Properzio e l’amore per Cinzia

di E. Paratore, La letteratura latina dell’età repubblicana e augustea, BUR, Milano 1993, 471-482.

[Properzio] ci ha tramandato quattro libri di elegie, numero corrispondente a quello dei libri di Cornelio Gallo per Licoride; poiché il libro II è inusitatamente lungo (34 elegie, quasi tutte di rispettabile estensione), il Lachmann credette di potervi ravvisare la fusione di due libri e perciò lo spezzò in due, inaugurando la divisione in cinque libri dell’opera properziana. Ma alla fine del secolo scorso si è tornati alla divisione tradizionale, cui non c’è alcuna valida ragione di non avere fede.
Anche sulla famiglia di Properzio si abbatté la iattura della spartizione di terre ai veterani della battaglia di Filippi. Ma a questa per lui se ne aggiunse un’altra, introducendo nell’animo del ragazzo sensibile una nota di profonda amarezza, la quale durò quanto la sua vita: la guerra di Perugia, che devastò la sua terra, stroncò la vitalità della civiltà etrusca (della quale sembra che il poeta abbia un alto concetto, orgogliosamente campanilistico) e seminò il lutto anche nella sua famiglia. Di questo particolare una misteriosa traccia è rimasta nelle due ultime elegie del libro I, ove Properzio ha voluto porre, alla maniera degli Alessandrini, il suo sigillo, la sua σφραγίς al libro ed ha alluso, con alessandrina reticenza e oscurità, alla sua patria, alla sua famiglia e alle sue vicende; un suo parente, Gallo, fu ucciso durante la fuga da Perugia e la sua ombra dà notizie di sé a un soldato fuggiasco anche lui, che sembra essere il marito di sua sorella o il fratello di sua moglie (la madre di Properzio?). La seconda parte della prima elegia del libro IV (che alcuni vogliono considerare un componimento distinto dalla prima parte) fornisce quasi tutte le altre scarse notizie che possediamo sulla vita di Properzio: in essa il poeta immagina che Apollo si rivolga a lui, come già aveva fatto nell’elegia III,3 e come aveva fatto con Virgilio nell’egloga VI, per esortarlo a essere felice ai suoi usi abituali e a lui più adatti, ma ricordi anche le vicende della sua giovinezza. Il padre gli era morto in età in cui di solito i figli «non devono raccogliere le ossa del padre», e la madre lo aveva condotto a Roma dove, assunta la toga virile, egli si dedicò alla poesia, perché Apollo gli vietò «di far rimbombare parole nel tumultuoso Foro»; forse, oltre alle irresistibili inclinazioni del giovane, influì sulla sua scelta la povertà cui la famiglia era ridotta, e quindi all’impossibilità che il giovane riuscisse a pagarsi un buon maestro di retorica. L’ombra delle sciagure patrie e familiari gravava sull’animo suo: ancora al tempo della sua maturità, componendo la decima elegia del libro IV sulle origini del culto di Giove Feretrio, egli alluse alla caduta di Veio, creando, fra i tanti motivi originali della sua arte, la poesia delle rovine […], ma fece chiaramente trasparire […] la sua amarezza per la devastazione di Perugia e della sua terra […].
Su questa sensibilità amareggiata e raffinata, desta a ogni stimolo che la ferisse, piombò la folgore dell’amore per Cinzia, donna più anziana di lui, che Apuleio ci dice si chiamasse Hostia, matrona dissoluta, ma distinta, intenditrice di poesia, esperta nella musica e nella danza. Si ripeteva la tormentosa avventura di Catullo con Lesbia, anche se la donna amata da Properzio, la quale sembra abitasse nella Suburra, aveva più palese comportamento e metodo da cortigiana. Il poeta forse aveva già conosciuto l’amore con la schiava Licinna, che lo aveva amato con sincerità, come egli racconta nell’elegia III,15 (mentre nell’elegia I,1 aveva affermato di non aver conosciuto altro amore), tanto che poi la biografia del Volscus ha fantasticato di suoi precedenti carmi per la giovane schiava. Ma Cinzia fu poi tutta la sua vita: com’era avvenuto anche in Catullo, l’amore, riconciliandolo con la vita, gli aveva infuso anche fiducia di sé, gusto per la vita mondana ed elegante, simpatia per la poesia ellenistica e neoterica sussurranti erotiche seduzioni, ed anche un pizzico di raffinato cerebralismo, che si alterna nella sua poesia con i tratti di più appassionata spontaneità e ne costituisce il polo negativo. Nella prima elegia del libro II egli afferma che la sua poesia non gli è ispirata dalle Muse o da Apollo, ma dal suo amore: «la mia donna crea il mio ingegno». Questo verso potrebbe servire da epigrafe al libro I, il celebre Monobiblos, pubblicato forse intorno al 28 a.C., che lo consacrò alla fama e attirò su di lui l’attenzione di Mecenate. L’amore per Cinzia riempie veramente tutto il libro, salvo le due elegie finali in cui canta liberamente l’altro sentimento che domina il suo spirito, il dolore per la patria e la famiglia distrutte. Anche quando rimprovera all’amico Pontico di scrivere carmi epici, anche quando rifiuta l’invito dell’amico Tullo di partecipare alla spedizione contro i Parti, anche quando s’intrattiene con l’amico Gallo, che è scettico in amore, il pensiero dominante è quello di Cinzia: esso costituisce il metro per ogni altro giudizio; «plus in amore valet Mimnermi versus Homero», dice egli a Pontico, e a Tullo dichiara, con una strana intrusione anche della tristezza per la sua adolescenza infelice: «Lascia che io, cui la Fortuna decretò di rimanere sempre prostrato, dedichi l’anima mia alla più assoluta dappocaggine. Molti si sono consumati spontaneamente in un costante amore; fra questi la terra ricopra anche me; io non sono nato alla gloria, non sono nato alle armi; i fati vogliono che io mi assoggetti a questa milizia ». È il medesimo concetto che abbiamo visto in Tibullo; ma qui esso è reso con un tono più scontroso e amaro; vi si sente un’anima più complessa e vigorosa. Le favole mitologiche d’amore, che in copia gli forniva la diletta poesia ellenistica, entrano a fiotti nei suoi carmi, ma non come bagaglio inerte; esse servono a lievitargli la fantasia, accesa dalla passione amorosa, gli fanno vivere la sua avventura nella luce esaltante delle avventure di dèi ed eroi. Come gli ambiziosi, gli uomini d’arme traggono stimolo dalle leggende eroiche e s’inorgogliscono quando le loro imprese possono evocare il ricordo di quelle, così il poeta nutre il suo singolare orgoglio nel constatare che egli ama come hanno amato gli dèi e gli eroi del mito: questo diviene perciò la misura del suo sentire, il respiro stesso della sua poesia. Parimenti anche i motivi topici sono rivissuti con tanta foga, che non riusciamo a distinguere se si tratti di finzioni letterarie o di avventure realmente vissute. Avviene il contrario di quello che avviene con Tibullo: lì la consueta freddezza del sentimento amoroso nella maggioranza dei casi trova conferma nei motivi topici, qui il fuoco di passione che riscalda i versi riesce a rendere nuovi i motivi topici, innalzandoli al grado di personali esperienze. Così avviene per i viaggi marittimi di Cinzia, così per i suoi viaggi in fredde terre lontane, a proposito dei quali ritorna la preoccupazione espressa da Cornelio Gallo per il gelo che potrebbe offendere i piedini della donna amata.
Ovidio chiamerà «ignes» i versi di Properzio, alludendo alla veemenza di passione in essa contenuta (e il termine del resto appare già tipico del gergo della poesia erotica): già nel Monobiblos questo carattere esplode in tutta la sua potenza. Già comincia a manifestarsi quella caratteristica tutta properziana di iniziare un carme ex abrupto, con una movenza piena di uno slancio quasi cupo per la sua intensità, spesso con una di quelle subitanee interrogazioni che sembrano partire dal profondo […]. A questo intimo fuoco divoratore si adegua la temperie espressiva, robusta fino all’oscurità, densa fino al preziosismo, ma pur improntata a una sua particolare, severa eleganza. Properzio non è trasparente come Tibullo; la sua fantasia non ama snodarsi in torpide volute ricorrenti, ma anzi si concentra con forza sopra un argomento, e lo sviscera e lo matura con una fiamma sottile che sembra incendiare le immagini. Di qui quel corposo che hanno in lui i vocaboli, i costrutti, i nessi ordinatori dell’insieme, quell’organizzarsi dei particolari in blocchi contrapposti, cui si adegua il ritmo rigidamente pendolare del distico: sicché tutto quell’aggrumarsi di particolari risentiti trova la sua disciplina in un procedere insistente e serrato, che ha la sua aspra, singolare eleganza, un che di frizzante e di acre che solletica la fantasia del lettore senza cessar di cullarla in un ritmo fortemente scandito. Ciò comporta una sintassi scabra, in cui i nessi si tendono sin quasi a spezzarsi e l’espressione si torce e si ripiega su se stessa in scorci audaci. Anche i vocaboli spesso assumono un significato diverso da quello abituale, e l’espressione ne risulta ancor più enigmatica e ricca di pregnanza. Queste caratteristiche dello stile properziano si sono volute ricondurre in blocco alla sua velleità d’essere il Romanus Callimachus, come malintesa programmatica tendenza a riprodurre il carattere secco, puntuale e laboriosamente allusivo ed erudito dell’espressione del poeta di Cirene. La tradizione manoscritta di Properzio, i cui principali rappresentanti sono il […] Codex Neapolitanus del sec. XII e il Laurentianus del sec. XIV, è fra le più difficili e controverse della latinità; esso è un tempo causa ed effetto della difficoltà del testo […].

Auguste J. B. Vinchon, Properzio e Cinzia a Tivoli. Olio su tela, 1815.

Sembra strano che Mecenate abbia voluto presso di sé il giovane poeta che recava l’eredità di un gusto e di una sensibilità politica così distanti, l’uno e l’altra, da quel che egli si prefiggeva: forse la sua simpatia fu stimolata dai vincoli sentimentali che legavano Properzio all’Etruria, da cui anch’egli proveniva. […] Ma nel libro II, che fu poi pubblicato nel 25 a.C. e fu dedicato a Mecenate come il libro III, l’intenzione di trattare altri argomenti è solo accennata come una possibilità che il poeta giudica conveniente, ma inadatta alle sue capacità. Il lunghissimo libro è ancora pieno di Cinzia: quella che nel Monobiblos era stata la prima gioiosa esplosione, ora si arricchisce di più complesse esperienze, si articola in una storia d’amore, i cui palpiti, i cui affanni determinano nel cuore del poeta quella profondità di umana consapevolezza che lo rende conscio di tutti i misteri della vita. Al pensiero che la sua donna possa meditare di nuovo un viaggio trasmarino, egli propone: «Molto giova in amore la fedeltà, molto la costanza: chi può dar molto, può amare molto». Siamo già vicini al precetto evangelico che a chi molto avrà amato, molto sarà perdonato; c’è già sicuramente l’esaltazione dell’amore come capacità di dar tutto all’essere amato, come virtù di sacrificio. E il poeta soggiunge: «Se la mia donna medita di andare per lo sconfinato mare, la seguirò, e lo stesso lido sarà il giaciglio dei nostri sonni, lo stesso albero ci coprirà e spesso ci disseteremo alla stessa acqua» […]. Che anche Cinzia sia dedita ai misteri di Iside, che anche lei giochi con il poeta il classico gioco delle finzioni non stupisce […], non ci fa sentire il chiuso dell’artificio letterario: Properzio l’ha vigorosamente designata come una scaltrita mondana, la terribile romana che esige, nella sua serena impudicizia, il sacrificio dei cuori innamorati. Ma se essa recita col poeta la commedia delle lagrime, ecco uscire dal suo cuore un grido fra i più disperati e patetici che l’amore abbia dettato a un poeta: «Qualunque diceria mi sia riferita sul tuo conto troverà sordi i miei orecchi: basti che tu non dubiti della mia serietà. Te lo giuro per le ossa di mia madre, per le ossa di mio padre (e se mento, le ceneri di entrambi mi pesino sul cuore!), che io ti rimarrò fedele, o mia vita, sino alle tenebre della morte: lo stesso giorno ci porterà via stretti nello stesso vincolo». Se Cinzia si ammala, egli rivolge a Giove questa desolata preghiera: «O Giove, abbi finalmente pietà della mia fanciulla ammalata: che una donna così bella venisse a morire, sarebbe un delitto da parte tua» […]. Altrove effonde il suo animo in questa nota di così viva universalità: «Solo chi ama sa quando dovrà morire e di quale morte, e non teme né il soffio di Borea né le armi. Anche se fosse davanti a lui il rematore seduto sotto i giunchi dello Stige ed egli scorgesse la lunga vela della barca infernale, se solo l’aria gli recasse l’eco della sua donna che lo richiamasse indietro, saprebbe ripercorrere la strada che a nessuno dei mortali è lecito ripetere». Anche se la sua fantasia indulge alla visione ellenistica degli amorini che di notte lo sorprendono per via e lo vogliono impiccare per punirlo per non essere presso la sua bella ed egli sul far del giorno si reca da Cinzia e la trova sola ad aspettare, c’è tale fuoco di passione sotto la delicata fantasia, che essa si colloca agevolmente nel tono dell’insieme, appassionato e quasi cupo per troppo ardore. […]
Con Orazio ci fu […] sorda ostilità, trapelata in varie punzecchiature reciproche: nell’epistola seconda del libro II il Venosino, che si gloriava di essere il nuovo Archiloco e il nuovo Alceo, cioè di aver assuefatto la poesia latina ai metri e allo spirito dei grandi poeti greci dell’età classica, canzona apertamente Properzio, che nelle elegie prima e terza del libro III aveva proclamato di voler essere il Callimaco e il Filita di Roma […], cioè aveva tentato di perpetuare il culto di quei poeti ellenistici da cui ci si voleva staccare […].
Nel libro III, pubblicato intorno al 22, Properzio, dopo altre riluttanze, fa le viste di avvicinarsi ai temi che Mecenate si attendeva di vedere svolti da lui: ma tratta soprattutto quelli più consoni all’intonazione elegiaca, come l’epicedio del giovane Marcello, il nipote di Augusto, la cui morte immatura Virgilio compiangeva nel frattempo in un episodio aggiunto a Eneide IV; e per il resto dedica qualche nota svagata e svogliata alla celebrazione delle gesta di Augusto, come quando la nuova spedizione contro i Parti suscita in lui solo immagini di mondano godimento, per esempio quella del trionfo che egli contemplerà, «appoggiato al fianco della diletta fanciulla», o reazioni di pacifismo a sfondo epicureo […].
Ma anche quel poco che egli concede alla poesia officiosa è dovuto al progressivo raffreddamento della sua vena di poeta erotico, sotto il colpo delle delusioni inflittegli da Cinzia: è sintomatico che ora egli confessi alla sua donna di aver avuto un altro amore prima del suo, quello di Licinna. Nell’amarezza del distacco, con cui il libro si chiude, Properzio ritrova una nota di universale risonanza, scopre che nell’amore noi ci figuriamo la donna amata come la desideriamo, la arricchiamo dei pregi che solo la nostra fantasia le conferisce […]
Nacque perciò, con lenta gestazione, il libro IV. Qui finalmente Properzio appaga la lunga attesa di Mecenate; e nella prima elegia rievoca i tempi leggendari di Evandro, per porne a confronto la frugalità con gli splendori della Roma contemporanea; e nella seconda introduce a parlare il dio Vertumno, il dio capriccioso e birichino dei perpetui mutamenti; e nella quarta rievoca la leggenda di Tarpea, nella sesta torna a celebrare la vittoria di Azio, prendendo le mosse dalla consacrazione del tempio di Apollo sul Palatino, nella nona la leggenda di Ercole e Caco; nella decima canta le origini del culto di Giove Feretrio. La grande ombra di Virgilio è presente in molte di queste sue divagazioni patriottico-erudite; ma il suo intento precipuo e confessato è di imitare Callimaco anche come cultore di poesia eziologica, di essere il Callimaco romano sotto tutti gli aspetti. Così era aperta la via ai Fasti ovidiani e nello stesso tempo, pur con i modi di una tradizione non classica ma ellenistica, si veniva incontro formalmente al programma religioso di Augusto. Era un’arte precisa, accurata, spesso acuta nel cogliere i profondi motivi di un fatto politico o culturale, come per esempio l’elemento apollineo della religiosità augustea, che nessun altro poeta ha saputo così chiaramente additare come Properzio; ma era un’arte fredda, compassata, talvolta persino stucchevole […]. Ma la spinta precipua a questa nuova mirabile fioritura di poesia amorosa è offerta nel cuore del poeta da un evento luttuoso: la morte di Cinzia. La bella donna infedele, ora che è morta, non suscita più rancori, ma riaccende nello spirito generoso e sensibile del poeta l’ardore di un tempo, trasfigurato dal cordoglio […]. Il libro fu pubblicato intorno al 14 a.C., e forse nel medesimo anno Properzio morì. […] La sua morte sembra chiudere la breve, ardente estate della lirica romana; e con lui si spegne una delle personalità più complesse e più alte della poesia latina. Ovidio ne intese e ne esaltò il valore, traendo spunti da lui più che da qualsiasi altro poeta latino, Virgilio compreso […].

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