Quanta «opposizione» ad Augusto c’è in Ovidio

di A. BARCHIESI, Il poeta e il principe – Ovidio e il discorso augusteo, Roma-Bari 1994, introduzione, pp. IV ss.

Bisogna sapere che in pochi anni sono uscite almeno tre belle storie, il cui protagonista è Ovidio: non Ovidio in genere, ma il poeta esule e la sua vita nel triste mondo nuovo del Mar Nero. Il primo testo è un raccontino leggero, come un sogno o una farfalla. In una notte di gennaio a Tomi il poeta sogna (attraverso Antonio Tabucchi) di essersi tramutato in una farfalla. Trasportato a Roma, danza davanti all’imperatore certe poesie che dovrebbero conquistare il suo favore: ma è respinto, disprezzato, privato delle ali e rimandato in esilio.
Tutto qui, e non c’è un insegnamento finale: dopotutto, si tratta di un sogno visto da uno scrittore moderno (Amores III, 5 e Ex Ponto III, 3 raccontano modi di sognare ben diversi). Ma la reazione dell’imperatore alla poesia danzata di Ovidio corrisponde a una zona d’ombra dei nostri studi sulla poesia dell’esilio. Perché, esattamente, queste poesie non raggiunsero il loro scopo? Questo fluido narratore e maestro di finzioni non riuscì mai a convincere i Cesari e ad aprirsi la via del ritorno. Ci sono molte vie per rispondere, ma è importante ricordare la scena della farfalla: queste poesie sono un gesto pubblico, che presuppone dei destinatari; i Cesari erano, certamente, fra i destinatari più importanti, e la loro ricezione del testo di Ovidio va tenuta in attenta considerazione.

Joseph Mallord William Turner, Ancient Italy – Ovid Banished from Rome, 1838. Olio su tela, collezione privata.

La nostra seconda narrazione su Ovidio – intitolata Il mondo estremo, Die letzte Welt – mette in scena ancora un Ovidio perseguitato dal potere. Il testo delle Metamorfosi rischia l’estinzione, disseminato nella natura selvatica di Tomi: da colonne di pietra coperte di lumache bavose si recupera a fatica un frammento le cui ultime parole sono, per evidente ironia, «il mio nome sarà incancellabile» (Met. 15, 876). Ransmayr intreccia l’esilio di Ovidio con la sopravvivenza delle Metamorfosi, profezia ovidiana di cui il suo romanzo è, dopotutto, una testimonianza. Ovidio è diventato famoso a Roma attraverso un successo di scandalo: un testo teatrale in cui «cadono anche i nomi di noti presidenti di consigli di amministrazione, deputati e giudici, nascosti in palindromi e distici dalle consonanti scambiate». Palindromi, consonanti scambiate, certo: il filologo riconosce con preoccupazione e imbarazzo i rischi del suo mestiere. Se Ovidio è stato esiliato (questo almeno sembra verificabile), quanta parte della sua opera va interpretata alla luce di questo evento? Quanta «opposizione» è disseminata nella sua poesia, e come si fa a raggiungere un consenso sui modi di interpretarla?
Mentre Ransmayr scrive e pubblica il suo Ovidio crittografo, non mancano artisti perseguitati nella realtà del mondo. Brodskij gioca nei suoi versi col paradosso di un Ovidio alla rovescia, cacciato dai ghiacci della Scizia verso i marmi di Roma. Intanto, l’Ovidio di Ransmayr si offre come specchio per sempre nuove vittime di persecuzioni ancora peggiori: gli effetti del testo di Ovidio si intrecciano sempre più con gli effetti della sua ricezione. C’è qualcosa di perverso nel fatto che artisti sottoposti a violenze molto concrete continuino a richiamarsi all’immagine di Ovidio. In primo luogo, questo è il mezzo implicito di un appello al pubblico dei lettori: si tratta di un pubblico in buona parte occidentale, che può manifestare solidarietà, e la cultura classica continua ad essere un modello di espressione condiviso da molti. Però, si potrebbe discutere quanto queste immagini classiche contribuiscano o tolgano all’efficacia della comunicazione. Da un lato, le analogie letterarie indeboliscono l’effetto di immediatezza.

Dall’altro, la stessa fragilità del modello classico è un efficace riflesso dell’impotenza a cui l’esiliato si vede costretto: inattuale e manierato, il modello di Ovidio è significante di un messaggio di debolezza, una voce perdente che può solo fare appello alla solidarietà dei lettori. Non esiste, evidentemente, un linguaggio immediato e «sincero» per parlare di esperienze così: non esisteva neppure per Ovidio. Perché (questa è una «coincidenza» di cui sto per occuparmi) Ovidio dedica le sue poesie dell’esilio a rappresentazioni in cui il linguaggio dell’estetica e della critica letteraria gioca un ruolo dominante. Quanto più i lettori si aspettano «vita vissuta», da parte di un artista che avrebbe tanto di suo da raccontarci (che cosa si prova a essere perseguitati dall’Imperatore? Com’è la vita ai bordi dell’impero romano?), tanto più il poeta continua a rispondere attraverso i fantasmi della sua cultura alessandrina.

Mi resta da menzionare un terzo romanzo contemporaneo su Ovidio esule, An Imaginary Life (1978) di David Malouf. L’immagine di Ovidio esiliato che Malouf coltiva è un buon esempio di mito anti-augusteo: volendo indicare con ciò l’insidioso rapporto per cui le istanze augustee implicano e controllano anche la propria opposizione. Questo poeta esiliato si esprime a volte come un eroe della controcultura anni Settanta:

L’imperatore ha creato un’epoca. È chiamata Augustea, come i nostri storici, con gli occhi puntati sul presente, hanno già annunciato. È solenne, ordinata, monumentale, ottusa. Esiste in lodi che sono scritte per lui (a cui io rifiuto di contribuire) e in marmo che durerà per sempre. Anch’io ho creato un’epoca. È coestensiva alla sua, e ha la sua esistenza nelle vite e negli amori dei suoi soggetti. È euforica, effimera, e divertente. Per questo lui mi odia. È chiaro che a breve termine Augusto vince. E questo breve termine è ora. Sono stato relegato – questa è la nostra simpatica parola – ai limiti del mondo conosciuto e espulso dai confini della nostra lingua latina. Ma nell’ombra di un portico dedicato dalla sorella del principe al suo fedele marito, qualcuno stanotte sta facendo del sesso; perché in una poesia, una volta, io l’ho fatto accadere, e ho fatto di questo particolare atto in quel particolare luogo un gesto di pubblica sfida. Ogni notte, ora, Augusto ci pensa e si morde il pollice. Ci sono posti più vicini del Mar Nero dove il potere imperiale si arresta. Il portico di Marcello è uno di questi.

Esagerazioni, trivialità («someone tonight is being fucked») e romanticherie: possiamo pensare davvero che questo narratore postmoderno (di famiglia anglo-libanese, edito in Australia) abbia dato un suo contributo allo studio dell’opera di Ovidio? Questa volta Ovidio è esiliato non per aver scritto poesie a chiave («palindromi» e «consonanti scambiate») ma per aver scritto l’Ars amandi. La questione è tuttora dibattuta: se l’Ars amandi è un testo frivolo e mondano come pare a molti di noi, è difficile spiegare la reazione del potere. Malouf sembra pensare che questo testo frivolo e mondano diventa pericoloso nel momento in cui si incolla ai monumenti e ai simboli dell’ordine augusteo. Per ora ho da offrire solo un pensiero generale: questa narrazione sull’esilio di Ovidio coglie una contraddizione nel modo corrente di immaginare i rapporti fra poesia ovidiana e potere. Ciò che Ovidio scrive sui temi della vita privata e del sesso viene trattato in termini di frivolezza: un mondo a parte rispetto alle severe preoccupazioni della politica augustea. Non è neppure chiaro se fra due discorsi così incommensurabili poteva esserci davvero uno scontro. Ma questo modo di ragionare, tipico degli storici della letteratura, trascura un fatto storico importante: non è Ovidio, è Augusto ad avere politicizzato gli amores dei cittadini romani. Un regime che, per la prima volta nella storia di Roma, entra nelle camere da letto con una legislazione mirata, si espone anche a fare del comportamento sessuale un terreno di contestazione. Chi parte dall’idea che l’Ars amandi sia un testo frivolo perché descrive adulteri e piaceri rischia di non vedere che morale e vita privata sono aree fondamentali per il nuovo potere. Questa angolazione è suggerita non solo dalla lettura che Malouf dà dell’Ars amandi, ma anche della lettura che Ovidio dà dell’Ars amandi (in una sua poesia più tarda, Tristia II).

Eugène Delacroix, Ovid among the Scythians, 1862. London National Gallery.

Ma per quale pubblico scrive Ovidio? Sulle rozze colonne di pietra del Mondo estremo è iscritto un finale delle Metamorfosi in cui non si legge più l’elogio di Augusto. L’Ovidio di Tabucchi danza per i Cesari, ma non viene apprezzato.
L’Ovidio di An Imaginary Life affida un messaggio ai ghiacci, sperando che duri più di un millennio, quando l’impero sarà ormai caduto, e interroga noi, i lettori moderni: «Sentito parlare di Ovidio? Qualcuno mi legge? Sono sopravvissuto?». La (dubbiosa) parola finale delle Metamorfosi, vivam, è diventata una domanda ai lettori futuri: la risposta è «sì»; se è vero che artisti moderni continuano a leggere la propria storia personale con l’aiuto di Ovidio, poeta e perseguitato politico – con una sola riserva: l’impero non è caduto, non del tutto. È parte di noi e influenza le nostre letture di Ovidio.

Annotazioni e osservazioni dei lettori

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