L’elegia dell’addio (Prop. III 25)

di F. PIAZZI, A. GIORDANO RAMPIONI, Multa per aequora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina – 2. Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004, pp. 319-322.

 

 

È l’elegia del congedo, «viva come un corpo ferito e sanguinate» (A. La Penna), da alcuni studiosi considerata un tutt’uno con l’elegia precedente (in effetti, solo il codice N distingue la XXIV dalla XXV), e comunque con questa tematicamente unita in un «dittico dedicato al distacco» (M. Citroni).

Dopo cinque anni – tale è la durata della storia d’amore per Cinzia – viene il momento del discidium, anche se questo termine tecnico (indicante l’interruzione del rapporto e l’incamminarsi degli amanti per strade diverse) è qui del tutto assente. La donna, volubile e infedele, non ha mai osservato la fides nei confronti del foedus, il sacro patto degli amanti. I suoi continui tradimenti hanno reso il poeta lo zimbello dei salotti del bel mondo. Ma ora egli è deciso a troncare, per quanto dolore ciò gli costi, né l’artificioso pianto della puella potrà fargli cambiare idea. La motivazione sintetica della renuntiatio amoris è espressa al v.8, tu bene conveniens non sinis ire iugum. È la denuncia di un rapporto non simmetrico, fatta attraverso la metafora del giogo d’amore. È la constatazione di una disarmonica relazione e la conseguente rinuncia tenere ancora il collo sotto lo stesso giogo. Dopo lo struggente saluto rivolto alla porta dell’amata, testimone di crudeli repulse e di notti trascorse in lacrime all’addiaccio (secondo lo schema topico del paraklausìthyron), Properzio fa una previsione, che ha tutto il sapore delle maledizioni (dirae). Cinzia perderà presto la sua bellezza e, a causa delle rughe e dei capelli bianchi, sarà anch’essa respinta dai giovani amanti. Allora subirà a sua volta l’altero disprezzo che un tempo inflisse al poeta.

Donna. Mosaico, III sec. d.C. Pedrosa de la Vega (Palencia), Villa de La Olmeda.

L’invito finale a meditare in anticipo sul carattere effimero della bellezza fisica (eventum formae disce timere tuae!), espresso con parole nude come in un’epigrafe sepolcrale, ripete il miracolo di certe formule catulliane, pregnanti e definitive. Qui la gnome elegiaca assume un pathos altissimo dovuto, oltre che alla forma spoglia e lapidaria, alla collocazione particolare. Il cupo monito, in cui si condensa tutto il succo della quinquennale vicenda d’amore, non conclude solo l’elegia, conclude bensì tutto il III libro. Ma il II e il III libro, uniti al primo, costituivano «una raccolta che poteva figurare come pendant elegiaco dei tre libri delle Odi di Orazio, appena pubblicati» (M. Citroni); insomma, rappresentavano un corpus unitario (il IV libro ha tutt’altra ispirazione e fa parte a sé). Dunque, questo ultimo verso chiude il “canzoniere” di Properzio. E come l’ode oraziana conclusiva del III libro riprende la dedica proemiale a Mecenate in chiave autocelebrativa e ottimistica («Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo», III 30, 1), così quest’ultima elegia si collega alla prima del Monòbiblos, ma in termini di un desolato pessimismo: elegia della conquista la prima, elegia della renuntiatio amoris o dell’abbandono l’ultima, bilancio amaro di tutta l’esperienza passata. Più cupo di Orazio, ma anche di Catullo (del quale sembra richiamare qui il carme VIII), Properzio sigilla l’opera sua con un monito che sembra anticipare le espressioni buie del pessimismo medievale, dove il tema del vanitas vanitatum dell’Ecclesiaste trascorre nell’altro tema cristiano del memento mori (memento, homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris).

 

 

SEXTI PROPERTII ELEGIARUM LIBER III

XXV

 

Risus eram[1] positis inter convivia mensis[2],

et de me poterat quilibet esse loquax[3].

Quinque tibi potui servire fideliter annos[4]:

ungue meam morso saepe querere fidem[5].

5         Nil[6] moveor lacrimis: ista sum captus[7] ab arte[8];    semper ab insidiis, Cynthia, flere soles.

Flebo ego discedens[9], sed fletum iniuria vincit[10]:

tu bene conveniens non sinis ire iugum[11].

Limina iam nostris valeant lacrimantia verbis,

10            nec tamen irata ianua fracta manu[12].

At te celatis aetas gravis urgeat annis[13],

et veniat formae ruga sinistra tuae!

Vellere tum cupias albos a stirpe capillos[14],

a! speculo rugas increpitante tibi[15],

15        exclusa inque vicem[16] fastus[17] patiare superbos,

et quae fecisti facta queraris anus!

Has tibi fatalis cecinit[18] mea pagina diras[19]:

eventum formae disce timere tuae![20]

 

 

Ero oggetto di riso nei banchetti, quando le tavole

erano imbandite, e chiunque poteva sparlare su di me.

Ho potuto servirti fedelmente per cinque anni:

spesso rimpiangerai la mia fedeltà mordendoti le unghie.

Per nulla mi lascio commuovere dalle lacrime: già troppe volte mi sono lasciato

catturare da questa tua arte; sempre sei solita, Cinzia, piangere per gli inganni.

Io sì che piangerò andandomene, ma l’offesa vince il pianto:

sei tu che non permetti che il nostro legame proceda ben equilibrato.

Addio soglia lacrimante per le mie parole,

addio porta, malgrado tutto, non abbattuta dalla mia mano irata.

Ma ti tormenti l’età tarda con i molti anni, pur celati,

e vengano le rughe infauste per la tua bellezza!

Allora possa tu voler strappare dalla radice i capelli bianchi,

mentre lo specchio, ahimè, ti rinfaccerà le rughe,

e possa tu, a tua volta respinta, sopportare la superba arroganza,

e, da vecchia, possa tu lamentarti delle cose che anche tu hai fatto!

La mia pagina ti ha vaticinato questa funesta sorte:

impara a temere la fine della tua bellezza!

 

Coppia di amanti a conversazione. Statuetta, terracotta, 150 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.
Coppia di amanti a conversazione. Statuetta, terracotta, 150 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

 

La fides in Properzio

 

Consideriamo due definizioni di fides.

«La fides è in senso proprio il “credito” di cui si gode presso il partner. Dal fatto che fides designa la fiducia che colui che parla ispira al suo interlocutore, e della quale gode presso di lui, si sviluppa fides come nozione soggettiva: non più la fiducia che uno risveglia in qualcuno, ma la fiducia che si mette in qualcuno»[21].

«La fides significa l’abbandonarsi, fiducioso e completo, di una persona a un’altra. Essa interviene come salvaguardia del vincolo sociale e in tutti i rapporti che collegano l’individuo ai suoi simili, sia che si tratti del matrimonio, dei vincoli tra il cliente e il suo patrono, oppure di un tutela, o dei contratti che istituiscono una società e stipulano delle vendite. Fides significa dunque tributare a ciascuno ciò che gli è dovuto, nel rispetto degli accordi stabiliti»[22].

«Fides compare, in Properzio, trentadue volte. Fra tutti gli usi, diciassette esprimono la fedeltà in amore, gli altri designano la lealtà, la confidenza o la credibilità in altri campi. Questa frequenza significativa prova che la fides è uno dei temi maggiori della sensibilità del poeta, ma, contemporaneamente, ci rivela un pensiero poco chiaro sulla fedeltà amorosa. Animo instabile, esprime una concezione della fides che oscilla fra quella di Catullo e quella di Tibullo. Come il primo, fuori da ogni possibilità di porre il suo amore sotto la tutela della legge, ritiene gli amanti legati da un contratto non scritto, ma si augurerebbe che i “patti” fossero stipulati davanti agli altari! Nel libero amore Properzio ricerca, come Catullo, la sicurezza della coppia ideale attraverso una fides che leghi un solo uomo e una sola donna per sempre. Questa idea si ritrova espressa nelle sue elegie sotto numerose formule, la più celebre delle quali è Cynthi prima fuit, Cynthia finis erit. La fides si presenta, allora, come un destino che può essere tragico, se l’essere amato non lo condivide, e che sfocia nel servitium amoris, trascinandosi dietro uno stato in cui l’uomo che ama si annienta per essere la “cosa” dell’amante. Questo succede a Properzio, perché Cinzia rifiuta di essere la sua univira. Non c’è dunque reciprocità, Properzio è il solo a praticare la fides. Ma la rottura di questa da parte di uno degli amanti non affranca l’altro dal suo legame. Né la morte, né il piacere con un altro liberano da un’unione la cui importanza non è diminuita dall’assenza di sanzione legale. Questo è il senso dei rimproveri del fantasma di Cinzia al suo amante d’un tempo e della sua affermazione di fedeltà. Nello scambio della fides, egli privilegia l’unione fisica sull’unione delle anime. Questo lo avvicina piuttosto a Tibullo che a Catullo, di cui ha l’impeto, non le esigenze»[23].

 

***

 

Note:

[1] Risus eram: «Ero oggetto di riso»; risus è sostantivo, non participio. Ancora un esordio ex abrupto; è posta bruscamente in incipit la parola che riassume la penosa condizione del poeta, divenuto lo zimbello di tutti.

[2] positis… mensis: «nei banchetti, quando le tavole erano imbandite». Nota l’iperbato.

[3] et de me… loquax: «e chiunque poteva sparlare su di me». loquax sviluppa un significato peggiorativo di loquor, cioè «non parlar d’altro», e vuol dire «chiacchierone» (cfr. loquacitas, loquaculus).

[4] Quinque… annos: la durata della relazione con Cinzia è di cinque anni, probabilmente dal 29 al 25 a.C. Si noti l’iperbato che incornicia, presentandolo come ormai concluso, il lungo e fedele servitium. servire fideliter: sono espressioni chiave dell’ideologia amorosa di Properzio e degli elegiaci. Servire richiama il servitium amoris, formula che equipara il rapporto amoroso a quello esistente tra padrone e schiavo. Si tratta di un nucleo tematico che genera metafore indicanti la subalternità dell’innamorato nei confronti della domina dispotica e volubile, che impone servizi più umili, infligge punizioni, esige dall’amante una dedizione cieca. Fideliter anticipa fidem del verso seguente.

[5] ungue… fidem: «spesso rimpiangerai la mia fedeltà mordendoti le unghie». Ungue…morso, ablativo assoluto; ungue, singolare collettivo; querere, futuro apocopato di queror = quereris. Cfr. elegia II 4, 3 et saepe immeritos corrumpas dentibus ungues. fidem: in posizione di risalto, è parola chiave in Properzio e Catullo. Indica la lealtà nei confronti del foedus (il sacro patto garantito dagli dèi), alla quale sottostà l’amore coniugale. A tale valore (oltre che alla castitas e al pudor) Properzio pretenderebbe d’improntare il proprio rapporto con una cortigiana libera e spregiudicata. In I 6, 18 afferma che nihil infido durius esse viro («non c’è nulla di peggio di un uomo infido», cioè di un amante che non onora la fides); in II 26, 27 la fides è associata all’altro valore tipicamente romano della constantia: multum in amore fides, multum constantia prodest. Cfr. anche CAT. 76, 3 dove il poeta dichiara di essere sempre stato leale verso la propria donna (nec sanctam violasse fidem) e LXXXVII Nulla fides nullo fuit umquam foedere tanta / quanta in amore tuo ex parte reperta mea est, dove fides è associata a foedus.

[6] Nil ( = nihil): «Per nulla», accusativo avverbiale.

[7] sum captus: capio è verbo tecnico della lingua militare, dove significa «catturare», «fare prigioniero». Trasferito nell’ambito della militia amoris (in base alla metafora che assimila l’more alla guerra e l’amante al soldato), indica l’irretimento amoroso. Dall’idea della militia amoris, che implica una visione dell’amore come sentimento conflittuale e violento, discende tutto il repertorio di metafore militari comuni nell’elegia d’amore latina. Ma il topos era già presente nella lirica greca sia ellenistica sia arcaica.

[8] ab arte: l’uso di ab con un sostantivo astratto nel complemento di causa efficiente non è raro in Properzio; qui dà maggior risalto e concretezza, quasi personificando la nozione astratta. Ars indica un’abilità acquisita con lo studio o la pratica (Ernout), una conoscenza tecnica anche nociva (cfr. VERG. Aen. II 152 ille dolis instructus et arte Pelasga). La sfumatura di senso negativo è presente in artificium, artificiosus e ancor più nei derivati italiani: «artificio, artificiale, artificioso». All’abbandono, Cinzia reagisce sempre in modo isterico e plateale, cfr. I 6, 15 ss. dove copre d’insulti il poeta e si graffia rabbiosamente il viso; in IV 8, sorpreso Properzio a banchetto con due etere, lo colpisce violentemente, obbligandolo a giurare eterna fedeltà.

[9] Flebo ego discendens: il verbo flere in incipit e il pronome personale contrappongono il pianto vero del poeta a quello artificioso e scenografico di Cinzia: «Io sì che piangerò andandomene».

[10] sed fletum… iniuria vincit: «ma l’offesa vince il pianto», nel senso che la violazione alla legge (iniuria, da in + ius) rappresentata dal foedus amoris è un motivo per lasciare Cinzia più forte del dolore dell’abbandono. Iniuria è termine del lessico della poesia erotica.

[11] tu bene… iugum: costr. tu non sinis ire iugum bene conveniens, e cioè: «(sei) tu (che) non permetti che il (nostro) legame proceda ben equilibrato», letter. «non permetti un giogo che si adatti bene (ad entrambi)». Si noti la posizione enfatica di tu, contrapposto a ego del verso precedente. La metafora del giogo che grava equamente sui due buoi (metafora campestre e matrimoniale, giacché iugum è in con-iunx e in con-iungo) allude a un rapporto amoroso paritetico, nel quale entrambi i contraenti del foedus s’impegnano con pari diritti e doveri. Cfr. I 1, 32, dove il poeta augura agli amici proprio questa parità: sitis… in… amore pares. Ma la nozione stessa di servitium amoris implicava la dissimmetria del rapporto.

[12] nec… ianua fracta manu: il «lamento davanti alla porta chiusa» dell’amata è codificato nello schema letterario del paraklausìthyron, diffuso nella poesia erotica, cfr. TIB. I 1, 56 sedeo duras ianitor ante foras; I 1, 73 frangere postes / non pudet et rixas inseruisse iuvat. Quest’ultima citazione mostra come l’escluso poteva reagire violentemente, dando in escandescenze, buttando giù la porta, picchiando il portinaio. Ma Properzio ricorda di non avere mai trasceso, pur avendone i motivi (tamen). In II 5, 21 aveva condannato le intemperanze topiche previste in questo schema letterario come proprie di un rusticus, indegne di un poeta: «Io non strapperò le vesti dal tuo corpo di spergiura, né la mia ira infrangerà la tua porta chiusa. / Neanche oserei, adirato, afferrarti per i capelli elegantemente annodati, / tantomeno graffiarti con le dure unghie dei pollici. / Un bifolco, di cui l’edera non cinse mai il capo, / cerchi questi litigi talmente turpi».

[13] At… annis: «Ma ti tormenti l’età tarda con i molti anni, pur celati». Difficile dire se celatis… annis abbia valore strumentale, sia un ablativo assoluto con valore concessivo («sebbene tu celi gli anni») o un participio congiunto dipendente da gravis («opprimente per gli anni, pur celati»). Ma il senso concessivo di celatis è fuori discussione. At: ha valore enfatico (apre spesso le exsecrationes) piuttosto che avversativo, a meno che non contrapponga il comportamento signorilmente civile del poeta che si è astenuto da ogni violenza, alla crudeltà della vecchiaia che, invece, non risparmierà Cinzia. Per una cortigiana, per una donna che vive della propria bellezza, la vecchiaia è una realtà spaventosa. urgeat: congiuntivo ottativo come il seguente veniat.

[14] Vellere… capillos: «Allora possa tu voler strappare dalla radice i capelli bianchi», reazione topica della bella donna che scopre sul suo corpo i segni della vecchiaia, cfr. TIB. I 8, 45 tollere cum cura est albos a stirpe capillos.

[15] a! speculo… tibi: «mentre lo specchio, ahimè, ti rinfaccerà le rughe». Increpito, intensivo di increpo «sgridare ad alta voce, rinfacciare», implica la personificazione dello specchio. Il verdetto dello specchio diverrà un topos (si pensi alla regina cattiva di Biancaneve: «Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?»).

[16] exclusa inque vicem: «a tua volta respinta». «Siamo addirittura in presenza di un paraklausìthyron alla rovescia, in quanto è la donna ad essere esclusa» (P. Fedeli).

[17] fastus: usato metaforicamente, indica il disprezzo (cfr. fastidium e fastidire), l’orgoglio, l’arroganza del vincitore, cfr. VERG. Aen. III 326-327 stirpis Achilleae fastus iuvenemque superbum / tulimus. Nella poesia erotica è un termine tecnico per indicare la durezza d’animo, lo sguardo fermo e sprezzante di chi non cede all’amore. In I 1, 3 tum mihi constantis deiecit lumina fastus, «allora abbassò il consueto orgoglio del mio sguardo», indica la condizione del poeta prima di cedere al servitium amoris.

[18] cecinit: cano, termine della lingua augurale e magica le cui formule erano melopee ritmate (carmina), ha il significato originario di «vaticinare», «predire».

[19] diras: dirus, -a, -um appartiene alla lingua religiosa e significa «di cattivo augurio, sinistro». Il sostantivo dirae, -arum significa «cattivo presagio, maledizione». Dirae, «le Furie», è il titolo di un poema in esametri falsamente attribuito a Virgilio. Il termine indica anche un sottogenere della letteratura greca e latina.

[20] eventum… tuae: «impara a temere la fine della tua bellezza». Il monito cupo espresso con concisione oracolare o, meglio, epigrafica ha un sapore medievale.

[21] E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, tr. it. Einaudi, Torino 1981, pp. 87 ss.

[22] M. MESLIN, L’uomo romano, Mondadori, Milano 1981, p. 216.

[23] D. FASCIANO, La notion de fides dans Catulle et les élégiaques latins, RCCM 240 (1982), 24-25.

La vita migliore

da F. Piazzi – A. Giordano Ramponi, Multa per æquora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina – Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004.

Tibullo vive contento del poco che possiede. La terra gli offre frutti sufficienti, con parte dei quali onora le divinità campestri (1-24). Invece di fare il soldato, egli s’impegna nelle attività manuali della vita agricola, talora si rilassa in un luogo ameno del suo poderetto. Compie gli annuali riti di purificazione dei greggi e offre agli dèi doni modesti, ma a loro graditi (25-40). Non desidera gli abbondanti raccolti degli avi, né intende rischiare la vita in mare per procacciarsi ricchezze. Gli basta potersi addormentare stringendo la donna amata, mentre il vento e il ticchettio della pioggia conciliano il sonno (41-52). Messalla vinca pure le guerre e ostenti le spoglie nemiche.
Tibullo della gloria non sa che farsene. Finché l’età è adatta all’amore, egli cercherà di soddisfare il desiderio insieme con la sua donna. Lontano dalla guerra, vivrà sereno in una decorosa equidistanza dalle ricchezze e dalla fame (53-78). L’elegia proemiale è innanzitutto una recusatio scritta probabilmente nel 29 a.C., allorché il poeta, guarito da una malattia che l’ha colpito a Corcira, si rifiuta di raggiungere Messalla in Oriente e si accinge a ritornare in patria.
Nel motivare la decisione, egli ci espone la propria scelta di vita: il sogno tibulliano di un’esistenza semplice, improntata all’otium e all’amore. Diversamente dalla maggior parte delle composizioni proemiali solitamente di argomento metaletterario – in esse sono presentati i modelli, sono discussi la poetica, lo stile, il genere, si polemizza contro gli avversari – questa elegia riveste un carattere quasi esclusivamente etico. Anche se poi l’assunzione di una cornice bucolica implica tutta una serie di convenzioni letterarie, temi, motivi, delimitando il genere di poesia prescelto.
Come in un protrettico (o esortazione alla filosofia) sono presentati i fondamenti di quella che il poeta considera “la vita migliore”. Il modello retorico sembra quello della Priamel, che nella sua forma topica è una rassegna degli altrui generi di vita, cui è opposto il proprio. Secondo questo schema, probabilmente legato alla diatriba e alla filosofia popolare, la varietà delle propensioni umane (bìoi, cioè “vite”) era ricondotta alle quattro classi seguenti, riscontrabili nell’Ode I 1 di Orazio: vita consacrata alla gloria, alla ricchezza, al piacere, alla sapienza. Tibullo rifiuta il bìos dedicato alla gloria (esemplificato da Messalla) e alla ricchezza (fondiaria e mercantile), optando per il modello di vita semplice e piacevole raccomandato dalla tradizione diatribica e dalle filosofie ellenistiche. La campagna, infatti, non è solo sede di idilliaca delizia, ma è anche il luogo della saggezza, nel quale si realizza l’ideale dell’autàrkeia, cioè dell’autonomia spirituale. Il collegamento tra vita agreste, sapienza e integrità morale era stato istituito da Orazio proprio nell’epistola in cui si rivolge a Tibullo: «Albio… giri tra quei boschi salùbri pensando a cose degne dell’uomo onesto e del sapiente?» (I 1 ss.).
Il rifiuto di una vita al servizio delle ricchezze coinvolge perfino l’avo antico, che si era arricchito con il commercio o l’usura e soprattutto con l’agricoltura latifondistica. Al poeta non interessano gli iugera multa (v.2) né i proventi del latifondo: Non ego divitias patrum fructusque requiro,/quos tulit antiquo condita messis avo (vv.41-42). In tempi di guerre civili sanguinose, nei quali non mancavano certo gli esempi di repentini mutamenti di fortuna, la condizione più desiderabile per il poeta sembra essere una tranquilla paupertas, che non significa “povertà”, ma “tenore di vita modesto”. Si tratta di un’esistenza semplice, rallegrata dalla presenza della donna amata, vissuta nell’otium, estranea al militarismo della retorica imperiale, trascorsa in pace con gli uomini e con gli dèi. Gli dèi agresti in particolare sono oggetto della pietas del poeta, che con sincera commozione rievoca antichi riti della religione laziale. E qui si attenua il dissenso rispetto all’ideologia del principato. Se il disimpegno politico, l’antimilitarismo, la centralità dell’eros erano incompatibili con il programma augusteo, al contrario la pietas, la frugalità, l’operosità contadine – rievocate con accenti delle Bucoliche virgiliane – erano valori sui quali il principe mirava a rifondare la morale tradizionale. Tibullo, diversamente da Catullo, Properzio, Ovidio, non opponeva alla virtus militare e civica una vita “scapigliata” o libertina, ma improntata ad alcuni capisaldi dell’etica repubblicana, quali la parsimonia, la religiosità agreste, l’amore per la terra. l’adesione di Tibullo a questi valori era autentica e corrispondeva a diffuse aspirazioni di una società stremata dalle guerre civili.

Che un altro accumuli pure per sé ricchezze di biondo oro
e possieda molti iugeri di terreno coltivato,
in modo che un continuo assillo lo tenga in ansia per l’incombente nemico
e le trombe di guerra, suonate a forza, gli tolgano il sonno[1]:
quanto a me[2], la mia modesta condizione mi faccia vivere tranquillo,
purché il mio focolare splenda di un fuoco inestinguibile.
Io stesso pianterò, divenuto agricoltore[3], le tenere viti
e i grandi pomi con abili mani;
e la Speranza[4] non m’inganni, ma mi conceda sempre mucchi di biade
e denso mosto nel tino pieno.
Infatti, sono religiosamente devoto[5], sia che un tronco abbandonato nei campi,
sia che una vecchia pietra a un incrocio[6], abbiano una corona di fiori,
e qualunque frutto produca per me l’anno nuovo,
sia posto come offerta innanzi al dio rustico.
O bionda Cerere, per te ci sia sempre una corona di spighe
dal mio podere, che sia appesa alle porte del tuo tempio,
e Priapo, il rosso custode, sia posto nei frutteti,
affinché spaventi gli uccelli con la falce minacciosa[7].
Anche voi, o Lari, custodi un ricco podere una volta, ora povero,
avete i vostri doni[8].
Allora una vitella sacrificata purificava innumerevoli giovenchi,
ora una modesta agnella è la vittima del piccolo podere.
Un’agnella cadrà per voi, attorno alla quale i giovani contadini
grideranno «evviva! Concedete messi e buoni vini».
Ora, finalmente, che io possa vivere solo accontentandomi del poco,
e non essere sempre impegnato in lunghi viaggi,
ed evitare l’estivo sorgere della canicola all’ombra
di un albero presso un ruscello d’acqua corrente[9].
E non mi disturbi impugnare talvolta il bidente o
incitare col pungolo i lenti buoi,
non mi rincresca di riportare all’ovile, prendendoli in braccio,
un agnello o un capretto dimenticato dalla madre.
Ma voi, ladri e lupi, risparmiate il piccolo gregge:
la prede dev’essere strappata da un grande armento.
Qui, io sono solito ogni anno purificare i miei pastori
e cospargere di latte la dea Pale[10], perché sia pacifica.
O dèi, siate propizi e non disdegnate i doni
che provengono da una povera mensa e da semplici vasi di terracotta.
L’antico contadino costruì per sé in terracotta le prime
ciotole e le plasmò in morbida creta.
Io non ricerco le ricchezze dei miei avi e i frutti
che la messe raccolta rese all’antico avo:
mi basta un piccolo raccolto, mi basta – se è possibile –
riposare nel letto e ristorare il corpo nel solito giaciglio.
Com’è bello ascoltare i venti impetuosi stando a letto
e stringere la propria donna in un tenero abbraccio,
oppure, quando l’Austro invernale rovescia gelide piogge,
abbandonarsi tranquillo al sonno che la pioggia concilia![11]
Questo mi tocchi in sorte! sia giustamente ricco, colui
che può sopportare il furore del mare e le tristi piogge.
Oh, che tutto l’oro e le pietre preziose vadano in malora,
piuttosto che una ragazza pianga per la mia partenza!
A te, mio caro Messalla, s’addice combattere per terra e per mare,
perché la tua casa esibisca le spoglie dei nemici.
Quanto a me, mi trattengono avvinto le catene di una bella ragazza,
e siedo, come un portinaio, davanti alla porta crudele.
Non mi importa di essere lodato, mia Delia; purché
io sia con te, mi si chiami pure indolente e ozioso!
Che io ti guardi, quando verrà l’ora suprema
e possa, morendo, tenerti con languida mano.
Mi piangerai, o Delia, posto sul feretro da bruciare
e mi darai baci misti a tristi lacrime[12].
Piangerai: il tuo cuore non è avvinto da duro ferro
e nel tenero petto non hai certo una pietra.
Nessun giovane, nessuna fanciulla, potrà tornare a casa
da quelle esequie con occhi asciutti[13].
Tu non far soffrire la mia ombra, ma risparmia
i capelli sciolti e le tenere guance, o Delia.
Intanto, finché i fati lo consentono, amiamoci:
presto verrà la Morte, ricoperta il capo di tenebre:
presto subentrerà la torpida vecchiaia e non sarà più conveniente,
quando la testa è ormai bianca, amare e sussurrare parole sdolcinate.
Ora è il momento di godere della spensierata Venere, finché non è
disdicevole infrangere porte ed è bello intrecciare litigi[14].
Qui io sono un buon condottiero e soldato: voi, insegne e trombe,
andatevene lontano, portate ferite all’uomo ambizioso,
portategli ricchezze: io tranquillo, ammassato il mio raccolto,
non mi curerò dei ricchi e me la riderò della fame.

Bassorilievo raffigurante un mietitore ('vallus'). Arte gallo-romana, Buzenol (Belgio).
Bassorilievo raffigurante un mietitore (‘vallus‘). Arte gallo-romana, Buzenol (Belgio).

Note:
[1] Il poeta dichiara che, a differenza della maggior parte degli uomini, egli non desidera una vita piena di ricchezze, ma lascia agli altri le preoccupazioni legate all’ansia di far denaro. L’affermazione, che si colloca sul solco della tradizione diatribica (disprezzo dei beni materiali, autàrkeia del saggio) richiama lo schema retorico della Priamel (che consiste nell’opporre la propria scelta di vita ad altre scelte).
[2] Ai primi quattro versi che descrivono gli affanni della ricchezza faticosamente conquistata, si contrappone ora il distico che presenta la scelta di vita di Tibullo.
[3] Il poeta non disdegna il lavoro manuale, rispettando la tradizione romana più antica e proponendo qui un modello di vita bucolico-agreste; «è possibile cogliere un riferimento all’ideale dell’agricola che coltiva da sé con amore il proprio terreno, secondo il modello offerto dalle Georgiche di Virgilio» (M. Citroni).
[4] Speranza è una “personificazione”: a Roma era una vera e propria divinità, festeggiata alle calende di agosto, alla quale era dedicato un tempio. Il lecito desiderio del contadino di avere un ricco raccolto, grazie all’aiuto della divinità, si contrappone all’avidità dell’uomo ricco descritta nel primo verso.
[5] Qui il poeta vuole esprimere tutta la sua devozione o pietas da uomo romano per la divinità, in questo caso per entità religiose agresti come un vecchio tronco o una pietra, che probabilmente segnavano il confine tra i campi. Tali divinità, legate alla natura e contrapposte a quelle olimpiche, erano oggetto di particolare culto nella campagne dove Terminus, dio dei confini, era oggetto di grande venerazione e veniva festeggiato nei Terminalia, in febbraio, appunto con corone di fiori.
[6] Sul trivium, o “crocicchio”, luogo venerato nelle tradizioni contadine, si trovavano le edicole dedicate ai Lares Compitales, divinità protettrici dei campi.
[7] Cerere è la dea delle messi, bionda perché giallo è il colore del grano maturo, festeggiata in aprile nel corso dei Cerealia, solitamente onorata con una corona intrecciata fatta con le prime spighe raccolte. Priapo è una rozza divinità contadina spesso raffigurata in legno scolpito, dipinto di rosso, con evidenti attributi osceni, simbolo di fertilità. Veniva posto nei frutteti per proteggerli da ladri e uccelli, dunque con funzione di “spaventapasseri”.
[8] I Lari sono divinità tipicamente romane: probabilmente raffigurazioni degli spiriti dei morti della famiglia, avevano il compito di proteggere la casa, i campi, la città ed erano molto venerati nelle campagne, più degli dèi dell’Olimpo, perché più vicini alle plebi agricole. Ai Lari si facevano sacrifici alle calende di ogni mese. Per Tibullo queste divinità sono simboli della pietas e della purezza di un passato ideale, ma anche un ricordo della propria infanzia. «La religiosità di Tibullo… si collega alla concezione della campagna come ultimo regno della devozione religiosa, un’idea coltivata anche da Virgilio nelle Georgiche» (F. Cairns).
[9] L’invito a vivere con semplicità accontentandosi di poco è proprio della filosofia epicurea.
[10] Alla dea Pale erano dedicate le Palilie, feste che si tenevano il 21 aprile, giorno natale di Roma, in cui sia il simulacro della dea sia i pastori erano aspersi con latte.
[11] Tibullo sembra riproporre in chiave elegiaca i versi famosi del proemio del II libro del De rerum natura di Lucrezio: «È bello, quando i venti sconvolgono le distese del vasto mare, guardare da terra il grand’affanno degli altri: non perché il dolore altrui ti procuri grande gioia, ma perché sei contento di vedere da quali affanni sei libero». Tibullo insiste sui toni della tenerezza, più che dell’erotismo, ricorrendo al lessico della poesia amorosa per creare un quadretto di vita idilliaca semplice, ma sicura. Il concetto espresso è riconducibile all’insegnamento epicureo, ma manca ogni riferimento di carattere filosofico, gnomico o didascalico.
[12] Il languido vagheggiamento della propria morte, da parte del poeta, è un motivo ricorrente nella poesia tibulliana, che riprende, pur modificandoli, modelli dell’epigramma funerario ellenistico. La morte può ricevere consolazione solo dalla vicinanza delle persone care, mentre la mancata vicinanza, antico motivo del lamento funebre presente in Omero, genera profondo dolore.
[13] Il distico amplia l’idea della morte del poeta, compianta non solo dalla donna amata, ma anche dalla gioventù romana. Tutti i giovani romani, commossi e turbati, piangeranno la morte di Tibullo, il grande poeta che ha saputo cantare le passioni umane, anteponendo il valore dei sentimenti ad ogni altro. Coloro che condividono tale sensibilità si riconoscono e costituiscono i “fedeli d’amore”, il pubblico cui il poeta si rivolge.
[14] L’ultimo passaggio logico dell’elegia riporta ad un livello tipicamente epicureo: gli esseri viventi, consapevoli della brevità della vita e dell’ineluttabilità della morte, devono afferrare i piaceri della vita.

Autàrkeia e vita nei campi

45_2di A. La Penna, L’elegia di Tibullo come meditazione lirica, in Tibullo, Elegie, Milano 1989; pp.48 ss.
La scelta della vita si configura per Tibullo come scelta dell’autàrkeia: contentarsi di poco, limitare i consumi per essere più indipendente e vivere secondo i propri gusti, per costruirsi un piccolo rifugio contro i pericoli, le fatiche, le agitazioni della vita, le stragi delle guerre, la brama di ricchezze, la smania del lusso. Al nesso fra bisogno di lucro e guerra si oppone il nesso fra autàrkeia, cioè “limitazione dei consumi”, “autosufficienza” da un lato e pace dall’altro. Si conferma nel caso di Tibullo che la ricerca della tranquillità dell’animo nell’autàrkeia presuppone un senso particolarmente acuto della precarietà, l’angoscia in un mondo instabile, disumano, devastato dalla violenza. Nella chiusa dell’elegia proemiale non manca quell’orgoglio che l’autàrkeia, il “rifugio ben difeso”, dà al filosofo:

vos, signa tubæque,/ite procul, cupidsi volnera ferte viris,/ferte et opes: ego conposito securus acervo/despiciam dites despiciamque famem

(«voi, insegne e trombe,/andate lontano, portate ferite al guerriero ambizioso,/portategli ricchezze: io tranquillo, ammassato il mio raccolto/non mi curerò dei ricchi e me ne riderò della fame», I 1,75-58). […] Credo che in questo contesto, cioè soprattutto come scelta dell’autàrkeia, vada vista in Tibullo la scelta della campagna. L’ideale dell’autosufficienza, della tranquilla indipendenza si può realizzare dovunque, anche in città, ma si realizza meglio nella vita rustica. Lo realizza il piccolo agricoltore, proprietario pauperis agri; piccolo è anche il gregge: ricordiamo la preghiera che, non senza una punta di lusus, Tibullo rivolge a ladri e lupi:

At vos exiguo pecori, furesque lupique,/parcite: de magno est præda petenda grege

(«Ma voi, ladri e lupi, risparmiate il piccolo/gregge: la preda deve essere strappata da un grande armento», I 1, 33-34). Ben inteso, Tibullo non è certo insensibile alla bellezza dei campi: nel delineare la vita che si augura, non manca di immaginarsi sdraiato sotto un albero, presso un ruscello, per evitare la Canicola:

sed Canis æstivos ortus vitare sub umbra/arboris ad rivos prætereuntis aquæ

(«ma evitare l’estivo sorgere della Canicola all’ombra/di un albero o accanto a un ruscello d’acqua corrente», I 1, 27-28). La scena è quella del tradizionale locus amoenus; è probabile, però, che la suggestione più immediata venga dal proemio di Lucrezio al libro II (vv. 29-31):

inter se prostrati in gramine molli/propter aquæ rivum sub ramis arboris altæ/non magis opibus iucunde corpora curant.

Il contesto è simile; anzi, va ricordato che in quel proemio il tema è, appunto, la scelta di vita. Queste analogie valgono anche nel confronto con Orazio (Odi I 1, 21 ss.). Non è escluso che Tibullo conoscesse anche questo passo, ma la conclusione più probabile è che in ambedue operi la suggestione di Lucrezio. Tuttavia non sono i coloro idilliaci pastorali che caratterizzano di più la campagna di Tibullo, specialmente nel libro I. La vita nei campi che Tibullo ama è operosa, anche se non faticosa, dà frutti utili, anche se non abbondanti. Benché Tibullo conosca le Bucoliche di Virgilio e se ne ispiri più volte, interpreti recenti hanno sottolineato piuttosto, e non senza ragione, l’affinità della vita rustica tibulliana con quella delle Georgiche. Il Tibullo coltivatore di messi, di viti, di alberi da frutta, allevatore di greggi somiglia più al pius agricola o all’Ofello di Orazio, che a Titiro […]. L’affinità con Virgilio georgico si conferma nella pietas di Tibullo agricoltore. Non c’è bisogno di rilevare ancora una volta la forte impronta romana della sua religiosità legata alla vita agricola. Ricorderò solo il rilievo che vi hanno le divinità domestiche, i Penati, specialmente i Lari. Egli ama in modo particolare queste divinità perché vi vede i resti e i simboli di un passato ideale, della purezza, della pietas, semplicità di un tempo; li ama perché gli ricordano la sua infanzia (I 10, 15-16):

Sed patres servate Lares: aluistis et idem,/cursarem vestros cum tener ante pedes

(«Ma salvatemi voi, o patrii Lari. Siete voi stessi che mi allevaste,/quando, tenera creatura, correvo ai vostri piedi»). Ma aggiungerei che anche la predilezione per i Lari ha qualche connessione con l’autàrkeia: s’accorda, infatti, con il ritiro nel privato, entro i limiti dello spazio domestico. I Lari richiamano la ricchezza di tradizioni, l’intimità di affetti che quello spazio racchiude, e ne proteggono i confini.

La lirica di Catullo

di A. TRAINA, Introduzione a Catullo, Carmi, Milano 2002.

Diverso è per noi e per gli antichi il concetto di “lirica”. La definizione di «forma poetica in cui si esprime il sentimento personale dell’autore» vale per noi, eredi di una poetica del soggetto di materia romantica e idealistica (definizione rinverdita da Jackobson, che legga la “lirica”, in quanto orientata verso la prima persona, alla funzione emotiva). Ma non vale per gli antichi. Per il Greco, la definizione era facile: «indicava semplicemente un canto accompagnato dalla lira». Per un Latino, era più difficile. La tripartizione del grammatico Diomede, pone la lirica, assieme all’epica, come sottospecie del «genere misto, in cui parla il poeta in prima persona e sono introdotti personaggi a parlare» (I 482 K.: il genere «in cui parla il poeta stesso senza intervento di personaggi» è quello narrativo, per esempio di Lucrezio); passa poi a definire elegia e giambo senza tornare più sulla lirica. Legarla alla poesia soggettiva non era possibile per l’esistenza sia di una lirica oggettiva come quella corale (liturgica o drammatica), sia di forme poetiche egualmente soggettive come la satira e l’epigramma. Il criterio distintivo era metrico: è lirica quella che si esprime in versi «lirici», gli eolici per esempio. Non per nulla Orazio non riconosce suo predecessore Catullo e Quintiliano, come il citato Diomede (I 485 K.), lo pone tra i giambografi, non tra i lirici (X 1, 96). Del libellus catulliano un antico avrebbe fatto rientrare nella lirica solo, e non tutti, i polimetri.

Lawrence Alma-Tadema, Catullo da Lesbia. Olio su tela, 1865.

A un criterio metrico ubbidisce la tripartizione del libellus in polimetri (in gran parte faleci, ma anche trimetri giambici e saffiche), i cc. 1-60; epigrammi, in distici elegiaci, i cc. 96-116; in mezzo i carmi lunghi, i cosiddetti carmina docta, abbastanza eterogenei, abbracciando gliconei e ferecratei, galliambi, esametri e pentametri. Risale al poeta questa distribuzione, che sovverte ogni ordine cronologico? La questione è controversa, e oggi voci autorevoli dicono di sì.
Differenza di metrica implica, inevitabilmente, una certa differenza di lingua: sia perché ogni metro ha il suo ethos vincolato a tanti echi e cadenze letterarie (si pensi al peso della clausola esametrica nella memoria poetica), sia perché obbliga a una selezione prosodica del lessico. L’esametro, per esempio, non ammette sequenze cretiche ( ˉ ˘ ˉ ): ne sono dunque escluse tante forme di comparativi-oppositivi che danno un’impronta catulliana alle clausole dei faleci (beatiores, seviores, venustiores…), tante forme di verbi popolari in -ā- e i loro derivati nominali (e non sono verbi da poco: basiare/basiatio, irrumare/irrumatio/irrumator, osculari/osculatio, pipiare, saviari e anche esurire/esuritio), tanti termini del lessico neoterico (delicatus, elegans/inelegans, facetiae/infacetus, mollicelus, invenustus); in esametri Catullo non avrebbe potuto sorridere delle araneæ del suo borsellino (c. 13) né prendersela con l’imperator unicus (cc. 29 e 54). D’altra parte, il trimetro giambico, quello almeno di Catullo, rifiuta di norma sequenze dattiliche ( ˉ ˘ ˘ ), tranne in clausola, e anapestiche ( ˘ ˘ ˉ ) e quindi parole-chiave come bene velle, pietas, desiderium e gli astratti del tipo amicitia, laetitia, saevitia. Il falecio è metro meno condizionante; ma, nel breve respiro delle sue undici sillabe, non c’è spazio per più di una sequenza dattilica contro le cinque possibili dell’esametro e le quattro del pentametro: chiudere in un solo falecio patetiche antitesi come quelle di 72,8 e 76,13 sarebbe stato difficile. Un tempo si contrapponeva la spontaneità delle nugae, «suggerite dalla vita stessa», alla letterarietà dei carmina docta, «prodotto della fantasia e del lavoro». Oggi si tende a sottolineare la fondamentale omogeneità espressiva dell’opera catulliana, e caso mai a valorizzare le differenze tra polimetri ed epigrammi. Non basta la presenza sporadica di qualche termine comune, come i labella di Lesbia, di Attis, di Arianna, delle Parche. La dicotomia stilistica c’è, da un doppio punto di vista.

Stefan Bakałowicz, Catullo e i suoi amici. Olio su tela, 1885.

Il tessuto linguistico dei polimetri e degli epigrammi è usuale; quello dei carmi esametrici è incontestabilmente letterario, con i suoi echi enniani e forse anche lucreziani, con i suoi arcaismi, con le attese ricorrenze lessicali in sede fissa, anche a breve distanza, con le sue clausole allitteranti, insomma con i suoi poetismi e metrismi. Non c’è un’altra linea spartiacque fra nugae e carmina docta, quella che passa tra lo stile del discours e lo stile della historie nel senso benvenistiano dei termini: da una parte, l’accentuazione del rapporto dialogico, la presenza e l’importanza degli indicatori di I^ e II^ persona, il continuo riferimento alla situazione di enunciazione veicolato dai deittici (pronomi e avverbi dimostrativi) e dal presente verbale, la presenza e l’importanza delle funzioni dell’enunciazione, cioè i mezzi messi in opere dall’enunciatore per influire sul comportamento del partner (interrogazione e intimazione, e quindi vocativo e imperativo); dall’altra, la prevalenza degli indicatori di III^ persona, degli anaforici, dei tempi del passato, tutti quei modi di enunciazione che «escludono ogni forma linguistica “autobiografica”».
L’unità della poesia catulliana va cercata su un altro piano, quello del pathos e dell’ethos: nell’affettività, altri han detto “affettuosità”, con cui il poeta guarda ai suoi personaggi come a se stesso e ai suoi interlocutori, e, soprattutto, nella misura della sua identificazione con essi: «la propria vita diventa un mito (e Lesbia, rispetto a Clodia è realmente già divenuta un mito) e il mito diventa vita».

Il lapis Satricanus

da A. LA PENNA, La cultura letteraria a Roma. Cap. I – Preistoria della letteratura latina, Roma-Bari 2006, pp. 6-8.

Lapis Satricanus. Base iscritta (CIL I 2832a), tufo, IV sec. a.C. ca. dalle fondazioni della peristasi Est del tempio di Mater Matuta, Borgo le Ferriere (Latina). Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano.

 

[…] Da un quarto di secolo ha suscitato e suscita vivissimo interesse e discussioni una nuova testimonianza epigrafica scoperta a Satricum, località situata poco a sud di Roma (quindi fra Roma e la Campania); la pietra su cui è incisa l’iscrizione (lapis Satricanus), fu riutilizzata come materiale edilizio nelle fondamenta di un tempio della Mater Matuta, un’antichissima divinità latina del mattino, che venne poi identificata con Ino Leucotea e che aveva un tempio anche a Roma, nel Forum Boarium (il “mercato dei buoi”). L’iscrizione viene datata in un arco di tempo che comprende la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C.; contiene il nome di un Publio Valerio, da identificare, secondo alcuni, con il noto personaggio politico Publio Valerio Publicola, console dal 509 al 507 a.C. (cioè subito dopo la cacciata dei Tarquini) o con il figlio, morto nella battaglia del Lago Regillo (496 a.C.); cronologicamente la proposta non fa difficoltà, ma non sussistono prove sufficienti per l’identificazione, anche se il personaggio appartiene alla gens Valeria. Le prime lettere del testo non sono più leggibili; nello spazio rovinato viene ricostruito congetturalmente un numero di lettere che oscilla fra una e cinque (una differenza che stupisce). L’interpretazione linguistica presenta grandi difficoltà, le cui soluzioni in gran parte restano incerte[1]. Qui trascrivo tre delle molte ricostruzioni e interpretazioni proposte:

1. M. Lejeune[2]

HOC PIEI] STETERAI POPLIOSIO VALESIOSIO
SUODALES MEMARTEI

Hoc pii steterun Publi Valeri
sodales Marti

Questo pii posero i sodali di Publio Valerio a Marte.

2. A.L. Prosdocimi[3]

MATREI] STETERAI POPLIOSIO VALESIOSIO
SUODALES MAMARTEI

Matri steterunt Publi Valeri
sodales Martii

Alla madre posero i sodales marziali di Publio Valerio (la “madre” sarebbe Mater Matuta).

3. H.-S. Versnel [4], IVNIEI. A New Conjecture in the Satricum Inscription.

IUNIEI] STETERAI POPLIOSIO VALESIOSIO
SUODALES MAMARTEI

Iunii steterunt Publi Valeri
sodales Marti

I giovani, sodali di Publio Valerio, posero a Marte.

Non è il latino di Roma; è un latino parlato in altre parti del Lazio. L’analisi linguistica ha segnalato indizi che riconducono alla lingua di Falerii, città antichissima collocata a nord di Roma; tra questi il genitivo in -osio, che trova riscontro nel greco omerico e in altre lingue indoeuropee. Isolata resta la forma steterai, forse terza persona plurale del perfetto di sisto (secondo altri persona singolare). Dalla zona di Falerii proviene, secondo indizi consistenti, la gens Valeria; sembrano emergere connessioni tra la cultura di Falerii e quella di Satricum: il dono votivo potrebbe provenire da Falerii. Insomma una testimonianza preziosa, che resta in gran parte oscura […].

Res Publica. Denario, Roma, 207 a.C. Ar. 4,36 gr. R – Dioscuri a cavallo al galoppo verso destra; Roma (in exergo).

Note:
[1] Tutte le difficoltà sono affrontate con impegno in una trattazione recente, che si distingue per competenza e prudenza e dà anche una buona storia della ricerca: E. Lucchesi – E. Magni, Vecchie e nuove (in)certezze sul «Lapis Satricanus», Pisa 2002.
[2] Notes sur la Dédicace de Satricum, «Rev. des études latines» 67 (1990), pp. 60-63.
[3] Satricum. I sodales di Publicola steterai a Mater (Matuta?), «La Parola del Passato» 49 (1994), pp. 365-377.
[4] Satricum 1896-1996, a cura di M. Gnade – E.M. Moormann, Roma 1996.

Bibliografia aggiuntiva.