Il discorso di Pericle (Thuc. II, 34,8 – 42,1)

di TUCIDIDE, Le Storie, vol. 1, a cura di G. DONINI, Torino 2005, pp. 330-342.

Pericle pronuncia l'epitaffio. Illustrazione di Y. Lee.
Pericle pronuncia l’epitaffio. Illustrazione di Y. Lee.

[8] Per questi primi caduti, dunque, a pronunciare il discorso fu scelto Pericle, figlio di Santippo. E non appena fu il momento giusto, venne avanti dal sepolcro e salì su una tribuna che era stata costruita alta, affinché potesse essere udito dalla folla il più lontano possibile, e parlò in questo modo:
[35,1] «La maggior parte di quanti hanno già parlato qui loda chi, per usanza, ha aggiunto questo discorso, dicendo che è bello che esso venga pronunciato in onore dei sepolti che sono caduti in guerra. Ma a me sarebbe sembrato sufficiente che per uomini che si dimostrarono valorosi nei fatti, gli onori fossero anche manifestati con i fatti, come vedete proprio ora nel caso di questa sepoltura preparata a spese pubbliche; e avrei preferito che il credere nelle virtù di molti uomini non corresse rischi in relazione alla capacità di parlar bene o male. [2] È difficile, infatti, parlare in modo adatto in una situazione in cui si riesce a malapena a dare un fondamento perfino all’opinione che sia stata detta la verità. Infatti, l’ascoltatore che conosce gli avvenimenti per propria esperienza ed è ben disposto verso i caduti potrebbe forse pensare che qualche aspetto sia illustrato in modo alquanto inadeguato in confronto ai suoi desideri e alla sua conoscenza, mentre chi non ne ha esperienza, se dovesse udire cose che siano al di sopra delle sue capacità, potrebbe credere per invidia che vi siano delle esagerazioni. Fino a questo punto sono tollerabili le lodi degli altri: fino, cioè, al punto in cui ciascuno crede di essere anche lui capace di far qualcosa di ciò che ha sentito narrare: ma per ciò che supera le loro possibilità gli uomini nutrono subito invidia e non vi credono. [3] Ma poiché dagli antichi è stato riconosciuto che la cerimonia svolta in questo modo andava bene, devo anch’io seguire l’usanza e cercare di soddisfare il più possibile il desiderio e l’opinione di ciascuno di voi.
[36,1] Comincerò parlando prima di tutto dei nostri antenati: è giusto, infatti, e nello stesso tempo appropriato in un’occasione come questa che sia dato loro l’onore di questo ricordo. Vivendo nella nostra terra, sempre gli stessi abitanti, nel susseguirsi delle generazioni, l’hanno tramandata libera fino ad oggi grazie al loro valore. [2] Essi sono degni di lode, e ancor più lo sono i nostri padri: infatti, dopo aver conquistato, non senza fatica, tutto il dominio che possediamo, aggiungendolo a quanto avevano ereditato, hanno lasciato anche questo a noi, la generazione d’oggi. [3] Ma la potenza di questo , nella maggior parte dei suoi elementi l’abbiamo accresciuta noi stessi, che oggi siamo ancora più o meno nell’età di mezzo, e abbiamo reso la città sotto tutti gli aspetti sufficiente a se stessa al massimo grado, sia per la guerra sia per la pace. [4] Tralascerò – poiché non voglio dilungarmi davanti a voi che conoscete queste cose – di parlare delle gesta compiute da uomini durante le guerre, gesta grazie alle quali avvenne ogni conquista, o con le quali noi o i nostri padri respingemmo con ardore il nemico – barbaro o greco – che ci attaccava: ma sulla base di quali principi raggiungemmo questa potenza, e con quale sistema di governo e grazie a quali caratteristiche di vita tale potenza divenne grande, questo mostrerò per prima cosa, e poi passerò anche all’elogio di questi uomini. Credo che nell’occasione attuale non sia sconveniente che si dicano queste cose, e che sia utile che tutta la folla dei cittadini e degli stranieri le ascolti.
[37,1] Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini; ma siamo noi stessi un modello piuttosto che gli imitatori degli altri. E quanto al nome, per il fatto che non si amministra la comunità nell’interesse di pochi, ma di una maggioranza, si chiama “democrazia”: secondo le leggi vi è per tutti l’eguaglianza per ciò che riguarda gli interessi privati; e quanto alla considerazione di cui si gode, ciascuno è preferito per le cariche pubbliche a seconda del campo nel quale si distingue, e non per la classe da cui proviene più che per il merito; d’altra parte, quanto alla povertà, se uno è in grado di far del bene alla città, non è impedito dall’oscurità della sua posizione sociale. [2] Noi esercitiamo la nostra vita di cittadini liberamente, sia nei rapporti con la comunità, sia per ciò che riguarda i sospetti reciproci nelle attività di tutti i giorni: non siamo adirati col nostro vicino se fa qualcosa secondo il suo piacere, né infliggiamo molestie che, pur non facendo del male, sono tuttavia fastidiose alla vista. [3] Mentre ci regoliamo nei nostri rapporti privati senza offendere, nella vita pubblica non ci comportiamo in modo illecito, soprattutto a causa del rispetto, perché diamo ascolto a coloro che di volta in volta sono in carica e alle leggi, specialmente quelle che sono stabilite per aiutare le vittime di ingiustizia e quelle che, senza essere scritte, portano a chi le viola una vergogna comunemente riconosciuta.
[38,1] Inoltre, ci siamo procurati il più gran numero di svaghi per la mente come sollievo dalle fatiche, celebrando giochi e feste per tutto l’anno, e con belle case private, il cui godimento quotidiano scaccia la tristezza. [2] E per la grandezza della città tutti i prodotti di tutta la terra sono importati, e succede che godiamo i beni prodotti da noi come se non ci appartenessero più di quelli che ci giungono dagli altri popoli.
[39,1] Anche nei metodi di preparazione all’attività militare siamo diversi dai nostri avversari, e cioè sotto questi aspetti: presentiamo la città aperta a tutti, e non succede mai che con le espulsioni di stranieri noi impediamo a qualcuno di conoscere o di vedere qualche cosa, da cui un nemico potrebbe trarre vantaggio vedendola, se non fosse nascosta: non abbiamo maggior fiducia nelle misure preventive e negli inganni che nel coraggio che proviene da noi stessi e che mostriamo al momento di passare all’azione. E quanto ai sistemi educativi, mentre loro subito, fin da fanciulli, con esercizi faticosi cercano di temprare il coraggio, noi, anche se viviamo liberi da costrizioni, non meno coraggiosamente affrontiamo pericoli eguali. [2] Eccone una prova: i Lacedemoni non marciano contro la nostra terra solo con le proprie forze, ma con tutte quelle di cui dispongono; mentre noi, quando invadiamo il territorio dei nostri vicini, affrontiamo in battaglia in una terra straniera uomini che combattono per difendere i propri beni, e nella maggior parte dei casi li vinciamo senza difficoltà. [3] Nessun nemico finora ha incontrato le nostre forze tutte unite, per il fatto che contemporaneamente ci occupiamo della flotta e inviamo i nostri uomini per via di terra da molte parti: e se i nemici si scontrano con qualche distaccamento delle nostre armate, quando riportano la vittoria su alcuni di noi si vantano di averci sbaragliati tutti, e quando vengono sconfitti dicono di essere stati vinti da tutti. [4] E dunque se siamo disposti ad affrontare i pericoli con serenità d’animo piuttosto che con la fatica delle esercitazioni, e non tanto con le regole del coraggio quanto con i modi di vita che lo ispirano, abbiamo il vantaggio di non soffrire prima del tempo in vista delle fatiche e, quando le affrontiamo, di non mostrarci meno coraggiosi di quelli che faticano continuamente; e la nostra città è degna di essere ammirata non solo per queste cose, ma per altre ancora.
[40,1] Amiamo il bello senza esagerazione e la cultura senza mollezza. Utilizziamo la ricchezza più come un mezzo per agire che per vantarcene a parole; e per chi è povero non è vergognoso ammettere la sua povertà, ma piuttosto è vergognoso non riuscire a evitarla di fatto. [2] Vi è nelle stesse persone la cura dedicata agli affari privati insieme a quella per gli affari della città; e anche se ciascuno si dedica ad attività diverse, vi è la caratteristica di formulare giudizi sugli affari pubblici in modo non inadeguato: noi, infatti, siamo i soli a considerare un cittadino che non prende parte agli affari pubblici, più che inattivo, inutile; e noi stessi almeno esprimiamo un giudizio, o riflettiamo correttamente, sulle varie questioni, senza considerare le parole dannose all’azione, ma considerando piuttosto un danno il non essere informati con le parole prima di procedere con l’azione a ciò che è necessario compiere. [3] Infatti, a differenza degli altri, abbiamo questo pregio: mostriamo un grandissimo ardimento e contemporaneamente riflettiamo su ciò che stiamo per intraprendere; per gli altri invece è l’ignoranza che dà il coraggio, mentre la riflessione causa timore. Ma è giusto che vengano considerati più forti di tutti nello spirito quelli che, pur conoscendo più chiaramente la differenza tra le fatiche e i piaceri, tuttavia non rifuggono per questo dai pericoli. [4] E anche in fatto di generosità ci comportiamo in modo contrario ai più: ci procuriamo gli amici non ricevendo benefici, ma facendoli. Ed è più costante nell’amicizia chi ha conferito il favore in modo tale da conservare, grazie alla benevolenza dimostrata verso la persona a cui ha dato il beneficio, la gratitudine che questi gli deve: chi invece è debitore è meno sensibile, perché sa che restituirà l’atto generoso non per ricevere gratitudine, ma per assolvere un debito. [5] E siamo i soli a beneficare altri senza paura, non tanto per un calcolo dell’utilità che ne deriva quanto per la fiducia che nasce dalla libertà.
[41,1] Riassumendo, affermo che tutta la città è un esempio di educazione per la Grecia e che, a mio parere, il singolo individuo educato da noi può essere disponibile, e sufficiente, alle più svariate attività, con la massima versatilità e disinvoltura. [2] E che questo non sia uno sfoggio di parole dette per l’occasione, ma piuttosto la verità dei fatti, lo indica la stessa potenza della città che abbiamo ottenuto attraverso queste caratteristiche di vita. [3] Essa è la sola tra le città dei nostri giorni ad affrontare la prova mostrandosi superiore alla sua reputazione, la sola a non offrire al nemico che l’ha attaccata motivo di indignazione per la qualità degli uomini che lo fanno soffrire, né offre al suddito motivo di rimprovero, come se fosse dominato da uomini indegni. [4] Noi mostriamo la nostra potenza con grandi prove, non certo senza testimonianze, e siamo oggetto di ammirazione per gli uomini di oggi come lo saremo per quelli di domani: non abbiamo bisogno di un Omero che faccia il nostro elogio, né di uno che al momento diletti con le sue parole, mentre invece la verità distruggerà le sue congetture sui fatti; ma abbiamo costretto tutto il mare e tutta la terra a subire il nostro ardimento, e ovunque con i nostri cittadini abbiamo lasciato monumenti eterni di imprese andate male o bene. [5] Per una tale città questi uomini combatterono e morirono nobilmente, non volendo che essa fosse loro sottratta, ed è giusto che ognuno di quelli che sono rimasti sia pronto a soffrire per lei.
[42,1] È proprio per questo che mi sono dilungato a parlare della città, perché volevo farvi vedere che noi non ci battiamo per una posta uguale a quella di coloro che non hanno nessuno di questi vantaggi nella stessa misura, e anche perché volevo dare un chiaro fondamento di prove all’elogio degli uomini in onore dei quali sto parlando […]».

 

Il latino? Antidoto al coma mentale

“Egregio direttore,
con il succedersi delle riforme scolastiche si è assistito a una graduale e costante riduzione dell’insegnamento del latino nelle scuole. Ciò in parte è dovuto alla diffusa tendenza a ritenere che questa lingua abbia fatto il suo tempo, a considerarla quindi un retaggio del passato, quando le persone colte, potenti o comunque privilegiate se ne servivano per mantenere una sorta di supremazia sugli altri comuni mortali.
Chi non l’ha mai studiato secondo me è incline a pensare che si tratti di una lingua da azzeccagarbugli. Che senso ha poi riesumare una lingua non più parlata, ovvero una lingua morta? Guai, però, a esprimersi in questi termini con i docenti della materia: mi ricordo che alla mia insegnante del liceo andava in corto circuito il neurone con conseguente fuoruscita di fumo dalle orecchie quando qualcuno osasse esprimere opinioni di tale sorta. Le interrogazioni facevano tremar le vene e i polsi e all’epoca vigeva la tolleranza zero. Non ricordo tuttavia nessuno dei miei compagni, anche tra coloro che faticavano di più, che avesse mai espresso dubbi sull’utilità dello studio di questa lingua.
In effetti la fortuna che ha avuto il latino nel corso dei secoli, fino a diventare lingua universale, è dovuta sicuramente al fatto di essere stata la lingua di Roma caput mundi, ma probabilmente anche alla sua stessa struttura, che risponde a una logica intrinseca per certi aspetti di tipo matematico. Il latino è una lingua più flessibile e versatile dell’italiano, ahimè, che pure da esso è derivato: paradossalmente è una lingua più evoluta, nonostante sia più antica. L’italiano è una sorta di figlio degenere: essere più recente non significa essere migliore. Mentre la posizione delle parole è assolutamente e irrimediabilmente rigida in italiano, essendo essa fondamentale per la comprensione della frase e per conferire un significato piuttosto che un altro, in latino, linguaggio che per qualche aspetto ricorda un po’ il calcolo combinatorio, la posizione delle parole può variare tranquillamente, anche per rispondere a esigenze estetiche o metriche, senza che il significato abbia a mutare in alcun modo.
In italiano posso dire per esempio: «la maestra loda l’alunna» e non ho altre combinazioni possibili per dire la stessa cosa; disponendo diversamente i termini, per esempio invertendo la posizione di “maestra” e “alunna” nella frase il significato è tutt’altro. In latino, oltre a risparmiare gli articoli, perfettamente inutili, posso cambiare a piacere le posizioni del soggetto, del verbo e del complemento oggetto, in quanto l’informazione su quale sia il soggetto e quale il complemento è data dalla desinenza. La frase in esempio può essere infatti espressa in sei diversi modi equivalenti, che corrispondono a tutte le combinazioni matematicamente possibili dei tre termini che vi compaiono: magistra laudat discipulam, magistra discipulam laudat, laudat discipulam magistra, laudat magistra discipulam, discipulam laudat magistra, discipulam magistra laudat. È un po’ come, per fare un esempio matematico, cambiare la posizione degli addendi in una operazione di somma: la somma non cambia.
Il latino dispone dunque di molti più gradi di libertà. Virgilio può permettersi di costruire un esametro del tipo: «quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campum» (Eneide, VIII, 596), che noi dobbiamo totalmente e forzatamente ri-arrangiare in «ungula quatit quadrupedante sonitu campum putrem» per poterlo tradurre in modo grossolano come: «lo zoccolo (dei cavalli) scuote con quadruplice tonfo il campo fradicio». Il maggior grado di libertà della lingua è anche in una certa misura un maggior grado di libertà del pensiero.
Per la sua struttura logica il latino rappresenta un’ottima ginnastica mentale che contribuisce, come e più di altre materie di studio, a sviluppare la rete sinaptica cerebrale. Mentre in un computer il sistema di istruzioni operative, ossia il software, interagisce con l’hardware ma non lo modifica, nel cervello umano l’apprendimento, anche se non propriamente paragonabile a un sistema di istruzioni operative, modifica l’hardware, cioè la materia grigia cerebrale, creando nuove reti nervose attraverso le connessioni sinaptiche tra neuroni. Il cervello allenato è un cervello che ha acquisito un software più potente, ma che allo stesso tempo ha sviluppato anche un hardware più efficiente. In questo senso il latino è un’ottima palestra, e il suo studio sarebbe consigliabile a mio avviso già a partire dalla scuola media inferiore, per non dire, a livello di rudimenti, già dall’ultimo o penultimo anno delle elementari.
Lo studio del latino non dovrebbe essere limitato alle scuole a indirizzo umanistico, bensì esteso anche e soprattutto a quelle con indirizzo scientifico, proprio perché l’effetto ottenibile in termini di plasticità mentale è sinergico con quello indotto dallo studio della matematica o della fisica. Lo scienziato e il ricercatore devono possedere, oltre a un grande bagaglio culturale, anche la capacità di osservare le cose da numerosi punti di vista e da varie angolazioni. Il latino, che è una lingua logica ma estremamente flessibile, fornisce in questo senso un buon aiuto. Molti ricercatori devono le loro scoperte alla capacità di cogliere aspetti di non immediata evidenza, grazie ad una abilità mentale sviluppata con lo studio.
Il latino, che, oltre a essere una lingua, per certi aspetti è una scienza e magari anche un’arte, aiuta a sviluppare una capacità mentale di questo tipo. Credo che Enrico Fermi, che ai tempi del liceo divorava trattati di matematica e fisica scritti in latino, debba qualcosa anche a quest’ultimo. Il latino è un antidoto al coma mentale dei nostri svogliati e demotivati studenti. Per sviluppare le loro sinapsi, spesso destinate all’atrofia, andrebbe ripristinato a partire dalla scuola dell’obbligo”.

O. Valentini – Bresciaoggi, 29.05.2013

Un antico rito spartano

di D.L.Page, Alcman. The Parthenion, cap. III: The Religious Ceremony, Oxford University Press, Oxford 1951, 69-82; trad. it. Eleonora Tagliaferro.

1. L’ambiente.

I frammenti di Alcmane concordano in generale con la comune tradizione dei culti laconici arcaici, nei quali tre caratteristiche sono più prominenti: la grandezza di Apollo, Artemide e Atena; l’importanza relativamente scarsa degli altri Olimpi; e la sopravvivenza di superstizioni più primitive – i culti dei Tindaridi; delle Grazie, della Luna e delle Muse; di Ino e Pasifae, e di idoli pre-ellenici ancora più arcaici.

Artemide Orthia come Πότνια Θηρῶν, raffigurata tra gli uccelli. Placchetta, avorio, c. 660 a.C. da Sparta. Atene, Museo Archeologico Nazionale
Artemide Orthia come Πότνια Θηρῶν, raffigurata tra gli uccelli. Placchetta, avorio, c. 660 a.C. da Sparta. Atene, Museo Archeologico Nazionale

Si deve ritenere che Zeus avesse una grande importanza a Sparta, anche se, perfino qui, come in molte altre città greche, di tracce del suo culto ne siano rimaste stranamente poche e appena percettibili. Al culto di Zeus Lakedàimon e Zeus Ourànios provvedono soltanto i re di Sparta, ed è a Zeus Agètor che essi sacrificano dinanzi al campo di battaglia. questo è tutto ciò che si sa per stabilire la sua superiorità, non certo deducibile dal culto dedicatogli. Fuori di Sparta, nei rozzi villaggi, Zeus è un dio piatto e insignificante, l’ombra di rivali vinti e semidimenticati.
Era è una dea modesta e sottomessa, Demetra oscura. Poseidone ha il suo regno sotto la terra, gaiavòchos: il mare appartiene ai Vecchi e alle Sirene. Dioniso si fa vedere raramente in città, ma fa baldoria senza preoccupazioni sulle pendici del monte, virginibus bacchata Lacænis Taygeta. Afrodite si muove in varie strane forme: Morphò, Arèia, Enòplios, armata Venus Lacedæmonis. Ermes non ha un suo proprio culto.
Nella tradizione ad avere la preminenza è Apollo; ad Amicle è per metà ancora rivale della potenza dorica; altrove è il Carneo, il cui enigmatico rituale a malapena riesce ad accordare la festa del raccolto con una parata marziale. Molteplici sono i poteri e i titoli di Artemide. Atena regna sull’Acropoli.
Così in Alcmane sono le divinità primitive ad avere il rilievo maggiore, sempre prescindendo da Apollo, del quale sopravvivono numerose tracce. Per Alcmane i figli di Tindaro sono figure della religione più che del mito: essi abitano sotto la terra, al buio, e la loro benevolenza va impetrata venerandoli in santuari e templi, specialmente nel centro del loro culto, Terapne; la leggenda internazionale non li ha ancora assorbiti. Per Alcmane, inoltre, la Musa che egli invoca non è una comune divinità. Il suo tempio sorge vicino ad Atena Calcieco; a lei sacrifica l’esercito prima della battaglia. è tra le idee più antiche, benedice e ispira tutto il suo popolo, non soltanto i suoi poeti. È una potenza cosmica, tanto che Alcmane non la chiama in modo indeterminato figlia di «Zeus e Memoria», ma del Cielo e della Terra. Regina dell’Oceano, thalassomèdoisa, è Ino, balia del piccolo Dioniso a Prasie, che dava oracoli attraverso i sogni a Talame e attraverso la magia a Epidauro Limera. Non governava da sola, poiché molte spiagge e molti porti erano frequentati dal suo Vecchio del Mare, come il gèron di Gizio e il Porco del Partenio di Alcmane. È possibile che la Luna e la Rugiada non siano semplici personificazioni poetiche. Se è vero che non viene ricordato alcun culto laconico di Hèrsa, la Luna era però venerata dal semplice contadino di Gizio, e la sua rivale Pasifae possedeva un celebre tempio, in cui l’eforo coscienziosamente attendeva nel sogno l’ispirazione.
Per il resto Zeus è appena ricordato; Demetra e Poseidone non hanno lasciato traccia; Era resta fedele alla tradizione. A celebrare i portentosi riti di Dioniso sulle cime dei monti sono donne, sue sole devote. Quanto ad Afrodite essa non mostra nessuna delle sue qualità laconiche.
Degli dèi più grandi, Apollo ha lasciato notevoli tracce, Atena poche, Artemide soltanto un verso – a meno che il Partenio non sia proprio un suo canto. Sarà questo il problema che prenderemo ora in considerazione: in onore di quale o di quali divinità venne composto questo carme?

2. Orthia.

Nel papiro stesso si rilevano due chiavi fondamentali per l’identificazione della divinità celebrata. Al v.87 il coro canta:

τᾶι μὲν Ἀώτι μάλιστα/Ϝανδάνην ἐρῶ
vorrei piacere soprattutto ad Aotis

e ai vv.61 sg., dove il testo ha

ἇμιν/ὀρθρίαι φᾶρος φεροίσαις
a noi che portiamo un velo (?) a Orthria;

nella nota a piè di colonna si legge Orthìai phàros. Sosiphànes àrotron. Il commentatore dunque assegna la cerimonia al culto di Orthia, una delle più celebri divinità laconiche, mentre il testo dà alla dea l’appellativo di Aòtis. Il commento non è in sintonia con il testo: esso legge Orthìai phàros, non orthrìai phàros. E l’importanza di questa lezione non deve essere sottovalutata; il suo ripristino nel testo di Alcmane può essere dubbio o addirittura da escludere; l’interesse e l’importanza che ha per noi riposano però su fondamenta più salde – sul fatto che tale lezione doveva essere coerente con quella che nell’antichità fu la tradizione comune circa l’occasione di questo componimento. Essa doveva essere appropriata non solo di per sé, ma coerente con il resto di ciò che è attestato nella lirica, ivi compresa, probabilmente, un’invocazione iniziale. Si può allora ragionevolmente supporre che essa ci presenti l’opinione degli studiosi di Alessandria che chiosarono il brano. Non è verosimile che Sosibio, che era appunto un Laconico, abbia lasciato in dubbio su questo punto la sua gente, né che Aristofane e Aristarco, di cui sono conservati commenti minori, abbiamo taciuto sulla questione più importante.

Ex-voto raffiguranti divinità femminili con sembianze ferine. Placchette, avorio, VII sec. a.C., dal corredo del Santuario di Artemide Orthia di Sparta. Atene, Museo Archeologico Nazionale
Ex-voto raffiguranti divinità femminili con sembianze ferine. Placchette, avorio, VII sec. a.C., dal corredo del Santuario di Artemide Orthia di Sparta. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Questo non può bastare a risolvere il problema, ma rende ragionevole, o addirittura impone, di considerare in primo luogo se il resto della documentazione a nostra disposizione sia compatibile o meno con l’identificazione di Orthia. Il commento la chiama Orthia, il testo Aòtis. Che cosa significa Aòtis, e fino a che punto può essere considerato un appellativo ad Orthia?
Va anzitutto chiaramente compreso il significato del culto di Orthia; e va compreso basandosi sulla documentazione relativa a Orthia stessa, non su analogie eventuali che essa presenta col culto di Artemide. Che vi sia una rassomiglianza tra le due dee risulta infatti ben chiaro, ma essa non va innanzitutto dimostrata, prima che vi si possa fondare la discussione. Le iscrizioni più antiche che associano i due nomi, parlando – come fa la nostra tradizione letteraria – di «Artemide Orthia», risalgono tutte alla seconda metà del I secolo d.C.
In generale i risultati degli scavi del tèmenos di Orthia hanno confermato e chiarito le testimonianze della tradizione letteraria e della più antica tradizione epigrafica.
Il più famoso rito del suo culto era la diamastìgosis, la fustigazione di giovani spartani presso l’altare; ma non c’è nessuna prova che questo rito abominevole risalga al tempo di Alcmane. Analoga è una cerimonia ricordata da Senofonte [1], nel corso della quale alcuni tentavano di sottrarre a Orthia dei formaggi, mentre altri cacciavano a frustate i ladri. Tre specie di competizioni rituali tra giovinetti sono abbondantemente documentate epigraficamente a partire dal IV secolo a.C.: la mòa, una gara musicale; i kelòia, evidentemente una competizione letteraria [2]; e il kattheratòrion, una specie di gara di caccia. Venivano dedicati a Orthia dai vincitori di queste competizioni dei falcetti di ferro, i premi della vittoria – chiara prova dell’importanza della dea in agricoltura. Inoltre una Lydòn pompè, di cui null’altro sappiamo, è menzionata da Plutarco [3], il quale attesta pure che erano familiari alla tradizione più antica cori femminili in onore di Orthia [4]. Più significativa e illuminante è l’associazione della statua di culto con i lýgoi, i vimini, per cui la dea era chiamata anche Lygodèsma: il vimine era un importante talismano contro le malattie femminili ed è indizio di una dea interessata alla fertilità. Questa stessa concezione di Orthia è alla base dell’etimologia del suo nome (nella forma di Orthosìa): hòti orthòi eis soterìan è orthòi toùs gennomènous («perché raddrizza per la salute o perché raddrizza i neonati» [5]). Tutto ciò risulta coerente al rapporto della dea, segnalato più sopra, con la fertilità della vegetazione, e all’importanza dei giovanetti nel suo rituale: evidentemente ella era, come una vera dea della fertilità kourotròphos.
Queste testimonianze sono confermate e integrate dalla documentazione archeologica [6]. La dea della fertilità, della nascita e della crescita di tutti gli esseri viventi emerge sempre più chiaramente dalle rovine del santuario. Le sue seguaci sono rappresentate da numerose figurine; è chiaro che alle donne soprattutto era rivolto l’interesse della dea e importante doveva essere il loro ruolo nel suo rito. Per di più risulta che accanto al tempio di Orthia sorgeva quello di Ilizia e tra i resti del primo vi sono alcuni ex-voto che dovevano essere offerti a Ilizia stessa – il che vuol dire che questa aveva una qualche parte nel culto di Orthia – o a Orthia dotata di analoghe capacità. Questi oggetti confermano l’opinione, già presa in considerazione, che Orthia fosse una dea della nascita umana. Può darsi che questa definizione vada estesa sino a proporre una nozione più generale di fertilità umana: lo farebbero pensare abbondanti frammenti di documentazione, specialmente le figurine in terracotta di maschi e femmine in amore. Inoltre l’eccezionale numero e varietà di animali trovati fra le sue offerte votive indicano che Orthia era anche regina del regno degli animali selvatici. Della sua importanza per ciò che concerne la fertilità del mondo vegetale si è già detto.
Questo, in breve, è quanto va osservato delle caratteristiche salienti di Orthia. La documentazione le attribuisce quel potere sulla nascita e crescita del mondo umano, animale e vegetale che è tra gli attributi più antichi della divina Artemide, dea dei monti, dei fiumi e dei campi, portatrice di prosperità e calamità all’uomo, al bestiame e al raccolto; dea del matrimonio e del parto, protettrice di donne e di vergini. C’è poco tra le vestigia di Orthia che non ci si possa attendere da un santuario di Artemide.

3. La documentazione relativa al titolo «Aòtis»

Non c’è motivo di supporre che l’appellativo «Aòtis» potesse significare vagamente «dell’Alba». L’analogia di Dereàtis, Limnàtis, Karyàtis ed altri appellativi – tutti appellativi laconici di Artemide – suggerisce, o addirittura esige, che Aòtis vada inteso in senso locale: proprio come Karyàtis significa «a Carie», così Aòtis significa «all’Alba», vale a dire, molto probabilmente, «(che vive) in Oriente». Che cosa s’intende dire con l’affermazione che una dea abita all’Alba o in Oriente? Non è una risposta sufficiente il fatto che il tempio di Orthia sorga ad est della città di Sparta o che guardi verso est; tali circostanze, in realtà, richiedono una spiegazione piuttosto che fornirla, e la spiegazione è probabilmente che sia priva di valore se non la si rinvenga nelle radici più profonde del culto stesso.
Ora, la documentazione a nostra disposizione suggerisce una sola risposta immediata al problema. Artemide, almeno fin dal V secolo a.C., fu dea strettamente associata alla Luna [7]. Che si sia immaginato che abitasse all’est è allora abbastanza plausibile da un punto di vista astronomico.
Ma, si è obiettato, la concezione di Artemide come Dea-Luna non può essere fatta risalire all’età di Alcmane; e, in ogni caso, che cosa può provare Artemide riguardo a Orthia? L’obiezione è benvenuta, perché fornisce l’occasione di eliminare un equivoco.
L’identificazione di Artemide con la Luna può essersi determinata per la prima volta nel V secolo, o nel IV, o quando si vuole: ma la nostra indagine si muove sul terreno dei culti religiosi, non delle leggende poetiche. L’intima connessione di Artemide, e di Orthia, con la Luna dev’essersi certo saldamente fissata in un’antichità più remota: ed è questa connessione, e non l’identificazione, con la Luna che è probabilmente rilevante per il problema del termine «Aòtis».
Questa connessione nasce non dall’artificiale creazione di un mito, ma dalle radici profonde del culto stesso. La relazione tra le fasi della luna e il ritmo di nascita e crescita è fissa e fondamentale; e la de – sia essa Orthia o Artemide o Era – che governa le fasi della luna deve controllare questo ritmo, direttamente o indirettamente. Questo fatto era compreso chiaramente nell’antica Grecia, così come lo è oggi. La connessione con la Luna è implicita nella caratteristica fondamentale della divinità e del culto sia di Orthia che di Artemide e da tale caratteristica direttamente deducibile. La spiegazione la si ricava, come appare necessario, dalle radici dei loro poteri e del loro culto primitivo: ed essa rimarrà vera, anche se dovesse apparire in seguito che Orthia non ha nulla a che fare con Aòtis nel Partenio di Alcmane.
È dunque possibile ora trarre una conclusione provvisoria: che il titolo Aòtis è perfettamente, anche se non esclusivamente, appropriato a una dea strettamente connessa con la Luna; perciò appropriata a Orthia, la cui influenza sulla Luna è il requisito indispensabile delle sue funzioni più significative.
Si può ora osservare che la cerimonia di Alcmane pare aver luogo proprio prima dell’alba: cfr. vv. 62, 61 e 39. È naturale supporre che la cerimonia si svolga in quel periodo del mese in cui la Luna è ancora alta sull’orizzonte al sorgere del sole, ed infatti il levarsi del sole segnerà il culmine della danza o del rito nel suo complesso.

Artemide Orthia (?). Statuetta, piombo, fine VII-inizi VI sec. a.C. da Sparta. New York, Metropolitan Museum of Art
Artemide Orthia. Statuetta, piombo, fine VII-inizi VI sec. a.C. da Sparta. New York, Metropolitan Museum of Art.

4. La lezione del testo

Sulla lezione da adottare nel testo non c’è completo accordo. Orthriai può essere: a) nominativo plurale; b) dativo singolare; c) una corruzione di Orthìai (per l’intrusione del r- superfluo può essere citato un parallelo dal v.56, dove diaphràdan è stato corretto con diaphàdan).

a) Òrthriai nom. plur.: questa è l’interpretazione meno diffusa, ma contro di essa non può essere portato alcun serio rilievo.
b) Orthrìai dat. sing.: questa interpretazione presenta dei piccoli pregi che la raccomandano. Se Orthrìa è un titolo, esso è facilmente conciliabile con l’altro appellativo che occorre in questa lirica, Aòtis; e fornisce molto opportunamente un oggetto più lontano per il verbo pheròisais. Orthrìa non è altrimenti attestato come titolo di culto, ma anche Aòtis è un unicum, e sappiamo che Alcmane era eccentrico nell’attribuire appellativi ad Artemide [8]. Il dativo che il nostro manoscritto presenta può essere accettato senza sospetto.
c) Orthìai, dat. sing di Orthìa, da dea Orthia: questa, che è la variante data dallo scolio, è stata spesso preferita al testo dagli studiosi moderni. Due obiezioni le sono state mosse: una erronea, l’altra viceversa sostanziale. 1. Si è sostenuto che Orthia non può essere descritta come «Aòtis». Questa asserzione è stata già confutata. La questione se questo titolo sia appropriato a Orthia è solo indirettamente connessa con il fatto che più tardi in Artemide si è riconosciuta una dea lunare. Per entrambe le dee la stretta connessione con la Luna è profondamente radicata nel loro culto; e se si ammette che Aòtis è un titolo appropriato a una dea che controlla, direttamente o indirettamente, i movimenti della Luna, allora non c’è ragione di negarlo né ad Artemide né a Orthia. 2. La seconda obiezione è davvero seria: e cioè che la sillaba centrale di vorthìa non poteva essere scandita come breve da Alcmane. Orthriai va dunque mantenuto nel testo, e va interpretato, secondo le varie opinioni, come nominativo plurale o dativo singolare.

5.La documentazione relativa all’aratro

Dobbiamo ora considerare un ulteriore elemento della documentazione sull’identità della nostra dea: il phàros che il coro porta.
La spiegazione àrotron, un “aratro”, è scritta su phàros nel testo, e a piè di colonna il commento spiega ancora: Orthìai phàros. Sosiphànes àrotron. Un verso di Antimaco è citato da Erodiano a sostegno dell’insolito significato attribuito a phàros [9].
Va osservato che questa tradizione antica non è stata un’inferenza immediata dal nostro testo; essa deve essere stata ricavata dalla documentazione esterna sulla natura della cerimonia; ed è ragionevole supporre che l’antica variante Orthìai fosse suggerita da questa stessa fonte, o fosse almeno coerente con essa.
Va inoltre riconosciuto altrettanto verosimile che Orthia abbia avuto in dedica sia un aratro che una falce, trattandosi di una dea, com’essa è certamente, in stretta relazione con la vita vegetale e anzi con ogni forma vivente della natura. È vero che un aratro è una dedica eccezionale: ma il fatto sarebbe di scarsa importanza, se anche non si citassero a sostegno le falci. I commenti moderni istituiscono un confronto con una moneta di Leontini, che mostra un aratro associato alla testa di Artemide; ma è discutibile che l’ipotizzata presenza di un aratro in Alcmane risulti rafforzata da una tale dubbia analogia o che abbia bisogno di esserne rafforzata. La tradizione antica afferma che un aratro era trasportato nella cerimonia descritta da Alcmane: non serve obiettare che, per quel che ne sappiamo, esso non compariva in nessun’altra cerimonia, né molto di più può valere il fatto che un aratro venisse associato a una dea che era strettamente connessa con Orthia. L’aratro può giustificarsi, com’è naturale, solo tenendo presente la natura fondamentale del culto di Orthia. S’è visto che la sua associazione con la Luna l’esigeva il carattere del suo culto; anche l’offerta di un aratro la si può chiaramente intendere per lo stesso motivo.
A coloro che hanno obiettato che un aratro era un oggetto troppo pesante perché delle ragazze potessero trasportarlo durante una danza, basterà rispondere che, nel mondo moderno, in molte regioni, si usano aratri che possono essere sollevati con due mani, o addirittura con una soltanto; che non abbiamo alcuna ragione di supporre che un aratro laconico al tempo di Alcmane, specialmente un aratro (forse un modello) ideato per una dedica, fosse ingombrante; e che il testo non dice, o almeno non dice necessariamente, che l’aratro era spostato durante un’evoluzione della danza specificamente ideata per l’atto della dedica.
La spiegazione alternativa di phàros, “veste”, si concilia molto facilmente con più d’un aspetto del culto di Orthia: di per sé la presenza di una veste è adatta quanto l’aratro a questo contesto, ma va tuttavia osservato che questa presenza contrasterebbe con la testimonianza antica. Sulla base della documentazione che abbiamo dinanzi, dobbiamo concludere perciò che l’interpretazione di phàros, “aratro”, si basa su una notizia circa la natura della cerimonia che noi non siamo in grado di valutare; che l’aratro costituisce una dedica del tutto appropriata ad Orthia; e che nessun’altra interpretazione risulta parimenti accettabile. Coloro che contestano la tradizione alessandrina su questo punto non hanno neppure la giustificazione che essa presenti una qualche difficoltà alla nostra comprensione.

6.Documentazione supplementare

I rimanenti indizi che abbiamo possono essere considerati più in breve.

a) La cerimonia è chiamata apertamente thostèria al v.81. Questa parola va connessa con il verbo thòsthai [10], “banchettare”; e rivela l’esistenza d’una qualche sorta di banchetto talmente importante da far definire sommariamente la cerimonia stessa «il nostro banchetto». In questo non c’è nulla di sorprendente o chiarificatore; ricordiamo che nelle Eree olimpiche «i vincitori ricevono … una parte della vacca sacrificata ad Era». Il banchetto rituale non ci dice nulla della identità o della natura della dea.
b) Il canto e la danza sono eseguiti da un coro di fanciulle. Cori femminili al servizio di Orthia sono ricordati nella tradizione più antica: Elena stessa fu rapita mentre «danzava nel santuario di Artemide Orthia» [11]. Essi sono un tratto comune nei culti laconici di Artemide.
c) È perlomeno non improbabile che il coro di Agesicora sia in gara con un altro coro, e che l’altro coro fosse chiamato «le Peleiadi».
C’è abbondante documentazione per quanto riguarda competizioni musicali e di altro tipo in onore di Orthia in epoca più tarda; anche se tra fanciulli, e non tra fanciulle, e vinte da singoli, non da gruppi. Sono anche abbastanza documentate competizioni tra cori femminili in altri culti peloponnesiaci e corse di fanciulle in culti laconici. Una gara di corsa tra cori di fanciulle al servizio di Orthia può essere ammessa in perfetta tranquillità.
Resta, peraltro, incerto se il titolo Peleiàdes sia specificamente appropriato nelle celebrazioni di Orthia. Se le fanciulle sono immaginate come stelle, le Pleiadi, allora la connessione dei movimenti delle Pleiadi con le stagioni dell’agricoltura giustifica il titolo.
d) Il coro narrava la morte dei figli di Ippocoonte. Non c’è nessuna testimonianza letteraria o epigrafica per una connessione di Orthia con i Dioscuri o con gli Ippocoontidi. Sono stati in realtà raccolti frammenti di documentazione archeologica, ma essi non offrono un quadro chiaro. La narrazione di questa leggenda, tuttavia, – forse la più popolare e veneranda di tutte le storie locali spartane – non può essere stata limitata a nessun culto particolare: non c’è in questo argomento alcuna prova né a favore né contro Orthia.
e) Ai vv.82 sgg. vien chiesto di accogliere la preghiera di Agesicora e Agidò a tutti gli dèi, al plurale. Non possiamo dire se la menzione sia generica o specifica. Se è specifica, non ci saranno difficoltà nel trovare possibili compagni a Orthia. La sua connessione con Ilizia è così stretta, sia in teoria che di fatto, che un’associazione dei loro culti non desterebbe sorpresa. Testimonianze archeologiche hanno altresì suggerito che nel suo culto spartano Orthia potrebbe essere stata associata a un’anonima divinità maschile, e che una stretta connessione tra Orthia e Afrodite potrebbe essere stata una caratteristica di questo santuario.
f) Infine, i cavalli. Il paragone tra giovinette e puledre è così frequente nella letteratura antica che non c’è bisogno di cercare una particolare spiegazione per le metafore e le similitudini di questo tipo nel Partenio. Ma non è fuor di luogo in questa sede osservare che il cavallo è eccezionalmente importante tra le offerte votive di Orthia. Tra le terrecotte i cavalli superano quasi tutti gli altri animali messi insieme; fra le figurine in calcare, i cavalli sono quasi il doppio di tutte le altre; fra gli oggetti di piombo e di avorio, essi sono molto numerosi. La loro importanza nel culto è sottolineata in particolar modo da due figurine di terracotta, l’una che rappresenta Orthia stessa sul dorso di un cavallo, l’altra che mostra la testa di Orthia tra quelle di due cavalli.

Maschere. Terracotta, VII sec. a.C. dal Santuario di Artemide Orthia a Sparta. London, British Museum
Maschere. Terracotta, VII sec. a.C. dal Santuario di Artemide Orthia a Sparta. London, British Museum

7.Conclusione

Questo è lo stato della documentazione. Non vi sono molte ragioni di dubitare dell’interpretazione che pare più calzante:

1. L’identificazione di Orthia riposa per intero sulla testimonianza del commento. Nulla o quasi nel testo suggerisce realmente che la dea in questione sia Orthia (o Artemide).
2. Gli indizi interni alla lirica stessa possono tutti facilmente conciliarsi con il culto di Orthia. La presenza dell’aratro, se di aratro si tratta, è particolarmente appropriata, così come quella di un coro di fanciulle. Il titolo “Aòtis” non rappresenta un ostacolo, può essere stato anzi molto adatto a Orthia. La restante documentazione appare del tutto coerente con questa identificazione e nulla sembra in contrasto.
3. Tra gli argomenti addotti a favore dell’identificazione della dea con Orthia non n’è emerso nessuno più forte di quanto era stato osservato in principio, che cioè la presenza del suo nome nel testo del commentatore prova che questa era l’identificazione accettata dagli antichi; e non è verisimile che essi abbiano sbagliato su questo punto.
4. Incidentalmente dovrà considerarsi assodato che, se anche non è Orthia la dea in questione, non vi sono elementi sufficienti per provare, o anche soltanto per suggerire, una qualsiasi altra identificazione: le prove sarebbero, infatti, troppo vaghe e oscure.

Note:
1 Xen. Const. Lac. II, 9.
2 IG V, 1. 264.
3 Plut., Arist. XVII.
4 Plut., Thes. XXXI.
5 Schol. Pind. Ol., III, 54 (I, p. 121 sg. Drachmann).
6 Sintesi dei risultati degli scavi in R.M. Dawkins, The Sanctuary of Artemis Orthia at Sparta, «JHS» Suppl. 5, London 1929.
7 Aesch., fr. 164.
8 Menand. IX, 135 Walz.
9 Vd. Pfeiffer ad Call. fr. 287 Pf.
10 Et. Mag. 461, 1; Aesch., fr. 474, 818 Mette.
11 Plut., Thes. XXXI.

L’aristocrazia e l’età arcaica

di D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 85 sgg.

Regalità di città greche arcaiche

Il duello fra guerrieri di pari rango sociale era la massima aspirazione ed espressione di virtù, forza e coraggio per l'uomo greco dell'Alto arcaismo. Lo dimostra questa raffigurazione su di un'anfora attica a figure nere, che risale all'ultimo quarto del VI secolo a.C. ed è conservata al Museum of Art (Dallas, Texas)
Il duello fra due guerrieri di pari rango sociale era il “luogo” massimo in cui dimostrare il proprio valore e il proprio coraggio per l’uomo greco dell’Età arcaica. Lo dimostra questa raffigurazione su di un’anfora attica a figure nere, che risale all’ultimo quarto del VI secolo a.C. ed è conservata al Museum of Art (Dallas, Texas)

In età classica troviamo basileîai cittadine vitalizie ed ereditarie a Sparta (nella forma della diarchia, sino alla fine del III secolo a.C.), ad Argo (fino al tempo delle guerre persiane), in Messenia (al tempo della seconda guerra messenica, nel VII secolo a.C.), a Cirene (ancora nel V secolo a.C.). È un primo gruppo di situazioni fra loro affini: sono, infatti, le città doriche del Peloponneso o una città di Libia (Cirene) che attraverso la madrepatria Tera è imparentata con Sparta. Subito appaiono poco confrontabili le monarchie ereditarie di tipo etnico-dinastico degli Eacidi, fra i Molossi d’Epiro, o gli Argeadi, in Macedonia (benché questi ultimi facciano risalire le loro origini ad Argo nel Peloponneso). A Cipro la persistenza della forma basilica si accompagna con certa arcaicità o incompiutezza dello sviluppo cittadino. Ma in una parte cospicua del mondo delle póleis l’istituto basilico appare ben radicato; nessuno sforzo ipercritico riuscirà a eliminare la memoria di una monarchia vitalizia ed ereditaria tenuta dai Bacchiadi a Corinto, cioè dal génos aristocratico, che vanta origini da Eracle, prima che essa desse luogo (secondo la tradizione, dal 747 al 657 a.C.) alla rotazione annua dei prìtani. Il nesso con la storia della pólis è in tutti questi casi ben visibile. È pur possibile che anche la forma centralizzata di potere d’epoca micenea abbia esercitato il suo influsso; certo, il basileús nei contesti dorici appare ben inserito in una struttura aristocratica, con al suo intero forti connotazioni ugualitarie. Si può discutere se questi capi delle città doriche siano in qualche modo in rapporto con l’esistenza di tre tribù; la menzione, nei testi antichi, dei capi-tribù (phylobasileîs), o la presenza di Argo di una triarchia, potrebbero far pensare a uno sviluppo del genere. Così la caratteristica diarchia spartana è stata vista come il risultato di una riduzione a due di un’originaria triade, o invece come l’esito di un conflitto concluso con un compromesso, o di un’integrazione del potere dell’unico originario basileús con un secondo dallo stesso titolo, all’origine dotato di altre funzioni.
In verità, non appare affatto impossibile che la diarchia spartana sia tale sin dalle origini della basileía a Sparta o almeno dal periodo (IX-VIII secolo) in cui Sparta raggiunge il suo definitivo assetto costituzionale. I moderni vedono i processi antichi con occhi moderni; non possono concepire i poteri arcaici se non come assoluti, e i poteri assoluti se non concentrati nelle mani di uno solo; le altre situazioni appaiono transitorie o come un assurdo logico. Ma il vero problema è quello di chiarire la natura della comunità politica greca, come emersa nell’alto arcaismo: essa è fondamentalmente aristocratica. Nelle posizioni recenti, in principio richiamate, c’è di giusto il disagio ad ammettere un periodo monarchico nettamente separato dal periodo aristocratico; la pólis nasce invece già aristocratica, benché all’origine si tratti di un’aristocrazia organizzata intorno a una leadership, che si fa valere per vantate origini divine, e che ottiene prerogativa (géra) riconosciute, in fatto di proprietà terriera, dell’esercizio di funzioni sacrali o anche militari, di rappresentatività della comunità politica, in un quadro sociale ed economico di forte omogeneità. Progressivamente l’aristocrazia si libera anche da questo bisogno di leadership, e ciò avviene proprio nel momento in cui la società nel suo insieme è più stratificata e l’intero strato aristocratico vuole esercitare il potere politico. Ora, è del tutto plausibile che a Sparta la diarchia corrisponda esattamente alla funzione che la tradizione le attribuisce: garantire un equilibrio di leadership, tenere in scacco eventuali propensioni a un eccessivo accentramento di potere, realizzare anche nelle regalità la “parità” degli hómoioi. Non sarebbe l’unica peculiarità della costituzione spartana, così accortamente costruita.
Come il medesimo termine basileús vale (e non potrebbe non valere) per indicare situazioni diverse, sarebbe assurdo ricondurre ai soli Dori il modello basilico, tanto più che esso si è giovato in qualche modo, ma in diversissimo contesto, del modello miceneo. Tutt’al più va notata la persistenza coerente della regalità, fino al VII secolo, in tutto il Peloponneso dorico, e fino al V nella parte indipendente di esso. Ciò è pienamente coerente con i caratteri tradizionali di queste costituzioni: come i Dori hanno decisamente contribuito alla nascita della nuova forma istituzionale greca, la pólis, essi hanno anche a lungo conservato quelle forme politiche che all’origine erano un apporto nuovo, originale, carico di una sua storica vitalità, ma che col tempo diventano conservazione.
Ad Atene la basileía ereditaria e vitalizia è seguita, secondo la tradizione storica, dall’arcontato (prima forse arcontato a vita, ma non più carica ereditaria, poi arcontato decennale, quindi magistratura annuale). Anche qui modelli micenei e insieme nuove realtà comunitarie (si pensi solo all’organizzazione delle quattro phylaí [=tribù] e ai rispettivi phylobasileîs) possono aver favorito il formarsi di un’aristocrazia a guida basilica, e il suo perdurare per circa quattro secoli. Le basileîai etniche, o nazionali, di Macedonia o d’Epiro sono simili per l’aspetto monarchico, ma diverse perché assai meno imbrigliate in un contesto aristocratico; qui l’aristocrazia è più di tipo iliadico (piccoli capi attorno al grande capo) che non odissiaco (l’aristocrazia come gruppo sociale, ma anche come consesso, che esprime, circonda, controlla costantemente il primus inter pares).
Elementi di confusione possono sorgere da un’affrettata considerazione delle basileîai delle città ioniche. Molto poco dimostra invero l’esistenza epigrafica di un basileús degli Ioni in età romana: già la connessione del titolo con il nome di un éthnos, in un contesto che invece è di città, è di per sé sospetta; si tratta di una funzione sacrale e semmai di una finzione storica. La stessa complessità della migrazione ionica scoraggia dal pensare a un re degli Ioni che abbia ereditato la posizione del génos che si era richiamato a un mitico conquistatore.

Anfora protoattica, detta 'Anfora di Analatos'. Stile orientalizzante, 700-675 a.C. (particolare). Musée du Louvre, Parigi.
Anfora protoattica, detta ‘Anfora di Analatos’. Stile orientalizzante, 700-675 a.C. (particolare). Musée du Louvre, Parigi.

Diverso è il discorso per le singole città ioniche: a Mileto la tradizione ricorda una famiglia di re discendenti da Neleo, i Nelidi; a Efeso la più nobile famiglia si chiama dei Basilidi, ed è un nome parlante; nel VII secolo a Focea regnavano i Codridi; ed epigraficamente (ma le funzioni possono essere le più diverse) basileîs sono attestati a Mileto, a Efeso, a Teo, a Eritre e altrove, tra l’epoca classica e l’epoca ellenistica e romana. Nulla però autorizza a dare un rilievo particolare alla monarchia in àmbito ionico: né l’idea di una monarchia panionica, né queste tradizioni; soprattutto nulla fa pensare che un re qui avesse più potere che altrove; al contrario, l’assenza di forti precedenti micenei, di rilevanti premesse palaziali in situ, può solo aver favorito, se ve n’era bisogno, la costituzione delle pólis su basi aristocratiche. Il fatto poi che di Nelidi e Basilidi regnanti si perdano presto le tracce può solo confortare l’idea di un’artificiosità delle tradizioni su mitici re: si tratta, almeno in parte, di finzioni atte a stabilire una più ferma connessione con il mondo di tradizioni, di miti, di cultura delle città greche della madrepatria, come è del tutto plausibile in àmbito coloniale, in questo primo sistematico esperimento di colonizzazione movente da àmbiti cittadini, che la storia greca conosca. Quindi vi saranno stati basileîs come in tutte le altre aristocrazie greche, ma probabilmente non in tutti i casi che la tradizione ammette.

«Génē», fràtrie, tribù

Cavaliere di Grumentum, 560-550 a.C., London British Museum.
Cavaliere di Grumentum, 560-550 a.C., London British Museum.

Abbiamo evocato lo stretto nesso fra tribù e pólis. Si pone per questa via il problema del rapporto tra la comunità politica e quelle che, nell’insieme delle città greche, figurano come sue ripartizioni o articolazioni fondamentali: le tribù appunto, o phylaí, le fràtrie, i génē.
Come giustamente osservava De Sanctis, ci sono al fondo due modi diversi di concepire il rapporto dinamico tra le fràtrie, i géne e le tribù da un lato, e lo Stato dall’altro: o una specie di moto ascensionale dalle entità più piccole (mettiamo, le fràtrie) verso la più grande, attraverso una progressiva aggregazione, o invece un processo di articolazione che si svolga all’interno dello Stato e per l’azione promotrice di esso. De Sanctis optava per la seconda via. Vanno fatte però almeno due osservazioni sulla sua impostazione. Da un lato essa si fondava su un dominio dell’idea di Stato, che è categoria da usare solo in un senso molto lato per il periodo miceneo e per il periodo arcaico della storia greca. Come si vedrà, la nascita dello Stato, in un senso certo molto stretto ed esigente, si può collocare in Grecia solo nel V secolo a.C. Di Stato si può a rigore parlare dal momento in cui è emerso in piena autonomia il valore del pubblico, come sistema d’istituzioni e di norme ben distinte dal privato; e questo appartiene a una fase avanzata della storia della stessa democrazia. Prima, è molto difficile operare un taglio netto tra ciò che è sociale, cioè espressione dei gruppi dominanti e del loro modo di impostare e garantire i concreti rapporti sociali, ciò che insomma è privato (anche se un privato-familiare o gentilizio), e ciò che è pubblico, il quadro cioè entro cui il cittadino e l’individuo figurano e contano nella loro generalità, nella loro astrazione. Ma anche a voler ammettere una nozione più ampia di Stato, quali sarebbero i poteri dello Stato alla cui ombra, secondo la teoria desanctisiana, si formerebbero progressivamente i gruppi minori, esercitando le funzioni che lo Stato non saprebbe esercitare, fino a diventarne un giorno le ripartizioni? Partire dall’idea di Stato, e vedere in questa il quadro che ha permesso e favorito l’articolarsi di funzioni sociali di vario tipo, sembra perciò alquanto difficile. E un’altra osservazione è che l’impostazione del problema, come sopra presentata, si copre in realtà ampiamente con la teoria del “moto ascensionale” e ne contiene i difetti. Sembra, infatti, artificiosa la concezione che pone alla base di tutto il processo un’entità come la fràtria, che non può figurare se non come una ripartizione di un’entità più vasta e che può aver avuto – giusta la definizione omerica (Iliade, II 362, dove sembra difficile non riconoscere nei phyla le phylaí) – funzione militare: ma accanto alla tribù, cioè come sua ripartizione. Ad Atene, d’altro canto, la fràtria assolve piuttosto le funzioni del moderno registro civile; altrove (come a Locri) è certo suddivisione fondamentale della pólis e svolge funzioni amministrative e finanziare di rilievo. Cellula vitale di un tessuto più vasto, la fràtria tuttavia non si lascia agevolmente concepire come un’entità autonoma: l’idea di fratellanza (artificiale) che essa contiene serve appunto a creare nessi più stretti fra i suoi membri, come articolazione di un corpo più vasto. Eventualmente, solo la tribù potrebbe essere chiamata in causa come entità che abbia avuto una sua vita autonoma prima della nascita della pólis. Sta di fatto che noi tocchiamo qui un terreno nel quale non si conseguono risultati attraverso argomentazioni di carattere filologico.

Cavaliere 'Rampin' (particolare: il volto), età arcaica, 550 a.C., Musée du Louvre.
Cavaliere ‘Rampin’ (particolare: il volto), età arcaica, 550 a.C., Musée du Louvre.

È vero invece che le tribù come noi le conosciamo all’interno del mondo greco, cioè i sistemi di organizzazione tribale, di cui i tipi fondamentali sono quello dorico (le tre tribù di Illei, Dimani e Pànfili) e quello attico o ionico (Opleti, Argadei, Egicorei, Geleonti), sembrano appartenere a un’epoca post-micenea. Le tribù diventano parte integrante ed essenziale dell’organizzazione cittadina: è lo sviluppo della pólis che potenzia le tribù, come suddivisione della comunità; esse mancano sia presso le stirpi eoliche, settentrionali o meridionali, sia presso le stirpi parlanti dialetti nord-occidentali; nello stesso àmbito ionico non sono attestate in Eubea e nelle Cicladi, tranne che a Delo, ove sono probabilmente importazione dall’Attica; sono documentate invece in Ionia, con l’aggiunta almeno di Borei e Oinopi al quartetto attico; mancano in Beozia, tranne che a Orcomeno. Per questo motivi De Sanctis concludeva, giustamente, che non possiamo considerare le tribù come istituzione proto-greca o pre-etnica, e comune a tutti i Greci in tutti gli stadi del loro sviluppo. Essa potrebbe quindi aver avuto origine «in una parte circoscritta della penisola».
Effettivamente, la tribù mostra in determinate città e regioni del mondo greco una vitalità e una chiarezza e specificità di funzioni che non ha altrove: e si tratta, ancora una volta, delle zone doriche. Che l’organizzazione nelle tre tribù di Illei, Dimani e Pànfili possa aver rapporto con il modo (e perciò col periodo) della conquista (ed eventualmente con la conseguente gestione del territorio) è suggerito dalla funzione militare che Tirteo attesta per Sparta; i membri delle singole tribù avanzano separatamente brandendo le loro lance. Certamente meno chiara la funzione delle tribù ad Atene: non è una soluzione quella della tradizione antica, che vi vedeva i discendenti di altrettanti eponimi, Oplete, Argade, Egicore e Gelonte (o Teleonte?); ma non è neanche facile accedere alla tesi che vi riconosce altrettante caste (guerrieri, artigiani, pastori e agricoltori o sacerdoti). Ma se le funzioni delle tribù ioniche non sono chiare, una differenza è invece chiarissima, fra tribù genetiche doriche e ioniche: le prime sono ricordate con molta frequenza nei testi, le seconde (in Attica del resto soppiantate con la riforma di Clistene, nel 508/07 a.C., dalle dieci tribù territoriali) hanno un ruolo molto minore. Se a tutte queste considerazioni si aggiunge il fatto che in àmbito indoeuropeo la tribù rappresenta in generale la frazione di un terzo e che in àmbito dorico solo per effetto di sviluppi politici (ampliamento del corpo civico e inclusione nel sistema tribale di elementi nuovi e forse raccogliticci) si ha l’introduzione di una “quarta” o anche talora un’ulteriore tribù (gli Irnàtii ad Argo, gli Egialei a Sicione, gli Scheliadi a Trezene, gli Etalei o gli Ecanorei a Creta), si può forse affermare che il rapporto tribù-città doriche è più stretto che altrove, e forse è proprio qui originario, e altrove è un lato riflesso, in quel processo di riorganizzazione della vita politica greca, che segue alla crisi dei regni micenei, e in cui l’apporto dei Dori è vitale. Naturalmente, ci riferiamo al sistema dell’organizzazione tribale, come ripartizione aritmeticamente definita della comunità, non all’idea stessa di tribù, che come tale precede qualunque forma di organizzazione cittadina, e costituisce il nucleo stesso dell’idea di popolo. C’è evidentemente un certo tasso di ipotesi nel quadro qui delineato, ma anche una maggiore plausibilità e coerenza che in altre teorie. Chi non accetta di riconoscere al sistema dorico delle tribù questa funzione produttiva e propulsiva, potrà ripiegare sull’originarietà delle tribù attiche e ioniche a carattere gentilizio, ma dovrà pur adattarsi a riconoscere che esse costituiscono a tutt’oggi un enigma storico.
Le fràtrie si possono ben concepire come originaria ripartizione delle phylaí, in àmbito dorico (e i poemi omerici, per quel tanto di anacronistico che consente loro di trasferire nel passato miceneo esperienze e istituzioni dell’alto arcaismo, ne sono conferma). Non sorprende che in àmbito attico, ove altra (e magari non originaria, ma impostata con varianti numeriche intenzionali) è la funzione delle tribù, diversa sia anche la funzione della fràtria. Come ripartizione del corpo civico, costituito su base aristocratica, è naturale che la fràtria, per struttura, carattere, culti, appaia come una cellula vitale del tessuto delle società e della cultura aristocratica. E tuttavia ben poco chiari sono i rapporti con le eteríe (è stato sostenuto che queste rappresentino il nucleo di future fràtrie, ma senza sicuri argomenti) come con gli stessi génē, le grandi famiglie o consorterie nobiliari.
Si deve concordare con De Sanctis circa il carattere artificioso e secondario dei géne. In quanto attribuivano a se stessi capostipiti eroici comuni e vantavano un patrimonio di memorie che li distingueva dalla gente qualunque e fra loro stessi, i ghénē appaiono propriamente come l’esito storico della stratificazione sociale presto impiantatasi all’interno delle póleis, ma che in parte avrà riprodotto e sviluppato premesse ancora tenui di età micenea. Il richiamo ad antenati mitici può anzi proprio stare a significare lo sforzo di appropriarsi il passato miceneo, già preistorico per i Greci di età arcaica, facendone una mitica premessa, un titolo di nobiltà. Gli elementi di una società aristocratica, che nella società palaziale erano ancora presenti e compressi in forma larvale, trovano il loro sviluppo nelle nuove condizioni, integrandosi certo con altri elementi. Il carattere artificioso dei richiami consentiva inoltre un’ampia diffusione della struttura del génos; il mondo miceneo era lì come un arsenale di miti, a disposizione di chi volesse servirsene. Non c’è ragione di credere che lo sviluppo dei génē sia uniforme in tutta la Grecia. Soprattutto appare diverso il rapporto con le tribù. Dove la tribù è più vitale e determinante, è probabile che le tradizioni gentilizie si sviluppassero all’interno di quelle filetiche: in altri termini, che i génē fossero parti (parti eminenti) delle tribù. Dove le tribù sembrano avere un carattere più artificiale, e comunque una minore vitalità, la realtà dei génē sembra invece attraversare quasi con indifferenza quella delle tribù, e svolgere un ruolo maggiore dell’altra struttura (che è stato tuttavia di recente rimesso seriamente in discussione).

Statuetta di cavallo, bronzetto, età arcaica, VIII secolo a.C., New York, Metropolitan Museum. Una delle attività preferite delle aristocrazie greche era allevare cavalli.
Statuetta di cavallo, bronzetto, età arcaica, VIII secolo a.C., New York, Metropolitan Museum. Una delle attività preferite delle aristocrazie greche era allevare cavalli.

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La fine della civiltà micenea e la tradizione sulle migrazioni doriche

di MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 64-72.

 

È dalla fine del XIII secolo, fino alla metà circa del secolo successivo, che il mondo miceneo (quello che è preferibile considerare l’insieme dei regni micenei piuttosto che un impero unitario) conosce innegabili segni di declino. I fatti archeologicamente più evidenti sono le distruzioni dei palazzi di Micene, di Tirinto, di Pilo alla fine del Miceneo IIIB (1300-1200 a.C.). Già il fatto che esista un periodo Miceneo IIIC (1200-1050 a.C.) significa comunque che a queste distruzioni non si accompagna una scomparsa repentina della civiltà (e perciò verosimilmente della popolazione) micenea: la ceramica, e il livello di vita del IIIC, si rivelano certo inferiori, ma non vanno riportati necessariamente o esclusivamente ad un cambiamento di popolazione.

Maestro del Dípylon. Un carro da guerra dal frammento di un cratere attico in stile tardo geometricco, 725-720 a.C. dalla Necropoli del Ceramico. Musée du Louvre.
Maestro del Dípylon. Un carro da guerra dal frammento di un cratere attico in stile tardo geometrico, 725-720 a.C. dalla Necropoli del Ceramico (Atene). Paris, Musée du Louvre.

Le distruzioni dei palazzi, prese per sé, possono avere le cause più diverse. Cause naturali (terremoti disastrosi, accompagnati da incendi) sono da chiamare in causa certamente per Tirinto e forse anche per Pilo e Micene. Ma in quest’ultimo caso gli incendi potrebbero essere anche opera umana, cioè di invasori o/e distruttori. Distruzioni conseguenti a ribellioni interne non sono da escludere, benché questo presupponga una vasta diffusione del moto di ribellione, una sua lata sincronicità, una sua radicale efficacia nel produrre rivolgimenti socio-politici, che non è facile ammettere nelle condizioni del mondo antico, e che difficilmente avrebbe mancato di lasciare una qualche traccia nella stessa tradizione greca.

La tradizione epica e storica greca ha invece un nome preciso per i conquistatori dei grandi centri micenei: sono i Dori nel Peloponneso, sono i Tessali in Tessaglia, e fra questi popoli sono anche talora ammessi stretti rapporti[1]. E tuttavia è facile osservare come, nella stessa tradizione antica, i Dori figurino più come conquistatori che come distruttori, e che in varie regioni (in Argolide, in Messenia e nella stessa Laconia) diano vita a forme di convivenza o di vera e propria fusione con i popoli precedenti.

A questa tradizione gli storici in prima istanza e poi, sulla loro scorta, gli archeologi, hanno contrapposto la difficoltà di dare l’attributo “dorico” a specifici oggetti o monumenti, appartenenti all’epoca in cui l’invasione dorica del Peloponneso dovrebbe aver avuto luogo (nella tradizione cronografica ellenistica, il 1104 a.C., ottant’anni dopo la fine della guerra di Troia)[2].

Date della tradizione per la Guerra di Troia, da CASSOLA F., La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 1957, pp. 24 s.
Date della tradizione per la Guerra di Troia, da CASSOLA F., La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 1957, pp. 24 s.

Non è lecito liquidare la tradizione sulle migrazioni doriche con l’argomento di una sua assoluta incongruenza con i dati archeologici. La verità è che la stessa tradizione greca stenta a ricollegare determinate distruzioni del II millennio con il nome dei Dori: fatta la tara delle azioni violente inevitabilmente legate ai processi della conquista, si può dire che i Dori non appaiano (e a ben ragione) nella tradizione antica né come grandi distruttori né come grandi costruttori (le mura antichissime di città doriche vengono attribuite ai Ciclopi, non ai Dori!). La penetrazione appare come una conquista ora più ora meno veloce, ma nel suo insieme graduale, accompagnata da fatti di penetrazione e di appropriazione di un patrimonio culturale precedente (il mito del ritorno degli Eraclidi nel Peloponneso è un segno del voler accompagnare la memoria di una penetrazione di popolazioni dai distretti montuosi della Grecia centrale nel Peloponneso con il mito della riacquisizione da parte dei discendenti di Eracle, gli Eraclidi, di una regione che apparteneva al loro trisavolo).

Pittore di Antimene. Eracle, Euristeo e il Cinghiale Erimanto. Pittura vascolare da un'anfora attica a figure nere (Lato A), dall'Etruria. 525 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Pittore di Antimene. Eracle, Euristeo e il Cinghiale Erimanto. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere (Lato A), dall’Etruria. 525 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Ma non soltanto i Dori non appaiono nella tradizione come autori di spietate e radicali distruzioni e di stermini indiscriminati; c’è anche, positivamente, traccia di un malessere che ha investito la rigogliosa civiltà micenea già alcune generazioni prima dell’arrivo dei Dori nell’Argolide. Del palazzo di Pilo sarebbe stato distruttore Eracle, trisavolo dei mitici capi della conquista dorica (Temeno, Cresfonte e i figli del loro fratello Aristodemo, cioè Euristene e Procle). Nella generazione successiva ad Eracle avrebbe luogo la guerra di Troia (1194-1184 per Eratostene e per Apollodoro: ma la tradizione conosce date più alte, fino al 1340 circa per Duride e Timeo, un millennio prima della nuova spedizione “greca” contro l’Asia, quella di Alessandro Magno contro i Persiani; altri autori assumono date intermedie). Della spedizione contro Troia l’esito apparente, o quanto meno immediato, è la vittoria degli Achei, ma una vittoria che non porta a una stabile conquista della Troade, a un florido insediamento greco sulle rovine della civiltà vinta; è una spedizione punitiva, e riuscita come fatto punitivo, ma pagata a caro prezzo da tutti, nelle case dei principi achei reduci da Troia. Sarà forse la proiezione di un’umanissima nozione, tutta greca, della guerra (un male naturale, sì, ma pur sempre un male per i Greci, che non hanno mai avuto una cinica nozione della guerra come semplice fatto naturale e necessario, un dato di semplice routine dell’esistenza): sta di fatto che quella dei Greci sui Troiani è una strana vittoria, e l’épos che la celebra, e il complesso dei riecheggiamenti letterari, non hanno nulla di una trionfalistica celebrazione. Al racconto epico della guerra di Troia si accompagna tutta una memoria di fatti di contorno, che parla di nóstoi, di ritorni degli eroi, accompagnati da lutti, seguiti da dissidi, da esili, da profonde convulsioni del mondo dei regni micenei, di cui è primo e validissimo interprete proprio lo storico Tucidide (I, 10 ss.): e tutto questo è di circa tre generazioni anteriore all’epoca della presunta invasione dorica del Peloponneso.

Una teoria dei due tempi (o di più tempi) nel declino del mondo miceneo si impone dall’interno stesso della tradizione greca, ed è naturale che vi siano oggi storici ed archeologi che, più o meno consapevolmente, riproducono questo plausibile modello di svolgimento degli eventi. A una prima crisi interna al mondo miceneo succede una progressiva trasformazione, in alcune aree vitali del mondo greco (Peloponneso, Tessaglia, Creta, Sporadi meridionali e altre isole), delle condizioni di popolamento. Vi si accompagna anche un rapporto diverso col territorio, che, prima oggetto del dominio di signori dell’epoca micenea, di una società a vertice palaziale, diventa proprietà di tribù di invasori, organizzate in una forma molto meno gerarchica e verticistica. Le fertili pianure, un tempo dominate dai palazzi, diventano ora l’oggetto della spartizione delle nuove tribù. I nuovi centri politici sono più immediatamente correlati ai territori coltivabili (ciò vale per Argo in Argolide, per Steniclaro e vari centri della Messenia orientale, per Gortina rispetto a Festo, a Creta, per Larissa e altre città rispetto a Iolco in Tessaglia, ecc.). è solo un’ipotesi, che le nuove popolazioni praticassero un’economia di tipo pastorale, e che avessero un atteggiamento negativo nei confronti dell’agricoltura, che si manifesterebbe proprio nell’adozione di forme di proprietà collettiva o comunque nel rifiuto dell’esercizio dell’agricoltura, affidato al lavoro di popolazioni asservite[3]. Forse l’atteggiamento di fondo dei Dori verso l’agricoltura è più positivo di quel che questo schema consente di ammettere, e proprio il declino demografico delle ultime età micenee può aver attirato nuovi coltivatori; certamente i rapporti di proprietà della terra sono ben diversi da quelli di epoca palaziale, perché altri (cioè molti di più e in forma diversa) sono ormai i titolari della proprietà. L’adozione del modulo della servitù rurale è forse soltanto un adattamento delle possibilità di “dipendenza” che la vecchia, obliterata struttura socio-economica in se stessa portava (non tanto il frutto di un’originaria avversione per l’esercizio dell’agricoltura come attività produttiva).

Genealogia dei re di Sparta, fino agli eponimi delle due case reali, da MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall'età micenea all'età romana, Milano 2010, p. 68
Genealogia dei re di Sparta, fino agli eponimi delle due case reali, da MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, p. 68.

Ma com’è da immaginare il primo tempo del declino miceneo? Le stesse cause interne di conflitti sociali tra strati diversi della popolazione, o tra il sovrano e un’embrionale aristocrazia, potrebbero essere state accompagnate dall’irrompere di fattori distruttivi esterni, che non sarebbero però ancora i Dori, benché quei fattori possano aver preparato, anche dal punto di vista della creazione di zone di richiamo per movimenti di popoli, l’invasione dorica dei regni micenei. In generale gli storici fanno allora riferimento ai Popoli del Mare, di cui testi egiziani dalla metà del XIII agli inizi del XII secolo a.C. attestano la presenza, i movimenti, l’attività turbolenta, che appoggia tentativi d’invasione da parte libica, ma poi sconvolge soprattutto l’Oriente anatolico e siro-palestinese, per arrestarsi contro il muro della resistenza dei faraoni egiziani (Ramses II, Merneptah, Ramses III). Vero è che i Popoli del Mare, secondo alcuni, comprendono gli stessi Micenei, e quindi le egittocentriche e trionfalistiche rappresentazioni egiziane potrebbero significare movimenti più complessi di quelli dovuti a una semplice attività distruttiva.

Ma dal XIII secolo le regioni del Mediterraneo orientale conoscono modificazioni, nelle condizioni del popolamento e nella distribuzione e organizzazione del potere, che potrebbero essere in rapporto con le stesse trasformazioni interne al mondo miceneo, trasformazioni che abbiamo visto essere riflesso di crescita del mondo miceneo da un lato, ma anche espressione di inquietudini interne, di bisogni cui non corrispondono le risorse, dall’altro: un singolare intreccio di aspetti positivi e di fattori negativi e di declino. Particolarmente suggestiva, in questo senso, la coincidenza tra le tradizioni e i dati archeologici relativi alla miceneizzazione di Cipro. Frequentazioni di mercanti e artigiani risaliranno già al XIV secolo, ma è solo dall’ultimo trentennio del XIII secolo, quando cioè sta già passando il momento della fioritura dei palazzi e dei regni micenei, che a Cipro si comincia a registrare una presenza stabile e si potrà parlare di insediamenti micenei (a Enkomi, a Kition, e così via di seguito). Ne risulterà una civiltà micenea molto mescolata di elementi propri delle culture del Vicino Oriente, ma prima di quella data questi ultimi sono del tutto dominanti. Ebbene, la tradizioni concepisce la migrazione degli Achei a Cipro, con la conseguente fondazione di Salamina sulla costa orientale dell’isola (non lontano da Enkomi), come un fenomeno tardivo dell’espansione achea, un contraccolpo di fatti luttuosi che accompagnano il rientro dei due figli di Telamone, Aiace e Teucro, dalla guerra di Troia, e come opera dell’esule Teucro.

Pittore anonimo. Scena di combattimento fra Achei e Troiani. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 490 a.C. ca. da Vulci. Paris, Musée du Louvre
Pittore anonimo. Scena di combattimento fra Achei e Troiani. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 490 a.C. ca. da Vulci. Paris, Musée du Louvre.

L’epoca che la tradizione letteraria connette con l’arrivo dei Dori nel Peloponneso e nelle isole dell’Egeo è dunque obiettivamente contrassegnata da trasformazioni notevoli, archeologicamente documentate. Tuttavia sarebbe indimostrabile e forse anche improbabile considerare queste novità culturali come il portato di un nuovo popolo. Ad una connessione così rigida e meccanica si potrebbero muovere molte obiezioni. Ci sono trasformazioni che investono non solo l’area dorica, ma anche, e prima che quella dorica, altre aree che, pur se toccate dal movimento dei Dori, non ne furono il principale teatro né la destinazione definitiva (ciò vale, ad esempio, per la ceramica proto-geometrica che ha la sua prima diffusione in Attica, anche se investe regioni doriche come l’Argolide e altre ancora; ciò vale anche per il rituale funerario dell’incinerazione). L’uso delle tombe a cista non appare così innovativo, come un tempo si è sostenuto, rispetto all’epoca micenea. I fatti di continuità tra miceneo, sub-miceneo e geometrico sono verificabili sia in Argolide sia a Creta. Viceversa la fine dei palazzi riguarda, oltre le aree poi dorizzate, anche la stessa Attica.

C’è un grande mutamento nell’area mediterranea, a cominciare dalle sue regioni orientali, che riguarda l’uso dei metalli, di particolare, ma non esclusiva, destinazione militare: il cambiamento segna anche, dall’Età del Bronzo a quella del Ferro. Ciò presuppone da un lato, e produce dall’altro, cambiamenti di ordine economico e di civiltà in genere, e cambiamenti di ordine socio-politico; vi sono collegate innovazioni nelle linee di comunicazione, di scambio, di traffico. Entrano così in gioco, in un più stretto rapporto col mondo greco, quelle regioni dell’Anatolia orientale e dell’entroterra siro-anatolico, ove si estrae e da cui s’importa il ferro.

La situazione nel Tardo Elladico III, da HAMMOND N.G.L., Migrations and Invasions in Greece and Adjacent Areas, New York 1976, p. 142
La situazione nel Tardo Elladico III, da HAMMOND N.G.L., Migrations and Invasions in Greece and Adjacent Areas, New York 1976, p. 142.

Ma la maggiore disponibilità naturale di tale metallo significa anche un ruolo diverso, nella società, dei possessori e degli artigiani di quel metallo: la scarsità stessa del rame aveva assegnato ai suoi possessori e artigiani una posizione particolare nelle società palaziali, che ci sono note attraverso le tavolette che ne registrano la contabilità. Inoltre, la stessa possibilità di un uso più ampiamente diffuso di armi nel nuovo metallo si accompagna a una nuova organizzazione militare. Furono i Dori portatori della cultura che fa uso del nuovo metallo, o di nuovi tipi di armi? Questa sembra una connessione troppo schematica, rispondente ad una positivistica equazione tra popoli e armi o oggetti, insomma tra soggetti ed oggetti storici. Certamente, nella storia dei secoli oscuri delle città che in piena luce di storia figureranno come doriche saranno da ammettere novità di ordine sociale e politico, connesse con le istituzioni che i Dori portarono, o si diedero, nella conquista; a queste novità socio-politiche si adattano innovazioni che sono della tecnica metallurgica, della organizzazione e tattica militare, del rituale funerario, delle espressioni artistiche, di cui i Dori non furono necessariamente né gli inventori né i soli fruitori. In comune, sul piano socio-politico, c’è una diffusione di valori collettivi, di espressioni di massa, di tendenze ugualitarie, tutte cose da intendere non come momento di democrazia, che sarebbe gravissimo anacronismo, ma come riflesso di un crollo di precedenti forme di potere, più accentrato, di tipo monarchico e palaziale.

 

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Note

 

[1] Per la tradizione sulla provenienza dei Tessali dalla Tesprozia, cfr. Hdt. VII 176; Sordi M., La lega tessala fino ad Alessandro Magno, Roma 1958, 1-3; per i collegamenti con le Sporadi meridionali e in part. con Cos, v. Il. II 676 ss., e autori ellenistici (Apollodoro, Filita, Teocrito, Dosiade, Diodoro); cfr. Sordi M., op. cit., 3 ss. Sul problema, v. Musti D., Le origini dei Greci: Dori e mondo egeo, Torino 19912, 57-59.

[2] Cfr. per la cronologia della guerra di Troia e del “ritorno degli Eraclidi”, Apollod. FGrHist. 244 F 61-62.

[3] Cfr. Kirsten E., Gebirgshirtentum und Seßhaftigkeit – Die Bebeutung der Dark Ages für die griechische Staatenwelt: Doris und Sparta, in Deger-Jalkotzy S. (Hg.), Griechenland, die Ägäis und die Levante während der „Dark Ages“ vom 12. bis zum 9. Jh. v. Chr. Akten des Symposions von Stift Zwettl (NÖ) 11.-14. Oktober 1980, Wien 1983, 355-445, per la concezione qui esposta.