di G. CAMBIANO, Diventare uomo, in J.-P. VERNANT (ed.), L’uomo greco. Laterza, Roma-Bari 2007, 92-96.
Il sesso era l’altro decisivo fattore per determinare chi poteva diventare cittadino adulto in senso pieno: le donne erano escluse. Naturalmente esisteva qualche eccezione, soprattutto in età ellenistica e fuori Atene, ma generalmente e in particolare ad Atene una donna era integrata nella città non in quanto cittadina, bensì in quanto figlia o moglie di un cittadino. Solo in età ellenistica si ha qualche notizia di ragazza che s’impegna personalmente in un contratto di matrimonio col futuro sposo; in genere quest’impegno era assunto dal padre o dal tutore della ragazza. Il diventare adulte per la maggior parte delle ragazze greche di condizione libera era segnato dalla tappa decisiva del matrimonio. La differenza di condizione tra bambini maschi o femmine è ben espressa da un’alternativa posta nei Memorabili di Senofonte: εἰ δ’ ἐπὶ τελευτῇ τοῦ βίου γενόμενοι βουλοίμεθά τῳ ἐπιτρέψαι ἢ παῖδας ἄρρενας παιδεῦσαι ἢ θυγατέρας παρθένους διαφυλάξαι («e se, giunti alla fine della nostra vita, volessimo affidare a qualcuno i figli maschi da educare, le figlie ancora ragazze da custodire…?», Xen. Mem. I 5, 2). Alla παιδεία rivolta ai ragazzi corrispondeva, nel caso delle femmine, l’essere custodite (διαφυλάξαι): le ragazze, infatti, sono connotate come θυγατέρες παρθένοι, letteralmente “figlie vergini”, ma è preferibile rendere come «figlie ancora ragazze», cioè “nubili”, “non ancora sposate”, dato che l’appellativo παρθένος indicava ciò che oggi si direbbe lo stato civile della donna, più che la sua illibatezza. In ogni caso, alla verginità, invece, allude in modo implicito, ma inequivocabile, proprio il verbo διαφυλάξαι, che significa appunto “conservare”, “mantenere in un certo stato per un determinato periodo di tempo”. Il passo senofonteo è crudamente rivelatore di una precisa distinzione di ruoli sessuali: mentre al tutore di maschi adolescenti era affidato l’incarico di educarli (παιδεῦσαι), a quello delle ragazze spettava il compito di custodirle, come dice elegantemente l’autore.
Una legge attribuita a Solone stabiliva che, se il padre avesse scoperto che la figlia intratteneva rapporti sessuali prima del matrimonio – e il segno inequivocabile era la gravidanza –, ella cessava di appartenere alla famiglia e poteva essere venduta. Per lei si chiudevano le prospettive del matrimonio; di qui l’importanza della custodia, come garanzia di preservazione delle condizioni d’accesso alle nozze.

Fin dalla nascita le ragazze trascorrevano gran parte della loro vita in casa, affidate alle cure della madre o delle serve. Il crescente fenomeno di urbanizzazione simultaneo alla formazione delle πόλεις – documentabile non prima della seconda metà del VII secolo – aveva determinato uno spostamento sensibile delle attività della donna all’interno della casa (οἶκος), lasciando agli uomini il libero movimento nello spazio esterno. Solo le donne più povere erano costrette a uscire dalla casa per lavorare nei campi o fare le venditrici. All’interno della casa, invece, le giovani di buona famiglia apprendevano ben presto i lavori domestici della filatura e della preparazione del cibo.
Solo le feste religiose delle città erano un’occasione di uscita, non certo i simposi, vietati a tutte le donne che non fossero etere, danzatrici o flautiste. Ma diversamente da quanto avveniva per i maschi, queste feste nell’Atene classica non coincidevano con momenti di iniziazione alla vita adulta per intere classi di età. L’iniziazione era compiuta soltanto da gruppi ristretti di ragazze, che venivano scelte a rappresentare l’itinerario di preparazione al matrimonio. Così ogni anno, in occasione delle Arreforie, due ragazze dell’aristocrazia, tra i sette e gli undici anni, davano inizio circa nove mesi prima delle Panatenee alla tessitura del peplo che in tale occasione sarebbe stato offerto ad Atena. La tessitura del peplo da parte di ragazze è documentata anche altrove, per esempio ad Argo in onore di Era; forse anche a Sparta le ragazze tessevano il chitone consacrato ogni anno ad Apollo alle Giacinzie.
Nei mesi antecedenti alle Panatenee le due ragazze conducevano un genere di vita speciale e, alla fine, si spogliavano dei loro abiti e dei monili d’oro rappresentanti la loro fanciullezza. Le Arreforie scandivano per costoro un momento di passaggio e di iniziazione: esse apprendevano i lavori femminili, la filatura e la tessitura, e si preparavano a essere spose e madri, assumendosi il compito di portare sul capo, di notte, dall’Acropoli a un giardino dedicato ad Afrodite, un canestro di cui dovevano ignorare il contenuto e che veniva riposto in un luogo sotterraneo, dal quale uscivano riportando altri oggetti sacri avvolti in un panno.
Nel canestro, invero, erano contenuti il simulacro del bambino Erittonio e il serpente, che simboleggiavano la sessualità e la generazione. Tra migliaia di bambine soltanto due erano le prescelte: ciò che anticamente forse costituiva il passaggio collettivo di un’intera classe di età a una nuova condizione, attraverso una fase di segregazione dalla comunità e una prova, in età classica divenne oggetto di una rappresentazione simbolica.
Si ha infatti notizia di casi di sacerdozio affidato a ragazze in età prematrimoniale in Arcadia e a Calaurea; le fanciulle di Locri erano addirittura costrette a un servizio a vita nel tempio di Atena. Ma normalmente la partecipazione delle ragazze a riti e cerimoniali religiosi era collegata simbolicamente alla svolta decisiva della loro vita, coincidente proprio con il matrimonio. Così, appunto, ad Atene accadeva per le feste Brauronie. Alcune bambine, di età compresa fra i cinque e i dieci anni, si dovevano consacrare al servizio di Artemide presso il santuario di Brauron, fuori Atene, per un periodo a noi non noto. In ricordo dell’orsa prediletta dalla dea, che, rifugiatasi nel suo tempio, era stata uccisa, esse erano chiamate «orse» (ἄρκτοι) ed espiavano questo sacrilegio col loro servizio (ἀρκτεία). Al tempo stesso, esse rifacevano il percorso dell’orsa da una condizione selvaggia, dalla quale si liberavano, per prepararsi a coabitare con lo sposo e integrare la propria sessualità nella cultura della città.

Ancora in età ellenistica l’analfabetismo sembra più diffuso tra le donne che tra gli uomini, stando alla percentuale di donne che ricorrevano ad altri per scrivere. Tuttavia, è noto che a Teo esisteva una scuola frequentata da allievi di ambo i sessi e che a Pergamo si tenevano gare di recitazione poetica e di lettura per ragazze, ma non si trattava di fenomeni tanto comuni, e anche l’educazione ginnica era prerogativa essenzialmente maschile. L’eccezione più celebre era costituita da Sparta, dove le bambine, ben nutrite quanto i maschi, anziché essere addestrate alla tessitura e alla preparazione del cibo, che sarebbero sempre rimaste occupazioni servili, non della moglie, erano ben presto avviate agli esercizi ginnici, nude e visibili anche ai maschi, nella corsa, nella lotta, nel lancio del disco e del giavellotto. Non sappiamo se sia stato questo esempio spartano a portare all’istituzione di corse femminili a piedi nel contesto delle Olimpiadi, anche se tenute in giorni diversi dalle competizioni riservate ai maschi. Pausania (V 16, 2-8) informa che si trattava dei «Giochi Erei» (ἀγῶνα Ἡραῖα), che, secondo la leggenda, sarebbero stati istituiti da Ippodamia, compagna di Pelope. A queste competizioni, suddivise in categorie per età, prendevano potevano partecipare sedici ragazze, vestite con una corta tunica che giungeva fino al ginocchio e lasciava scoperta una spalla. Come nel caso degli atleti olimpici, anche le vincitrici degli Erei ricevevano in premio una corona d’ulivo e una porzione di carne della vacca sacrificata in onore della dea dall’occhio bovino. Non è chiaro se a queste gare podistiche abbiano mai partecipato anche ragazze ateniesi.

Ancor più raro e difficile era per le giovani acquisire un’istruzione superiore. Un’eccezione è il caso delle etere, come Aspasia, vicina a Pericle e significativamente una straniera, non una cittadina. Un’altra eccezione è rappresentata dalla cerchia di Saffo nella Lesbo del VI secolo a.C., di cui non esistono simili contesti documentati per l’età classica. Si trattava di un’associazione cultuale nella quale ragazze di Lesbo, ma anche provenienti dall’antistante Ionia, si esercitavano nella danza e nel canto, imparavano a suonare la lira e a partecipare a feste nuziali, a officiare cerimoniali e forse prendevano parte a gare di bellezza, acquisendo le competenze e le qualità richieste perché convolassero a nozze con uomini di nobile stirpe. Ciò sembra confermare la maggiore libertà di cui avrebbero goduto le fanciulle aristocratiche nell’epoca arcaica rispetto alla segregazione così caratteristica nell’Atene classica. Nella cerchia di Saffo nascevano anche legami omoerotici, che per la Sparta del secolo VII a.C. sono ben documentati dai parteni di Alcmane, ma questo non implica che anche in Laconia le donne ricevessero un’educazione sessuale prematrimoniale.

Nella vita delle ragazze greche di condizione libera il matrimonio era il rito di passaggio obbligato e decisivo. Grazie a esso, la donna, più che l’uomo, compiva un mutamento radicale di status: diventare adulta, non essere più una παρθένος, coincideva per lei con l’essere sposa e divenire madre di futuri cittadini (preferibilmente maschi). Diversamente dai ragazzi, le figlie generalmente non restavano in casa del padre, ma andavano presto in spose, sovente prima di aver compiuto sedici anni, spesso maritate con uomini molto più grandi di loro.
Il fidanzamento o la promessa di matrimonio (ἐγγύησις), di norma, avveniva ancor prima: Demostene nell’accusa al cugino Afobo, disonesto tutore, spiega che, alla morte del padre, sua sorella a soli cinque anni era stata promessa a Demofonte con una dote di due talenti d’argento (Demosth. In Aphob. I 4). Una delle leggi che compare nel corpus di Gortina, a Creta (c. VI-V secolo a.C.), prevedeva che una πατροιοκός (“ereditiera”, corrispondente all’att. ἐπίκληρος) fosse «sposata dall’età di dodici anni in su» (ὀπυί-/εθαι δὲ δυοδεκαϝετία ἒˉ πρεί-/γονα, IC XII 17-19). Pare che la differenza di età, del resto, non contribuisse a potenziare i legami affettivi, spirituali e intellettuali tra gli sposi: Senofonte avrebbe attribuito la mancanza di educazione delle donne all’età precoce in cui venivano maritate (Xen. Oec. 7, 3-4).
Per comprendere i caratteri del matrimonio ateniese (ἐγγύησις) occorre ricordare che esso era un contratto fra due uomini, il padre, o il tutore, e il futuro sposo. Per le donne, invece, esso significava essenzialmente un trasferimento dalla casa del padre a quella dello sposo, passare dalla segregazione nella prima a quella nella seconda, dalla tutela di uno a quella dell’altro in ogni transazione giuridica. Nell’Egitto, che appariva a Erodoto e a Sofocle l’antitesi per eccellenza del mondo ellenico, erano invece le donne a uscire di casa per procurarsi il cibo, mentre gli uomini restavano in casa a tessere.
Ad Atene, la futura sposa si preparava al giorno delle nozze, offrendo ad Artemide i suoi giochi infantili e tagliando i capelli, segno del suo abbandono dell’adolescenza. Alla vigilia delle nozze i due futuri sposi si purificavano col rito del bagno al canto di imenei, che propiziavano la generazione di ottima prole, e il padre della sposa offriva un sacrificio a Zeus, Era, Artemide, Afrodite e Peitò. La cerimonia vera e propria, come itinerario della donna dalla casa del padre a quella dello sposo, confermava che la vera protagonista del rito di passaggio e del mutamento di stato era appunto la donna. L’inizio era costituito da un banchetto in casa del padre, ove un bimbo passava tra i commensali recando pane e pronunciando la frase: «Hanno fuggito il male; hanno trovato il meglio» (ἔϕυγον κακόν, εὖρον ἄμεινον, cfr. Demosth. De coron. XVIII 259). Il pane stava a significare la transizione da un regime selvatico a uno civilizzato. Al banchetto la ragazza assisteva velata e attorniata da amiche e solo alla fine forse mostrava il volto ai presenti. Dopo canti di imenei, libagioni e auguri, un corteo notturno illuminato da fiaccole accompagnava la ragazza, che su un carro giungeva alla casa dello sposo, dove entrava recando un vaglio da orzo, che prefigurava la sua nuova attività di preparazione del cibo. Presso il focolare della nuova casa essa riceveva l’offerta di dolci e fichi secchi, che sancivano la sua integrazione in essa. Successivamente i due sposi entravano nella camera nuziale, alla cui porta faceva la guardia un amico del marito, e consumavano il matrimonio. Nel suo stesso svolgimento spaziale la cerimonia nuziale appariva un transito da casa a casa, più che dallo spazio privato della casa a quello ampio e pubblico della città: con la sua mobilità, la ragazza consentiva l’istituzione di un legame tra due famiglie.
[…] la vicenda della concubina di Filoneo, dalla quale possiamo ricavare varie informazioni sulla condizione femminile. Nel delitto sono coinvolte due donne, una di condizione libera e moglie legittima di un mercante, […]
"Mi piace""Mi piace"