di M. Marconi, Culto della dea nel mondo ellenistico, in Enciclopedia delle religioni (a cura di M. Eliade), vol. XI – Religioni del Mediterraneo e del Vicino Oriente antico, 2002.
Il termine ellenistico indica non tanto una cultura, quanto piuttosto un’epoca. Non si può utilizzare, infatti, un unico termine per descrivere nella sua totalità uno sviluppo storico così complesso, e ancor meno per comprendere l’esperienza religiosa di quel tempo, poiché ogni forma religiosa, per sua stessa natura, va ben oltre i confini di una rigida classificazione. In verità, ancora prima dell’epoca ellenistica, concezione di carattere religioso avevano già cominciato a circolare in quella grande koiné che caratterizzava la civiltà che si estendeva dal fiume Indo fino alla penisola iberica; e fu proprio sulle sponde del Mediterraneo che questa civiltà raggiunse il suo massimo splendore. Così alcuni culti cosiddetti “stranieri” non vennero avvertiti come estranei, ma, al contrario, furono invece accolti da un significativo numero di seguaci: basta pensare a quanto fossero ampiamente diffusi il culto di Cibele e quello di Iside. Questi fatti giustificano anche il motivo per cui fu possibile che Tyche, un nome caro al pensiero filosofico, in origine indicasse una dea del lontanissimo pantheon degli Egei.

Il mito di Tyche è piuttosto povero di elementi; ne veniamo a conoscenza non tanto attraverso testi scritti, ma piuttosto grazie al nome stesso che significa “fato”, “destino”. In Esiodo (Teogonia, 346 ss.), Tyche viene presentata come figlia di Teti e di Oceano: si tratta pertanto di una delle Oceanine, le antichissime figlie (πρεσβύταται κουραί) di quella lontana coppia di divinità. La prima di queste figlie esercitava il suo potere sull’acqua del mare, mentre la seconda su quella dei fiumi. Pindaro (Olimpica 12) ci illumina sulla questione: Τύχη Σώτειρα (“Tyche, la Salvatrice”), che, al tempo di Pindaro, era stata trasformata in una figlia di Zeus, fu chiamata a difendere la città siciliana di Imera. Era lei che vegliava sul destino delle navi, delle battaglie e delle riunioni dei cittadini. Non si può forse intravedere in questa figura una riproduzione di Atena Poliade? In realtà si credeva che il destino della πόλις dovesse necessariamente subire un’evoluzione, che poteva essere tanto verso un futuro prospero, quanto verso un terribile declino e si attribuiva tale evoluzione a Tyche, la dea degli eventi: in questo senso, dunque, Tyche si dimostrò un’efficiente protettrice della città per gli abitanti di Imera.

Secondo il poeta che viene richiamato da Pausania (VII, 26, 8), Tyche non è semplicemente una delle Moire, ma, al contrario, è di esse la più potente: per questo motivo era venerata con l’appellativo di “potnia” (“regina”); in altri termini: una grande dea. Nell’opera omerica, la Moira assumeva un ruolo ancora più importante di quello di Zeus stesso. Tracce di un culto in suo onore sono ravvisabili nelle statue ritrovate in diversi santuari greci; secondo le descrizioni lasciateci da Pausania, a volte la divinità regge il cosiddetto corno di Amaltea (IV, 30, 6; VII, 26, 8), che simboleggia l’abbondanza, mentre in altre occasioni porta in braccio il piccolo Pluto, che rappresenta una garanzia di ricchezza. Pausania osservava (IX, 16, 2) che «ella sembra quasi la sua balia da latte»: simili immagini diffondono grazia, proprio come suggerisce l’epiteto ἀγαθή (“buona”) che, diceva sempre Pausania (V, 15, 6), richiama alla mente anche l’idea della grazia e rivela la dea nella maniera più adeguata e la riscatta da quella oscura ambiguità che rimane implicitamente sottintesa, in modo tanto evidente, nel significato del suo nome.
Sempre secondo la testimonianza di Pausania (IX, 39, 5), a Lebadea in Beozia, nei pressi del sito oracolare (μαντεῖον) di Trofonio, si trova un luogo che è dedicato contemporaneamente a Τύχη Ἀγαθή e a un demone non meglio precisato, che si potrebbe presentare quale controparte maschile della sorte. Anche costui è qualificato con l’attributo di Ἀγαθός. Ma queste due figure possono essere considerate una coppia astratta solamente in apparenza, dal momento che in realtà erano esseri estremamente concreti, connotati da una magia positiva che difendeva e proteggeva dal male. È inoltre importante sottolineare che in quel luogo chiunque volesse consultare Trofonio veniva trattenuto affinché si preparasse. Risulta altrettanto significativo il fatto che a Tebe, secondo Pausania (IX, 16, 2), il santuario (ἱερόν) dedicato a Tyche si trovava accanto a quello di Tiresia: ancora una volta la divinità del destino era posta vicino a un oracolo capace di predire gli eventi.

A Roma, la dea Fortuna sembrava particolarmente adatta per incarnare la traduzione del nome Tyche: infatti, la si considerava figlia di Giove, proprio come Tyche era stata fatta discendere da Zeus. Inoltre la dea Fortuna, implicitamente, portava con sé tutte quelle importanti analogie formali che, nel corso del tempo, avrebbero poi permesso la nascita di una forma di sincretismo religioso. Anche Fortuna era legata a una realtà arcaica mitica e rituale, che in origine aveva il suo centro a Praeneste (l’attuale Palestrina), dov’era venerata non soltanto con gli attributi di una dea materna (sono state trovate numerose statue di terracotta raffiguranti figure femminili che allattano neonati), ma anche con quelli di una dea della profezia, funzione questa che rispondeva alla sua naturale vocazione. Il culto che le veniva tributato a Praeneste contemplava tre diverse cerimonie che avevano luogo ad aprile, mentre a Roma, alle calende dello stesso mese, durante le celebrazioni dei Veneralia, le donne ricordavano anche il culto della Fortuna Virile, che in seguito venne confusa con Venere Verticordia. L’epiteto Virilis, inoltre, è uno dei molti ricordati da Plutarco quando, appunto, descriveva il culto di Tyche (Quaestiones Romanae, 74).
Tyche e Fortuna subirono un graduale impoverimento tanto nel mito quanto nel rito, proprio perché i loro stessi nomi le facevano apparire quali divinità legate agli eventi e pertanto manifestavano in questo modo il loro innegabile potere di agire su una realtà che è di per se stessa fugace e precaria. Non sorprende, quindi, che il pensiero filosofico si sia appropriato del nome di Tyche (così come quello di Fortuna), e che lo abbia separato dal suo contesto religioso per farle rappresentare solamente quella dimensione di inevitabilità del destino che gravita intorno all’umanità: in fondo, non l’aveva già previsto re Edipo, quando (1080 ss.) definì se stesso un figlio della Tyche?
Nuovi atteggiamenti religiosi si diffusero anche in Grecia, dove apparvero divinità che, pur non essendo di origine greca, tuttavia non erano così straniere come a prima vista si potrebbe pensare. La talassocrazia minoica aveva inaugurato nuove rotte marine che collegavano Creta all’Egitto fin dalla lontana preistoria; i Micenei avevano viaggiato lungo queste rotte e le avevano migliorate, tanto da renderle anche delle vie che consentissero il passaggio di elementi culturali.

In questo modo si cominciò a delineare una vera e propria koiné mediterranea, di cui possediamo una buona documentazione grazie sia ai ritrovamenti archeologici che alla decifrazione della Lineare B. Tale koiné era ancora in piena attività in epoca storica: Erodoto (II, 155 s.), più o meno consapevolmente, ce lo ha dimostrato nel momento in cui ha tracciato i contorni di quell’interpretatio Graeca delle divinità degli Egizi secondo la quale il dio Horus sarebbe stato il corrispettivo del greco Apollo, Iside di Demetra, Bubastis di Artemide. Per Leto, la dea dell’oracolo di Buto, situato nel delta del Nilo, Erodoto non trovò nessuna corrispondenza, o, forse meglio, non la cercò affatto. Questo fatto piuttosto insolito venne spiegato da Uberto Pestalozza (in uno studio dedicato a Leto e successivamente inserito nel volume Pagine di religione mediterranea, Milano 1942) nella maniera seguente: Leto era la divinità più antica e più importante, che esprimeva i suoi giudizi ricorrendo al suo potere oracolare; «di conseguenza, sia il suo nome che il suo culto furono ereditati intatti dall’Egitto dinastico… e in Egitto Leto fu sempre Leto, dall’età mediterranea fino a quella ellenistica e romana». Alla luce di una tale esperienza religiosa non può risultare del tutto nuova o inattesa quell’altra forma di koiné che si diffuse durante l’epoca ellenistica e che esercitò una così grande influenza storica e culturale e che in un primo momento interessò la sola Grecia e, in seguito, riguardò tanto la Grecia quanto Roma. Quando si esamina il significato culturale di questo fenomeno, si richiama spesso il fatto che esso comportò un passaggio da Oriente a Occidente; ma forse non si è prestata un’attenzione adeguata a quel movimento che si registrò invece in direzione opposta, e che portò la lingua greca, e con essa anche la cultura greca, in Egitto e in Persia e addirittura fino ai confini dell’India.
Bisogna inoltre pensare che probabilmente l’istituzione e la diffusione di quei culti misterici, che non erano propriamente di origine greca, siano attribuibili a una sorta di disagio interiore, che risultava tanto evidente durante l’epoca ellenistica. Tali culti misterici ruotavano intorno al dramma della morte, sofferta e infine vinta, della divinità e per questo incoraggiavano i fedeli a sperare nell’esistenza di qualche cosa dopo la morte. I Greci si erano già trovati a stretto contatto con i drammi esistenziali di due grandi divinità di origine cretese. In primo luogo con le vicende della dea duali, ovvero della madre e della figlia (Demetra e Kore), le quali fecero la loro esperienza attraverso l’evento del matrimonio, che va interpretato come la morte della κόρη (“vergine”), che rivive infine come νύμφη (“moglie”) nell’aldilà accanto ad Ade. In secondo luogo con il dramma del dio Dioniso, che da bambino sopportò un pericolo pari a quello della morte. Nella religione greca, inoltre, si potevano trovare alcune altre figure cretesi minori: per esempio quella di Croco, il giovane che, secondo il mito, fu incidentalmente ucciso da Hermes proprio come Giacinto lo fu da Apollo: dal sangue degli eroi defunti nacquero le piante bulbose che, molto prima che si iniziasse ala coltivazione del grano, potevano già evocare l’idea di una resurrezione annuale. Anche i Greci, perciò, conservavano il ricordo di antichi racconti mitici grondanti di lacrime e sangue, ed è pertanto storicamente fuorviante credere, secondo quanto afferma lo stesso Omero a proposito degli abitanti dell’Olimpo, che la religione sia caratterizzata da divinità perfettamente «felici e immortali»; questa presentazione offertaci da Omero, peraltro, non risulta veritiera neppure nell’ambito della sua stessa opera, come ben dimostra già il libro I dell’Iliade.

Storie sacre come quelle appena ricordate avevano peraltro l’umanità di accettare culti provenienti da paesi lontani, che traessero la loro origine da eventi di cui fossero protagoniste figure divine, ma nient’affatto privi di sangue e di lacrime. Così avvenne a proposito del mito di Iside e di Osiride, che, dopo aver lasciato la sua terra natia (l’Egitto), si mosse in direzione dell’Asia Minore, raggiunse la Grecia (il punto di arrivo fu Corinto) e in seguito l’Italia e, nel I secolo a.C., fu introdotto anche a Roma. Il mito, che faceva di fratello e sorella una coppia di sposi non turbava minimamente la sensibilità religiosa dei Greci, i quali, pur avendo condannato da ormai molto tempo i matrimoni consanguinei all’interno della loro società, tuttavia continuavano a venerare Zeus ed Hera, entrambi figli di Crono e di Rea, come la coppia di sposi par excellence.
Era questo il motivo da cui traeva ispirazione la tragedia di Eschilo, il poeta che, secondo Mario Untersteiner (in Le origini della tragedia e del tragico, dalla preistoria ad Eschilo, Torino 1955), «scopre e canta la natura contraddittoria della realtà». Probabilmente anche il modo in cui Osiride affrontava la morte non doveva turbare affatto la sensibilità religiosa dei Greci: al contrario, si riconosceva qualche cosa di prodigioso nella capacità dimostrata dal dio di fecondare la propria sposa, Iside, che giaceva prona su di lui. Ma di che cosa erano capaci gli dèi? Horus, nato da questa unione, divenne il vendicatore del padre. L’immagine di Iside che tiene in braccio il bambino Horus rende la dea immediatamente familiare e questa iconografia più recente la libera dalla sua originaria severità ieratica.
In modo analogo a quanto avvenne con Tyche, anche ad Iside venne attribuito il corno dell’abbondanza. Veniva chiamata Isityche: un appellativo che lasciava trasparire il potere da lei detenuto nella sua terra natia, per esempio a File, dove prometteva ai suoi fedeli che avrebbe prolungato loro la vita. Da questo punto di vista, dunque, appariva molto più potente di quanto non fossero le divinità greche o romane, fatto questo che non bisognerebbe trascurare quando si considera il prestigio di cui godette nel mondo in cui era immigrata. Tuttavia fu proprio in questo ampio mondo della sua diffusione – fatta eccezione per il periodo in cui si svolgevano le due principali solennità in suo onore: il Navigium Isidis, in primavera, quando si tributavano onori a Iside come esperta di navigazione (non viene forse in mente Atena?), e la Inventio Osiridis, in autunno, quando invece si ricordava la dea totalmente coinvolta dalle vicissitudini del dio Osiride – ; fu proprio in questo mondo della sua diffusione che il culto egizio introdusse un’importante novità, costituita da una forma di culto che doveva essere svolta quotidianamente dai suoi sacerdoti, i quali erano tenuti a ripetere tutta una serie di gesti e di litanie nel corso dell’intera giornata, dal mattino fino al tramonto. Questo esempio è unico e non paragonabile nemmeno all’assiduo servizio religioso prestato dalle Vestali: la religione greca e quella romana si caratterizzavano entrambe proprio per il fatto di non essere scandite da una serie di giorni festivi periodici, e non da azioni di devozione regolari e compiute quotidianamente.
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Un articolo bellissimo, spettacolari anche le immagini! Per favore, dividilo in paragrafi la prossima volta, perchè è “pesante” leggere sul pc un testo così compatto.
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Interessante, soprattutto( per me) le statuette della Fortuna ( ne vorrei un pizzico)
Felice sera
Senty
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