di T. Rɪᴛᴛɪ, Le esplorazioni geografiche, in Storia e civiltà dei Greci (Dir. R. Bɪᴀɴᴄʜɪ Bᴀɴᴅɪɴᴇʟʟɪ) – Vol, IX – La cultura ellenistica: filosofia, scienza, letteratura, Milano 1977.
La colonizzazione greca di età arcaica, allargando prodigiosamente le conoscenze geografiche tanto delle coste d’Occidente quanto dei territori dell’Asia Minore, aveva portato, già con Ecateo di Mileto, ad un primo tentativo di fondere i dati noti in una visione unitaria. Nella carta geografica di Ecateo, l’Oceano circondava l’insieme discoidale delle terre emerse, distinte in quattro zone formate dall’incrocio della linea Mar Mediterraneo-Mar Nero con una linea ideale da nord a sud, tra il Nilo e il Danubio. Erodoto aveva poi deriso questa concezione geometrica dell’oikouménē (IV, 36), pur ammettendo la propria ignoranza su molte regioni, quali l’Europa settentrionale e orientale (IV,45), l’Africa meridionale e tutta l’Asia a est dell’India (IV, 40). In Erodoto era tuttavia ancor vivo il ricordo delle spedizioni esplorative anteriori al suo tempo: oltre al viaggio compiuto per ordine di Dario I da Scilace di Carianda nella valle dell’Indo e dalla foce di questo fiume fino al Golfo Arabico (IV, 44), sono citate anche le navigazioni di viaggiatori fenici e achemenidi intorno all’Africa (IV, 42-43). L’esplorazione delle coste occidentali africane fu inoltre promossa, forse negli anni intorno all’inizio del V secolo a.C., da città fra loro lontane. Da Massilia partì con questo scopo Eutimene, cui sono attribuite dalle fonti osservazioni inattendibili, mentre appare degno di maggior fede il resoconto del viaggio compiuto dal cartaginese Annone all’incirca fino alla Sierra Leone. La redazione di esso fu tradotta dal punico in greco durante l’età ellenistica.

La spedizione di Senofonte contribuì a precisare le conoscenze dei Greci intorno alla zona percorsa dai Diecimila durante la loro ritirata: da Cunassa, risalendo prima il corso del Tigri, poi attraverso l’altipiano dell’Armenia, fino a Trapezunte sul Mar Nero. Le notizie relative alla regione indiana, nonostante le scoperte di Scilace, non erano però, nel IV secolo, maggiori di quelle erodotee. Vi si era aggiunta semmai una forte componente favolistica, soprattutto per opera di Ctesia di Cnido, vissuto a lungo, al passaggio tra il V e il IV secolo a.C., alla corte persiana, dove aveva raccolto fantasiosi racconti sulle satrapie più orientali dell’impero.
Durante il IV secolo la tradizione geografico-etnografica sembra alquanto impoverirsi: il Periplo che fu pubblicato al tempo di Filippo II di Macedonia sotto il nome di Scilace mostra buona conoscenza delle coste mediterranee, ma è opera disorganica e di scarso valore complessivo. Nel corso del V e del IV secolo si era venuta però elaborando e precisando nella cultura greca una serie di concetti etnografici e filosofici, i quali all’inizio del periodo ellenistico facevano ormai parte dell’orizzonte culturale comune. Fu in base ad essi che gli esploratori di quell’epoca cercarono di interpretare le proprie scoperte. Quando le grandi imprese esplorative del primo ellenismo – quella di Pitea in Occidente, ma ancor più quella di Alessandro in Oriente – rinnovarono l’interesse per le terre e le culture esotiche, si ripresentò l’esigenza di una sistemazione complessiva di tutte le conoscenze acquisite. Riallacciandosi a Ecateo e all’etnografia ionica, si ritornò così a concepire l’oikouménē come un’isola al centro dell’Oceano.
La grande impresa di Alessandro in Oriente portò anche profonde conseguenze sul piano scientifico. Gli interessi che presiedettero alle spedizioni orientali dei suoi ultimi anni furono certo in primo luogo militari ed economici, ma Alessandro era troppo imbevuto delle idee aristoteliche per non aver presente la ricchezza di possibilità che le sue esplorazioni offrivano ai vari rami della scienza. Un forte impulso conoscitivo influì dunque anche sulla composizione del seguito del Macedone, nel quale entrarono uomini di cultura e tecnici, alcuni incaricati di redigere un’esatta misurazione dei territori (bēmatistaí), altri di osservare e raccogliere esemplari della flora, della fauna e dei minerali esotici.

Dal 330 fino al 324 a.C., Alessandro attraversò tutte le satrapie orientali dell’impero persiano, percorrendo – a est di Susa nell’Elam – tutto l’Iran, dal Caspio al Golfo Persico e al Mare Arabico, attraverso la Perside, la Media, l’Ircania, la Parthia, la Drangiana e l’Arachosia. Tornando poi dall’India, passò anche per la Gedrosia e la Carmania, fino a raggiungere di nuovo la Perside. In queste regioni, Alessandro creò un certo numero di stanziamenti, battezzati o ribattezzati con il suo nome ed in seguito distinti mediante diversi appellativi.
Dirigendosi verso nord, Alessandro percorse poi tutta la Battriana e la Sogdiana fino a Iaxartes (Syr Darya), sulle cui rive fondò Alessandria Escate (Khüjand). Ridiscese allora verso sud, attraversando quasi tutto il bacino dell’Indo dal Paropamisus fino al fiume Ifasi (Bias) – che costituì il punto più orientale da lui raggiunto – e seguì poi il corso dell’Indo fino alla foce. Le osservazioni fatte durante questa parte della sua marcia dovettero spingere Alessandro a ripudiare alcune convinzioni erronee che gli derivavano dalla sua educazione aristotelica: anche se l’esercito, stremato, rifiutò di proseguire a oriente dell’Ifasi, le notizie raccolte dai nativi su un reame situato ancora più a est, presso un grande fiume, avevano ormai reso incredibile che l’Oceano orientale fosse poco lontano dall’India. Dopo il viaggio verso l’Indo fu del pari abbandonata la teoria che riteneva l’Africa e l’India collegate al di sotto del Mare Eritreo, e identificava l’Indo con il corso superiore del Nilo.
Mentre inviava una spedizione al comando di Cratero, destinata a risalire verso Kandahār , per poi ridiscendere fino a Harmózeia (Hormuz), Alessandro fece allestire una flotta con l’incarico di esplorare la costa a ovest della foce dell’Indo. Questa spedizione marittima, cui fu posto a capo Nearco, ripercorse quindi nella sua prima parte il cammino compiuto da Scilace di Carianda, poi – proseguendo oltre Harmózeia (da dove Scilace era passato a costeggiare la penisola araba) – proseguì lungo la costa persiana fino all’Eufrate. A Nearco si dovette un resoconto del viaggio che conservava elementi tecnici caratteristici di un giornale di bordo, accanto ad osservazioni di zoologia e botanica, di geografia fisica e di etnologia.
Il progetto di due altre spedizioni esplorative occupò gli ultimi mesi della vita di Alessandro. Una di esse, affidata a un Eraclide, avrebbe dovuto studiare le coste del Mar Caspio, cercando forse una via commerciale verso le province indiane. La seconda avrebbe invece compiuto il periplo dell’Arabia, aprendo una via marittima tra il Golfo Persico e il Mar Rosso. Alla morte di Alessandro, entrambe queste imprese furono abbandonate; l’esplorazione del Caspio fu attuata parzialmente al tempo dei primi Seleucidi, mentre lo stabilimento di un traffico dall’India all’Egitto lungo l’Arabia fu ostacolato dalle popolazioni arabe, desiderose di mantenere il controllo della via commerciale verso l’Oriente.

All’inizio del periodo ellenistico – probabilmente nell’ultimo quarto del IV secolo a.C. – si colloca il viaggio compiuto da Pitea di Massalia lungo le coste dell’Europa occidentale e settentrionale. Il resoconto di questo viaggio è andato perduto, ma le citazioni dell’opera, frequenti soprattutto in Strabone, che a sua volta molto deriva da Polibio, permettono di ricostruire con notevole sicurezza la prima parte dell’itinerario e, con maggiore incertezza, le fasi finali della spedizione. Partendo da Massalia, Pitea supera lo stretto di Gibilterra, eludendo in qualche modo il blocco cartaginese, e risale poi la costa atlantica fino alla Bretagna, costeggiando (o tagliando attraverso) il Golfo di Biscaglia. Di notevole interesse sono, in questa prima parte del viaggio, la menzione del capo Cabaio, estremo limite della Bretagna, abitato dalla popolazione degli Ostidamni (o Ostimi), e di varie isole bretoni, tra cui compare l’isola di Ussisama, l’odierna Ouessant (Strabo I, 4, 5). All’altezza della Cornovaglia, Pitea presta particolarmente attenzione al locale commercio dello stagno, descrivendo il trasporto del metallo dall’isola di Victis per mezzo di barche di vimini intrecciati ricoperte di cuoio (Timeo, ap. Plin., Nat. Hist. IV, 104).
Dal resoconto di Pitea, il mondo greco venne per la prima volta a conoscenza di notizie sulle isole britanniche: l’Irlanda (Ierne) era probabilmente appena menzionata, ma per la Britannia erano dati maggiori particolari, tra cui i nomi dei tre capi (Belerio, Cantio e Orca) e un’indicazione della sua estensione, per altro quasi raddoppiata rispetto alla realtà. Dopo sei giorni di navigazione dalla Britannia, in direzione Nord, Pitea avvista, senza sbarcarvi, un’isola chiamata Thule, nei pressi della quale vi è come una densa mescolanza di aria, acqua e terra. L’identificazione dell’ultima Thule è stata molto discussa. In sintesi, si può solo affermare che si poteva trattare dell’Islanda, oppure, forse con più probabilità, della punta occidentale della penisola scandinava, scambiata da lontano per un’isola.
Sulle tappe della seconda parte della spedizione – dalla circumnavigazione della Britannia in poi – i dati sono assai scarsi: di sicuro sappiamo che Pitea sosteneva di essere giunto al Tanai (Don), allora considerato il limite orientale dell’Europa, avendo probabilmente scambiato per esso un grande fiume della costa settentrionale d’Europa. L’unica notizia relativa alla parte finale dell’esplorazione riguarda un’isola chiamata Abalus, ricchissima d’ambra e situata a un giorno di navigazione dalla costa abitata dalla tribù dei Guioni, i quali di quest’ambra facevano commercio con i loro vicini Teutoni (Plin., Nat. Hist. XXXVII, 2, 11). Abalus potrebbe essere identificata con l’isola di Helgoland, oppure con un’isola del Mar Baltico. In quest’ultimo caso, tuttavia, si dovrebbe pensare che Pitea abbia circumnavigato la penisola dello Jütland, arrivando fino alla Vistola, mentre appare più probabile che egli abbia interrotto il viaggio un po’ prima, nei pressi della foce dell’Elba.
La spedizione di Pitea è stata spesso paragonata per importanza a quella, quasi contemporanea, di Alessandro in Oriente. Le differenze sono però enormi, già a partire dalle condizioni della nostra conoscenza dei fatti, alterate dall’atteggiamento denigratorio delle fonti nei riguardi di Pitea. La nostra fonte principale, Strabone, riprendendo il malanimo di Polibio verso il Massaliota, cita quest’ultimo solo per infirmarne la credibilità, mentre è perduta l’opera di autori che, come Eratostene e Timeo, apprezzarono e utilizzarono i dati forniti da Pitea. Attraverso Strabone (II, 4, 2) conosciamo l’opinione di Polibio secondo cui per Pitea, uomo privato e di condizione povera, sarebbe stato impossibile compiere un viaggio così lungo come egli pretendeva: in generale, oltre che nei particolari, egli sarebbe stato dunque un mentitore assoluto. In realtà, anche se non si può escludere che Pitea agisse soprattutto per soddisfare le proprie curiosità scientifiche, i suoi accenni al commercio dello stagno e dell’ambra potrebbero far pensare a un legame con l’ambiente mercantile marsigliese. Se il blocco cartaginese di Gibilterra fosse stato meno tenace, è probabile che i nuovi contatti con le zone minerarie della Cornovaglia avrebbero prodotto un’apertura del commercio marittimo in quella direzione. Certo è che il viaggio di Pitea – al contrario di quello di Alessandro – non ebbe conseguenze politiche né economiche. Oltre a non trovare continuatori per un secolo e mezzo circa, anche la memoria della spedizione sembra essersi totalmente perduta nella stessa Massalia. Sappiamo, infatti, che gli abitanti della città non seppero dare informazioni a Scipione Emiliano che chiedeva loro notizie sulla Britannia (Polyb. ap. Strabo IV, 2, 1). È impossibile però stabilire se si trattò d’ignoranza reale o di un silenzio originato da diffidenza di mercanti.
Soltanto intorno all’inizio del I secolo a.C. un personaggio che univa l’esperienza diretta del navigatore alla conoscenza e alla valutazione critica degli scritti di argomento geografico, Artemidoro di Efeso, si dedicò alla raccolta di ulteriori notizie sulla Britannia e, allora per la prima volta, sulla Germania settentrionale. Queste nuove informazioni non ebbero comunque sorte migliore di quelle fornite da Pitea: quando Cesare compì una cinquantina d’anni più tardi, la sua spedizione in Britannia, i dati geografici in suo possesso non erano di molto più precisi di quelli segnalati, secoli prima, da Pitea stesso.

L’esplorazione della zona orientale, fino all’Indo, è un dato compiuto a partire dalla grande spedizione di Alessandro e dai viaggi dei suoi inviati. Con la formazione dell’impero seleucide, esteso in origine alle lontane zone della Battriana, della Sogdiana e del Paropamisus, si presentarono soprattutto due ordini di problemi: da un lato, si rese necessario ottenere una conoscenza precisa dei territori soggetti, ripristinando le antiche vie di comunicazione o costituendone di nuove; dall’altro lato, si venne man mano intrecciando una serie di relazioni diplomatiche con il vicino regno indiano. Interessi di natura militare ed economica indussero uno dei primi dinasti a intraprendere una spedizione esplorativa nella zona nord-orientale del territorio dell’impero. A capo della ricognizione fu posto Patrocle, governatore della regione fra il Caspio e i confini dell’India. Egli tuttavia non dovette risalire oltre le sponde meridionali del Mar Caspio e si affidò piuttosto a indicazioni date dagli indigeni e mal comprese. Sulla fede di Patrocle geografi come Eratostene e Strabone ripudiarono, infatti, l’opinione, già espressa da Erodoto e da Aristotele, che il Caspio fosse un mare chiuso, e lo credettero un golfo aperto verso l’Oceano settentrionale. L’alta posizione di Patrocle, e forse la sua accuratezza in altre parti della sua opera, per noi perduta, contribuirono probabilmente alla fama della sua attendibilità: quella fiducia che molti negavano a Pitea fu invece accordata pienamente al governatore seleucide.
Ancora per impulso del potere centrale, un altro personaggio di rango militare, un Demodamo che Plinio ricorda come «Seleuci et Antiochi regum dux», attraversò lo Iaxartes (Syr Darya) in missione esplorativa, ed eresse al di là di esso un altare ad Apollo Didimeo. Il resoconto di questa esplorazione costituì la fonte principale di Plinio per la conoscenza di quella zona (Nat. Hist. VI, 49). L’aspetto più nuovo dell’attività seleucide nel campo che qui interessa non riguarda, comunque, l’esplorazione di territori sconosciuti con lo scopo di conquistarli o colonizzarli, ma l’allacciamento di rapporti pacifici con una cultura estranea a quella greca, come era quella della monarchia indiana. Le regioni al di là dell’Indo cominciarono allora a essere conosciute dai Greci, sulla base delle relazioni scritte da personaggi inviati con mansioni diplomatiche alla corte dei re indiani. Tali furono Megastene e Deimaco, mandati come ambasciatori (katà presbéian) nella città di Pataliputra (Patna sul Gange), il primo al tempo del re Sandrocotto (Chandragupta, fondatore della dinastia Maurya), il secondo durante il regno del figlio di questi, Allitrocade (Vinduśara/Amitraghades). Uomini non sprovvisti di cultura e d’interessi etnologici, questi ambasciatori ebbero modo, durante la loro prolungata permanenza, di raccogliere numerose notizie, in parte riportando ciò che avevano visto essi stessi, in parte ripetendo informazioni ottenute sul posto, nelle quali essi spesso non seppero (o non vollero) distinguere il plausibile dal leggendario.
Eratostene basò la propria descrizione dell’India sulle ricerche di Patrocle, ma i dati più diffusi nella cultura greca furono per molti secoli fondati sui quattro libri di Indikà scritti da Megastene e poi utilizzati come fonte principale da Arriano. L’opera, di cui si conservano solo frammenti, comprendeva una prima parte puramente geografica, con l’elenco dei confini, monti, fiumi, città e popoli, flora, fauna e risorse naturali. A essa seguiva una trattazione di carattere etnografico e un quadro dell’organizzazione sociale, della cultura, della filosofia, della religione e della storia.
Se in sostanza scarse furono le esplorazioni promosse dai Seleucidi, i monarchi greci del regno di Battriana compirono spedizioni militari al di là dei confini raggiunti da Alessandro: tra essi, Demetrio e Menandro superarono l’Ifasi e aggiunsero al proprio dominio le zone della valle del Gange fino a Mathura (Muttra), occupando momentaneamente perfino Pataliputra (Patna), e a sud annessero tutta la valle dell’Indo e la costa fino a comprendere il grande porto di Barýgaza (Broach), molto frequentato da mercanti greci e romani anche dopo la caduta del regno greco d’India.
Le esplorazioni geografiche promosse dai primi Tolomei, alle quali vanno aggiunte fondazioni di città e di stazioni di rifornimento, furono rivolte verso due direzioni principali. Preoccupandosi di assicurare la tranquillità della navigazione lungo il Mar Rosso, essenziale per il commercio estero egizio, già all’inizio del loro regno i Tolomei inviarono spedizioni a esplorarne tanto la riva occidentale quanto quella orientale, fino a raggiungere lo stretto di Bab el Mandeb. Una seconda serie di esplorazioni si mosse in direzione sud, tanto per via di mare, verso il Capo degli Aromi (Capo Guardafui), alla ricerca di prodotti pregiati (incenso, cinnamomo), quanto per via di terra. Tra le spedizioni dirette nel meridione, alcune ebbero lo scopo di saggiare le possibilità di ampliamento dei confini del regno egiziano, altre furono determinate dalla necessità di procurarsi elefanti da guerra e oro.
Il primo nome che s’incontra esaminando più in particolare le fasi dell’esplorazione del Mar Rosso è quello di Filone, prefetto del Sotere, che vi condusse una spedizione e diede per la prima volta notizia dell’isola di Topazo (Plin., Nat. Hist. XXXVII, 32, 108). Poiché egli è anche ricordato come autore di Aithiopikà, è verosimile che si sia anche spinto fino a quella regione (cfr. Antig. Caryst., Mir. 145). Avviene intorno agli stessi anni la fondazione dei primi porti sul Mar Rosso, a cominciare da Arsinoe (presso Suez), con la quale, al tempo del Filadelfo, fu messa in comunicazione Alessandria, attraverso l’apertura – o la riapertura – di un canale dal braccio pelusiaco del Nilo (Diod., I, 33). Le difficoltà della navigazione in quel punto portarono in seguito alla creazione di porti più meridionali, come Philotera, Berenice e Myos Hormos, dai quali la merce veniva inviata a Copto e di lì, attraverso il Nilo, ad Alessandria.
La costa orientale del Mar Rosso fu anch’essa esplorata, in particolare al tempo del Filadelfo, in vista di una progettata spedizione contro le locali tribù arabe. A capo della missione esplorativa fu posto Aristone, che navigò dal Sinai fino a Bab el Mandeb e forse lasciò relazione del suo viaggio in un periplo (Diod., III, 42, 1). Sotto Tolomeo Evergete un Simmia, detto dalle fonti «amico del re», fu incaricato di proseguire le esplorazioni oltre lo stretto, lungo la costa trogloditica (Diod., III, 18, 4). Iscritti su stele e altari rimanevano ancora in età romana i nomi dei naviganti che dopo di lui percorsero la regione: Pitolao, Lica, Pitangelo, Laone, Carimorto (Strabo XVI, 4, 15), ma non restano tracce di stanziamenti a sud del Capo Gardafui.
Il completamento dell’esplorazione del Mar Rosso permise di rendere stabile il commercio orientale egiziano, che passava attraverso le tribù della costa araba, con centro in Aden, ma non fu sufficiente a togliere dalle loro mani il controllo delle correnti commerciali indiane: le merci pregiate che comparvero nella famosa pompḗ del Filadelfo – donne, pietre preziose ed elefanti indiani – giunsero quindi in Egitto probabilmente attraverso i Sabei (Athen., Deipn. 200f). L’interesse dei Lagidi per il sud fu stimolato in primo luogo dal desiderio di procurarsi elefanti da guerra, ma non mancarono incentivi commerciali e politici, come dimostra la guerra etiopica condotta dal Filadelfo allo scopo di ampliare i confini meridionali del proprio regno (Diod., I, 37, 5). L’importanza della via meridionale per quanto riguardava la caccia agli elefanti è già testimoniata sotto il Filadelfo dalla fondazione di stazioni di rifornimento lungo le piste che conducevano ai territori di caccia (Agatharch. ap. Strabo XVII, 815). Oltre alle stazioni permanenti, troviamo città più importanti, come Tolemaide Epitera, fondata da Eumede (Strabo XVI, 4), che fungeva da stazione di partenza delle spedizioni di caccia. Durante il regno del Filopatore, la vittoria ottenuta contro Antioco III nella battaglia di Rafia, grazie anche alla presenza nell’esercito egizio di 73 elefanti, diede nuovo impulso alle spedizioni di caccia e promosse nuove fondazioni di città sul Mar Rosso. Sono però le ultime spedizioni di cui abbiamo memoria.
È sotto il regno di Tolomeo Filopatore che l’Egitto raggiunse i suoi limiti più estremi verso sud, comprendendo il Dodekáschoinos, a sud di Syéne (Assuan). Al termine del periodo dei primi Tolomei, e cioè intorno alla fine del III secolo a.C., si può dire, in sintesi, definitivamente completata l’opera di colonizzazione delle coste del Mar Rosso, ampliate le conoscenze della zona di confine a sud, all’incirca fino al punto di congiunzione del Nilo Bianco e il Nilo Azzurro, e infine, stabiliti saldi rapporti con la capitale etiopica Meroe.
Con la perdita della Siria (201 a.C.), si chiuse per l’Egitto la via commerciale che da Alessandria, passando a nord nel territorio nabateo, raggiungeva la costa siriaca. Il maggior interesse si concentrò quindi sulle regioni sud-orientali del paese. Tolomeo VII si preoccupò di assicurare la protezione delle strade che collegavano Copto con le città della costa e la flotta che sorvegliava il Mar Rosso. Le vicende storiche non portarono, tuttavia, a un’espansione dei confini verso sud, bensì alla contrazione dei medesimi all’altezza di File, con la perdita del Dodekáschoinos, avvenuta sotto Tolomeo VIII. Il regno dei Tolomei VII e VIII vide però un avvenimento di grande importanza, che in condizioni politiche meno difficili avrebbe potuto rivoluzionare l’organizzazione del traffico con l’Oriente, liberando il commercio egiziano dalla pesante mediazione degli Arabi. L’utilizzazione dei monsoni, accelerando la navigazione, permise, infatti, allora per la prima volta di raggiungere i porti occidentali dell’India attraverso l’Oceano Indiano. La tradizione dà un nome – quello del pilota Ippalo – allo scopritore dei monsoni; lo stesso nome fu poi anche esteso al vento stesso di sud-ovest, a un promontorio della costa africana e a un tratto del Mar Arabico (Peripl. Maris Rubri, 57). Plinio (Nat. Hist. VI, 100-106; 172) ricorda che il vento Ippalo era sfruttato dai naviganti che partivano da Syagro (Ras Fartak) in Arabia e si dirigevano direttamente a Patala, mentre più tardi si poteva partire per l’India direttamente dalla costa somala.
La cronologia di Ippalo è un problema di difficile soluzione, sembra comunque che egli sia da collegare con la fase dei viaggi diretti dall’Egitto all’India, collocabile all’incirca verso la fine della dinastia tolemaica. Già prima, però, la possibilità di raggiungere l’India dalle coste meridionali della penisola araba aveva avuto ripercussioni sull’amministrazione tolemaica. Dal 110/109 a.C. si conosce infatti un ufficiale detto responsabile, oltre che del Mar Rosso, anche dell’Oceano Indiano. Il titolo stesso dell’epistrátēgos e stratēgós della Tebaide appare, almeno dal 78 a.C., modificato con l’aggiunta «e del Mar Rosso e dell’Indiano». Questi cambiamenti mostrano che, ancor prima di Ippalo, l’interesse dei dinasti tolemaici aveva avuto motivo di concentrarsi sul commercio con l’India. Ciò può ben essere messo in relazione con il singolare racconto, che Strabone riprende da Posidonio, dei viaggi di Eudosso di Cizico (Strabo II, 98-100). Era costui venuto in Alessandria come theorós per annunciare la festa della sua città in onore di Kore, i Kóreia. Si trovava in quel tempo alla corte di Tolomeo VII un indiano, raccolto naufrago sulle coste del Golfo Arabico. L’indiano prometteva di insegnare la via diretta all’India e sulla sua fede fu allestita dal re una spedizione, cui Eudosso prese parte. Quando egli fece ritorno, con un carico di spezie e pietre preziose, fu però privato del guadagno, attribuito invece alla corona. Per rifarsi, Eudosso intraprese allora una seconda spedizione, le cui traversie ne ritardarono il ritorno per alcuni anni. Ad Alessandria era intanto salito al trono Tolomeo VIII che, forse non tenendo fede a promesse eventualmente fatte da suo padre, spogliò per la seconda volta Eudosso del suo carico. Amareggiato, il Ciziceno intraprese un nuovo viaggio di esplorazione, questa volta lungo la costa settentrionale dell’Africa, proponendosi di circumnavigarla e di raggiungere l’India con il favore dei venti occidentali. La spedizione, che comprendeva una nave grande e due più piccole, su cui oltre all’equipaggio erano imbarcati anche artigiani e contadini, medici e perfino danzatori e danzatrici, subì un primo infortunio all’altezza del Marocco, perdendo parte dell’equipaggio. Senza scoraggiarsi Eudosso riprese il mare, e da allora si persero le sue tracce.
La debolezza politica del regno tolemaico, acuita dalla riduzione a provincia romana della Siria (nel 62 a.C.) e dal sorgere della nuova potenza palmirena, impedì che fossero adeguatamente sfruttate le nuove possibilità aperte dalle spedizioni verso l’India: Strabone dice esplicitamente che prima dei suoi tempi solo un piccolo numero di navi aveva osato affrontare il viaggio attraverso l’Oceano (Strabo XV, 686; XVII, 798). Fu dunque nella prima età imperiale – e i ritrovamenti di monete di Augusto e di Tiberio in India lo confermano – che la scoperta dei monsoni produsse pienamente i suoi effetti.
Le opere geografiche dell’ellenismo sono quasi completamente perdute, ma riassunti e citazioni ne sopravvivono in autori più tardi. Si può perciò indicare in sintesi il coesistere, soprattutto durante il primo ellenismo, di due diversi generi di scritti geografici. Le spedizioni promosse dai Tolomei verso le coste del Mar Rosso, l’Egitto meridionale e la Nubia, e dai Seleucidi verso il Mar Caspio, vennero, si è detto, affidate a generali o personaggi legati all’ambiente di corte. Della relazione di Patrocle abbiamo già sopra discusso, su quelle scritte dagli altri personaggi ricordati non abbiamo che cenni, ma Eratostene, Agatarchide e, attraverso essi, Strabone e Plinio conobbero e utilizzarono i risultati delle loro esplorazioni. Certo è che per ogni spedizione ufficiale, e probabilmente anche per quelle private, un resoconto veniva depositato negli archivi reali. In Alessandria, come certo in Antiochia, confluivano così nei periodi di tranquillità politica numerose relazioni di viaggio, nelle quali dovevano trovarsi precise notazioni geografiche, simili a quelle fornite dai peripli ad uso dei naviganti, ma anche osservazioni sulle risorse naturali e sull’armamento bellico dei popoli visitati.
Questi documenti, accessibili a pochi personaggi qualificati, come i direttori della Biblioteca alessandrina, fornirono la base ad opere successive di sintesi, come quella di Eratostene e quella di Agatarchide di Cnido. Il Periplo del Mar Rosso di Agatarchide, che pur si discostava dalla semplice descrizione geografica, rientrando piuttosto nel campo delle opere paradossografiche, era basato – per esplicita affermazione dell’autore – in parte su notizie raccolte dai naviganti, in parte su «tà en Alexandreíai basiliká hypomnḗmata» (Agatharch. ap. Diod., III, 38, 1). Da queste opere eminentemente pratiche differiscono nelle concezioni scritti destinati ad un pubblico avido di curiosità esotiche e in grado di apprezzare le divagazioni filosofico-moraleggianti. Tra essi spicca l’opera di Megastene sull’India, che accanto ad una massa di notizie preziose contiene anche una quantità di leggende e mirabilia, accolte con consapevole compiacimento. Come giù gli autori del tempo di Alessandro, Megastene è un uomo di cultura che ha assorbito concetti filosofico-etnografici elaborati durante i secoli precedenti, e li applica schematicamente alla ricca materia che gli si offre. Nei suoi Indiká – come nelle opere di Onesicrito, Nearco, ecc. – sono presenti molti dei preconcetti ricorrenti nelle opere geografiche ellenistiche. Ritorna così il paragone tra gli abitanti del distretto nilotico e quelli dell’India settentrionale e la teoria della somiglianza tra popoli lontani derivata da affinità climatiche. Nella caratterizzazione di alcune genti indiane si esplica un ideale filosofico greco: per Megastene, come già per Onesicrito, il modo di vita dei brahmani corrisponde all’ideale dei cinici.
Il desiderio di una sistemazione razionale delle nuove conoscenze sulla base degli schemi filosofici correnti comporta anche un’interessante antinomia nella valutazione dei “barbari”. Da un lato, nella descrizione della vita di certi popoli delle coste del Mar Rosso, l’orgoglio della propria superiore civiltà e cultura porta ad una definizione spregiativa di quelle misere condizioni di esistenza: la loro vita è simile a quella delle bestie (bíos thēriódes). Dall’altro, i barbari sono però considerati più dei Greci vicini alla natura e perciò incontaminati: il contatto con i popoli più progrediti è causa del loro decadimento morale. Queste variazioni utopistiche sullo schema del “buon selvaggio” mostrano come la visione ellenistica rimanga in definitiva ancorata al punto di vista greco: anche accingendosi a narrare la storia di un popolo esotico come quello indiano, un Megastene espone, invece di fatti concreti, una serie di tappe teoriche dell’evoluzione umana; la presunta storia rimane sul piano mitologico, in cui spicca l’intervento di figure sovrumane di stampo greco: Dioniso trae gli Indiani fuori dalla barbarie, l’Eracle indiano li libera dalle fiere e fonda città.
Gli spunti etnografici e culturali più interessanti compaiono invece in opere come quelle di Eratostene e Agatarchide, nelle quali, in accordo con la dottrina stoica, è superato il preconcetto della superiorità razziale degli Elleni sui barbari e ad esso viene sostituita una valutazione degli individui in base alle loro qualità morali. La teoria aristotelica che vedeva nei barbari dei servi per disposizione naturale sembra completamente superata, ma verrà ripresa più tardi da Posidonio.
Lo scritto di carattere geografico più importante di tutto l’ellenismo sono certo i tre libri dei Geographiká di Eratostene di Cirene, nei quali confluisce tutto il materiale raccolto al suo tempo in Alessandria, dalle ephemerídes regie alle opere di Nearco, Pitea, Timostene, Patrocle e Megastene. L’opera è perduta, ma se ne possono ricostruire il contenuto e le caratteristiche soprattutto in base ai primi due libri di Strabone. Con l’applicazione delle sue teorie di geografia matematica, Eratostene arriva a definire con grande precisione le dimensioni della superficie terrestre, e dà l’avvio ad una visione complessiva dell’oikouménē. Oltre alla nuova rappresentazione cartografica del mondo abitato, vi era anche una descrizione delle varie regioni, con la determinazione delle distanze tra località. È notevole, in questa parte descrittiva dell’opera, il rifiuto degli elementi favolistici e meravigliosi che egli pur trovava nelle sue fonti.
A prescindere dalla produzione di Eratostene e, in parte da quella di Agatarchide, le opere ellenistiche di descrizione geografica mostrano come i concetti e preconcetti delle teorie etnografiche fossero entrati a far parte della cultura generale. La pura informazione vi è continuamente mescolata, se si escludono le guide pratiche di navigazione, ad una serie di formulazioni teoriche, che hanno lo scopo di fornire un ordinamento sistematico di tutti i dati osservati.
Volendo tracciare in sintesi un quadro delle acquisizioni della cultura ellenistica in campo geografico, si può prendere come base la carta dell’oikouménē delineata da Eratostene, giacché non molte sono le aggiunte dei secoli II e I ai dati raccolti durante il III secolo a.C.
Le terre conosciute si presentano sulla mappa eratostenica come un superficie ellittica, circondata dall’Oceano e tagliata orizzontalmente dal Mar Mediterraneo a Occidente e dalla catena dell’Hindu Kush a Oriente. L’Europa occidentale e settentrionale è indicata in base alle esplorazioni di Pitea di Massalia, estese peraltro alle sole coste, presumibilmente fino alla foce dell’Elba. Qualche altra notizia sulla Germania occidentale fu poi fornita da Artemidoro di Efeso, mentre l’esplorazione romana portò ad una migliore conoscenza dell’Iberia, delle Gallie, dell’Italia stessa. A settentrione del Mar Nero e del Mar Caspio si stendono territori ignoti. Lo stesso Mar Caspio, sulla fede di Patrocle, è rappresentato come un golfo comunicante con l’Oceano settentrionale.
Per quanto riguarda l’Africa, è conosciuta la costa settentrionale, mentre per quella occidentale ci si basa ancora sul testo di Annone di Cartagine. Del tutto inesplorata è poi la parte sud-occidentale e meridionale del continente. Conoscenze precise si hanno invece per le rive del Mar Rosso e per una parte della costa somala al di sotto del Capo degli Aromi. All’interno, le notizie erano limitate ai territori di confine con l’Egitto, in pratica poco più a sud di Meroe.
Soprattutto nella parte costiera era abbastanza nota anche la penisola araba, mentre verso la fine del II secolo – comunque dopo la composizione del Periplo di Agatarchide – fu segnalata l’isola di Dioscuride (Socotra). Dopo la spedizione di Alessandro e le spedizioni sul Caspio volute dai Seleucidi, è conosciuto con precisione il territorio che aveva costituito l’impero persiano; lo stabilirsi del regno di Battriana porta le armi greche addirittura fino al Gange. L’isola di Taprobane (Ceylon) è tuttavia indicata in posizione errata e con dimensioni molto ingrandite.
I limiti del continente asiatico sono tracciati, sulla carta di Eratostene, poco oltre la Sogdiana e l’India. Il popolo dei Seres non era allora ignoto, ma notizie più precise raggiunsero il mondo ellenistico solo verso la fine del II secolo a.C., quando l’imperatore cinese Wu Ti, della dinastia Han, mandò i suoi inviati in Occidente.

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