Di G. Serrao, in Storia e civiltà dei Greci. IX, La cultura ellenistica: filosofia, scienza, letteratura. II- Letteratura (dir. R.Bianchi Bandinelli). Bompiani, Milano 1991; pp. 171-179.
Nel corso del IV secolo a.C. alle trasformazioni sociali ed ai mutamenti politici del mondo greco s’accompagna un’altra trasformazione che, pur se limitata alla tecnologia della cultura, è destinata, più d’ogni altro fenomeno coevo, a rivoluzionare tutte le manifestazioni letterarie del periodo ellenistico: dalla comunicazione e trasmissione orale della cultura si passa gradatamente a quella scritta. Certo il “libro” esisteva già nel V secolo, ma la sua circolazione era ancora limitata e «il carattere comune a tutta la poesia greca sino alla fine del V secolo» rimane «in sostanza l’oralità a livello di pubblicazione e di trasmissione». Solo nel IV secolo il libro assurge a massimo veicolo di diffusione culturale, a livello sociale, e celebra il suo trionfo definitivo nella società ellenistica col sorgere delle grandi biblioteche di Alessandria e di Pergamo. Enormi furono le conseguenze. La trasmissione e la diffusione dei testi letterari non è più affidata, come prima, alla declamazione degli autori ed alla memorizzazione dei rapsodi e degli ascoltatori, ma alla carta scritta ed al commercio librario. Il poeta perde l’uditorio: tra il poeta e il suo pubblico si frappone ora il libro. Il poeta non può più rivolgersi direttamente agli ascoltatori e coinvolgerli emozionalmente nel suo canto: la poesia perde in immediatezza e spontaneità e si rivela più meditata e pensosa; perde quel carattere collettivo che accomunava il poeta all’uditorio e diventa più personale e più individualistica. Ne consegue una maggiore ricercatezza formale ed una più profonda ma più sorvegliata erudizione non disgiunta da un inestinguibile desiderio di novità. Nella poesia esametrica scompare lo stile formulare, chiaro residuo dell’oralità e della memorizzazione, e le riprese dagli antichi poeti, soprattutto da Omero, si rivelano derivate non dalla tradizione rapsodica ma da un’accurata ricerca e da un approfondimento erudito dei mezzi artistici del poeta imitato.
I poeti più antichi, specialmente quelli ionici, vengono accuratamente studiati, analizzati, interpretati. Il lavoro dell’erudito si combina felicemente con quello dell’artista: un’opera di poesia è ritenuta al tempo stesso un lavoro di alta filologia. Si dissolve così inevitabilmente quel legame che, nella pólis del V secolo, univa l’artista all’intera comunità: il poeta ellenistico scrive unicamente per il lettore erudito che può seguirlo nei meandri del suo faticoso cammino. Se ancora Aristofane nel 405 a.C. poteva a buon diritto proclamare la funzione sociale dell’arte (cfr. soprattutto Ra. 1052 ss.: «… il poeta deve nascondere il vizio e non metterlo in mostra e insegnarlo; per i fanciullini c’è il maestro che spiega, per i giovani i poeti: noi dobbiamo assolutamente raccontare cose oneste»), Callimaco ormai non avverte più questa funzione e, come egli stesso afferma in due versi densi di allusività (fr. 1,29 Pf.), intende cantare solo «per coloro che amano l’armonioso frinire della cicala e non il raglio rimbombante degli asini».
Si manifesta ora per la prima volta quella scissione tra cultura della classe dirigente e cultura delle classi subalterne che sempre più si accentuerà con lo sviluppo della società e dell’economia sino a divenire la caratteristica costante nelle letterature dell’età moderna. Infatti, la pólis, come centro di vita associativa di un ristretto numero di individui, poteva facilmente nascondere le differenze culturali delle sue componenti sociali: i culti comuni, le feste religiose, gli spettacoli pubblici, le assemblee popolari e tutte le altre manifestazioni della vita politica (cui partecipavano tutti i cittadini) tendevano naturalmente ad attenuare le differenze e a livellare le culture; soprattutto la stessa trasmissione orale della cultura favoriva questa tendenza. Ma quando, dopo la morte di Alessandro, dalla città-stato si passa al regno ellenistico di grandi dimensioni, la scissione è inevitabile. La direzione dello Stato passa nelle mani di un monarca che la detiene per diritto divino, i cittadini si disinteressano della cosa pubblica, la cultura ufficiale diventa patrimonio esclusivo delle classi abbienti, dalla trasmissione orale si passa definitivamente a quella scritta. La cultura acquista in profondità quanto perde in estensione. Nella Grecia del V secolo a.C. i sofisti preparavano i giovani di famiglia facoltosa al governo della cosa pubblica, ma ora che lo Stato è nelle mani del monarca si ritorna ai pensatori ionici e all’indagine sulla natura. Alla verità soggettiva dei sofisti ed alla loro concezione enciclopedica della cultura si contrappone la verità oggettiva della scienza e la specializzazione del sapere: nasce la prosa scientifica.
Anche i poeti alessandrini, per lo più, ripudiano in blocco la letteratura attica del V secolo, che rappresentava appunto la massima espressione culturale della pólis nel suo apogeo, e cercano i loro possibili modelli fra gli antichi poeti del periodo ionico; e tra essi preferiscono quei poeti che apparivano meno integrati nella vita politica del loro tempo: come Esiodo che veniva generalmente contrapposto ad Omero, Mimnermo che era considerato soprattutto poeta d’amore, Ipponatte che aveva parodiato e contestato la società e la cultura del suo tempo. La nuova cultura, affidata alla trasmissione scritta, cioè al libro, si diffonde celermente in tutto il mondo ellenizzato, ma le masse popolari ne rimangono escluse: alla corte dei Tolomei si raccolgono i poeti, i letterati, i grammatici, gli scienziati più famosi: alla corte del Sotere troviamo il poeta e grammatico Filita di Cos, il naturalista peripatetico Stratone di Lampsaco, il matematico Euclide, il medico Erofilo di Calcedone (il fondatore dell’anatomia), il grammatico Zenodoto di Efeso, lo storico e scrittore Ecateo di Abdera; ed alla corte del Filadelfo vissero i tre maggiori poeti dell’età ellenistica: Callimaco, Apollonio Rodio e per un certo tempo anche Teocrito. Degli edifici regali faceva parte il Museo, che era al tempo stesso un’accademia scientifica e un pensionato di dotti, con la grande biblioteca che già al tempo del Filadelfo conteneva 490.000 volumi. Ed al Museo di Alessandria si affollavano i dotti convenuti da ogni parte del mondo.

Altri centri culturali, anche se meno importanti, furono Pergamo, Antiochia e Pella, ma quest’ultima soltanto per breve tempo. Pergamo divenne, sotto Attalo I ed Eumene II, la grande rivale di Alessandria; Antioco III, più a scopi propagandistici che per amore della cultura, si circondò di poeti e letterati e chiamò ad Antiochia, come capo della biblioteca, Euforione di Calcide, il più grande poeta del tempo.
Anche Pella, la capitale della Macedonia, divenne sotto il regno di Antigono Gonata, un importante centro di raccolta di letterati e poeti. Alla corte di Antigono visse il poeta Arato di Soli, e per compiacere appunto a quel sovrano stoico, che l’esortava a cantare le meraviglie della natura, egli scrisse i Fenomeni: un raffinato poema in esametri di breve estensione che canta le stelle fisse, le costellazioni e i segni del buon e del cattivo tempo. Il poemetto piacque molto a Callimaco che ne salutò la pubblicazione con un arguto e penetrante epigramma.
La Grecia insulare seppe trar profitto dall’intensificarsi degli scambi commerciali tra l’Egitto e l’Oriente ed ebbe un periodo di grande prosperità. Particolarmente nelle isole con ampio retroterra, come Samo e Cos, che potevano facilmente esportare i loro pregiati prodotti agricoli, emerge nel III secolo a.C. una fiorente nobiltà terriera che si può permettere il lusso di dedicarsi a tempo perso alle lettere e di ospitare poeti ed eruditi.
A Samo, intorno ad Asclepiade si raccoglie un cenacolo di poeti gaudenti (come Posidippo di Pella, Edilo di Atene, Socle di Reggio) dediti unicamente al canto, ai conviti, agli amori. A Cos, oltre alla celebre scuola di medicina, fiorisce un cenacolo di poeti, seguaci di Filita, che alternano la poesia con gli studi eruditi. Di questo cenacolo dovette sicuramente fra parte anche Teocrito durante il suo lungo soggiorno a Cos; e Teocrito nelle Talisie ci testimonia espressamente che i suoi anfitrioni (i fratelli Frasidamo e Antigene che celebravano la festa in onore di Demetra per l’abbondante raccolto) appartenevano alla più antica nobiltà dell’isola.
Erano dunque approssimativamente questi i centri culturali del mondo ellenistico: le corti dei potenti monarchi (con gli uomini di cultura di cui amava circondarsi il sovrano, gli alti dignitari e gli alti burocrati), le scuole filosofiche, i cenacoli dei poeti. Quivi convenivano i poeti e gli eruditi, e quivi destinavano le loro opere. Possiamo facilmente rendercene conto scorrendo la lista dei destinatari che ci fornisce lo stesso Teocrito. L’incipit degli Idilli VI, XI e XIII è in forma di epistola: il VI è dedicato al poeta Arato, mentre l’XI e il XIII sono indirizzati entrambi a Nicia di Mileto che (come ci informa Teocrito e confermano gli scolii) era al tempo stesso medico sapiente e poeta raffinato. Alla moglie di Nicia è indirizzato un altro carme della nostra raccolta: l’Id. XXVIII con cui il poeta accompagna il dono di una conocchia d’avorio. L’Id. XVII è un encomio di Tolomeo II Filadelfo, e a Tolomeo (o alla sua corte) si rivolge ancora Teocrito negli Idd. XIV (vv.59-68) e XV (vv.46 s.): anzi la scena finale dell’Id. XV si svolge, addirittura, nella reggia di Alessandria e il carme si chiude con il canto della sacerdotessa che celebra Afrodite ed Adone, la regina Arsinoe e sua madre Berenice. L’Id. XVI è rivolto a Ierone di Siracusa e, infine, gli Idd. VII e XXII ci riportano al circolo poetico di Cos e al Museo di Alessandria: nel VII, che è ambientato a Cos, Teocrito parla di Aclepiade e di Filita ed agita problemi di poetica in accordo con le idee letterarie di Callimaco; nel XXII tratta, in modo del tutto nuovo e secondo la concezione artistica callimachea, un argomento che era stato trattato da Apollonio (II, 1-97) con la tradizionale gravità dell’epos. È utile ricordare che la nostra raccolta comprende complessivamente solo 21 carmi di sicura autenticità e di ben 10 conosciamo i destinatari; essi sono: due re potentissimi (Tolomeo e Ierone), due poeti famosi (Arato e Nicia), i dotti del Museo di Alessandria, i poeti del circolo filiteo di Cos.
Ovviamente anche la produzione letteraria, come ogni altro prodotto, è condizionata dalla richiesta e dalle esigenze del consumatore. L’elevato grado sociale e culturale dei consumatori spiega l’estrema raffinatezza e al tempo stesso l’essenzialità della poesia alessandrina che fu soprattutto poesia di cultura. Ma troppo spesso ancora si tende ad identificare la «cultura» con l’«erudizione libresca» e la «poesia colta» con la poesia di pura imitazione: niente è così lontano dalla concezione poetica di Teocrito e di Callimaco quanto questo strano cliché. Il desiderio di novità spingeva il poeta ellenistico a cercare «vie non battute» fra culti locali e tradizioni popolari, e d’altra parte l’imitazione incontrollata degli autori antichi era programmaticamente evitata e condannata. I poeti del III secolo non furono gli epigoni di un glorioso passato, ma furono essi stessi abili innovatori e grandi creatori; e vollero distinguere, con scrupolosa esattezza, ciò che era creazione originale e personale da ciò che veniva mutuato dall’esperienza poetica del passato: l’imitazione, infatti, è quasi sempre evidenziata allusivamente per mezzo di riscontri verbali che devono risaltare agli occhi del lettore non ut lateat imitatio, se ut pateat. Sorge e si diffonde così quella tecnica che, secondo una felice definizione di G. Pasquali, viene oggi universalmente indicata come «arte allusiva»; e intimamente connesso con questa tecnica è un altro fenomeno non meno frequente nei poeti ellenistici: la contaminatio o mistione dei generi letterari. La letteratura ellenistica non fu una letteratura rivolta verso il passato, ma fu aderente alla nuova realtà del mondo greco: giudicarla in modo diverso sarebbe un errore di prospettiva storica.
Individualismo e realismo sono le sovrastrutture ideologiche che maggiormente caratterizzano ogni espressione culturale del mondo ellenistico: l’opera d’arte non viene più considerata come rappresentazione idealizzata di una realtà razionale governata da leggi universali e immutabili, ma come interpretazione personale e realistica di una realtà umana al cui centro sta la personalità dell’artista. La maestosa gravità dell’epos non affascina più il poeta ellenistico e i grandi personaggi del mito vengono ora riproposti in atteggiamenti e dimensioni umani. La distinzione aristotelica tra storia e poesia non è più avvertita o, per lo meno, non è più ritenuta valida: il poeta, non meno dello storico, mira costantemente alla verità. «Io dico solo la verità e non mi vanto» dichiara, nell’Idillio V teocriteo, il personaggio che rappresenta la Weltanschauung dell’autore; e nell’Idillio VII, in una scena che ricorda l’investitura esiodea nel prologo della Teogonia, Teocrito viene consacrato poeta bucolico da un pastore stesso che gli consegna il suo bastone pastorale con questa motivazione (vv.43 ss.):
Questo ricurvo bastone ti dono, perché sei un rampollo di Zeus tutto plasmato sulla verità.
Poiché anche a me è fortemente odioso l’architetto che si sforzi di costruire una casa simile
alla vetta dell’Oromedonte e i pollastri delle Muse che, schiamazzando di contro al cantore
di Chio, si affaticano invano.
πᾶν ἐπ᾽ ἀλαθείᾳ πεπλασμένον (pân ep’alatheía peplasménon) suona il testo greco e il sintagma ep’alatheía peplasménon assume un valore che trascende il suo significato letterale; con esso Teocrito, come ho dimostrato altrove, intende affermare, in opposizione ai tardi epigoni della poesia epica, la propria originalità e la propria indipendenza da qualsiasi immediato modello all’infuori della realtà pastorale. Se dunque Teocrito si proclama plasmato sul modulo di alátheia, è segno evidente che egli si considera e vuol essere il poeta di alátheia, intesa sia in senso metaforico di poesia “personale”, “originale” (in antitesi alla poesia d’imitazione), sia nel suo significato letterale di “verità”, come fatto storicamente attestato e direttamente accertato. Anche Callimaco, nel prologo degli Àitia, racconta che quando per la prima volta si dispose la tavoletta per scrivere sulle ginocchia gli apparve Apollo Licio e (fr. 1,23 Pf.):
O poeta – gli disse – alleva la vittima grassa quanto più sia possibile, ma la Musa, o amico,
sottile; ed inoltre anche questo ti ordino: di calpestare le strade che non battono i pesanti
carreggi e di non condurre il carro sulle orme degli altri, né per la via più spaziosa, ma per
sentieri non battuti, anche se lo condurrai per la via più angusta.
E sono le Muse, quelle che un giorno consacrarono Esiodo poeta di alḕtheia, che nello stesso prologo degli Àitia gli svelano in sogno la vera origine delle cose. Infatti, Callimaco, come […] ha ribadito il Pfeiffer (1968), non si stanca mai di ricordare che «qualsiasi cosa dirà, è vera perché bene attestata». E non basta: ancora nel celebre finale dell’Inno ad Apollo, dove il dio contrappone all’acqua lutulenta del grande fiume le pure stille di un’acqua sorgiva, è implicito, secondo Pfeiffer, il monito ai poeti perché attingano «from the original pure source, not from its polluted derivatives». È appunto questa la Weltanschauung su cui si fonda il programma poetico dibattuto da Teocrito e da Callimaco: obbedire alla propria natura ed essere sempre se stessi; una poetica, cioè, fondata sulla “verità”. Ciò comporta il ripudio dei moduli tradizionali, il rifiuto di qualsiasi modello, un’affannosa ricerca di novità: i poeti alessandrini furono cupidi rerum novarum.
All’affermazione della libertà interiore e dell’autonomia della persona umana mirano (o almeno la presuppongono) anche le due dottrine filosofiche maggiormente operanti nell’età ellenistica: la stoica e l’epicurea. Di Zenone di Cizio, il fondatore della scuola storica, così scrive Bianchi Bandinelli: «Proprio dai pochi frammenti riferibili al diretto pensiero di Zenone, emergono concetti che riferiscono sempre all’individuale personalità l’acquisizione delle rappresentazioni che ci giungono dal mondo esterno attraverso i sensi. Acquisizione “egemonica”, come dice Zenone, da parte dell’anima (l’anima, egli dice, testa di polipo con otto tentacoli sensitivi che in essa trovano la forza unificante e coordinatrice)». Comune a tutta la scuola stoica fu inoltre la concezione dell’infinita superiorità del saggio, che si erge sulla massa come un dio fra gli uomini, e l’ammissione del suicidio quando non si è in grado di vivere «in accordo con se stessi», cioè secondo il proprio ideale. È il carattere individualistico dell’età che affiora persino in una filosofia universale, quale quella stoica, che predicava la subordinazione del bene individuale a quello universale. E soprattutto individualistica fu l’altra grande dottrina filosofica dell’ellenismo: la filosofia epicurea. Epicuro seguì la fisica atomistica di Democrito, ma nella concezione meccanica e fatalistica del filosofo di Abdera egli introdusse il libero arbitrio, il clinamen degli atomi: solo la deviazione dal movimento verticale rendeva possibili, secondo Epicuro, gli incontri fra gli atomi e la formazione delle cose. Epicuro fu, tra gli antichi, il più grande assertore della libertà umana. Alla provvidenza divina degli stoici e al determinismo della religione tradizionale, egli contrapponeva la libertà dell’individuo; alla gloria della vita pubblica, la serenità dell’atarassia: il saggio, per Epicuro, non partecipa al governo dello Stato, ma vive felice e solitario nella calma dello spirito. Questo insegnamento contrastava con la concezione che della vita ebbero i Greci nell’età classica, ma interpretava le esigenze dell’uomo ellenistico che, escluso dal governo della cosa pubblica, cercava il senso della vita nell’intimità delle pareti domestiche: «A noi – proclama Teocrito nell’idillio più autobiografico della nostra raccolta (VII, 126 s.) – stia a cuore la tranquillità ed una vecchia ci assista che, con i suoi scongiuri, tenga lontane da noi le cose non buone». È un programma e assieme un ideale di vita chiaramente espresso: ora per la prima volta, presso gli antichi, si scopre la serena dolcezza della vita contemplativa. La poesia ellenistica fu più intima, anzi, direi quasi, più incline all’intimismo di quella classica: il poeta scruta e analizza i sentimenti più riposti e gli stati d’animo che esprime con immediatezza e precisione nel giro di pochi versi. La forma più caratteristica in cui si espresse questa poesia «fu l’epigramma. Nato nell’età classica, secondo il significato della parola, come “iscrizione”, cioè per consegnare al marmo, al bronzo, alla pietra, parole riservate all’eternità, finì per esprimere sensazioni e impressioni dell’attimo fuggente, per dar forma cioè alla poesia più individualistica, più libera, più rapida che i Greci abbiano mai conosciuta». Scrissero epigrammi tutti i maggiori poeti del II secolo (Callimaco, Teocrito, Asclepiade, Filita, Arato) e a buon diritto questo genere può essere considerato una creazione originale dei poeti alessandrini, ma nessuno di essi scrisse solamente epigrammi. Il poeta del III secolo a.C. non rimane mai vincolato ad un solo genere letterario che, in quest’epoca, è unicamente frutto di deliberata scelta.

Anzi la polyèideia e la missione dei generi letterari diventano quasi una «nuova normativa» di cui Callimaco è stato il teorico nel giambo XIII. «Non più – scrive L.E. Rossi – la rigida evocatività dei vari dialetti: si può usare lo ionico, il dorico, il “dialetto misto” (Ia. XIII,18); non più la specializzazione in un genere solo, che era stata la regola quasi universale finora: “qual dio ha ordinato che tu scriva pentametri, tu versi eroici, tu tragedie?” (XXX,2). E Callimaco metterà in pratica lui stesso tali nuovi e rivoluzionari precetti…: userà il dorico nei due ultimi inni, praticherà un po’ tutti i generi, dandone anche un campionario, ricco per argomenti e per metri, proprio nel libro dei Giambi, espressamente ispirato alla polyèideia di un precursore, Ione di Chio (Ia. XIII, dieg.); e il libro dei Giambi sarà il padre dei numerosi Gedichtbücher della letteratura posteriore greca e latina».
I poeti alessandrini seppero dunque adeguarsi alle mutate condizioni sociali e furono sensibili alle nuove esigenze del loro pubblico. Essi vollero essere e furono realisti, anche se non disdegnarono l’erudizione e ricercarono la raffinatezza. Gli studiosi moderni hanno per lo più sopravvalutato quest’ultimo aspetto a scapito del realismo, ma hanno avuto torto. Essi non hanno considerato che con i regni ellenistici finisce l’età antica ed incomincia l’età moderna: la poesia alessandrina fu realistica nella misura in cui lo può essere la poesia di un periodo qualsiasi delle nostre letterature moderne. Con la sola differenza che il realismo odierno, ispirandosi alle classi diseredate, mira per lo più a contestare la società in cui si muove, mentre questo obiettivo rimase sempre estraneo al realismo dell’età ellenistica.
Bibliografia:
GENTILI B. – CERRI G., Le teorie del discorso storico nel pensiero greco, Roma 1975.
GIANGRANDE G., «Ant. Class.» 37 (1968), p.497.
HAVELOCK E.A., Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, Bari-Roma 1973.
PERROTTA G., Storia della letteratura greca, III, Milano 1946.
PFEIFFER R., History of Classical Scholarship, Oxford 1968..
ROSSI L.E., «Bull. Inst. Class. St. London» 18 (1971), p.85.
SERRAO G., Problemi di poesia alessandrina, I, Studi su Teocrito, Roma 1971.
[…] deciso dei testi fin qui citati testimonia assai bene l’asprezza della polemica che divideva i letterati di Alessandria e che li spingeva a un dissidio intellettuale senza esclusione di colpi. Un […]
"Mi piace""Mi piace"