di A. Lᴀ Pᴇɴɴᴀ, La cultura letteraria a Roma, Bari-Roma 1986.
La storiografia in prosa nacque probabilmente dopo l’epos storico: infatti, è probabile che Fabio Pittore scrivesse dopo il Bellum Poenicum di Nevio (anche se la questione è discussa). Prima di Nevio, però, esisteva, come s’è già detto, la cronaca annuale in prosa dei pontefici; non è arrischiato supporre che il pontefice massimo, oltre la cronaca che scriveva sulla tabula dealbata, tenesse nel suo archivio dei commentarii (o qualche cosa di simile), documenti raccolti e una cronaca più dettagliata, su cui si sarebbe poi fondata, nel II secolo a.C., la compilazione degli Annales maximi. È difficile che esistesse una vera narrazione, con valutazione più o meno esplicita di fatti e persone. È credibile che Fabio Pittore dalla cronaca pontificale ereditasse l’impostazione annalistica e ne attingesse materiale; ma la rottura, il salto erano resi più evidenti dall’uso del greco. A spiegare la scelta di questa lingua non si può addurre a una ragione certa: può aver giocato la mancanza di una prosa letteraria latina, ma è meno improbabile la ragione più spesso addotta: l’opera, in polemica con storici greci favorevoli a Cartagine, si rivolgeva anche a un pubblico non latino, che conosceva la lingua greca. Naturalmente si rivolgeva anche al pubblico colto romano (poco più esteso, come s’è già detto, dell’élite politica), poiché già nella seconda metà del III secolo a.C. l’insegnamento successivo a quello elementare (e poi anche quello elementare) incomincia dal greco. D’altra parte è una novità rilevante, quasi sorprendente, che uno scrittore latino si rivolga a un pubblico di ambito mediterraneo.

Mentre la poesia è prodotta da liberti o clienti che provenivano da altri paesi, la storiografia è prodotta da uomini della nobilitas: l’uomo politico si occupa di diritto, cerca di essere un buon oratore oltre che un buon capo militare, e da ora in poi non disdegna di scrivere storia. Nella storiografia l’ispirazione (o il veleno) proveniente dall’impegno politico è più immediata e forte che in altri generi di letteratura. Fabio si rifà alle origini di Roma, ma dedica una parte, forse rilevante, dell’opera alla seconda guerra punica, alla quale ha partecipato lui stesso; probabilmente ha introdotto nell’opera anche qualche elemento autobiografico: non senza ragione si ritiene che Livio (Ab Urbe condita, XXII 57,5; XXIII 11,1 sgg.) attinga da Fabio quando riferisce con dettagli la missione dello stesso Fabio presso l’oracolo di Delfi durante la seconda guerra punica. Sotto questo aspetto egli avrà accentuato una libertà che era già nell’epos storico: per es., Nevio nel Bellum Poenicum aveva ricordato la sua milizia nella prima guerra punica; Ennio negli Annales menzionò il suo accesso alla cittadinanza romana.
Anche se Fabio polemizzava contro storici greci, teneva d’occhio innanzi tutto i problemi interni dello Stato romano. Come generalmente l’élite politica contemporanea, egli riteneva che alla potenza di Roma verso i nemici esterni contribuisse in misura decisiva la conservazione scrupolosa dell’antico patrimonio di culti religiosi, istituzioni politiche e giuridiche, costumi: Fabio ne ricercava le origini e talvolta li descriveva minutamente. Senza escludere che la storiografia greca stimolasse la sua curiosità, la spinta più importante era nel rispetto e nell’amore per il patrimonio religioso e morale della civitas. Quest’interesse di Fabio si ritroverà abbastanza vivo nella storiografia arcaica latina. D’altra parete l’amore per il prestigio della res publica non escludeva affatto l’amore per il prestigio della gens o della famiglia. Rintracciare in Livio le deformazioni operate dalle sue fonti per accrescere la gloria di questa o quella delle grandi famiglie è compito dai risultati necessariamente incerti, ma tutt’altro che futile. Anche sotto questo aspetto l’epos storico avrà presentato analogie: se non abbiamo indizi in Nevio, ne abbiamo in Ennio, benché resti difficile approdare a conclusioni sicure. E questo proposito va ricordato quanto materiale utile alla storiografia offrivano gli archivi delle grandi famiglie.
La storiografia in latino fu iniziata in vecchiaia da Catone, che irrideva Aulo Postumio Albino, autore di annali in greco; egli non avrebbe mai riconosciuto che senza Fabio Pittore e gli altri annalisti in greco difficilmente la storiografia in latino sarebbe nata già adulta, come si dimostra nelle Origines. La storia viene ancora scritta dall’élite politica, e questa volta da un uomo politico di primo piano, il che non trova vere analogie nello sviluppo futuro (parlo della storia in senso stretto, come l’intendevano gli antichi, non dei commentari). Naturalmente Catone è ben lontano dal porre il compito della storiografia come il più importante della sua vita. Non per caso vi si dedicò solo da vecchio: prima era occupato a far politica, e questo era il compito veramente importante per un romano della nobilitas. Scrivere storia, però, è già per Catone un compito rispettabile per l’uomo politico, un modo degno di occupare l’otium dopo i negotia: giacché l’homo clarus atque magnus deve render conto, oltre che dei suoi negotia, anche del suo otium: questo era l’argomento che nel proemio dell’opera (fr.2 Peter = 2 Schröder) egli usava per giustificare il suo impegno di storico. L’argomento si inserisce in una riflessione della cultura latina sull’uso dell’otium incominciata almeno da Scipione l’Africano. L’otium è concepito o come relaxatio dell’animo necessaria a ritemprare le energie per i negotia o come meditazione o attività letteraria riguardante pur sempre i negotia: in ogni caso si tratta di un otium integrato nella vita politica, privo di valori autonomi. È opportuno rilevare fin da ora che il dibattito si prolungherà per secoli, che sarà vivo fino a Seneca: non è illegittimo prenderlo come un punto di riferimento non secondario nella storia della cultura latina.
Nelle Origines impegno politico e aggressività erano probabilmente più forti che in Fabio; certamente più forte era il peso che Catone dava all’autobiografia; anzi una parte dell’opera era un’apologia o una celebrazione di sé. La notevole presenza dell’autobiografia convergeva con la forte tendenza a privilegiare la storia contemporanea, che nell’opera aveva un posto molto ampio (le erano dedicati tre dei sette libri). Il caso, ben lungi dall’essere eccezionale, si inserisce in una tendenza generale della storiografia antica, che i Latini non hanno ricalcata, bensì sviluppata per proprie naturali esigenze. Livio (praef. 4) sa che il pubblico aspetta con interesse molto più vivo le parti dell’opera in cui narrerà la storia recente. Non l’interesse intellettuale per il passato, ma il bisogno appassionato di conoscere il proprio tempo è la prima molla della storiografia antica, anche se si può sostenere giustamente che solo raffrenando quel primo impulso la storia diventa vera conoscenza intellettuale.
L’esperienza politica fu un ricco nutrimento per l’opera storica di Catone. Impegnatissimo e combattivo nelle lotte che ardevano all’interno della città, egli aveva, però, larghi orizzonti. Forse anche perché di origine extraurbana (proveniva da Tuscolo), egli rivolse la sua attenzione anche alla storia dei popoli italici, alle cui origines dedicò il II e il III libro dell’opera. Nel Libro V inserì il suo discorso pro Rhodiensibus: ciò serviva all’apologia di se stesso, ma metteva anche in rilievo i problemi di politica internazionale. Prima della terza guerra punica una parte dell’élite politica pensò a una specie di equilibrio fra le potenze ancora autonome nell’ambito del Mediterraneo, e anche Catone per qualche tempo dovette ritenere che quella soluzione fosse possibile e vantaggiosa.

Anche nell’opera della vecchiaia resta in primo piano il problema dell’integrità della società romana: come tener saldo l’assetto dello stato aristocratico, quale deve essere l’etica e la cultura della città, come eliminare le forze centrifughe. Homo novus, entrato nella nobilitas dopo che questa era stata in parte distrutta nella seconda guerra punica, ne aveva fatti propri gli interessi: egli elabora un’ideologia dell’uomo che s’innalza grazie alla sua virtù, soprattutto restando attaccato al modello agrario di parsimonia, laboriosità, energia, ma non contesta affatto il diritto e il dovere della nobilitas a governare; anzi mira a ridarle quella morale e quell’energia che la rendano degna e capace del ruolo che le spetta. L’origine extraurbana, la tradizione sabina, l’esperienza della campagna sono da lui valorizzate in contrasto con la debolezza della città di fronte alla corruzione, senza però creare una frattura fra città e retroterra. Nessuno più impegnativamente e coscientemente di lui ha raccolto e rafforzato il bisogno di mantenere l’equilibrio e la coesione della nobilitas, contrastando le personalità politiche di prestigio eccezionale, come Scipione Africano. Egli cercò, non senza successo, di soffocare sul nascere il culto carismatico delle grandi personalità. Una concezione “eroica” della storia stava già penetrando nella cultura romana e trovava qualche spazio negli Annales di Ennio; Catone elaborò, specialmente nell’opera storica, una concezione “storicistica”, che metteva l’accento, nella storia romana, sul lento formarsi, attraverso generazioni e attraverso secoli, dello Stato e delle istituzioni, sulla partecipazione collettiva alla costruzione dell’organismo pubblico (anche se la collettività era, in definitiva, l’élite politica), sulla continuità, la mancanza di rotture che garantiva la stabilità.

L’opera storica chiudeva con grande coerenza un compito politico e culturale che Catone aveva assolto per tutta la vita come oratore e come autore di vari trattati (tra i quali si conserva quello De agri cultura). Per lo più egli è stato visto come un difensore della tradizione romana contro l’ellenizzazione, del passato contro il presente. L’interpretazione non manca di ragioni valide. La lotta contro la penetrazione della cultura greca per molte vie, che andavano dal lusso della tavola alla letteratura, dai divertimenti alla religione, fu costante e accanita. Egli conquistò un largo consenso; nel 186 a.C. ci fu la pesante repressione dei culti bacchici, nel 173 l’espulsione dei filosofi epicurei Alceo e Filisco, nel 161 l’espulsione di filosofi e retori, nel 155 il rapido rinvio dei filosofi greci mandati come ambasciatori; forse nel 154 fu impedita la costruzione di un teatro in pietra (Livio, Ad Urbe condita XLVIII; Valerio Massimo, II 4,2). Può darsi, però, che nel rifiuto della cultura greca altri andassero più in là di Catone. Egli non era affatto chiuso all’influenza intellettuale greca: nelle Origines è stata avvertita l’influenza del Timeo; persino nel De agri cultura si rintracciano elementi di scienza greca. Questo trattato dimostra bene come Catone sapesse capire le esigenze nuove: è noto che il suo modello di “azienda agricola”, di notevoli dimensioni, è aggiornato ai mutamenti dell’economia. Al centro del suo compito intellettuale è la fondazione di una cultura radicata nella tradizione, ma non vecchia, viva e non irrigidita, che costituisse la base dell’educazione morale e politica. ispirazione e organismo dovevano essere romani, non greci, ma gli apporti greci erano accolti, se non proclamati. In una certa misura, che non va forzata, il suo compito è analogo a quello che, con altra apertura verso la cultura greca, si proporrà Cicerone. Già Catone affronta il compito come rimedio a un processo di decadenza della società di cui ha preso coscienza e che interpreta soprattutto come una crisi morale. Anche in questa interpretazione della crisi ci sono convergenze con la cultura greca e suggerimenti da essa provenienti. La coscienza inquieta della decadenza diventa da ora in poi una costante della cultura latina.
Bibliografia:
W. Soltau, Die Anfänge der römischen Geschichtsschreibung, Leipzig 1909; H. Peter, Wahrheit und Kunst, Leipzig 1913; S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II, 1, Bari 1966; Römische Geschichtsschreibung, a cura di V. Pöschl, Darmstadt 1969; W.D. Lebek, Verba prisca. Die Anfänge des Archaismus in der lateinischen Beredsamkeit und Geschichtsschreibung, Gottingen 1970; A. La Penna, Storiografia di senatori e storiografia di letterati, in Id., Aspetti del pensiero storico latino, Torino 19832, pp. 43-104; Id., La storiografia, in La prosa latina, a cura di F. Montanari, Roma 1991, pp. 13-93 (con ampia bibliografia); D. Flach, Einführung in die römische Geschichtsschreibung, Darmstadt 19922; V.E. Marmorale, Cato maior, Bari 19492; D. Kienast, Cato der Zensor, Heidelberg 1954; H. Haffter, Römische Politik und römische Politiker, Heidelberg 1967; F. Della Corte, Catone Censore. La vita e la fortuna, Firenze 19692; A.E Astin, Cato the Censor, Oxford 1978; R. Till, La lingua di Catone, trad. it. con note supplementari di C. de Meo, Roma 1968; S. Boscherini, Lingua e scienza nel “De agri cultura” di Catone, Roma 1970; W. Richter, Gegenstandliches Denken, archaisches Ordnen. Untersuchungen zur Anlage von Cato “De agri cultura”, Heidelberg 1978; M. Martina, Ennio “poeta cliens”, QFC 2 (1979), pp. 13-74.
Complimenti.
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[…] e per la fiera opposizione alla politica degli Scipiones. Dopo i primi tentativi compiuti dalla storiografia senatoria, di tradizione annalistica ma in lingua greca, le Origines di Catone ritornano, polemicamente, al […]
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