La “beffa” di Sfacteria

da P. de Souza, Atene e Sparta, trad. it. C. Cetorelli, Milano 2010, 37-42.

Nella primavera del 425 l’esercito del Peloponneso, guidato dal giovane re spartano Agide, invase di nuovo l’Attica. Durante l’estate, i Lacedemoni devastarono quanto più possibile del territorio nemico cercando, ancora una volta, di costringere gli Ateniesi a un confronto per terra. Nel frattempo, gli strateghi ateniesi Eurimedonte e Sofocle, che stavano trasferendo in Sicilia una quarantina di navi, facendo tappa a Corcira, fecero una deviazione nella zona di Pilo, sulla costa occidentale del Peloponneso, per testare uno schema escogitato dal generale Demostene, che stava viaggiando con loro. Il piano di Demostene era quello di trasformare Pilo in una base fortificata per gli esuli messeni provenienti da Naupatto, da usarsi come base per incursioni in territorio peloponnesiaco. Da Pilo, infatti, i fuoriusciti potevano facilmente penetrare in Messenia e, con la loro conoscenza del dialetto locale e della regione, potevano procurare guai agli Spartani direttamente a casa loro. Sembra che Demostene avesse avuto qualche difficoltà a convincere i due colleghi a portare avanti il suo piano, ma, alla fine, furono costruite alcune fortificazioni: Demostene fu lasciato lì con cinque navi, mentre il resto della flotta proseguì la rotta per Corcira.

Pilo e Sfacteria, da Storia del mondo antico, Cambridge University, IV [in Frediani 2005, 193].

Sulle prime i Lacedemoni non si sentirono particolarmente minacciati da questo avamposto ateniese nel loro territorio, ma quando re Agide e i suoi consiglieri seppero della sua esistenza, abbandonarono l’invasione dell’Attica e si precipitarono a Pilo, radunando forze per un attacco contro Demostene. Fu chiamata in aiuto la flotta peloponnesiaca che si stava dirigendo a Corcira. Anche Demostene chiese aiuto e la flotta ateniese girò intorno all’isola di Zacinto e tornò a Pilo.

Gli Spartani erano determinati a eliminare il nemico prima dell’arrivo dei rinforzi. Attaccarono per due giorni il presidio ateniese sia per mare sia per terra. Fecero sbarcare un piccolo gruppo di opliti sull’isola di Sfacteria al fine di accerchiare il forte nemico su ogni lato. Gli Spartani erano consapevoli del vantaggio che gli Ateniesi avevano su di loro negli scontri navali e sembrava avessero deciso che, occupando l’isola, avrebbero limitato l’accesso nemico alla baia retrostante e impedito loro di installare forze dietro la posizione da loro occupata. Demostene fece trascinare sulla spiaggia le poche navi che gli erano rimaste, le protesse con una palizzata e dislocò i suoi equipaggi come fanteria improvvisata. Lui e i suoi uomini tennero duro contro i continui attacchi avversari.

Gli sforzi dei Lacedemoni presero un andamento frenetico con Brasida, uno dei loro comandanti di triremi, il quale mise a rischio il proprio equipaggio e la propria vita facendo arenare la sua nave all’interno dell’area fortificata dagli Ateniesi e cercando di farsi strada via terra. Fu gravemente ferito e perse il suo scudo, ma il suo coraggio gli fruttò molti elogi. Il giorno seguente rientrò la flotta ateniese, composta ora da cinquanta navi, con l’aggiunta di quelle provenienti da Naupatto e quattro triremi alleate venute da Chio.

Peter Dennis, Pilo e Sfacteria (425 a.C.). Battaglia nel porto
La battaglia nella baia di Pilo. Illustrazione di P. Dennis.

Il carattere dell’intero conflitto venne a modificarsi una volta che gli Ateniesi ebbero a disposizione una grande forza navale. Riuscirono facilmente a far allontanare le quarantatré navi peloponnesiache dal promontorio di Pilo e dalle spiagge della baia, mettendone alcune fuori uso e catturandone altre. Il blocco del forte fu rimosso e gli Spartani dovettero accamparsi sulla terraferma, osservando impotenti gli Ateniesi navigare incontrastati intorno a Sfacteria. La situazione era cambiata e il risultato peggiore per i Peloponnesiaci fu che i loro 420 opliti e i loro attendenti iloti furono abbandonati sull’isola.

La Gherusia e gli Efori di Sparta inviarono immediatamente una delegazione per valutare la situazione. Le stime riferite dagli osservatori furono tutt’altro che ottimistiche: la posizione di Sfacteria era insostenibile. Gli uomini non potevano essere liberati senza che ciò procurasse perdite maggiori; d’altro canto, gli Ateniesi li avrebbero facilmente fiaccati con la fame oppure decimati, se avessero voluto. La delegazione si recò, quindi, al comando ateniese per negoziare una tregua, che avrebbe permesso loro di far arrivare approvvigionamenti ai propri uomini e di fermare gli attacchi. Come contropartita, offrirono ciò che rimaneva della flotta spartana, nonché tutte le triremi che possedevano in Laconia (per un totale di sessanta vascelli), e mandarono un’ambasceria ad Atene per considerare un reale trattato di pace.  Il negoziato avrebbe potuto mettere fine alla guerra, ma non portò a nulla. Gli inviati spartani erano pronti a fare grandi concessioni pur di recuperare i propri uomini, ma si rifiutarono di farlo davanti all’intera sessione dell’Ecclesia ateniese, che era ciò che invece gli Ateniesi chiedevano. Una dimostrazione pubblica di debolezza e umiltà era davvero troppo per gli orgogliosi Spartiati, le cui decisioni più importanti erano di solito prese da un ristretto gruppo di cittadini anziani in riunioni private. Dal lato ateniese, c’era un cospicuo numero di cittadini favorevoli ad accettare subito tali condizioni; ma, alla fine, ebbe la meglio la fazione bellicista di Cleone. Quando il demagogo accusò i delegati spartani di falsità, costoro rinunciarono ai loro propositi e se ne tornarono in patria.

Due opliti intenti a stringersi la destra e un terzo uomo. Rilievo funerario, marmo, c. 410-400 a.C. dalla Tomba di Sosia e Cefisodoro, Atene. Berlin, Antikenmuseen
Due opliti intenti a stringersi la destra e un terzo uomo. Rilievo funerario, marmo, c. 410-400 a.C. dalla Tomba di Sosia e Cefisodoro, Atene. Berlin, Antikenmuseen.

La tregua era finita e i Lacedemoni chiesero la restituzione delle proprie navi, ma gli Ateniesi non cedettero, lamentando che gli Spartani non avessero rispettato alcuni dettagli dell’accordo. In questo modo, furono in grado di mettere fine (per ora) all’attività navale spartana e aumentare la pressione sui guerrieri isolati a Sfacteria. Altre forze ateniesi arrivarono a Pilo: poi seguì una situazione di stallo. Le condizioni per gli Ateniesi non erano facili, in quanto, malgrado fossero padroni del mare, non avevano il controllo della zona costiera. Il loro forte sulla terraferma era ancora a rischio di attacco da parte peloponnesiaca e Demostene disponeva di meno di 1000 soldati per difenderlo. Gli Spartani offrivano ricompense in denaro a chiunque, a nuoto o a bordo di piccole barche, riuscisse ad aggirare le triremi ateniesi di pattuglia intorno all’isola e a portare cibo ai prigionieri. Un certo numero di pescatori iloti e messeni si offrì di occuparsi degli approvvigionamenti. Alla fine, gli Ateniesi cominciarono a sentire il peso di rifornire i propri uomini a così grande distanza e di non poter contare su porti sicuri.

Ad Atene si diede la colpa del problema a Cleone per la sua condotta arrogante nei negoziati con gli ambasciatori di Sparta. Ma lui cercò di sottrarsi alle accuse rimbalzandole al collegio degli strateghi: sosteneva che avrebbero dovuto sferrare un decisivo attacco all’isola, uccidendo o catturando i nemici che si trovavano lì. Lui lo avrebbe già fatto, se fosse stato uno stratega. Così, uno dei generali in carica, Nicia, lo sfidò: lo prese in parola e lo invitò ad arruolare le forze armate che avesse ritenuto necessarie per mostrare a tutti le proprie doti di grande stratega. I cittadini, riuniti in assemblea, approvarono con uno scroscio di applausi quella proposta e gridarono a Cleone di accettare la sfida. Il demagogo, insomma, si era incastrato da solo: la solita retorica strappa-applausi, solitamente efficace contro gli altri, gli si era ritorta contro. Ora gli toccava esaudire le aspettative del suo pubblico.

stratego. busto, copia romana di età adrianea da originale del 400 a.c. ca. museo pio clementino (musei vaticani)
Ritratto di stratego. Busto, copia romana di età adrianea da un originale greco del V secolo a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Gli andò bene: ottenne un esercito formato da opliti addestrati ed esperti, provenienti dalle colonie di Lemno e Imbro, e una numerosa fanteria leggera, sia peltasti sia arcieri. Prima di partire, comunque, promise pomposamente che avrebbe distrutto o catturato le forze lacedemoni in soli venti giorni.

L’affermazione di Cleone di poter risolvere la situazione in così breve tempo, provenendo da un individuo che mai prima di allora aveva guidato un esercito in guerra, fu probabilmente l’ennesimo segno di pura arroganza. In ogni caso, il demagogo aveva abbastanza contezza dei fatti da scegliersi come suo consulente principale lo stesso Demostene, l’energico comandante, il cui piano aveva dato inizio all’intera operazione. I due, messisi d’accordo sul da farsi, si presentarono con un approccio clamoroso dal punto di vista tattico. All’alba sbarcarono da entrambi i versanti dell’isola con 800 opliti, cogliendo completamente di sorpresa le sfinite sentinelle spartane. Una volta assicurate le spiagge, invasero l’isola con i Messeni provenienti dal forte di Pilo e in più con arcieri, peltasti e alcune migliaia di semplici rematori, armati di fionde e pietre. Tenendo gli opliti lontani da uno scontro diretto con le superiori truppe spartane e usando il resto delle forze per assalire il nemico, Demostene obbligò gli Spartani a battere in ritirata. Se avessero potuto ingaggiare scontri corpo a corpo con gli avversari, i Lacedemoni avrebbero potuto facilmente vincerli, ma le loro pesanti armature li rallentarono notevolmente nei movimenti. Erano inoltre una protezione insufficiente contro la pioggia di frecce, giavellotti e pietre lanciati da uomini senza corazza, i quali scappavano via facilmente prima di essere raggiunti dai lenti opliti. Il comandante spartano Epitada, colpito, fu riportato in un vecchio forte su una collina all’estremo nord dell’isola, dove i sopravvissuti, molti dei quali gravemente feriti, si prepararono a opporre resistenza. I Messeni, comunque, si arrampicarono sulla scogliera e sorpresero alle spalle gli Spartani, ormai completamente circondati e sopraffatti dal numero degli assalitori.

Peter Dennis, Battaglia di Sfacteria, 425. Gli Spartani al comando di Epitada cercano di resistere all'assalto di Demostene
Gli Spartani al comando di Epitada cercano di resistere all’assalto di Demostene. Illustrazione di P. Dennis.

Prima di uccidere tutti i Lacedemoni, Cleone e Demostene decisero di offrire loro una possibilità di arrendersi. Nel frattempo, Epitada era morto e il comandante in seconda era ferito troppo gravemente per muoversi, cosi il comandante in terza, Stifone, chiese il permesso di poter consultare i propri superiori sulla terraferma. Seguì un intenso scambio di messaggi attraverso la baia. Quando arrivarono gli ordini, i 292 Spartani sopravvissuti di Sfacteria rimasero sbigottiti: «I Lacedemoni vi ordinano di fare ciò che ritenete più opportuno nel vostro interesse, purché non agiate in modo disonorevole». Questo dispaccio del tutto inutile decretò la loro fine. Dopo una breve discussione, gli uomini deposero le armi e si arresero agli Ateniesi: 120 erano Spartiati. «Il fatto più inaspettato di tutta la guerra»: così Tucidide descrisse la resa spartana a Sfacteria. Fino ad allora era stato impensabile che dei Lacedemoni, anche se in gravi difficoltà, si arrendessero tanto facilmente; ci si sarebbe aspettato un combattimento a oltranza, fino alla morte, come aveva fatto re Leonida e i suoi Trecento alle Termopili, nel 480.

I fatti di Sfacteria inflissero un durissimo colpo al prestigio militare di Sparta, ma provocò un grande effetto sul morale degli Ateniesi. Le navi ricondussero ad Atene i prigionieri. Gli emissari spartani cercarono di negoziare il loro rilascio, ma i nemici chiedevano più di quanto essi potessero dare in cambio. Il valore strategico del piano di Demostene fu dimostrato dal fatto che Pilo divenne una spina nel fianco dei Peloponnesiaci; i Messeni, incoraggiati dal successo a cui avevano contribuito, cominciarono a compiere irruzioni nella campagna circostante e a liberare molti iloti. Quanto a Cleone, fu questo il momento di massimo trionfo nella carriera politica del demagogo, che sull’onda dell’entusiasmo generale fu rieletto per l’anno 424/3.

Uno scudo spartano tolto come trofeo di guerra nella battaglia di Pilo-Sfacteria. Lamina di bronzo, V secolo a.C. da Atene, Stoà di Attalo. A
Uno scudo spartano tolto come trofeo di guerra nella battaglia di Pilo-Sfacteria (425 a.C.). L’iscrizione (SEG X 325), incisa sulla superficie esterna, recita: Ἀθεναῖοι / ἀπὸ Λακεδ-/ αιμ[ον]ίον / ἐκ [Πύ]λο («Gli Ateniesi [presero questo scudo] ai Lacedemoni a Pilo»). Lamina di bronzo, V secolo a.C. da Atene, Stoà di Attalo. Atene, Museo dell’Agorà.

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Riferimenti bibliografici:

C.S. Bearzot, Il Cleone di Tucidide tra Archidamo e Pericle, in H. Herbert, T. Kurt (eds.), Ad Fontes! Festschrift Dobesch, Wien 2004, 125-135.

A. Frediani, Sfacteria, in Le grandi battaglie dell’antica Grecia, Roma 2005, 184-198.

D. Kagan, Pylos and Sphacteria, in The Archidamian War, Ithaka-London 1974 (= A New History of the Peloponnesian War, Ithaka-London 1987), 218-259.

M.H.B. Marshall, Cleon and Pericles: Sphacteria, G&R 31 (1984), 19-36.

J. Nash, Sea Power in the Peloponnesian War, NWCR 71 (2018), 119-139.

L.J. Samons, Thucydides’ Sources and the Spartan Plan at Pylos, Hesperia 75 (2006), 525-540.

R.B. Strassler, The Harbor at Pylos, 425 B.C., JHS 108 (1988), 198-203.

J. Wilson, T. Beardsworth, Pylos 425 B.C.: The Spartan Plan to Block the Entrances, CQ 20 (1970), 42-52.

I. Worthington, Aristophanes’ Knights and the Abortive Peace Proposals of 425 B.C., AntClass 56 (1987), 56-67.

G. Wylie, Demosthenes the General – Protagonist in a Greek Tragedy?, G&R 40 (1993), 20-30.

L’elogio di Berenice

P0394

Oἵα δ᾽ ἐν πινυταῖσι περικλειτὰ Βερενίκα
ἔπρεπε θηλυτέραις, ὄφελος μέγα γειναμένοισι.
τᾷ μὲν Κύπρον ἔχοισα Διώνας πότνια κούρα
κόλπον ἐς εὐώδη ῥαδινὰς ἐσεμάξατο χεῖρας.
τῷ οὔπω τινὰ φαντὶ ἁδεῖν τόσον ἀνδρὶ γυναικῶν,
ὅσσόν περ Πτολεμαῖος ἑὴν ἐφίλησεν ἄκοιτιν.
ἦ μὰν ἀντεφιλεῖτο πολὺ πλέον· ὧδέ κε παισὶ
θαρσήσας σφετέροισιν ἐπιτρέποι οἶκον ἅπαντα,
ὁππότε κεν φιλέων βαίνῃ λέχος ἐς φιλεούσης.
ἀστόργου δὲ γυναικὸς ἐπ᾽ ἀλλοτρίῳ νόος αἰεί,
ῥηίδιοι δὲ γοναί, τέκνα δ᾽ οὐ ποτεοικότα πατρί.
κάλλει ἀριστεύουσα θεάων πότν᾽ ᾿Αφροδίτα,
σοὶ τήνα μεμέλητο· σέθεν δ᾽ ἕνεκεν Βερενίκα
εὐειδὴς ᾿Αχέροντα πολύστονον οὐκ ἐπέρασεν,
ἀλλά μιν ἁρπάξασα, πάροιθ᾽ ἐπὶ νῆα κατελθεῖν
κυανέαν καὶ στυγνὸν ἀεὶ πορθμῆα καμόντων,
ἐς ναὸν κατέθηκας, ἑᾶς δ᾽ ἀπεδάσσαο τιμᾶς.
πᾶσιν δ᾽ ἤπιος ἥδε βροτοῖς μαλακοὺς μὲν ἔρωτας
προσπνείει, κούφας δὲ διδοῖ ποθέοντι μερίμνας.

E come spiccava l’inclita Berenice tra le sagge
donne, giovamento grande per i genitori!
A lei la veneranda figlia di Dione, signora di Cipro,
impresse le delicate mani sul seno profumato;
perciò, dicono, mai alcuna donna piacque tanto al marito
quanto Tolomeo amò la sua sposa.
Ma ne era riamato ancora di più; è così che un uomo
può con fiducia affidare la casa ai suoi figli,
quando innamorato entri nel letto di una donna innamorata.
Di una donna senza amore l’animo è volto sempre ad estranei;
ha facili i parti, e i figli non somigliano al padre.
A te, veneranda Afrodite che sei la più bella delle dee,
era molto cara; grazie a te, Berenice
bellissima non varcò l’Acheronte risonante di gemiti,
ma tu la rapisti prima che alla scura nave giungesse,
e al sempre odioso nocchiero dei morti,
e la ponesti nel tempio, dei tuoi privilegi la rendesti partecipe.
Benigna a tutti i mortali, ella ispira teneri
amori, all’amante allevia le pene.

Teocrito, Encomio di Tolomeo II Filadelfo vv. 34-52. Testo greco dell’edizione di R. J. Cholmeley, M.A. London. George Bell & Sons. 1901, traduzione di B. M. Palumbo Stracca

L’amore (1Cor. 13)

di Paolo di Tarso, 1 Corinzi, 13, in Lettere (a c. di G. Barbaglio, 2009).

Banchetto agapico-eucaristico. Affresco, dalle Catacombe di Callisto (Roma)
Banchetto agapico-eucaristico. Affresco, dalle Catacombe di Callisto (Roma)

Ἐὰν ταῖς γλώσσαις τῶν ἀνθρώπων λαλῶ καὶ τῶν ἀγγέλων, ἀγάπηνδὲ μὴ ἔχω, γέγονα χαλκὸς ἠχῶν ἢ κύμβαλον ἀλαλάζον.[2] κἂν ἔχω προφητείαν καὶ εἰδῶ τὰ μυστήρια πάντα καὶ πᾶσαν τὴν γνῶσιν, κἂν ἔχω πᾶσαν τὴν πίστιν ὥστε ὄρη μεθιστάνειν, ἀγάπην δὲ μὴ ἔχω, οὐθέν εἰμι. [3] κἂν ψωμίσω πάντα τὰ ὑπάρχοντά μου, κἂν παραδῶ τὸ σῶμά μου, ἵνα καυχήσωμαι, ἀγάπην δὲ μὴ ἔχω, οὐδὲν ὠφελοῦμαι. [4] Ἡ ἀγάπη μακροθυμεῖ, χρηστεύεται, ἡ ἀγάπη οὐ ζηλοῖ, οὐ περπερεύεται, οὐ φυσιοῦται, [5] οὐκ ἀσχημονεῖ, οὐ ζητεῖ τὰ ἑαυτῆς, οὐ παροξύνεται, οὐ λογίζεται τὸ κακόν, [6] οὐ χαίρει ἐπὶ τῇ ἀδικίᾳ, συνχαίρει δὲ τῇ ἀληθείᾳ· [7] πάντα στέγει, πάντα πιστεύει, πάντα ἐλπίζει, πάντα ὑπομένει. [8] Ἡ ἀγάπη οὐδέποτε πίπτει. εἴτε δὲ προφητεῖαι, καταργηθήσονται· εἴτε γλῶσσαι, παύσονται· εἴτε γνῶσις, καταργηθήσεται. [9] ἐκ μέρους γὰρ γινώσκομεν καὶ ἐκ μέρους προφητεύομεν· [10] ὅταν δὲ ἔλθῃ τὸ τέλειον, τὸ ἐκ μέρους καταργηθήσεται. [11] ὅτε ἤμην νήπιος, ἐλάλουν ὡς νήπιος, ἐφρόνουν ὡς νήπιος, ἐλογιζόμην ὡς νήπιος· ὅτε γέγονα ἀνήρ, κατήργηκα τὰ τοῦ νηπίου. [12] βλέπομεν γὰρ ἄρτι δι᾽ἐσόπτρου ἐν αἰνίγματι, τότε δὲ πρόσωπον πρὸς πρόσωπον· ἄρτι γινώσκω ἐκ μέρους, τότε δὲ ἐπιγνώσομαι καθὼς καὶ ἐπεγνώσθην. [13] νυνὶ δὲ μένει πίστις, ἐλπίς, ἀγάπη· τὰ τρία ταῦτα, μείζων δὲ τούτων ἡ ἀγάπη.

Se parlo le lingue degli uomini e degli angeli, ma non ho amore, sono bronzo echeggiante o cembalo risonante. Se ho profezia e conosco tutti i misteri e tutta la conoscenza e se ho tutta la fede così da trasportare i monti, ma non ho amore, sono un nulla. Se impegnassi tutti i miei averi per nutrire i bisognosi e se consegnassi il mio corpo perché io sa bruciato, ma non ho amore, a nulla mi giova. L’amore è longanime, è clemente l’amore, non è invidioso, l’amore non è borioso, non si gonfia d’orgoglio, non compie azioni vergognose, non ricerca il proprio interesse, non si lascia andare all’ira, non tiene conto del male, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della rettitudine. Tutto sostiene, in tutto ha fiducia, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non viene mai meno. Invece le profezie saranno abolite, le lingue cesseranno, la conoscenza sarà eliminata. Parzialmente, infatti, conosciamo e parzialmente profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello parziale sarà eliminato. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, ragionavo da bambino; fattomi uomo, smisi le consuetudini di bambino. Vediamo, infatti, ora mediante uno specchio in forma enigmatica, ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco solo parzialmente, ma allora conoscerò come anche sono stato conosciuto. Ora restano la fede, la speranza, l’amore, queste tre grandezze, ma la più grande è l’amore.

 

Euripide, Fr. 910 Nauck

ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας
ἔσχε μάθησιν
μήτε πολιτῶν ἐπὶ πημοσύνη
μήτ’εἰς ἀδίκους πράξεις ὁρμῶν,
ἀλλ’ἀθανάτου καθορῶν φύσεως
κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη
καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως,
τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’αἰσχρῶν
ἔργων μελέδημα προσίζει.

Felice l’uomo che possiede la conoscenza che
deriva dalla historía, e non si propone di
danneggiare i concittadini né di compiere
azioni ingiuste,
ma contempla l’ordine che
non invecchia della natura immortale,
come e perché si sia costituito.
A uomini del genere non si accosta mai
il pensiero di azioni vergognose.