di I. BIONDI, Storia e antologia della letteratura greca. 2.B. La prosa e le forme di poesia, Messina-Firenze 2004, pp. 273-274.
Nella pedagogia antica, l’educazione all’eloquenza rappresentò il momento più importante della formazione dei futuri politici, e fu intesa come mezzo per giungere a dominare nel modo più completo lo strumento della parola, anche nella forma della comunicazione scritta, che nel corso del IV secolo a.C. andava facendosi sempre più frequente. Non si trattava di limitarsi ad assimilare nozioni empiriche sulla corretta maniera di esprimersi, ma di raggiungere una preparazione culturale ed una maturazione tali che permettessero di sostenere con successo un dibattito con interlocutori di pari livello e di sconfiggerli con la forza dei fatti e delle argomentazioni, non con l’uso di puri artifici retorici. Questa preparazione poteva essere conseguita solo attraverso un lungo processo educativo ed auto-educativo, che, in pratica, durava tutta la vita.
Tuttavia, sarebbe errato attribuire al magistero di Isocrate un carattere pedagogico in senso stretto, poiché per lui la παίδευσις, l’«educazione», fu solo il mezzo per giungere alla formazione di una classe di politici. Con questo termine, egli intese definire gli individui in grado di adempiere alla funzione di guide dello Stato, non solo perché in possesso di una solida formazione intellettuale e culturale, ma perché preparati ad elaborarle e a penetrarne i significati, così da poterli poi tradurre in azioni utili per la comunità.
Il fine ultimo del processo educativo è la «filosofia», che consiste, oltre che nella piena padronanza dei mezzi di espressione, nell’aver conseguito una maturità intellettuale, che permetta una sicura capacità di giudizio e di critica, su cui fondare l’azione.

Scolaro di Gorgia, Isocrate derivò da lui sia la convinzione che il pensiero non si limiti ad interpretare la realtà, ma la crei, sia il concetto di ψυχαγωγία, che potremmo tradurre molto banalmente con «forza di persuasione», ma che in realtà indica qualcosa di assai più profondo, e cioè la capacità di influire a proprio piacimento sull’anima altrui. Questa potenza, in origine attribuita soltanto alla poesia, ora diviene concetto essenzialmente politico, nella convinzione che solo la superiorità intellettuale dia la capacità di affrontare in modo adeguato le responsabilità di governo. Studi come l’astronomia, la matematica, la geometria, le scienze naturali non hanno alcuna importanza nella formazione dell’uomo politico, perché non forniscono i mezzi per avere ascendenza sugli altri e guidarli. La filosofia, invece, insegna a pensare, a capire, a giudicare; il suo strumento è il λόγος, la «parola», l’unico vero elemento di superiorità dell’uomo sugli altri esseri viventi, perché gli permette di vivere con intelligenza e di stabilire le norme che regolano la vita associata, senza doverle attendere come dono di una divinità provvidenziale.
In sintesi, per Isocrate, è la filosofia che rende l’uomo «politico»: senza di essa, infatti, non si avrebbe che l’ἰδιότης, il «cittadino privato», che non ha la capacità per imporsi e che è la cellula prima dell’ὄχλος, la «massa», politicamente amorfa e facile ad essere manipolata. Fondandosi su queste convinzioni, al momento dell’apertura della sua scuola, Isocrate sentì il bisogno di chiarire, nel discorso Contro i sofisti, la differenza che, secondo lui, passava fra eristica e filosofia e, di conseguenza, fra il suo insegnamento e quello dei sofisti.
Riuscire ad avere la meglio in un dibattito, utilizzando gli accorgimenti dialettici appresi da un maestro, per quanto illustre, non significa, per Isocrate, aver raggiunto un livello intellettuale superiore a quello del proprio avversario; è necessario aver prima acquisito la capacità di comprendere, con personale senso critico, ciò che è buono e giusto e, conseguentemente, ricavare dalle proprie convinzioni i mezzi dialettici per comunicare agli altri le proprie conquiste morali. Alla luce di tutti questi concetti, la Sofistica, che è indifferente alla verità, alla virtù e alla giustizia, appare una deviazione, da considerarsi non solo inutile, ma anche nociva, alla formazione dell’uomo politico e alla sua παίδευσις; pertanto, un’educazione di questo genere è da rifiutare, così come non si deve credere a chi, come Socrate e Platone, sostiene di poter insegnare la virtù. Infatti, Isocrate, pur avendo preso le distanze dall’insegnamento dei sofisti, erede del relativismo professato da costoro, non crede che sia possibile conoscere la vera essenza della virtù; di conseguenza, non si può nemmeno insegnarla.

A suo avviso, ogni individuo può migliorare con lo studio, a meno che la sua indole (φύσις) non risulti assolutamente negata per questo genere di attività intellettuale. In tal caso, troverà senz’altro qualcosa di più adatto a lui, nella vasta gamma di differenti possibilità, offerte dalla società in cui vive. Stabilire invece le qualità naturali proprie del politico non era altrettanto facile, ma si poteva sempre cercare un punto di riferimento nella serie dei modelli etici offerti dal mito. Infatti, qualità come la εὐεργεσίᾳ, la «capacità di fare del bene», la εὐτυχία, la «capacità di ottenere successo», la νικηφορία, la «capacità di riportare vittorie», la εἰρηνοποίησις, la «capacità di pacificare», erano di solito considerate doni gratuiti degli dèi e appannaggio esclusivo delle figure eroiche – e in particolar modo di quella di Eracle.
In questi concetti era insita anche una spiccata valenza politica; ciò sarà ulteriormente dimostrato dal fatto che, in età ellenistica, molti sovrani assumeranno titoli ispirati ad essi, a testimonianza del carattere benefico della loro ideologia politica; si possono citare, ad esempio, l’attributo di εὐεργέτης, «benefattore», comune a vari sovrani della dinastia dei Tolemei, o quello di σωτήρ, «salvatore», anch’esso assai frequente – e poi divenuto, in età cristiana, sinonimo di Cristo.
Per queste ragioni Isocrate assunse volentieri a modello la figura eroica di Eracle e, più ancora, quella di Teseo: nel primo, egli vedeva infatti l’eroe benefattore, che aveva messo a frutto, non solo per se stesso, ma per il bene dell’umanità tutta, il dono divino della sua forza sovrumana; il secondo, l’eroe attico per antonomasia, era esaltato per il suo coraggio, per le sue capacità strategiche, per la sua saggezza, ma soprattutto per le sue doti intellettuali, morali e politiche. Queste qualità facevano di lui la migliore guida per il suo popolo e il modello ideale di una ἀρετή, «virtù», non più soltanto guerriera, ma anche intesa come sintesi perfetta di qualità naturali positive e di uno sforzo continuo e paziente di auto-educazione, che, pur nei limiti dell’umano, avvicinava il vero uomo politico alle capacità evergetiche degli eroi e degli dèi.
Ho letto con interesse questa interpretazione del pensiero di Isocrate, così diversa da quella che propongo ai miei studenti e che mi stimola a riprendere le ricerche. Trovo sorprendente, in particolare, l’assenza di analisi del rapporto tra retorica e cultura e di una riflessione approfondita sul concetto di filosofia (che meriterebbe di essere affrontata, visto che è proprio Platone nel V secolo a codificarla).
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[…] In essa si distinse soprattutto Isocrate, che scelse volontariamente, sia a fini politici sia pedagogici, questa forma di comunicazione, particolarmente adatta alle sue doti di grande chiarezza […]
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