Autàrkeia e vita nei campi

45_2di A. La Penna, L’elegia di Tibullo come meditazione lirica, in Tibullo, Elegie, Milano 1989; pp.48 ss.
La scelta della vita si configura per Tibullo come scelta dell’autàrkeia: contentarsi di poco, limitare i consumi per essere più indipendente e vivere secondo i propri gusti, per costruirsi un piccolo rifugio contro i pericoli, le fatiche, le agitazioni della vita, le stragi delle guerre, la brama di ricchezze, la smania del lusso. Al nesso fra bisogno di lucro e guerra si oppone il nesso fra autàrkeia, cioè “limitazione dei consumi”, “autosufficienza” da un lato e pace dall’altro. Si conferma nel caso di Tibullo che la ricerca della tranquillità dell’animo nell’autàrkeia presuppone un senso particolarmente acuto della precarietà, l’angoscia in un mondo instabile, disumano, devastato dalla violenza. Nella chiusa dell’elegia proemiale non manca quell’orgoglio che l’autàrkeia, il “rifugio ben difeso”, dà al filosofo:

vos, signa tubæque,/ite procul, cupidsi volnera ferte viris,/ferte et opes: ego conposito securus acervo/despiciam dites despiciamque famem

(«voi, insegne e trombe,/andate lontano, portate ferite al guerriero ambizioso,/portategli ricchezze: io tranquillo, ammassato il mio raccolto/non mi curerò dei ricchi e me ne riderò della fame», I 1,75-58). […] Credo che in questo contesto, cioè soprattutto come scelta dell’autàrkeia, vada vista in Tibullo la scelta della campagna. L’ideale dell’autosufficienza, della tranquilla indipendenza si può realizzare dovunque, anche in città, ma si realizza meglio nella vita rustica. Lo realizza il piccolo agricoltore, proprietario pauperis agri; piccolo è anche il gregge: ricordiamo la preghiera che, non senza una punta di lusus, Tibullo rivolge a ladri e lupi:

At vos exiguo pecori, furesque lupique,/parcite: de magno est præda petenda grege

(«Ma voi, ladri e lupi, risparmiate il piccolo/gregge: la preda deve essere strappata da un grande armento», I 1, 33-34). Ben inteso, Tibullo non è certo insensibile alla bellezza dei campi: nel delineare la vita che si augura, non manca di immaginarsi sdraiato sotto un albero, presso un ruscello, per evitare la Canicola:

sed Canis æstivos ortus vitare sub umbra/arboris ad rivos prætereuntis aquæ

(«ma evitare l’estivo sorgere della Canicola all’ombra/di un albero o accanto a un ruscello d’acqua corrente», I 1, 27-28). La scena è quella del tradizionale locus amoenus; è probabile, però, che la suggestione più immediata venga dal proemio di Lucrezio al libro II (vv. 29-31):

inter se prostrati in gramine molli/propter aquæ rivum sub ramis arboris altæ/non magis opibus iucunde corpora curant.

Il contesto è simile; anzi, va ricordato che in quel proemio il tema è, appunto, la scelta di vita. Queste analogie valgono anche nel confronto con Orazio (Odi I 1, 21 ss.). Non è escluso che Tibullo conoscesse anche questo passo, ma la conclusione più probabile è che in ambedue operi la suggestione di Lucrezio. Tuttavia non sono i coloro idilliaci pastorali che caratterizzano di più la campagna di Tibullo, specialmente nel libro I. La vita nei campi che Tibullo ama è operosa, anche se non faticosa, dà frutti utili, anche se non abbondanti. Benché Tibullo conosca le Bucoliche di Virgilio e se ne ispiri più volte, interpreti recenti hanno sottolineato piuttosto, e non senza ragione, l’affinità della vita rustica tibulliana con quella delle Georgiche. Il Tibullo coltivatore di messi, di viti, di alberi da frutta, allevatore di greggi somiglia più al pius agricola o all’Ofello di Orazio, che a Titiro […]. L’affinità con Virgilio georgico si conferma nella pietas di Tibullo agricoltore. Non c’è bisogno di rilevare ancora una volta la forte impronta romana della sua religiosità legata alla vita agricola. Ricorderò solo il rilievo che vi hanno le divinità domestiche, i Penati, specialmente i Lari. Egli ama in modo particolare queste divinità perché vi vede i resti e i simboli di un passato ideale, della purezza, della pietas, semplicità di un tempo; li ama perché gli ricordano la sua infanzia (I 10, 15-16):

Sed patres servate Lares: aluistis et idem,/cursarem vestros cum tener ante pedes

(«Ma salvatemi voi, o patrii Lari. Siete voi stessi che mi allevaste,/quando, tenera creatura, correvo ai vostri piedi»). Ma aggiungerei che anche la predilezione per i Lari ha qualche connessione con l’autàrkeia: s’accorda, infatti, con il ritiro nel privato, entro i limiti dello spazio domestico. I Lari richiamano la ricchezza di tradizioni, l’intimità di affetti che quello spazio racchiude, e ne proteggono i confini.

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