di A. Traina, Poeti latini e neolatini, II, Pàtron, Bologna 1981, pp. 115 sgg.

«Il doppio predicativo humilis supplex crea un campo di tensioni semantiche. In Aen. XII, 926 s. è descritta la caduta dell’eroe sulle ginocchia: incidit ictus/ingens ad terram duplicato poplite Turnus. La prima connessione che si instaura nel microcontesto è tra humilis e i due determinativi iniziali del v.927: ingens (per antitesi) e ad terram (per omologia). Ingens, la gigantesca statura dell’eroe epico, che lo accomuna ad Enea (Aen. VI, 413; VIII, 367; X, 579; XII, 441), è come annullata dall’atterramento di Turno; ad terram segna un moto dall’alto verso il basso: humilis «da terra», lo richiama in senso inverso, dal basso in alto, la direzione degli occhi dalla mano della voce. Il primo elemento che il poeta riprende dalla descrizione dei vv. 926 s., chiusa la parentesi dei vv. 928 s. dedicata alla reazione dei Rutuli (il primo elemento dopo ille in incipit, e si noti come Virgilio sacrifichi l’atteso valore oppositivo dell’isometrico ipse all’intensa deitticità di ille, che riporta lo sguardo del lettore dai Rutuli a Turno), è dunque la posizione di Turno nello spazio, emblematica della sua condizione di vinto, mediante l’accezione etimologica e visiva di humilis.
Ma, d’altra parte, la contiguità sintagmatica con supplex richiama la coppia paradigmatica sinonimica humilis et supplex, dove il primo termine denota, per dirla con un suo celebre studioso, «sottomissione nelle parole e nei gesti»; un atteggiamento che riflette uno stato d’animo (esattamente come supplex, il cui valore etimologico e visivo, «che si piega sulle ginocchia», è ravvivato, nella coerenza dei parallelismi contestuali, dal precedente duplicato poplite). Turno «si umilia» a supplicare Enea. Questa accezione è poi rilanciata da precantem e da tutto il discorso del rutulo (in particolare dai vv.936 s.: vicisti, et victum tendere palmas/Ausonii videre). A livello del macrocontesto essa si iscrive nel sistema dei valori etico-politici dell’Eneide e, più in generale, dell’ideologia augustea, segnando il culmine del dramma di Turno e insieme la sua catarsi.
Enea, ci scusiamo di ripeterlo, è l’eroe della pietas: che è subordinazione di sé ai valori che trascendono l’io, ai doveri verso gli dèi e la provvidenza immanente alla storia (anche se amara per l’individuo), verso la patria passata e futura, i parenti e i compagni, e, in genere, «gli altri» in quanto non siano portatori di ideologie concorrenti. L’antagonista, Turno, «l’anti-Enea», rappresenta perciò una gamma di valori opposti, convergenti in quel comportamento che i Greci dicevano hybris (corradicale di superbia) e noi, in una prospettiva laica e moderna, diremmo individualismo. È il comportamento di chi pone in se stesso la misura del valore, e si rifiuta di sacrificarsi a un valore più alto perché comune a una più larga umanità. Mai Turno ha definito meglio se stesso che nell’affermazione – certo blasfema nel mondo virgiliano – di Aen. IX, 136 s.: sunt ea mea contra/fata mihi. Le qualità che Virgilio gli attribuisce – alcune con la costanza di una sigla tematica che della formula omerica ha solo la fissità ripetitiva ma non l’indifferenza referenziale – sono la violentia, l’audacia e la fiducia: cioè l’irriflessiva e aggressiva presunzione dei propri diritti e delle proprie forze. Il duello finale non è tra due uomini per una donna e un regno, ma fra due sistemi di valori. Noi sappiamo, fin dall’inizio, che in questo scontro la vittima predestinata è Turno; e Turno stesso se ne rende lentamente conto nel corso di quel libro XII che da ciò attinge il suo pathos, senza alcuna concessione al trionfalismo dei vincitori. (Anzi, persino Enea alla vigilia dell’ultimo duello tiene a dissociarsi dalla sua imminente e immancabile vittoria, 435 s.: disce, puer, virtutem ex me verumque laborem/fortunam ex aliis). Ma il vero dramma di Turno non sta nell’essere vinto: sta nel sentirsi e nel confessarsi vinto, che è poi il segno dell’autentica sconfitta, la sconfitta morale, secondo l’etica quiritaria del vecchio Ennio (Ann. 493 V): qui vicit non est victor nisi victus fatetur. Il veicolo linguistico di questo nuovo atteggiamento di Turno, che ne ribalta l’ethos, è proprio la coppia humilis-supplex, semanticamente antitetica ai valori espressi da violentia, audacia, fiducia. Questa, dicevamo, è la vera sconfitta di Turno: ma, in quanto la sua ammissione di colpevolezza (equidem merui) gli fa accettare e lo fa rientrare nell’ordine ideologico del vincitore, è anche il suo riscatto morale.
Si è così realizzata una delle «leggi» incise sulle tavole dell’imperialismo romano: debellare superbos. Ho detto romano piuttosto che augusteo: H. Haffter ci ha insegnato a leggere la descrizione plautina della battaglia tra Anfitrione e i Teleboi in termini ispirati al concetto politico di superbia (Amph. 212 ss.: magnanimi viri freti virtute et viribus/superbe nimis ferociter legatos nostros increpant; superbia che si converte in supplice umiltà dopo la sconfitta, 257: velatis manibus orant ignoscamus peccatum suum). Ma, una volta piegato il «superbo», scatta l’altra legge dell’ideologia augustea consacrata da Virgilio; parcere subiectis. Per rispondere a questa norma il poema dovrebbe finire con un atto di clemenza. È quello che sta per fare Enea (940 s.: et iam iamque magis cunctantem flectere sermo/coeperat) – e in ciò consiste la principale diffidenza con l’Achille omerico – quando la sua pietas verso il vinto si scontra con un’altra e più arcaica dimensione della pietas, quella che privilegia il dovere della vendetta verso l’amico ucciso. Così Enea uccide: e la chiusa, invece d’essere la trionfale celebrazione di un’ideologia politica, è anch’essa, come tutto il poema, tragedia di vinti».