«Ripensare alle idee dei Greci sulla identità femminile aiuta a ragionare sul peso e i molteplici aspetti della loro eredità. Insieme alla democrazia, al teatro, all’arte e ai tanti lasciti originali per i quali, giustamente, continuiamo a celebrarli, ai greci dobbiamo anche una codificazione della differenza sessuale le cui conseguenze sulla condizione femminile offrono spunti di riflessione che sarebbe un errore sottovalutare là dove e quando riemergono – quali che esse siano – concezioni sociali, teorie filosofiche e pratiche giuridiche che ripropongono visioni “essenzialiste” delle diverse identità». Così Eva Cantarella si esprime nello scritto Identità, genere e sessualità nel mondo antico (in Diritto e Società in Grecia e a Roma, a cura di A. Maffi e L. Gagliardi, Milano-Giuffré, 2011, p. 951).

Il pensiero di Eva Cantarella è chiarissimo e sfida radicalmente la teoria femminista della differenza negli anni in cui questa raggiunge l’apice del consenso, formando intere generazioni di donne: la stessa autrice lo spiega in modo molto chiaro, quando nelle voci enciclopediche rammenta che il termine gender è recente; che «fino al 1970, più o meno, la storia delle donne e dei sessi non era interesse della comunità accademica (…)» e che invece «negli ultimi 30 anni, comunque, l’orizzonte dei classicisti si è esteso, fino ad includervi questi temi e per dedicare sempre più attenzione al problema della costruzione sociale del genere come principio della organizzazione politica» (così, Eva Cantarella in Gender, Sexuality and Law, in Diritto e Società, cit., p. 403).
Eva Cantarella, affrontando il tema da studiosa del mondo antico è consapevole che «le donne abbiano conquistato la maggior parte dei diritti negli ultimi 30 anni che nei precedenti 3 millenni» (così in Conceptualizing Women’s Rights, in Diritto e Società, cit., p. 918), ma fonda le sue ricerche sul mondo antico sulla domanda fondamentale per chi si occupa oggi della condizione femminile e dei diritti della donna: «Il problema della giustizia è chiaro: è giusto che le donne (anche quelle che sono completamente uguali agli uomini sulla carta) continuano a soffrire discriminazioni? (…). I diritti delle donne sono stati già scritti e catalogati (…). Anche nei Paesi dove le donne hanno formalmente uguali diritti, gli stereotipi di genere esistono e (…) creano svantaggi concernenti due aspetti centrali della vita delle donne: lavoro, da un lato; vita familiare e sessuale, dall’altro» (op. cit., p. 913).
Eva Cantarella sostiene che la nascita della discriminazione sia antichissima, addirittura nell’antica Grecia e che essa sia dovuta alla nascita della differenza sessuale, da subito fondata anche nei miti come differenza non soltanto naturale, ma accompagnata a caratteristiche sociali, culturali. Il pensiero di Eva Cantarella è complesso ed espresso in tanti scritti che corrono lungo tutto l’arco della sua produzione.
Nelle sue numerosissime opere distinguerei due componenti molto diverse fra loro: da una parte vi sono i saggi che si occupano delle origini della differenza di genere, come origine della discriminazione, analizzando in modo profondo e analitico le differenti componenti storiche e mitiche, che determinano stereotipi che resistono ancora oggi; dall’altra, vi sono i numerosi studi che si occupano direttamente delle condizione sociale e giuridica delle donne greche e romane (in questo breve scritto mi concentrerò esclusivamente sul mondo Greco). Spesso i piani sono uniti fra loro o contenuti in un unico scritto, ma l’apporto dato dalla studiosa al pensiero moderno è molto diverso. Per quanto riguarda il primo gruppo, è cioè la visione dell’origine della discriminazione legata alla visione della differenza fra uomo e donna come aspetto culturale, a partire dal mondo antico, Eva Cantarella scolpisce in modo indelebile e con grande originalità pezzi di una consapevolezza di noi moderni, necessaria a chi si pone non solo culturalmente, ma anche politicamente, l’obiettivo di superare gli stereotipi. Facendo nascere molto spontanea una domanda, a mio avviso centrale, sulla possibilità di una operazione che superi apparenti “verità” che hanno tutto il peso della nascita addirittura nelle civiltà antiche. Portando oltre le affermazioni di Eva Cantarella potremmo chiederci se l’eredità antica comporti l’impossibilità di combattere l’ingiustizia degli stereotipi o invece, svelandone l’origine, tutta incentrata nella teoria della differenza, non renda chiaro, finalmente, che sia necessario superare quelle tesi, comprese le tesi femministe sulla differenza, solo apparentemente positive per tutte le donne, per smantellare gli stereotipi di genere: «L’idea che la Grecia trasmise ai secoli a venire fu quella della diversità naturale. Niente “differenza di genere”, in Grecia. E niente differenza di genere dopo i Greci, e dopo di loro sino alle soglie della nostra era» (Identità, genere e sessualità nel mondo antico, cit., p. 950). In parole più semplici, Eva Cantarella, storicizzando gli stereotipi di genere e arrivando a scolpirli nel momento della loro origine, ce li riconsegna intatti per consentire a noi oggi di combattere le discriminazioni fino in fondo.
Le immagini che ci consegna Eva Cantarella sono di formidabile impatto.
Il primo poeta Greco, che parla di differenza dei sessi, è Esiodo, in Opere e giorni, quando narra la nascita della prima donna, Pandora. Dice Eva Cantarella che «Pandora venne mandata sulla terra – dove sino a quel momento gli uomini vivevano felici – per punirli del furto commesso da Prometeo che aveva sottratto il fuoco agli dèi per darlo agli esseri umani» (Identità, genere e sessualità, cit., p. 943). Sottolinea l’autrice che «come dice il suo nome (da pan, “tutto” e dōron, “dono”), Pandora ricevette un dono da ciascuno degli dèi: da Efesto un aspetto simile a quello di una “casta Vergine”; da Afrodite la capacità di sedurre, “desiderio struggente” e “affanni che fiaccano le membra”. Ma Ermes le regalò “mente sfrontata”, “indole ambigua”, “menzogne” e “discorsi ingannatori” (così Esiodo, Teogonia)». E continua narrando che di fronte al «vaso di Epimeteo, ermeticamente chiuso (…) curiosa come tutte le donne, Pandora lo aveva scoperchiato, e dal vaso erano uscite tutte le calamità del mondo. Quando, spaventata, aveva chiuso il vaso, i mali erano già volati via, disperdendosi fra i mortali. Sul fondo era rimasta solo Elpís, la speranza. Dopo l’arrivo di Pandora, all’umanità non restava che questa».
Formidabili sono le riflessioni di Eva Cantarella sul mito: «inutile insistere sul valore simbolico del racconto (così come sul parallelo con la nascita della biblica Eva). Ancor più importante di questo è il modo in cui Pandora venne costruita: a differenza di Eva, Pandora non nacque dal corpo maschile. Venne costruita da Efesto, artigianalmente, con acqua e terra: la parola “diversità” non è sufficiente per descrivere l’identità femminile. Pandora era l’“alterità”. Non a caso, nel raccontare la sua storia, Esiodo dice che da lei “discende il genere (génos), le tribù (phylaí) delle donne”: il génos delle donne è un genere a parte, altro da quello maschile, al punto che, in Esiodo, le donne discendono solo da Pandora. Si riproducono autonomamente, insomma, senza il contributo maschile» (op. cit., p. 944).
Un altro affresco tratto dal poeta Semonide di Amorgo mostra in modo chiarissimo la nascita dell’identità femminile come differente e inferiore a quella maschile: Semonide descrive varie categorie di donne, tutte in modo spregiativo: «quelle fatte di terra sono minorate, non sanno distinguere il bene dal male, pensano solo a mangiare. Altre, quelle fatte dall’acqua, come il mare hanno due nature: un giorno sono e rendono felici, il giorno dopo sono inavvicinabili (…). Per non parlare delle donne che derivano da animali, di cui posseggono le caratteristiche: quella che viene dalla scrofa ingrassa rotolandosi nel letame; quella che deriva dalla volpe è infida, sa e controlla tutto, ma si adatta agli eventi; quella che deriva dalla cagna si aggira incessantemente per la casa uggiolando (…)». Alla fine dell’elenco, racconta Eva Cantarella, sorprendentemente, troviamo «una donna dalle caratteristiche positive; è quella che viene dall’ape, fedele al marito e madre devota. Beato chi la sposa», ma, osserva infine l’autrice, «i versi finali del poema fanno pensare che non esista: chi sta con una donna – conclude infatti Semonide – non ha un giorno di pace. La donna ape è scomparsa» (op. cit., p. 945).
Eva Cantarella però riflette su un altro profilo importante di questa descrizione della diversità fra uomo e donna, profilo dal quale comunque discende uno dei tanti stereotipi sul genere. Secondo i Greci, le donne «avevano una mente diversa da quella maschile. In quanto le donne non possedevano il lógos. La sola ragione che potevano possedere era la mētis, un’intelligenza per capire le cui caratteristiche occorre ripensare al mito che racconta la storia di Mētis, la prima moglie di Zeus, ingurgitata quando era incinta, per paura che nascesse un figlio che lo potesse spodestare. Avendo mangiato Mētis, Zeus possedeva entrambe le intelligenze e fu in grado di partorire dalla sua testa Atena, nata “armata”». L’autrice si sofferma sulle differenze fra Mētis e Lógos: la prima è un’intelligenza bassa, diversa dalla ragione grande e luminosa del Lógos. La Mētis non classifica, non costruisce categorie, è concreta, si rivolge al caso singolo, al problema specifico; è frutto di esperienza e riflessione, e soprattutto non raggiunge mai gli obiettivi in modo lineare, ma per strade tortuose». Conclude Eva Cantarella «nulla di sorprendente, quindi, che la possedessero anche le donne», sottolineando giustamente che «la diversità aveva delle conseguenze non soltanto sull’atteggiamento degli uomini nei confronti del sesso femminile, ma anche, e soprattutto, sulle regole sociali e giuridiche da essi sancite». È la differenza, quindi, che crea l’inferiorità e la discriminazione, o meglio, la differenza nasce sulla e fonda la discriminazione. Non sono però soltanto i poeti a raffigurare la differenza fra donne e uomini: fra i tragici, Eva Cantarella si sofferma soprattutto sull’Orestea (op. cit., p. 946). È noto che nell’Orestea, Oreste, assassino della madre, non viene però considerato colpevole, da quello che sarà il primo tribunale della Storia. Eva Cantarella riflette sulla circostanza che il matricida sia però considerato figlio soltanto del padre e per questo ritenuto non colpevole. Traspare in questa parte della tragedia la convinzione, anch’essa frutto e generatrice di discriminazioni sul ruolo delle donna nella procreazione, ritenuto dai greci praticamente inesistente: questo è il motivo per il quale Oreste può essere assolto, essendo ritenuto figlio soltanto del padre e non della madre. Ma Eva Cantarella indaga più a fondo su questo aspetto, scoprendo che la concezione della donna, che non sarebbe genitrice, viene ripresa anche dai filosofi e in particolare da Aristotele. Secondo Aristotele esistono due tipi di amore: l’éros e la philía. Esistono anche diversi tipi di philía: quella fra uguali, cioè l’amicizia, e quella fra diseguali, quella fra i coniugi, dove la donna è inferiore all’uomo (op. cit., p. 946).
Anche la descrizione da parte di Aristotele del fenomeno della procreazione conduce alla raffigurazione di una donna considerata materia, una materia passiva e fredda, che ha soltanto la funzione di accogliere il seme dell’uomo, il quale non solo genera la vita, ma la riscalda.
Ecco che lo stesso filosofo greco ci tramanda uno stereotipo fortissimo, quello che contrappone le donne, materia, esseri passivi, agli uomini attivi. Ancora il filosofo raffigura la donna come il buio e l’uomo come la luce; la donna come materia e l’uomo come spirito; la donna mano sinistra, l’uomo destra (op. cit., p. 946).
Un altro aspetto indagato dall’autrice attiene al pensiero di Bachofen, autore della teoria del matriarcato. Secondo Eva Cantarella, Bachofen più di altri testimonia con la sua teoria che nel corso dei secoli la differenza sessuale si sia tradotta in inferiorità. Per Bachofen, infatti, c’è stato n ruolo femminile nell’incivilimento: «portata naturalmente verso tutto ciò che è divino, miracoloso, soprannaturale, la donna, secondo Bachofen, aveva convertito l’uomo ai suoi valori, e lo aveva condotto dallo stadio selvaggio dell’esistenza a una fase più avanzata, ove essa aveva dominato come rivelazione stessa della legge divina: la fase della ginecocrazia demetrica, fondata sul matrimonio monogamico» (Potere femminile, cit., p. 762) – l’autrice ricorda anche come questa non fosse la prima fase del potere femminile, in quanto preceduta dalla ginecocrazia amazzonica: violenta, sanguinaria, sessualmente promiscua).
Quindi il diritto e lo Stato sembrerebbero esistere anche nella prima fase del potere femminile, ma acutamente Eva Cantarella osserva che l’esito è diverso nel pensiero di Bachofen. Il matriarcato infatti viene definitivamente sconfitto dal patriarcato, perché la donna, che è materia «non sa pensare allo Stato», è destinata ad occupare un ruolo secondario e ad essere collocata in una posizione di inferiorità rispetto all’uomo: «il vero Stato nasce con la definitiva scomparsa del potere femminile e il diritto (questa volta “diritto” in senso tecnico) è lo strumento della sua affermazione e della sua invincibilità» (Potere femminile, cit., p. 762). Quindi la nascita dell’istituzione statale e dello stesso diritto pubblico è una nascita “maschile”: una sfera pubblica da cui le donne saranno cacciate per migliaia di anni, fino ad arrivare al secolo scorso, dove a partire dal riconoscimento del diritto di voto entrano nella sfera pubblica, risultandone però ancor oggi spesso emarginate o discriminate. Uno dei temi centrali nelle riflessioni sulla rappresentanza politica è proprio la possibilità di una rappresentanza “femminile”, che molti negano alla luce di una esclusione delle donne dalla sfera pubblica che non può fermarsi alla nascita dello Stato liberale, ma che addirittura risale alle origini della civiltà Greca.
L’altro filone, molto ricco e conosciuto in tutto il mondo, riguarda gli studi dell’autrice nei quali, dopo aver messo a fuoco la teoria della differenza di genere da parte dei poeti, dei tragici e dei filosofi, vengono indagate le conseguenze dal punto di vista giuridico. In tanti suoi scritti, Eva Cantarella ricostruisce con precisione la condizione giuridica della donna nel mondo antico. È soprattutto la donna ateniese a destare l’interesse della studiosa, per la sua condizione di totale inferiorità. Le donne si sposavano al compimento del dodicesimo anno e non venivamo educate, essendo destinate soltanto a procreare, con la conseguenza che le stesse madri venivano escluse dall’educazione dei figli. Le donne dovevano essere fedeli al marito, mentre quest’ultimo aveva in genere più donne: accanto alla moglie, infatti, l’uomo ateniese poteva avere una o più concubine, ma era un’altra categoria di donne quella che l’accompagnava abitualmente in pubblico, l’eterea. Le etere erano le sole donne greche a ricevere un’educazione, ad occuparsi di politica, a dedicarsi al canto e al ballo.
L’inferiorità della donna ateniese, mette in luce Eva Cantarella, è dovuta anche alla circostanza che essa è esclusa dal possesso di beni: le donne non ereditavano nulla se avevano un fratello maschio e, nel caso in cui non ci fossero eredi maschi, dovevano sposare il parente più stretto in linea maschile, per non far uscire il patrimonio dalla famiglia, per farlo ereditare ad altri parenti maschi.
Diversa la condizione della donna spartana, dove la donna poteva possedere dei beni, ereditare e anche rifiutare il proprio marito (Dangling Virgins: Myth, Ritual and the Place of Women in Ancient Greece, in Diritto e Società, p. 715 ss.). Ma l’aspetto che mi ha colpito maggiormente, leggendo gli studi di Eva Cantarella, e che ne costituisce, almeno per me, il tratto più originale, è la sua capacità di ricostruire con amore del dettaglio gli istituti giuridici, per poi portare il lettore ad astrazioni su alcuni aspetti dell’identità femminile, tratti non soltanto dalla Storia, ma anche dai Miti: «mogli, concubine, etere: nella pseudo-demostenica Contro Neera vengono classificate le tre donne dell’uomo ateniese: tre opzioni diverse, tra le quali l’ateniese poteva scegliere a seconda di quali fossero le sue esigenze e di quello che di volta in volta desiderava da una donna (…)» (in Donne di casa e donne sole in Grecia: sedotte o seduttrici?, in Diritto e società, cit., p. 767).
Così arriviamo alla bellissima descrizione delle donne sedotte e sottomesse, che vivono nell’oîkos «nel duplice senso di gruppo familiare e di casa in senso fisico, protette dagli affetti e dalle mura domestiche» e delle donne seduttrici, «donne sole, che vivevano senza uomini, in casa propria».
L’autrice si rifà al mito di Ulisse, contrapponendo le seduttrici Calipso, Circe e le Sirene, donne sole, alla sedotta Penelope, che vive nell’oîkos.
«Non è un caso forse, se la voce, che le seduttrici mitiche usano per cantare e incantare, nei secoli della città rimane prerogativa delle etere, le sole donne che sanno e che possono usarla a questo scopo. La voce delle altre, le donne di casa, scompare, diventa silenzio. E il silenzio è segno di rispettabilità, la parola disdicevole» (Donne di casa, cit., p. 774). Inutile sottolineare come la caratteristica della solitudine rimanga ancor oggi uno stereotipo rispetto all’emancipazione delle donne e al riconoscimento sociale; sul silenzio e sulla voce, ricordiamo il fondamentale scritto di Carol Gilligan, In a Different Voice: Psychological Theory and Women’s Development).
Il profilo caratterizzante della produzione di Eva Cantarella è quello di una studiosa che non lascia agli spazi, a volte purtroppo angusti, delle aule universitarie e dei dibattiti scientifici, l’essenza del suo pensiero, ma si impegna a divulgare i tratti caratteristici del mondo antico e della condizione della donna con opere rivolte a tutti e con una copiosa produzione anche di articoli su quotidiani. La studiosa fa parlare le donne dell’antichità, per essere presente nel suo tempo nelle battaglie femminili di uguaglianza e laicità (Conceptualizing Women Rights, cit., p. 913). Le riflessioni profonde sulla differenza che crea discriminazione si uniscono idealmente a quelle tesi che ormai da anni si stanno facendo avanti nel mondo. Penso al pensiero di Susan Moller Okin, che con il suo Is multiculturalism bad for Women? (ora in Diritti delle donne e multiculturalismo, Milano-Cortina, 2007, p. 4) sfida radicalmente il pensiero del multiculturalismo, che, differenziando, giustifica e limita la lotta per una effettiva eguaglianza femminile. L’eredità che Eva Cantarella ci consegna del mondo antico è una nuova sfida alla lotta per l’eguaglianza delle donne, diffidando da chi giustifica la “differenza” che oggi come ieri si traduce nella pratica dell’inferiorità. Trasportando questo principio nel dibattito aperto anche in Italia, mi sembra che l’Autrice voglia portarci con le donne dell’antichità a reclamare una società dove le donne non vengano protette, come gruppo discriminato e diverso, ma pretendano di agire paritariamente, nello spazio pubblico come in quello privato, ringraziando, ma staccandosi definitivamente, e senza sensi di colpa, dai miti di Eva e Pandora.
Cit. art. di M. D’Amico, Il pensiero di Eva Cantarella sulla donna nel mondo antico e sulle origini della discriminazione di genere, in Rivista A.I.C., n. s. 1, 2012.