tensione. Il suo torace era un muro. Tutti sembravano concentrati sulla propria sorte, non sapevano che la sorte di quei luoghi, e di molti altri celati dalla linea verde dell’orizzonte, stava per decidersi in quei momenti. La scena cruenta che Enomao aveva predisposto, e intorno a cui ruotava ormai da qualche tempo la sua vita, prevedeva le seguenti fasi: il pretendente rapisce Ippodamia sul suo carro; Enomao gli concede, come vantaggio, il tempo di sacrificare un ariete nero. Poi monta sul carro, insieme a Mirtilo, e insegue i fuggitivi.
Un’ancella stava allacciando i sandali a Ippodamia. Era quello il momento in cui, per tredici volte, la figlia e il padre si erano scambiati uno sguardo d’intesa. Ippodamia guardò il padre. Il corpo di Enomao aveva la sicurezza dell’età e dei molti morti, trafitti dalla sua lancia. Era nudo, salvo un panno sulle spalle, e stava calcandosi l’elmo sino alle sopracciglia, in modo che fra la barba e l’elmo spiccassero solo gli occhi, fermi. Stanotte dormiremo ancora insieme, dicevano quegli occhi. Ippodamia indossava il complicato peplo dorico, inadatto a una corsa. Aveva i capelli arricciati sulla fronte in piccoli cerchi perfetti e un’improvvisa freddezza nel cuore, come se tutto fosse già finito prima di cominciare, come se il padre, il palazzo, le carcasse accumulate fossero già inceneriti. Pelope era completamente nudo e si appoggiava alla lancia. Luceva l’avorio sulla sua scapola. Mirtilo, fremente, aspettava gli ordini accucciato, con una mano magra e abile si tormentava un alluce. Sterope, la sposa di Enomao, osservava la scena, immobile e inespressiva. Nata dagli amori di un astro e di un dio, da qualche tempo era usata come serva della passione di Enomao per Ippodamia e becchina dei pretendenti di sua figlia. Aveva disimparato a sperare: qualsiasi esito avesse la gara, per lei sarebbe stato un orrore in più. Ma il suo ruolo era di assistere, da regina. Solo un anziano sacerdote, in disparte, affondava le dita nella barba e vedeva qualcosa. Era uno degli Iamidi, stirpe cresciuta sulle viole, nutrita col miele dai serpenti. Apollo gli aveva concesso di intendere le voci della natura, e anche di capire quando la parola è inutile.
Quello che seguì, la corsa, fu rapidissimo. S’intravidero le ruote del carro di Enomao schizzare via sotto il sole e i cavalli straziare il corpo del re. Si udì la sua voce che malediceva Mirtilo. Ma era solo l’inizio: per quattro generazioni la corsa, la polvere, il sangue, lo schianto delle ruote non si arrestarono mai. E pochi ormai ricordavano che tutto era partito in quel momento, quando Enomao aveva sollevato il coltello sull’ariete nero e i cavalli di Poseidone avevano fatto sparire in una nube Pelope e Ippodamia, che si guardavano, complici nel delitto e nella vittoria […].
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