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Ἔρος αὖτέ με κυανέοισιν ὑπὸ βλεφάροις τακέρ’ ὄμμασι δερκόμενος κηλήμασι παντοδαποῖς ἐς ἄπει- ρ‹ον›α δίκτυα Κύπριδος ‹ἐσ›βάλλει· ἦ μὰν τρομέω νιν ἐπερχόμενον, ὥστε φερέζυγος ἵππος ἀεθλοφόρος ποτὶ γήραι ἀέκων σὺν ὄχεσφι θοοῖς ἐς ἅμιλ- λαν ἔβα. |
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“Amore, un’altra volta, di sotto le sue palpebre azzurrine, va fissandomi con sguardo seducente, e con ogni sorta d’inganni mi getta nelle reti insolubili di Cipride; e io davvero ho un tremito al suo assalto, tal quale cavallo da giogo, campione, giunto a vecchiaia, che malvolentieri col cocchio veloce s’accosta alla sfida”.

Una metafora venatoria (Eros che getta il poeta nelle reti inestricabili di Cipride) e una similitudine agonale (come un vecchio cavallo carico di premi, egli è riluttante a scendere di nuovo in lizza: cfr. Sᴏᴘʜ. 𝐸𝑙. 25-28, Eᴜʀɪᴘ. 𝐻𝐹. 119-123, Eɴɴ. 𝐴𝑛𝑛. 522-523 Skutsch = 374 Vahlen², 𝑠𝑖𝑐𝑢𝑡𝑖 𝑓𝑜𝑟𝑡𝑖𝑠 𝑒𝑞𝑢𝑜𝑠 𝑠𝑝𝑎𝑡𝑖𝑜 𝑞𝑢𝑖 𝑠𝑎𝑒𝑝𝑒 𝑠𝑢𝑝𝑟𝑒𝑚𝑜 / 𝑢𝑖𝑐𝑖𝑡 𝑂𝑙𝑦𝑚𝑝𝑖𝑎 𝑛𝑢𝑛𝑐 𝑠𝑒𝑛𝑖𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑓𝑒𝑐𝑡𝑢𝑠 𝑞𝑢𝑖𝑒𝑠𝑐𝑖𝑡; Hᴏʀ. 𝐸𝑝. I 1, 8-9, Tɪʙ. I 4, 31-32) costituiscono, attraverso la dichiarazione del v. 5 («davvero ho un tremito al suo assalto»), un brano dove troviamo tratti già osservabili nel fr. 286: la tendenza a sigillare quadri complessi con la collocazione del verbo alla chiusa di ampi periodi sintattici (‹ἐσ›βάλλει; ἔβα); un’efflorescenza barocca di qualificazioni aggettivali o avverbiali; un’esperienza dell’eros come forza oscura e incontrollabile (cfr. ἀέκων), qui di tipo specificamente incantatorio (κηλήμασι). D’altra parte, mentre nel fr. 286 l’amore si propone come perennemente insonne, in contrasto con i cicli stagionali del mondo naturale, qui lo stesso Eros appare riassorbito in quel ritmo della ricorrenza (αὖτέ) che la lirica arcaica istituzionalmente gli attribuisce: di qui un timbro meno ansioso e un tracciato espressivo più fermo e controllato.
«È giocoforza, a quanto pare, obbedire. Per quanto, mi sembra di subire la stessa sorte del cavallo ibiceo, al quale – atleta ormai vecchio, sul punto di scendere in gara con il carro e trepidante, per esperienza, di fronte al futuro – quegli paragonava se stesso, dicendo che malvolentieri, anche lui, ormai così vecchio, era costretto ad accostarsi all’amore; e anch’io, che ben mi ricordo, provo un grande timore, se penso a come dovrò, all’età mia, attraversare una tale e tanto estesa moltitudine di parole» (Ἀνάγκη, φάναι, πείθεσθαι. καίτοι δοκῶ μοι τὸ τοῦ Ἰβυκείου ἵππου πεπονθέναι, ᾧ ἐκεῖνος ἀθλητῇ ὄντι καὶ πρεσβυτέρῳ, ὑφ’ ἅρματι μέλλοντι ἀγωνιεῖσθαι καὶ δι’ ἐμπειρίαν τρέμοντι τὸ μέλλον, ἑαυτὸν ἀπεικάζων ἄκων ἔφη καὶ αὐτὸς οὕτω πρεσβύτης ὢν εἰς τὸν ἔρωτα ἀναγκάζεσθαι ἰέναι· κἀγώ μοι δοκῶ μεμνημένος μάλα φοβεῖσθαι πῶς χρὴ τηλικόνδε ὄντα διανεῦσαι τοιοῦτόν τε καὶ τοσοῦτον πέλαγος λόγων). Così nell’omonimo dialogo platonico (136f-137a), il grande Parmenide – già tutto canuto (ἤδη πρεσβύτην 127b), insistentemente pregato da Socrate e da Zenone di esporre le proprie teorie – accostava la sfida filosofica al senile agone amoroso e alle tremebonde sfide curuli di un vecchio corsiero, aggiungendo così un termine a un disincantato paragone già formulato da Ibico – sedotto da un πάις καλός e costretto controvoglia all’erotico arengo – in sette 𝑐𝑜𝑙𝑎 di ritmo dattilico e anapestico, forse l’inizio di una monodia simposiale, che sia gli scoliasti platonici sia Proclo (𝑎𝑑 𝑃𝑙𝑎𝑡. 𝑃𝑎𝑟𝑚. 𝑙𝑜𝑐. 𝑐𝑖𝑡.) citano in margine al passo del 𝑃𝑎𝑟𝑚𝑒𝑛𝑖𝑑𝑒.
Topico nella lirica – da Alcmane (𝑃𝑀𝐺𝐹 59a) a Saffo (fr. 130 V.), sino ad Anacreonte (𝑃𝑀𝐺 358, 1-4) e a Orazio (𝐶𝑎𝑟𝑚. IV 1, 1-2) – è il ricorrente assalto di Eros (v. 1 Ἔρος αὖτέ), così come l’associazione di amore e vecchiaia (cfr. Mɪᴍɴ. fr. 1 W.², Sᴀᴘᴘʜ. fr. 58, 13-17 V., Aɴᴀᴄʀ. 𝑃𝑀𝐺 358 e 417). E topici sono anche i 𝑝𝑎𝑡𝑡𝑒𝑟𝑛𝑠 espressivi cui Ibico affida la propria musica simposiale, dalle «palpebre azzurrine» (vv. 1-2 κυανέοισιν ὑπὸ / βλεφάροις), che ricordano quelle delle Ninfe κυανώπιδες associate a Eros e ad Afrodite nel corteggio di Dioniso in Anacreonte (𝑃𝑀𝐺 357, 2; ma la 𝑖𝑢𝑛𝑐𝑡𝑢𝑟𝑎 è già epica, sin da 𝐼𝑙. I 528), al «fissare» con sguardo seducente e languido, che richiama quello di Astimeloisa in Alcmane (𝑃𝑀𝐺𝐹 3, 61-62) e soprattutto lo stesso Eros ancora in Anacreonte (𝑃𝑀𝐺 459), quasi che fossero proprio queste le parole d’ordine dei sensuali simposi alla corte di Policrate. E come l’Afrodite saffica (fr. 1, 2 V. δολόπλοκε: cfr. pure Sɪᴍᴏɴ. 𝑃𝑀𝐺 541, 9-10) e questa stessa Cipride (v. 4), anche Eros è cacciatore se, «con ogni sorta d’inganni» (v. 3 κηλήμασι παντοδαποῖς: cfr., per es., 𝐼𝑙. III 202, ma κήλημα è leggera variazione, che piacerà a Eᴜʀɪᴘ. 𝑇𝑟. 893, detto della malìa di Elena, dell’odissiaco κηληθμός, per cui cfr. XI 334 = XIII 2), «getta nelle reti insolubili di Cipride» (espressione memore di 𝑂𝑑. VIII 340 e a sua volta ripresa, per es., da Aᴇsᴄʜ. 𝐴𝑔. 1382, per la «rete» omicida di Clitemnestra).
L’assalto provoca il tremore (v. 5), di cui si ricorderà il Parmenide platonico, e innesca la metafora ippica: l’io parlante si rassegna «malvolentieri» (v. 7 ἀέκων) alla sfida (ἐς ἅμιλ-/λαν), come un corsiero che porta il giogo del suo «cocchio veloce» (σὺν ὄχεσφι θοοῖς), «campione» (ἀεθλοφόρος: cfr. 𝐼𝑙. IX 123-124, Aʟᴄᴍ. 𝑃𝑀𝐺𝐹 1, 47-48) ormai a fine carriera (vv. 6-7: tutto il contesto dipende da 𝐼𝑙. XXII 22 ἵππος ἀεθλοφόρος σὺν ὄχεσφιν).
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Bibliografia:
F. Fᴇʀʀᴀʀɪ, 𝐿𝑎 𝑝𝑜𝑟𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑖 𝑐𝑎𝑛𝑡𝑖. 𝑆𝑡𝑜𝑟𝑖𝑎 𝑒 𝑎𝑛𝑡𝑜𝑙𝑜𝑔𝑖𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑙𝑖𝑟𝑖𝑐𝑎 𝑔𝑟𝑒𝑐𝑎, Bologna 2005, 309-310.
C. Nᴇʀɪ, 𝐿𝑖𝑟𝑖𝑐𝑖 𝑔𝑟𝑒𝑐𝑖. 𝐸𝑡𝑎̀ 𝑎𝑟𝑐𝑎𝑖𝑐𝑎 𝑒 𝑐𝑙𝑎𝑠𝑠𝑖𝑐𝑎, Roma 2011, 112, 291-292.