di F. Ferrari, La porta dei canti. Storia e antologia della lirica greca, Bologna 2000, pp. 89-92. Cfr. I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca. Vol. I – Dalle origini al V secolo a.C., Firenze 2004, pp. 319-320.
Verso la metà del VII secolo a.C. i Cimmeri, dopo aver abbandonato le loro sedi a nord del Mar Nero ed essersi spinti verso il Caucaso, attraversarono l’Asia minore commisti ad altri gruppi (fra cui in particolare i Treri, su cui cfr. fr. 4 West: Τρήρεας ἄνδρας ἄγων, «conducendo uomini treri») e sospinti a loro volta da scorrerie scitiche, invasero lo stato lidio di Gige conquistando Sardi (nel 652 a.C., dopo averla messa a ferro e fuoco) e distruggendo Magnesia sul Meandro, e infine si riversarono su alcune città ioniche della costa dell’Egeo, fra cui Smirne ed Efeso (cfr. Mazzarino, 130-135). Appunto nell’ambito di una scorreria contro Efeso un poeta di questa città, quel Callino che Aristotele (fr. 676 Rose) e Didimo di Alessandria (cfr. Orione s.v. ἔλεγος, «canto») consideravano il più antico poeta elegiaco, esorta i concittadini a ridestarsi dal torpore che li paralizza e a lottare a difesa della pólis e del suo territorio. Le informazioni sulla biografia di questo poeta sono oltremodo scarse: le uniche notizie che riusciamo a racimolare provengono da fonti indirette letterarie. Callino visse verso la metà del VII secolo a.C., un po’ prima di Archiloco, secondo la testimonianza di un verso di quest’ultimo, citato dal geografo Strabone (Geografia, XIV 1, 4). Data la grande affinità con le elegie di Tirteo, si è in genere supposto che anche quelle di Callino, e in particolare il fr. 1 West (l’unico di una certa ampiezza – 21 versi – che di lui ci sia pervenuto), fossero recitati sul campo di battaglia. Questo frammento è tramandato da Giovanni Stobeo (IV 10, 12) all’interno della rubrica “elogio dell’ardimento”.

D’altra parte proprio l’attacco del brano, segnato dall’antitesi fra l’attuale «stare distesi» e l’esortazione (παραίνεσις) a mostrare per il futuro animo prode, ha più plausibilmente suggerito lo scenario di un simposio (cfr. Tedeschi 1991, 95-104): il poeta esorterebbe i presenti a disertare i conviti e le feste, cui ora si abbandonano ignari, ad abbandonare la vita di mollezze e agi cui erano ormai avvezzi, per organizzarsi di fronte al pericolo contro di cui già lottano le comunità vicine. Dobbiamo considerare che questi 21 versi non sarebbero altro che la continuazione (preceduta, con ogni probabilità, da una lacuna) dell’esortazione vera e propria; qui si descrive essenzialmente l’azione della guerra finalmente intrapresa per cacciare i barbari invasori, e il poeta si lascia trasportare a un’esortazione dal tono decisamente epico (il debito di Callino con l’epos omerico è evidentissimo). Del resto, qui, per la prima volta nella letteratura greca – almeno per quanto ci è dato sapere – in questi versi la celebrazione di personaggi e di eventi mitici scompare per lasciare spazio all’esaltazione di un nuovo tema: il senso della collettività e la consapevolezza degli obblighi che legano il cittadino alla patria. Di fronte alla minaccia nemica, che può rappresentare un rischio per la sopravvivenza della stessa pólis, l’uomo coraggioso, l’ἀνήρ per antonomasia, non può e non deve pensare a se stesso, ma al contesto affettivo e sociale in cui vive, rappresentato dalla famiglia e dalla sua città, trovando in sé la forza per affrontare il pericolo e la morte; e se da solo «compie imprese degne di molti», proprio come gli eroi e i semidei cui gli Ioni facevano risalire la propria stirpe, la lode e il ricordo non gli sarebbero stati tributati grazie al canto degli aedi, ma sarebbero scaturiti dalla riconoscenza e del rimpianto dei suoi stessi concittadini. A sostegno della nuova concezione esistenziale, il poeta non nega i tradizionali valori dell’antica aristocrazia, ma li modifica e non li considera più qualità esclusive di singoli individui, determinate dall’appartenenza di sangue a una classe sociale privilegiata, ma li estende all’intera comunità della pólis, creando la figura del cittadino-combattente e conferendo al valore guerriero un diverso significato e un nuovo scopo, che s’identifica nello spirito di sacrificio per la salvezza della comunità.
L’esortazione è articolata ora attraverso interrogative concatenate (vv. 1-3), ora per imperativi perentori (vv. 5 e 9), e viene puntellata da sequenze raziocinanti, spesso marcate da γάρ («infatti»; cfr. vv. 6, 12, 18, 20), tese a sottolineare i vantaggi, anche pratici, del coraggio. Così il brano si sviluppa secondo sezioni ben definite, ora riflessive ora parenetiche: di qui un’enfasi ben distribuita, elaborata anche con l’impiego studiato dell’enjambement (cfr. in particolare vv. 2, 8, 13, 15: si tratta, per gli ultimi tre, di enjambement “periodici”, tali cioè che coinvolgono la nervatura del periodo sintattico) e di altri stilemi quali l’iperbato (lo stacco fra μάχεσθαι, «combattere», e δυσμενέσιν, «contro i nemici», ai vv. 6-8, e fra θάνατόν γε φυγεῖν, «sfugga alla morte», e ἄνδρα, «un uomo», ai vv. 12 s.) e l’espressione “polare” (v. 17).
I valori individualistici del mondo omerico appaiono calati in un contesto civico ben più ampio e diversificato, che ha di mira tanto i ricchi che i meno abbienti (cfr. v. 17), in funzione di un destinatario che (seppur probabilmente rappresentato dal simposio aristocratico) tende a identificarsi, almeno come mostra il carattere generalizzato delle allocuzioni, dapprima ai νέοι («giovani», v. 2) e poi a un onnicomprensivo τις, («ciascuno», vv. 5 e 9).
Fonte: Stobeo IV 10, 12 all’interno della rubrica ἔπαινος τόλμης («elogio dell’ardimento»)
Metro: Il distico elegiaco (ἐλεγεῖον) è costituito da un esametro dattilico e dal cosiddetto pentametro, il quale solo apparentemente consiste nella giustapposizione di cinque metra, ma in realtà deriva dalla duplicazione del colon detto hemiepes maschile.
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Μέχρις τεῦ κατάκεισθε; κότ᾽ ἄλκιμον ἕξετε θυμόν,
ὦ νέοι; οὐδ᾽ αἰδεῖσθ᾽ ἀμφιπερικτίονας
ὧδε λίην μεθιέντες; ἐν εἰρήνηι δὲ δοκεῖτε
ἧσθαι, ἀτὰρ πόλεμος γαῖαν ἅπασαν ἔχει.
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καί τις ἀποθνήισκων ὕστατ᾽ ἀκοντισάτω.
τιμῆέν τε γάρ ἐστι καὶ ἀγλαὸν ἀνδρὶ μάχεσθαι
γῆς πέρι καὶ παίδων κουριδίης τ᾽ ἀλόχου
δυσμενέσιν· θάνατος δὲ τότ᾽ ἔσσεται, ὁκκότε κεν δὴ
Μοῖραι ἐπικλώσωσ᾽· ἀλλά τις ἰθὺς ἴτω
ἔγχος ἀνασχόμενος καὶ ὑπ᾽ ἀσπίδος ἄλκιμον ἦτορ
ἔλσας, τὸ πρῶτον μειγνυμένου πολέμου.
οὐ γάρ κως θάνατόν γε φυγεῖν εἱμαρμένον ἐστὶν
ἄνδρ᾽, οὐδ᾽ εἰ προγόνων ἦι γένος ἀθανάτων.
πολλάκι δηϊοτῆτα φυγὼν καὶ δοῦπον ἀκόντων
ἔρχεται, ἐν δ᾽ οἴκωι μοῖρα κίχεν θανάτου.
ἀλλ᾽ ὁ μὲν οὐκ ἔμπης δήμωι φίλος οὐδὲ ποθεινός,
τὸν δ᾽ ὀλίγος στενάχει καὶ μέγας, ἤν τι πάθηι·
λαῶι γὰρ σύμπαντι πόθος κρατερόφρονος ἀνδρὸς
θνήισκοντος, ζώων δ᾽ ἄξιος ἡμιθέων·
ὥσπερ γάρ μιν πύργον ἐν ὀφθαλμοῖσιν ὁρῶσιν·
ἔρδει γὰρ πολλῶν ἄξια μοῦνος ἐών.
Fino a quando ve ne starete distesi?[1] Quando, o giovani,
avrete animo prode[2]? E non avete vergogna[3] dei vicini,
così esageratamente rilassando le vostre energie? E
credete di sedere in pace, ma la guerra domina tutto
[il territorio.
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…e ciascuno morendo scagli il giavellotto per l’ultima volta.
Infatti, è cosa onorevole e magnifica per un uomo combattere
per la sua terra e per i figli e per la sposa legittima
contro i nemici[4]; e la morte allora sarà quando
le Moire[5] (la) fileranno; ma, suvvia, ciascuno avanzi diritto
sollevando l’asta e stringendo sotto lo scudo un cuore
intrepido, non appena si accenda la mischia di guerra.
Infatti, non è in alcun modo predestinato che
un uomo sfugga alla morte, neppure se è prole di progenitori
immortali. Spesso, sfuggito alla mischia e al rombo dei giavellotti
ritorna, ma in casa lo coglie destino di morte,
ma l’uno (il disertore), tuttavia, non è caro al popolo né è degno
di rimpianto, l’altro invece lo piangono l’umile e il grande
se gli capita qualcosa: perché c’è compianto nel popolo tutto
per l’uomo prode, se muore, ma se sopravvive è degno dei semidei:
perché lo vedono nei loro occhi come una torre:
compie, infatti, pur essendo solo, imprese degne di molti.

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Note:
[1] Cfr. Iliade XXIV, 128.
[2] Cfr. Tirteo fr. 10, 17.
[3] La αἰδώς, il senso di vergogna e di scrupolo che il guerriero prova di fronte alla prospettiva di mostrarsi vile, è fondamentale nella concezione omerica della virtù guerresca, ma questo sentimento viene qui riferito al rapporto con la comunità (cfr. Odissea II, 64 s.).
[4] Cfr. Iliade XV, 494-499: «su, combattete contro le navi; e chi fra di voi, ferito o colpito, debba incontrare destino di morte, muoia: non è sconveniente per lui morire difendendo la patria, ma sono salvi per il futuro la sposa e i figli, e intatti i beni e la casa, se mai gli Achei se ne andranno con le navi dalla terra paterna».
[5] Le dee del destino, corrispondenti alle Parche romane, che presiedono alla μοῖρα o “porzione” di vita assegnata a ciascuno.
La vergogna in rapporto alla comunità, intesa come pungolo morale e non, come spesso accade, l’antefatto del conformismo: ecco cosa ci manca.
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