Claudio Claudiano e il suo tempo

di E. Paratore, La letteratura latina dell’età imperiale, Milano 1993; pp. 314-318.

Il più celebrato poeta latino, il poeta di corte tra la fine del IV secolo e gli inizi del V fu un orientale: secondo i più nacque ad Alessandria o nella vicina Canopo, secondo altri nacque nella Paflagonia. Ma i più rispondono che Paflagone, nel relativo passo di Giovanni Lido, è un appellativo ingiurioso, che suona “chiacchierone”. Sembra certo, ad ogni modo, che sia stato educato nelle scuole alessandrine. Sant’Agostino e Orosio ci asseriscono la sua pertinace fedeltà al paganesimo, e non c’è ragione di dubitare della loro testimonianza, anche se sotto il suo nome vanno poesie d’argomento cristiano (alcune delle quali, però, di dubbia autenticità) che egli può aver benissimo composto dietro commissione di Onorio, l’imperatore che lo proteggeva.

Colonna di Arcadio - Ricostruzione ipotetica
Colonna di Arcadio – Ricostruzione ipotetica

Da giovane, e forse non soltanto nella giovinezza, poetò in lingua greca, nella quale scrisse epigrammi e, sembra, un poema sulla gigantomachia. Di una Gigantomachia in greco sotto il suo nome ci restano 77 esametri, sulla cui paternità, però, si discute tuttora, così come si dibatte, nel caso che essi siano claudianei, se si tratti di un’opera precedente o posteriore alla Gigantomachia latina, pure composta da Claudiano, della quale ci restano 127 esametri e mezzo; fra l’altro il frammento greco e quello latino non presentano corrispondenze fra loro.
Claudiano apprese il latino non dall’uso familiare e dalla viva voce del popolo, ma dallo studio assiduo degli autori classici. Ne nacque la singolare conseguenza che, almeno in superficie, il suo latino fosse più puro, il più aulico, il più sonoro di quest’età di decadenza culturale; chi, però, scenda più a fondo si accorge che, specie per quanto concerne il significato dei vocaboli, l’origine straniera di Claudiano e quella libresca del suo latino non possono evitare di tradirsi.

Bulla facente parte dei doni nuziali Onorio a Maria, e ritrovato nella tomba di quest'ultima nell'antica basilica di San Pietro in Vaticano: il chi-rho è formato dall'intreccio dei nomi 'Onorio', 'Maria', 'Stilicone' e 'Serena', accompagnati dall'esclamazione 'Vivatis!'.
Bulla facente parte dei doni nuziali Onorio a Maria, e ritrovato nella tomba di quest’ultima nell’antica basilica di San Pietro in Vaticano: il chi-rho è formato dall’intreccio dei nomi ‘Onorio’, ‘Maria’, ‘Stilicone’ e ‘Serena’, accompagnati dall’esclamazione ‘Vivatis!’.

Dal 395 al 404 Claudiano soggiornò a Roma, sia pure con un breve intervallo, dovuto a quello che si può chiamare il suo viaggio di nozze; altri invece pongono le nozze e il conseguente viaggio dopo il 404, spostando in conseguenza la data dell’Epistula ad Serenam. Dal 395 ha inizio la sua produzione poetica in latino, che si svolge tutta all’ombra della corte, ove Claudiano trovò protettori e onori, come il patriziato e una statua (402) nel Foro di Traiano con un’iscrizione greca che lo celebra erede di Omero e di Virgilio. Cominciò nel 395, l’anno della morte di Teodosio e dell’avvento di Arcadio e Onorio all’impero, con lo In Olybrii et Probini consulatum; nel medesimo anno egli compose il De tertio consulatu Honorii Augusti e iniziò la sua opera di maggior impegno, il poema De raptu Proserpinæ, cui lavorò fino al 398 e che ci è giunto incompiuto, in tre libri; nel 396 compose i due libri In Rufinum, contro il ministro di Arcadio, imperatore d’Oriente, perché questi era acerrimo nemico del generale vandalo Stilicone, braccio destro di Onorio, imperatore d’Occidente; nel 397 scrisse il De quarto consulatu Honorii Augusti; nel 398 celebrò con il De bello Gildonico la vittoria di Stilicone contro il mauro ribelle Gildone, cantò le nozze di Onorio con Maria, figlia di Stilicone, nell’Epithalamium de nuptiis Honorii e Mariæ, in 341 esametri, e nei Fescennina de nuptiis Honorii, in vari metri (anapestici, anacreontici, alcaici, asclepiadei), e compose il De Manlii Theodori consulatu; nel 399 scrisse i due libri In Eutropium, l’eunuco ciambellano di Arcadio, che era succeduto a Rufino nella potenza e nell’odio contro Stilicone, e iniziò la composizione dell’opera maggiore dedicata al suo protettore, i tre libri De consulatu Stilichonis, che furono compiuti l’anno successivo; nel 402 celebrò con il De bello Gothico la vittoria di Stilicone contro Alarico a Pollenza; nel 403 compose il De sexto consulatu Honorii. I più ritengono che Claudiano sia morto intorno al 404, tanto più che non è possibile datare oltre quell’anno altri suoi carmi (l’Epistula ad Serenam, anche per chi vuol datarla più in basso, non può essere collocata oltre il 404); altri suppongono invece che egli sia vissuto fino al 408 e sia stato travolto in quell’anno dalla rovina che schiantò il suo protettore Stilicone. Tutti i carmi che abbiamo finora ricordati, salvo i Fescennina, sono stati composti in esametri. I Carmina minora racchiudono epistole, idilli, epigrammi, composti per lo più in distici elegiaci. Fra questi è possibile datarne alcuni: agli inizi del 395 appartengono le due epistole a Probino e Olibrio e il Carmen paschale; al 396 l’epigramma De Theodosio et Hadriano e la Deprecatio ad Hadrianum, subito dopo il 396 va posto il carme Ad Gennadium; i carmi 45-48 relativi a Serena, la moglie di Stilicone, vanno ascritti al 397, lo Epithalamium Palladii et Celerinæ (Palladio era un funzionario di corte) va posto fra il 398 e il 399 (secondo altri fra il 402 e il 404), la Laus Serenæ, incompleta, andrebbe posta fra il 398 e il 404 e successivamente andrebbe datata la Epistula ad Serenam; il De sene Veronensi e lo In Iacobum appartengono al 401. Si dubita della paternità claudianea della Laus Christi e dei Miracula Christi. Fra i Carmina minora ve n’è uno, De ave phoenice, che imita quello attribuito a Lattanzio.
Poesia, dunque, quasi tutta cortigiana e d’occasione, quella di Claudiano. Sembrerebbe perciò che il meglio della sua personalità dovesse risiedere nei carmi di pura fantasia, composti su argomenti mitologici; tanto più che in essi, forse, non è da ravvisare soltanto un gioco di fantasia, ma anche una più profonda ispirazione di carattere misterico, nello spirito mistico del morente paganesimo: nella Gigantomachia, infatti, si possono ravvisare tracce d’orfismo e nel De raptu Proserpinæ l’ispirazione è forse sostenuta dall’importanza che i culti eleusini ebbero nella religiosità pagana post-alessandrina sin da quando si fusero con il culto egizio di Iside e Osiride (e bisogna tener presente che Claudiano era un egizio). Ma, in realtà, le note più originali sono contenute invece nei carmi di argomento politico: non per niente nel Medioevo l’opera claudianea si scisse in due sezioni, la prima contenente tutti i carmi di contenuto politico e cortigiano e i Carmina minora, e chiamata Claudianus maior, e la seconda comprendente il De raptu Proserpinæ, e chiamata Claudianus minor. I poemi di argomento mitologico rivelano in Claudiano l’uomo che, un po’ per sudditanza ai modelli prediletti su cui si era formato poeta latino, un po’ per la sua esuberanza di orientale, ama concepire in grande e scolpire blocchi immani, con una certa felice plasticità ovidiana. Ma le note che vibrano più sincere nel suo animo sono il culto per la grandezza di Roma e la sua gratitudine per i suoi protettori: questo greco-orientale sente la maestà eterna dell’Urbe, e la sua devota amicizia per Stilicone non gli da sembrare strano che un barbaro, un vandalo sia ormai l’unico scudo dell’impero, anzi gli fa celebrare le vittorie contro Gildone e contro Alarico come il perpetuarsi del ciclo inarrestabile dei trionfi romani. Oggi non si arriverebbe a concepire sincerità e vero calore di commozione in un poeta che celebra i fasti di una corte, che non tralascia di esaltare tutti gli onori conferiti all’imperatore e ai suoi cortigiani, che non dimentica d’incensare i più alti personaggi d’ambo i sessi e di rivolgere i suoi strali (e sono fra le sue espressioni più sentite) contro i loro nemici. Ma quel provinciale d’Oriente era seriamente compiaciuto ed entusiasta di vivere in Occidente, a contatto con i grandi della terra, nel centro da cui muovevano tutti i fili che reggevano la politica dell’impero. Un segno della sua sincerità è dato dalla sua incrollabile fedeltà ai suoi veri protettori; e i suoi carmi sono anche una fonte apprezzabile per la storia dei tempi.

Dittico di Stilicone; 400 circa. Monza, Museo del Duomo - a destra, Stilicone; a sinistra, la moglie Serena e il figlio Eucherio.
Dittico di Stilicone; 400 circa. Monza, Museo del Duomo – a destra, Stilicone; a sinistra, la moglie Serena e il figlio Eucherio.

Con questo non si vuol dire che quella di Claudiano sia una grande poesia. Specie al gusto moderno essa odora troppo d’incenso e di lucerna. Il poeta è sincero nel considerare come personaggi degnissimi d’affetto e di esaltazione non solo il grande Stilicone, ma anche Onorio, Serena, Probino, ecc. Ma un tale sentimento, basato per giunta solo su toni di officiosità e di reverenza per imprese di carattere pubblico o per esteriori tributi d’onore, non era sufficiente a ispirare vera poesia anche a un Claudiano. Inoltre, egli si portava, come una catena al piede, il peso della sua scarsa familiarità con la lingua in cui poetava; il che lo costringeva a muoversi sempre entro limiti ben precisati, quelli costituiti dalle formule, dai modi espressivi, dalla tecnica degli autori da lui più profondamente assimilati. Tutto questo fa sì che la sua poesia ci attragga per quel che di caldo, di sonoro, di frondoso che la anima e che è sorretto il più delle volte da una convinzione sincera, ma non riesca a darci l’impressione della vera grandezza. Come la lingua e le immagini sono d’accatto, così il calore è quello delle convinzioni politiche, dei sentimenti personali, non già quello inconfondibile e miracoloso della poesia. Può sembrare una gradita sorpresa che, pochi anni prima del sacco visigotico di Roma, ci sia un poeta di così virgiliana e ovidiana maestria nel trattare il verso, nel tornire il glorioso esametro, un poeta capace di affrontare argomenti ponderosi con vividezza e ampiezza di movimenti, un artista che sappia trasfondere nell’eleganza e nel sentore classico dei suoi carmi la sua illusione che Roma sia grande come al tempo di Augusto. Ma è in fondo letteratura cui manca il sostegno della vera poesia, come alle illusioni di Claudiano mancava il sostegno della realtà. Perciò, se nel corso del secolo questo poeta, che aveva conciliato con la sua opera la secolare rivalità fra la natia Alessandria e l’amata Roma, ebbe anche imitatori come Rutilio Namaziano e lo spagnolo Flavio Merobaude, se anche nel Medioevo la sua fama durò, già l’Umanesimo avvertì che la di sopra della sua brillante ma posticcia letteratura c’era la grande poesia della latinità classica.

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