Il pontifex romano – l’interpretazione di K. Latte

di G. Dumézil, in La religione romana arcaica. Miti, leggende, realtà, Milano 2001, pp. 103-111.

Più volte abbiamo parlato nelle pagine precedenti di «scienza pontificale» e di «tradizione pontificale». Il valore di queste parole, però, suscita ancora notevoli divergenze. Di quali pontefici si tratta, o meglio dei pontefici di quale epoca? Dobbiamo pensare che abbia avuto luogo – quando? – quella che è stata chiamata una rivoluzione, – la «rivoluzione», secondo le parole di K. Latte (in Römische Religionsgeschichte, München 1960, p.195), «che portò alla testa dell’organizzazione religiosa di Roma il pontefice massimo e il collegio a lui subordinato»? Latte, che fonda tutta la sua interpretazione della religione romana arcaica su tale rivoluzione, riconosce che essa non lasciò tracce presso gli annalisti, i quali pure riserbarono spazio a numerosi conflitti di minore importanza; in questo silenzio egli trova una ragione di dubitare non della rivoluzione di cui suppone l’accadimento, ma della «pseudo-tradizione storica sulla Roma arcaica». Per analogia con la situazione greca, Latte pensa che il rex, dopo essere stato naturalmente alla testa della religione, «an der Spitze des Sacralwesens», vi sia ancora rimasto per un certo tempo quando, abolita la monarchia politica, si trovò ridotto al rango di rex sacrorum, e che sia stato necessario un mutamento radicale per privarlo d’autorità a vantaggio del pontifex. Che cosa accadde?

Non possiamo pensare che un bel giorno il Re dei Sacrifici abbia rinunciato pacificamente a favore del Pontifex alla direzione della religione; tanto più che apparentemente, negli attributi dei «facitori di vie», nulla implicava la posizione centrale assunta dal collegio pontificale. Bisogna che l’energica volontà di potenza di individui cui era conferita quella carica si sia imposta, mediante lotte più o meno lunghe (pp. 195-196).

Statua dell'imperatore Augusto in veste di pontifex maximus. Si nota il "capite velato", dovuto alla funzione propria del pontifex maximus; il braccio destro, spezzato, aveva probabilmente in mano una "patera", il piatto rituale per l'aspersione o libagione di vino durante i sacrifici. Reperto trovato in Via Labicana, a Roma, e risalente all'ultimo decennio del I secolo. Roma, Museo Nazionale di Palazzo Massimo alle Terme.
Statua dell’imperatore Augusto in veste di pontifex maximus. Si nota il “capite velato”, dovuto alla funzione propria del pontifex maximus; il braccio destro, spezzato, aveva probabilmente in mano una “patera”, il piatto rituale per l’aspersione o libagione di vino durante i sacrifici.
Reperto trovato in Via Labicana, a Roma, e risalente all’ultimo decennio del I secolo.
Roma, Museo Nazionale di Palazzo Massimo alle Terme.

A quale epoca faremo risalire la fine vittoriosa di tali lotte, che dovettero provocare alcuni moti nel patriziato e nello Stato, sebbene la tradizione, così prolissa quando si riferisce ai primi scontri tra plebei e patrizi, non ne dica parola? J.B. Carter, che aveva preceduto Latte su questa via, aveva creduto di poter scendere fino a una data tardiva come il 260 a.C., in base però a un indizio vago e abusivamente interpretato che in seguito non è più stato preso in considerazione. Non ci si può quindi fondare che su verosimiglianze: per esempio, sull’esame dell’ordo sacerdotum, il quale dovrebbe essere stato stabilito – pare – in occasione della vittoria del pontifex sul rex, benché in esso il rex conservi il posto d’onore. Tale ordo nomina, si noti, come i cinque primi sacerdoti dello Stato, innanzitutto il rex sacrorum, poi, in sequenza gerarchica, il flamen Dialis, il flamen Martialis, il flamen Quirinalis, e, a quinto posto, il pontifex. C’erano flamini tra i quali i riformatori avrebbero potuto scegliere; essi non designarono alcuno dei dodici flamini, detti “minori”, che riguardavano soprattutto il mondo rurale, ma solo i tre «che erano importanti per la comunità»; non è questo un indizio che la vittoria e la riforma ebbero luogo quando ormai era acquisita la preponderanza dell’urbs sull’ager? Indizio più importante: fra i tre flamini così selezionati figura quello che officia il culto del dio locale di una delle colline, Quirino, per nulla predestinato a tale onore finché era soltanto Quirino; «concluderemo quindi che l’identificazione di Quirino con il fondatore di Roma era cosa fatta: un dato che non possiamo far risalire più indietro della seconda metà del IV secolo» (Latte, p.196); possediamo così un terminus a quo: la rivoluzione pontificale è posteriore al 350 a.C. Senza dubbio è imbarazzante che la tradizione annalistica non ne dica nulla, tanto più che proprio verso questo periodo essa diviene vera e propria storia e poco dopo, nell’anno 300 a.C., non mancherà di menzionare i mutamenti meno radicali apportati dalla lex Ogulnia nello statuto dei pontefici (aumento del loro numero, apertura del sacerdozio ai plebei). Ma il fatto è quello che è: Quirino non poté far meritare al suo flamen una simile promozione prima di essere stato egli stesso promosso fondatore.
Questa rappresentazione un po’ sorprendente dell’ascesa dei pontefici e dei suoi effetti è spiegata dall’immagine proposta da Latte per il lungo esordio della religione romana. Il piano che egli ha scelto lo ha obbligato, come spesso gli accade, a spezzettarne l’esposizione, ma possiamo raggrupparne i frammenti. Innanzitutto, il seguente (p.23), che sembra alludere a questa rivoluzione, situandola però in epoca più remota:

Molto presto deve aver luogo una riorganizzazione completa dei sacerdoti che non lasciò alcuna traccia nella tradizione. Non c’è dubbio che nei tempi antichi il re dovesse compiere riti religiosi, come ogni romano ne compiva entro la propria casa… Da tutto ciò che sappiamo risulta che nel periodo più antico i sacerdoti particolari delle varie divinità erano collegati tra loro in modo piuttosto elastico, possedendo ciascuno un ambito ben definito di doveri. Nell’epoca storica tale ordinamento elastico è sostituito da una rigida organizzazione, al cui vertice sta il Pontifex Maximus.

Viene così acquisita un’immagine di religione primitiva, assolutamente anarchica, senza che risulti chiaro in cosa consista la garanzia delle parole «da tutto ciò che sappiamo». Il discorso si precisa un po’ più oltre (pp.36-37), sotto il titolo «lo strano più antico», nei termini seguenti. Il calendario delle feste, d’origine etrusca e risalendo più addietro greca, fu introdotto a Roma verso l’anno 500 a.C. e comunque poco prima dell’instaurazione del culto capitolino, che non vi appare. La religione testimoniata dal calendario era già lontana dalla forma originale: alcuni dèi erano stati dimenticati, altri aggiunti. Ciò risulta dall’elenco dei quindici flamini, connessi ciascuno a una singola divinità, alcuni dei quali non compaiono più nel feriale. Solo dodici di questi flamini ci sono noti, grazie alle informazioni casuali dei testi e delle iscrizioni (dodici e non tredici: Latte avanza sospetti sul flamen Portunalis per una questione di principio): il Dialis, il Martialis, il Quirinalis, il Volcanalis, il Carmentalis, il Cerialis, il Volturnalis, il Palatualis, il Furrinalis, il Floralis, il Falacer, il Pomonalis. Originariamente, essi erano del tutto indipendenti gli uni dagli altri, come le loro divinità. Cosa accadde in seguito? Per non far torto al pensiero dell’autore, traduco le sue stesse parole:

Di una gerarchia posteriore dei flamini – che fu forse introdotta in occasione del riordinamento dei sacerdoti (vedi p.61), – sappiamo soltanto che il Dialis, il Martiali e il Quirinalis stavano ai primi tre posti, mentre il flamine di Pomona era l’ultimo (Festo 154b). La posizione dei primi è spiegato dal fatto che essi erano gli unici il cui nome, in epoca storica, fosse più di un’etichetta (Agostino, De Civitate Dei, II 15, nomina solo loro), e che, per tale ragione, furono gli unici inscritti nel collegio pontificale. Di tre dei quindici non conosciamo neppure il nome. La maggior antichità di questo elenco di dèi rispetto al feriale risulta dal fatto che Falacer, Pomona e Flora, tra i nomi conosciuti dell’elenco, non compaiono nel feriale. Anche se l’assenza di Flora e di Pomona può essere giustificata poiché le date delle loro feste erano variabili e fissate in base alla fioritura e alla maturazione delle messi, rimangono comunque Falacer e i tre nomi sconosciuti. Il ricordo di Furrina (che inoltre aveva un santuario presso Satricum, Cic. Quint. fr 3, 1, 4) in pratica si è conservato soltanto perché C. Gracco trovò la morte nel suo lucus. Fin dall’antichità, Volturnus fu interpretato come un dio fluviale, per riflesso dell’omonimo torrente della Campania; della sua festa, i Volturnalia, conosciamo però solo il nome. Nel momento in cui il Pontifex Maximus assunse la direzione del culto pubblico in Roma, la maggior parte di quei sacerdozi erano divenuti così insignificanti che si rinunciò a inserirli nella gerarchia. Sicuramente nessuno pretenderà di tracciare, partendo dalla loro lista, un’immagine della più antica religione pubblica di Roma, né vorrà sostenere che le divinità in essa assenti (per esempio, Giano, Genius, Giunone, Tellus, i Lari e i Penati) a quella data appartenevano ancora soltanto ai culti privati. È chiaro, d’altronde, che anche lo stato di cose attestato nel feriale non può essere considerato come lo stato di cose primitivo a Roma, né, a maggior ragione, come lo stato di cose italico primitivo.

Questo quadro delle origini esigerebbe una quantità di discussioni particolari; voglio però limitarmi all’essenziale, cioè a due asserzioni: lo stato inorganico della religione originaria; la data e l’ampiezza della rivoluzione pontificale. Saranno utili tuttavia due considerazioni preliminari.

Ritratto di un flamen. Marmo, 250-260 d.C. Parigi, Musée du Louvre.
Ritratto di un flamen.
Marmo, 250-260 d.C.
Parigi, Musée du Louvre.

Nessuno, credo, ha mai sostenuto che il pantheon più antico si esaurisse negli dèi dei tre flamini maggiori e dei dodici minori. Un sacerdozio come il flamonium non s’addiceva certamente a qualunque tipo di divinità. Sono, per esempio, senza flamini i gruppi di dèi difficilmente dissociabili come i Lari e i Penati; gli dèi moltiplicati all’infinito, uno per ogni individuo, come Genius, o gli dèi la cui azione molto precisa si ripete all’infinito con il perpetuo ritorno alla medesima circostanza, come Giano (deus omnium initiorum) e forse Giunone (se teniamo conto del suo carattere di dea di tutte le nascite), o anche Carna (che presiede all’assimilazione degli alimenti); Tellus è inseparabile da Cerere, che possiede un flamine; Vesta ha le sue Vestali, incompatibili con un sacerdozio maschile specifico. In ciascun caso doveva esservi dunque una ragione che determinava la presenza o l’assenza del flamine; non sempre però comprendiamo tale ragione, non possedendo noi una conoscenza sufficientemente precisa di ciò che era il flamonium agli esordi di Roma, o anche una conoscenza abbastanza particolareggiata della divinità in se stessa. Si sa che in seguito furono creati molti altri flamini specializzati, i quali comunque restano al di fuori dello studio delle origini.
Allo stesso modo, nessun dato della documentazione induce a pensare che una classificazione, una gerarchia unitaria, abbia mai compreso la totalità dei sacerdoti e, per loro tramite, il complesso degli dèi. Siamo informati di un ordo dei cinque più alti sacerdoti (il rex, i tre flamines maiores, il pontifex maximus: Fest. 299-300L2) e, d’altro canto, di discrimina maiestatis, di una gerarchia di dignationes fra i quindici flamini; di tale gerarchia il lessicografo fornisce solo i termini estremi (1: Dialis – sicuramente seguito dal Martialis e dal Quirinalis; 15: Pomonalis «quod Pomona leuissimo fructui agrorum præsidet, id est pomis», ibid., 272), ma molto probabilmente essa fu rispettata da Ennio (Varro, L.L. VII, 45) nella sua enumerazione dei sei ultimi flamini (Volt. Pal. Furr. Flor Fal. Pom.). Si tratta di due classificazioni indipendenti, tra le quali è in comune solo il gruppo compatto dei tre maiores. Queste precisazioni consentono di circoscrivere meglio le due discussioni.

Latte non ammette alcuna eterogeneità fra i quindici flamini, fra i maggiori e i minori. Egli pensa, d’altronde, che solo tardivamente e per un accidente storico i tre flamini maggiori siano stati insediati, sotto il rex, ai primi posti dei sacerdoti; la spiegazione che egli fornisce di questa promozione varia, però, nel corso del libro. I flamini di Giove, di Marte e di Quirino furono in tal modo privilegiati dal pontifex vincitore sul rex poco dopo il 350 a.C., poiché – come leggiamo a p.37 – essi soli possedevano qualcosa di più d’una formale «Bedeutung (= “importanza”)»; alle pp. 295-296 e 403 Latte si fonda su tale «Bedeutung» degli uni e sulla «praktische Bedeutunglosigkeit (= “irrilevanza pratica”)» degli altri per interpretare le espressioni flamines maiores e flamines minores – distinzione, fra l’altro, che sarebbe stata definita stabilita («endgültig festgelegt») solo al tempo della restaurazione del collegio pontificale e dell’ordo sacerdotum. A p. 196, però, Latte fa dipendere la sorte privilegiata dei primi tre flamini dalla definitiva affermazione (nella seconda metà del IV secolo a.C.) dell’urbs sull’ager e dall’essere i loro dèi gli unici che davvero interessassero il complesso della società in tal modo riequilibrata: partiti da umili origini, Giove e Marte erano da qualche tempo gli dèi principali dello Stato, e lo sbiadito Quirino, tratto dalla sua nullità grazie alla recente assimilazione con l’eroe fondatore, li aveva da poco raggiunti a quel livello di dignità.
A parte ciò che riguarda Quirino, sul quale torneremo più oltre, la seconda spiegazione sarebbe sicuramente la migliore. Essa riconosce infatti, verso il 350 a.C., tra i flamines maiores e minores una differenza non solo di vitalità, ma anche di livello sociale e di significato concettuale (sebbene Latte consideri questa differenza determinata pur essa dagli accidenti storici). In realtà, però l’una e l’altra spiegazione urtano contro gravi ostacoli.
In primo luogo, l’articolazione maiores – minores là dove compare nella nomenclatura religiosa non si limita a contrapporre il più importante e il meno importante, bensì illustra una differenza di natura o di statuto e una gerarchia fondata su tale differenza: le magistrature si suddividono in maiores e minores in base non alla loro «importanza» ma al possesso dello ius degli auspicia maiora (maxima) o minora; tranne che per la censura, questa divisione coincide con quella delle magistrature con imperium (console, pretore) o senza imperium (Gellio, Noctes Atticae, XIII 15, cita il trattato De auspiciis di Messalla; Festo, pp.274-275 L2); inoltre (Gellio, ibid.) i magistrati minori ricevono la loro carica dai comizi tributi e i magistrati maggiori dai comizi centuriati. Anche la distinzione tra flamini maiores e minores è accompagnata da caratteristiche differenziali che non procedono certo dalla restaurazione augustea né dal IV secolo a.C. e che la fondano ritualmente: non soltanto è prescritto unicamente per i maiores che siano nati farreati e sposati mediante confarreatio (Gaius, I, 112), ma essi soli con il rex, gli auguri e alcuni altri sacerdoti (pontefici, forse Salii), devono essere inaugurati, – nulla, infatti, conferma la supposizione, accolta da Latte (p. 403), che tutti i flamini dovessero esserlo.
In secondo luogo, la differenza nei tipi di competenza, notata da Latte a p. 196, è reale e non accidentale come egli crede, bensì fondamentale. Le divinità dei flamini minori sulle quali consociamo qualcosa di utile (né Falacer, né Furrina, quindi) sono rurali, agrarie, per la loro funzione (Cerere, Flora, Pomona; in parte anche Vulcano, se consideriamo la destinazione di Volcanalia), oppure sono collegate a un tipo di località (Portunus e le porte; forse, Volturnus e i fiumi) o a un luogo preciso (Palatua e il Palatino; forse, Furrina e il Gianicolo; cfr. in epoca tardiva le Forrinæ, νυμφές Φορρίνες – dativo pl. –, su quel colle); Carmenta, infine, pur presentando maggiore complessità, porta un nome che riconduce le sue funzioni alla nozione possente ma semplice del carmen. Giove, Marte e Quirino sono di tutt’altro genere. Giove, a giudicare dal suo flamine, fu fin dagli esordi non solo dio celeste, ma dio regale, «reggitore», come venne chiamato da altre popolazioni italiche, e garante dei rapporti umani. Marte presiede a un intero mondo: la guerra e gli uomini in quanto guerrieri, tra il mese a lui intitolato, marzo, e ottobre. Quirino, qualunque sia il suo ambito, porta se non altro una nome apparentato a Quirites e derivato da un *co-uirio o da una *co-uiria- che designa una raggruppamento di uomini. Le tre divinità hanno quindi un interesse sociale, gli uomini – sudditi, combattenti o massa – , in quanto gruppo organizzato.
Soprattutto, però, ciò che abbiamo intravisto dell’eredità indoeuropea a Roma e del livello di tale eredità ci impedisce di pensare che non esistessero, al centro del pantheon e del culto, delle simmetrie, delle articolazioni, delle classificazioni: così come le divinità indo-iraniche, germaniche, celtiche, quelle della Roma primitiva non saranno vissute in disordinata indipendenza.
In particolare, i rapporti certi del rex sacrorum e del flamen Dialis non possono essere stati determinati dalla decisione più o meno tardiva di un pontifex: quale interesse avrebbe avuto il pontifex, nel romanzo storico in cui viene collocato, a conferire ulteriore sacralità proprio al rivale che contrastava le sue ambizioni? Né si comprende come in età repubblicana siano potute stabilirsi nuove relazioni tra quei due sacerdoti che erano ormai dei fossili viventi, irrigiditi nelle loro singolarità. La relazione che constatiamo doveva quindi essere preesistente, risalire al tempo in cui il rex era effettivamente il capo politico; ciò riconduce alle origini stesse della supremazia del flamine di Giove, sacro compagno del re, su tutti gli altri: l’ordo gli conservò tale supremazia, non gliela conferì.
Analogamente, comunque vogliamo intendere Marte e Quirino, sta di fatto che in tutte le epoche la religione è osservabile e in tutte le forme assunte dalla concezione di Quirino, Marte e Quirino hanno stretti rapporti. Possiamo chiamare Quirino il «Marte Sabino», possiamo riconoscere in lui il dio guerriero del Quirinale, controparte del dio guerriero del Palatino; possiamo, invece, trasferire su Marte e Quirino l’articolazione milites-Quirites, cioè bellum-pax, suggerita da alcuni testi. Sta di fatto che i due dèi, ed essi soltanto, posseggono armi che suscitano determinati rituali; che ad essi, e ad essi soltanto, sono collegati due gruppi di Salii in tutto analoghi, almeno per quanto ne sappiamo; che, infine, una medesima leggenda dichiara Romolo figlio di Marte e lo divinizza, identificandolo a Quirino; […]già solo la persistenza di un particolare rapporto fra i due dèi attraverso molteplici variazioni basta a provare che tale rapporto è nella loro natura: non dipenderà quindi da un caso della storia il fatto che nell’ordo il flamen Quirinalis segua il Martialis e che ambedue, insieme con il Dialis collocato al primo posto, esauriscano l’elenco dei maiores.

Particolare dal fregio A sul Lato Ovest dell'Ara Pacis Augustae, a Roma. La processione trionfale: qui, all'interno del fregio, spiccano le figure dei Flamines Diales, dal caratteristico copricapo a punta.
Particolare dal fregio A sul Lato Ovest dell’Ara Pacis Augustae, a Roma. La processione trionfale: qui, all’interno del fregio, spiccano le figure dei Flamines Diales, dal caratteristico copricapo a punta.

La «rivoluzione pontificale» supposta da Latte è poco verosimile non soltanto a causa del totale silenzio degli storici su un avvenimento così importante, all’epoca in cui la storia cominciava ad esistere. Come si può immaginare il funzionamento della religione fra il 500 e il 350 a.C., cioè durante la lunga, supposta concorrenza fra il rex e il pontifex? Non so sotto quale forma Latte si rappresenti la fine del periodo monarchico. Quanto a me, non penso che dopo l’eliminazione dell’ultimo re etrusco di Roma – comunque abbia avuto luogo –, sia stata nuovamente instaurata in Roma una monarchia latina, destinata essa pure a scomparire molto presto. La partenza degli Etruschi dovette essere, come vuole l’annalistica, la fine del regnum; in quell’occasione, quindi, ebbe luogo la riorganizzazione dei poteri pubblici, la distribuzione dell’eredità del rex. In che cosa consisteva tale eredità? In funzioni politiche e in funzioni religiose.
Nelle funzioni politiche il rex fu forse sostituito inizialmente da uno iudex o prætor a vita, poi a scadenza; da una figura di capo patrizio che si trasformò più o meno presto nei magistrati supremi dello Stato repubblicano, i consoli annuali. Meno facilmente trasferibili erano le funzioni religiose, poiché gli dèi nutrivano per esse un interesse immediato. Tali funzioni comportavano, ed era il punto più delicato, operazioni sacre che il re compiva direttamente, in quanto capo politico, sia nell’ambito del culto sia in quello dei segni; le une, sacrifici, cerimonie, proclamazione delle feste del mese, erano un compito abitudinario il cui adempimento, necessario, bastava a se stesso; le altre, cioè l’identificazione degli auspici, sfociavano sull’azione politica e la comandavano. Il rex si trovava anche in rapporto mistico, mal definibile ma indubbio, con due sacerdozi augusti: il flamen Dialis e le purissime vergini Vestali. E c’era, infine, la direzione della vita religiosa dello Stato, dall’azione di sorveglianza generale e di disciplina del culto, fino alla neutralizzazione dei prodigi e alla pacificazione degli dèi irritati; in questi ultimi compiti collaborava con il rex in termini più operativi che mistici un sacerdote originale, il pontifex puro e semplice o già maximus, consigliere e aiutante al tempo stesso. L’origine di tale sacerdozio è oscura; sembra però che il pontifex abbia sempre avuto la libertà, l’iniziativa, il movimento, vietati al flamen Dialis: l’uno e l’altro tipo di sacerdozio si equilibravano così nell’ambito sacro che circondava il rex.
Dopo l’ultimo rex regnante – dovette pure esservene uno – quel vasto ambito religioso non poteva essere altro che suddiviso: se lo si fosse assegnato in blocco allo iudex, avrebbe fatto di lui un rex con diverso nome, nullificando la riforma. La parte meno separabile della politica, gli auspicia, passò principalmente al magistrato. Lo scrupoloso conservatorismo che caratterizzò sempre la pratica romana e che permetteva di aggiungere nuovi elementi al culto piuttosto che di distruggervene alcuni, determinò il mantenimento di un rex, limitato ai sacra, come specificava il suo nome, e ricondotto alla condizione di un sacerdote: del primo sacerdote dello Stato, poiché la parola sacra aveva significato soltanto in quella posizione, per quella posizione. Il rex conservò inoltre la non trasferibile componente rituale dei suoi rapporti con il flamen Dialis e con le Vestali: rex e regina, flamen e flaminica continuarono ad agire insieme (a rege petunt et flamine lanas: Ovidio, Fasti II 21), a sacrificare congiuntamente (rituali della Regia), a spartirsi insegne e privilegi; le Vestali continuarono una volta all’anno a rivolgere al re le parole uigilasne rex? uigila!, unico frammento a noi noto di rapporti più complessi. Restava, infine, la parte attiva della condizione religiosa dell’antico re. Può darsi che essa sia passata dapprima allo iudex, che il pontifex avrebbe continuato a consigliare e ad aiutare, per giungere poi al pontifex stesso quando la magistratura suprema fu limitata alla durata di un anno, poco compatibile con l’acquisizione e l’utilizzazione di una scienza già allora gravosa. Può darsi, invece, che il pontifex ne sia stato subito il depositario. Sta di fatto che, attraverso tutta la storia, il pontifex con i suoi colleghi o da solo consigliò e assistette il Senato e i magistrati negli affari religiosi e negli atti cultuali, fu presente ai comizi calati e più tardi diresse i comizi sacerdotali, presiedette alla confarreatio, redasse il calendario, «prese» o nominò e, in forme ed a livelli diversi, controllò sia le Vestali sia i più alti sacerdoti. La sua competenza, e anche la sua potenza, crebbero a tal punto che Cesare, con i mezzi dubbi del tempo, volle occupare la dignità di pontefice massimo, che infine gli imperatori confiscarono per sé.
Questa interpretazione presenta parecchi vantaggi: è logica, chiarisce tutti i dati in modo coerente, senza residui né forzature; non obbliga a immaginare delle lotte, delle competizioni vive e prolungate che non avrebbero lasciato alcuna traccia negli scritti; e, infine, – ma non è il punto meno importante – è conforme alla tradizione annalistica, cioè senza dubbio, in tale argomento, alla stessa tradizione pontificale.
La portata di questa restituzione è considerevole. Quelli che Latte presenta come effetti della «rivoluzione pontificale» – formalismo, casistica, sviluppo delle formule e, in generale, creazione di una scienza e di una tecnica religiosa minuziose, moltiplicazione dei presagi e dei piacula ecc. – non sono novità degli ultimi decenni del IV secolo a.C.: sono le caratteristiche stesse della religione romana fin dalle origini, pur essendosi certamente accentuate e irrigidite col tempo. Dubbio che il primo dei flamini abbia mai trascorso la vita all’aria aperta in un lucus di Giove (Latte, p.203); egli però, nella sua capanna sul Palatino, già osservava le prescrizioni positive e negative che più tardi fecero di lui un tipo così singolare di uomo sacro, e che derivavano a lui da una remotissima preistoria.

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