Gli Americani riscoprono il latino e il greco

M. Ferrara – Corriere della Sera

L’Economist l’ha chiamata «una versione ellenistica di Woodstock». Più che un evento accademico, la Greek Summer School di Bryanston, in Inghilterra, è infatti una kermesse dove si fa di tutto: corsi di grammatica, letture pubbliche di Omero, pittura su vaso. E, naturalmente, molto teatro: tragedie e commedie lette, tradotte e persino recitate in costume nella lingua di Euripide e Aristofane. Da quarant’anni la scuola di Bryanston (due settimane a cavallo fra luglio e agosto) attrae partecipanti da tutto il mondo, fra i 16 e i 25 anni. Le domande aumentano ogni estate: segnale di un vero e proprio revival del greco antico e, più in generale, delle lingue classiche che si riscontra ormai in vari Paesi. Il fenomeno è particolarmente evidente negli Stati Uniti. Dagli anni Novanta gli studenti universitari che frequentano corsi di greco e di latino sono aumentati del 30%. La crescita riguarda sempre di più anche le scuole secondarie e persino le medie. Come si spiega questo boom classicista nel Paese della new economy e delle nuove tecnologie? In parte si tratta di una ricerca di distinzione all’interno di un sistema educativo sempre più massificato e al tempo stesso sempre più competitivo. L’aver studiato una lingua classica sta diventando una sorta di messaggio in codice sia verso il mondo del lavoro che verso le migliori graduate schools. Un messaggio di serietà e curiosità intellettuale, che peraltro si ricollega ad un’antica tradizione del mondo anglosassone. Qui le scuole medie una volta si chiamavano grammar schools e la grammatica che si imparava per prima era quella latina. Fino all’Ottocento, per entrare ad Harvard bisognava saper parlare latino «suo – ut aiunt – Marte» («con le proprie forze, come si dice»: cioè da soli, senza aiuto). In un recente sondaggio, due terzi delle università USA hanno dichiarato che, a parità di fattori, la conoscenza del greco o del latino conferisce agli studenti una marcia in più. E con ciò arriviamo alla molla più rilevante dietro al revival delle lingue classiche: il loro apprendimento ha un elevato valore formativo. Studiarle significa allenare non solo la memoria e l’attenzione per il dettaglio, ma anche le capacità logiche e di ragionamento critico. Si sviluppano in questo modo competenze generali sulle quali appoggiare le molteplici competenze specifiche che si acquisiscono in seguito o in parallelo. Per iscriversi al college e poi alle graduate schools gli studenti americani devono sostenere una serie di test attitudinali. Ebbene, i punteggi ottenuti nelle prove di capacità logico-verbali sono sistematicamente più elevati fra i giovani che hanno studiato una lingua classica (di nuovo, a parità di altri fattori). Il vantaggio è visibile anche rispetto a chi ha studiato lingue vive «strutturate» (con casi e declinazioni) come il russo o il tedesco. E’ sulla base di questi dati che i cosiddetti latin-based programs si stanno diffondendo in molte scuole medie, anche in quelle pubbliche situate in quartieri disagiati. Naturalmente nel sistema educativo americano gioca un ruolo centrale anche lo studio di un’altra disciplina che è da sempre usata per allenare la mente degli studenti: la matematica. Seppure meno evidente che negli USA, il revival classicista si registra anche in molti Paesi europei. L’Italia ha sempre detenuto il record mondiale per lo studio del latino e del greco nella scuola secondaria. Dopo un periodo di declino, il liceo classico ha visto nuovamente crescere negli ultimi anni la propria capacità di attrazione. Se le indicazioni che emergono dagli USA sono affidabili, possiamo allora dire che, proprio grazie al liceo classico, il sistema scolastico italiano possiede una sorta di «vantaggio comparato» rispetto ad altri sistemi europei? Purtroppo non disponiamo di statistiche affidabili per rispondere. Le indagini PISA-OCSE si riferiscono agli studenti quindicenni: troppo presto per cogliere l’«effetto classico» sulla loro preparazione. Molti docenti universitari sostengono che i giovani del classico hanno competenze più robuste e soprattutto più «plastiche» degli altri: ma si tratta di impressioni. Va poi considerato che nell’ultimo quindicennio le scuole secondarie hanno avviato un’intensa fase di sperimentazione. Pur mantenendo ferma la centralità del greco e del latino, molti licei classici hanno rafforzato il peso delle materie scientifiche. Purtroppo di questi esperimenti sappiamo poco o nulla: non esiste un sistema nazionale di monitoraggio, per non parlare di valutazione (un’altra voce da aggiungere alla fitta agenda del ministro Gelmini). E’ tuttavia probabile che la sperimentazione nei licei ginnasi abbia prodotto più di un «tesoretto» in termini di mix disciplinari virtuosi ed efficaci. Se così è, la sfida è allora quella di individuare questi patrimoni nascosti e valorizzarli il più possibile per rafforzare il nostro capitale umano e promuovere eccellenza educativa. L’«effetto classico» potrebbe inoltre avere qualche ricaduta non trascurabile anche sul piano commerciale. Se in giro per il mondo ci sono così tanti (aspiranti) grecisti e latinisti, perché non proporre scuole estive nelle nostre regioni? Immaginatevi una Schola Antiquitatum in Sicilia. La cornice artistica e ambientale sarebbe senz’altro più suggestiva che a Bryanston, Dorset (per non parlare di clima e cibo). Forse si riuscirebbe a intercettare un buon numero dei nuovi turisti dell’istruzione, anche dall’America. Servirebbe un piccolo sforzo, certo. Ma vi sarebbero anche buone prospettive di guadagno. Anzi: di lucrum magnum.

Beviamo!

Pittore di Brygos, Scena simposiale - un giovane banchettante e danzatrice. Dall'interno di una kylix attica. Terracotta da Vulci, 490-480 a.C. London British Museum
Pittore di Brygos, Scena simposiale – un giovane banchettante e danzatrice. Dall’interno di una kylix attica. Terracotta da Vulci, 490-480 a.C. London British Museum

πώνωμεν· τί τὰ λύχν’ ὀμμένομεν; δάκτυλος ἀμέρα·
κὰδ δ’ ἄερρε κυλίχναις μεγάλαις αιταποικιλλις·
οἶνον γὰρ Σεμέλας καὶ Δίος υἶος λαθικάδεον
ἀνθρώποισιν ἔδωκ’. ἔγχεε κέρναις ἔνα καὶ δύο
πλήαις κὰκ κεφάλας, ‹ἀ› δ’ ἀτέρα τὰν ἀτέραν κύλιξ
ὠθήτω

Beviamo: perché mai attendiamo le lucerne? Un dito è il giorno;
va’, prendi da basso le grandi coppe, gioia mia, quelle variopinte:
il vino, infatti, il figlio di Semele e di Zeus concesse agli uomini
come cancella-affanni. Versa mescendo una misura e due, ricolme fino all’orlo, e
ogni boccale sospinga l’altro.

Alc. fr. 346 Voigt

La vecchia imbellettata…

 

«Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario».

da L. Pirandello, L’umorismo e altri saggi, Giunti, Firenze 1994.

 

Pittore di Cotugno. Scena di farsa fliacica con un’anziana donna. Cratere a campana apulo a figure rosse, 370-360 a.C. ca.

 

Esempio di riflessione quanto mai eternamente attuale, purtroppo o per fortuna; eppure, ha un grande precedente nella storia della letteratura occidentale in Aristofane, Pluto vv.959 ss. Eccovi la scena:

(Vecchia = Ve.; Coro = Co.; Cremilo = Cr.)

Ve. – Cari vecchietti, abita qui il nuovo dio o abbiamo sbagliato strada?
Co. – Tranquilla. Sei proprio davanti alla porta della sua casa, ragazzina! Hai una voce così giovanile!
Ve. – Bene, bene. Allora chiamerò qualcuno di quelli che ci alloggiano (sta per bussare, ma compare sull’uscio Cremilo, il proprietario della casa)
Cr. – Oh, ma non ce n’è bisogno; sono qui io, in prima persona! Ma come mai sei venuta?
Ve. – Carissimo, mi succedono cose terribili e infamanti; da quando ha recuperato la vista, questo dio mi ha reso la vita impossibile!
Cr. – E come mai? Non sarai mica un sicofante femmina?
Ve. – Ma neanche per sogno!
Cr. – Allora, che hai bevuto senza aspettare il tuo turno?
Ve. – Mi prendi in giro! Ma io – ah, povera me! – soffro un prurito angoscioso!
Cr. – E che genere di prurito? Spiegati e taglia corto!
Ve. – Ascoltami: avevo un amichetto giovane, povero in canna, ma con un bel visino. Anzi, era bello tutto! E anche onesto. Avevo un desiderio? E lui era lì, tutto a modo, pronto ad accontentarmi a puntino. Io, per quanto mi riguarda, lo contraccambiavo in tutto.
Cr. – E lui che ti chiedeva di solito?
Ve. – Oh, ben poco; era molto discreto. Una ventina di dracme d’argento per un mantello oppure otto dracme per un paio di calzari. Ah, sì… mi ha pregato di comprare una tunica per sua sorella e una mantellina per sua madre. Una volta ha avuto bisogno di due quintali d’orzo!
Cr. – Ah, beh, quisquilie allora! Proprio un tipo discreto!
Ve. – Oh, ma non era questione di avidità – mi diceva – ma di affetto: portare il mantello alimentava in lui il mio ricordo.
Cr. – Parli di un uomo innamorato perso!
Ve. – Ma ora, quello schifoso, non prova più gli stessi sentimenti! E’ completamente cambiato; gli avevo mandato questa focaccina, contornata da queste leccornie qui, in questo vassoio, preannunciandogli che sarei andata da lui, stasera..
Cr. – E lui che ha fatto? Dì, su!
Ve. – Me l’ha rimandata, insieme a questo tortino al latte e a questo messaggio qui: “Sono passati i bei tempi in cui i Milesi erano coraggiosi!”.
Cr. – Direi che non è stato poi così perfido! Solo, divenuto ricco, non gradisce più la minestra di lenticchie. Prima, per la povertà, avrebbe leccato qualsiasi cosa!
Ve. – Bussava ogni giorno alla mia porta..
Cr. – Per prender parte al funerale?
Ve. – Ma no, per sentire la mia voce!
Cr. – E per arraffare qualcosa…
Ve. – Ma no, per Zeus! Si accorgeva che ero triste, mi chiamava affettuosamente “passerotta”, o “tortorella”…
Cr. – E a quel punto ti chiedeva i soldi per i calzari…
Ve. – Ai Grandi Misteri, solo perché un tale aveva posato gli occhi su di me, mentre ero sul carro, mi picchiò per tutta la giornata: era gelosissimo!
Cr. – Voleva tenere i concorrenti lontani dalla cuccagna!
Ve. – Diceva anche che le mie mani erano splendide…
Cr. – Sì, quando sganciavano venti dracme!
Ve. – E che la mia pelle emanava un dolce profumo…
Cr. – Si, quello del vino di Taso che gli versavi!
Ve. – E che i miei occhi sono languidi e belli!
Cr. – Non è stato affatto stupido, il giovanotto: sapeva come divorare i beni di una vecchia in calore!

Aristoph., Plut. 959-1024, trad. it. U. Albini. Garzanti, Milano 2003.

 

Donna anziana. Statua, marmo, copia romana di I sec. d.C. da un originale greco di II sec. a.C. New York, Metropolitan Museum of Art.

Enea e Turno, l’anti-Enea

di A. Traina, Poeti latini e neolatini, II, Pàtron, Bologna 1981, pp. 115 sgg.

 

Elmo etrusco-italico. Bronzo, fine IV-inizi III sec. a.C. ca. da Berceto. Parma, Museo Archeologico Nazionale.

 

«Il doppio predicativo humilis supplex crea un campo di tensioni semantiche. In Aen. XII, 926 s. è descritta la caduta dell’eroe sulle ginocchia: incidit ictus/ingens ad terram duplicato poplite Turnus. La prima connessione che si instaura nel microcontesto è tra humilis e i due determinativi iniziali del v.927: ingens (per antitesi) e ad terram (per omologia). Ingens, la gigantesca statura dell’eroe epico, che lo accomuna ad Enea (Aen. VI, 413; VIII, 367; X, 579; XII, 441), è come annullata dall’atterramento di Turno; ad terram segna un moto dall’alto verso il basso: humilis «da terra», lo richiama in senso inverso, dal basso in alto, la direzione degli occhi dalla mano della voce. Il primo elemento che il poeta riprende dalla descrizione dei vv. 926 s., chiusa la parentesi dei vv. 928 s. dedicata alla reazione dei Rutuli (il primo elemento dopo ille in incipit, e si noti come Virgilio sacrifichi l’atteso valore oppositivo dell’isometrico ipse all’intensa deitticità di ille, che riporta lo sguardo del lettore dai Rutuli a Turno), è dunque la posizione di Turno nello spazio, emblematica della sua condizione di vinto, mediante l’accezione etimologica e visiva di humilis.
Ma, d’altra parte, la contiguità sintagmatica con supplex richiama la coppia paradigmatica sinonimica humilis et supplex, dove il primo termine denota, per dirla con un suo celebre studioso, «sottomissione nelle parole e nei gesti»; un atteggiamento che riflette uno stato d’animo (esattamente come supplex, il cui valore etimologico e visivo, «che si piega sulle ginocchia», è ravvivato, nella coerenza dei parallelismi contestuali, dal precedente duplicato poplite). Turno «si umilia» a supplicare Enea. Questa accezione è poi rilanciata da precantem e da tutto il discorso del rutulo (in particolare dai vv.936 s.: vicisti, et victum tendere palmas/Ausonii videre). A livello del macrocontesto essa si iscrive nel sistema dei valori etico-politici dell’Eneide e, più in generale, dell’ideologia augustea, segnando il culmine del dramma di Turno e insieme la sua catarsi.
Enea, ci scusiamo di ripeterlo, è l’eroe della pietas: che è subordinazione di sé ai valori che trascendono l’io, ai doveri verso gli dèi e la provvidenza immanente alla storia (anche se amara per l’individuo), verso la patria passata e futura, i parenti e i compagni, e, in genere, «gli altri» in quanto non siano portatori di ideologie concorrenti. L’antagonista, Turno, «l’anti-Enea», rappresenta perciò una gamma di valori opposti, convergenti in quel comportamento che i Greci dicevano hybris (corradicale di superbia) e noi, in una prospettiva laica e moderna, diremmo individualismo. È il comportamento di chi pone in se stesso la misura del valore, e si rifiuta di sacrificarsi a un valore più alto perché comune a una più larga umanità. Mai Turno ha definito meglio se stesso che nell’affermazione – certo blasfema nel mondo virgiliano – di Aen. IX, 136 s.: sunt ea mea contra/fata mihi. Le qualità che Virgilio gli attribuisce – alcune con la costanza di una sigla tematica che della formula omerica ha solo la fissità ripetitiva ma non l’indifferenza referenziale – sono la violentia, l’audacia e la fiducia: cioè l’irriflessiva e aggressiva presunzione dei propri diritti e delle proprie forze. Il duello finale non è tra due uomini per una donna e un regno, ma fra due sistemi di valori. Noi sappiamo, fin dall’inizio, che in questo scontro la vittima predestinata è Turno; e Turno stesso se ne rende lentamente conto nel corso di quel libro XII che da ciò attinge il suo pathos, senza alcuna concessione al trionfalismo dei vincitori. (Anzi, persino Enea alla vigilia dell’ultimo duello tiene a dissociarsi dalla sua imminente e immancabile vittoria, 435 s.: disce, puer, virtutem ex me verumque laborem/fortunam ex aliis). Ma il vero dramma di Turno non sta nell’essere vinto: sta nel sentirsi e nel confessarsi vinto, che è poi il segno dell’autentica sconfitta, la sconfitta morale, secondo l’etica quiritaria del vecchio Ennio (Ann. 493 V): qui vicit non est victor nisi victus fatetur. Il veicolo linguistico di questo nuovo atteggiamento di Turno, che ne ribalta l’ethos, è proprio la coppia humilis-supplex, semanticamente antitetica ai valori espressi da violentia, audacia, fiducia. Questa, dicevamo, è la vera sconfitta di Turno: ma, in quanto la sua ammissione di colpevolezza (equidem merui) gli fa accettare e lo fa rientrare nell’ordine ideologico del vincitore, è anche il suo riscatto morale.
Si è così realizzata una delle «leggi» incise sulle tavole dell’imperialismo romano: debellare superbos. Ho detto romano piuttosto che augusteo: H. Haffter ci ha insegnato a leggere la descrizione plautina della battaglia tra Anfitrione e i Teleboi in termini ispirati al concetto politico di superbia (Amph. 212 ss.: magnanimi viri freti virtute et viribus/superbe nimis ferociter legatos nostros increpant; superbia che si converte in supplice umiltà dopo la sconfitta, 257: velatis manibus orant ignoscamus peccatum suum). Ma, una volta piegato il «superbo», scatta l’altra legge dell’ideologia augustea consacrata da Virgilio; parcere subiectis. Per rispondere a questa norma il poema dovrebbe finire con un atto di clemenza. È quello che sta per fare Enea (940 s.: et iam iamque magis cunctantem flectere sermo/coeperat) – e in ciò consiste la principale diffidenza con l’Achille omerico – quando la sua pietas verso il vinto si scontra con un’altra e più arcaica dimensione della pietas, quella che privilegia il dovere della vendetta verso l’amico ucciso. Così Enea uccide: e la chiusa, invece d’essere la trionfale celebrazione di un’ideologia politica, è anch’essa, come tutto il poema, tragedia di vinti».

Apollo e Dafne

 Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne (1622-1625).  Galleria Borghese, Roma.
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne (1622-1625).
Galleria Borghese, Roma.

Costui che segue, tuttavia, cui Amore mette le ali,
è più veloce, non dà tregua alla fuggitiva e già le è alle spalle
e il suo alito le sfiora i capelli sul collo.
Con le energie esauste, vinta dalla fatica della fuga concitata,
quella impallidisce: «O Terra! – urla – distruggi il mio aspetto,
trasforma questa bellezza, che è causa della mia rovina!
Padre – aggiunse – aiutami, se è vero che voi fiumi avete potere divino!
Sfigura questo mio aspetto per cui troppo sono piaciuta!».
Non ha ancora finito di parlare che subito un pesante torpore le invade le membra:
il morbido petto è cinto da una sottile corteccia,
i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami;
i piedi, prima tanto veloci, sono inceppati da inerti radici,
il viso diventa la cima: solo lo splendore in lei resta.
Ma anche così Febo l’ama e posta la destra sul tronco
sente pulsare ancora il cuore sotto la corteccia appena spuntata
e abbracciando i suoi rami, come le membra, riempie
di baci il tronco della pianta…

P. Ovidio Nasone, Metamorfosi I, 540-556a