Il latino che parliamo

di S. Novelli, Oricla non Auris: volgare batte classico, in Treccani.it – L’Enciclopedia italiana.

Da dove viene l’italiano? «L’italiano deriva dal latino». Dietro la formuletta c’è spessore e complessità di storia.
Innanzi tutto: di quale latino stiamo parlando? Non del latino che si studia a scuola, quello classico di Cesare e di Cicerone. Le lingue romanze, parlate oggi in gran parte dei territori che fecero parte dell’Impero romano duemila anni fa, non derivano in linea diretta dal latino classico. Derivano da quello che gli studiosi hanno definito – pur consci dell’approssimazione – latino volgare, il latino cioè parlato dal volgo, dalla gente comune, quale era venuto atteggiandosi nell’età della decadenza.
Intorno al I secolo a. C., la situazione è ancora chiara: da una parte il latino classico, che rappresenta la norma; dall’altra, il latino parlato che va dal colto sermo urbanus delle classi cittadine più elevate fino alla lingua corrente, meno sorvegliata, del popolino, dei soldati, del contado. I due poli sono interni a un sistema condiviso, dotato di una medesima grammatica. Si tratta di varietà di un’unica lingua. La gente del popolo poteva accorrere in tribunale per ascoltare l’arringa di un celebre oratore e, sebbene incapace di capire tutte le colte o tecniche parole che sentiva, era comunque in grado di cogliere bene il senso del discorso.

Codice dell'Appendix Probi (particolare - i numeri 121-131).
Codice dell’Appendix Probi (particolare – i numeri 121-131).

Con l’allargarsi dell’impero e l’allentarsi dei vincoli centralistici, le forze centrifughe di differenziazione interna della lingua si irrobustiscono. A partire dal II secolo d. C., fenomeni che il latino già covava dentro di sé e che ogni tanto erano affiorati alla luce, ma isolati, privi di energia di rottura, ora prendono vigore. È il caso della M finale non più pronunciata, fatto già testimoniato nell’iscrizione funeraria, in latino ancora arcaico (256 a. C.), del console L. Cornelio Scipione Barbato: … DUONORU OPTUMU FUISE UIRO (bonorum optimum fuisse virum). Oppure è il caso, nella pronuncia informale, anche sulle labbra delle persone colte, della caduta della N nel nesso -NS-: ci dice il grammatico Velio Longo che Cicerone pronunciava ortesia e non ortensia, megalesia e non megalensia (e da mense(m) avremo mese in italiano).
Uno tra i fattori decisivi è la crisi del sistema vocalico fondato sulla quantità. Prende piede l’abitudine di pronunciare le vocali brevi come aperte, quelle lunghe come chiuse; abitudine che trova rinforzo nell’influenza esercitata dalle lingue originarie dei popoli conquistati da Roma (lingue di substrato), le quali ignoravano le distinzioni quantitative. Sant’Agostino, africano di Ippona, scrive che «le orecchie di un africano non conoscono la distinzione tra vocale lunga e vocale breve».
Si può dire, generalizzando, che tendenze linguistiche popolareggianti e periferiche s’impongono con decisione a danno della norma centralistica del latino urbano a partire dalla creazione dei regni romano-barbarici, accelerando la frantumazione del sistema-lingua latino e favorendo il processo che porterà, passo dopo passo, alla nascita delle lingue romanze, cioè di sistemi-lingua autonomi dal latino (volgare), che viene soppiantato.
Iscrizioni epigrafiche; scritte e graffiti murali (famosi quelli di Pompei); lingua letteraria di autori che amano riecheggiare la lingua latina popolare, antica (Plauto) o più tarda (Petronio); testi di carattere tecnico, la cui lingua è infiltrata di voci e modi del linguaggio corrente: queste le fonti che ci permettono di farci un’idea più precisa del latino volgare, alle quali s’aggiunge la comparazione tra parole “sorelle” delle lingue romanze, che consente spesso di ricostruire per congettura la forma del latino volgare che le incubò. Qui riproduciamo una piccola porzione di una lista di parole nota come Appendix Probi, così chiamata perché nel codice che la riporta essa segue l’opera di un grammatico del III-IV secolo d.C. di nome Probo. La lista è composta di 227 parole, forme, grafie errate che un maestro censura confrontandole con le forme corrette, a scopo didattico. Eccone alcune.

speculum non speclum
vetulus non veclus
columna non colomna
frigida non fricda
turma non torma
solea non solia
auris non oricla
oculus non oclus
vinea non vinia
viridis non virdis

Dunque il maestro non è contento di come i suoi allievi pronunciano e, probabilmente, scrivono certe forme. A distanza di quasi due millenni, le indicazioni di quest’anonimo scrupoloso insegnante per noi sono preziose. Ci mostrano che certi errori, per il fatto d’essere sistematici, lasciano trasparire mutamenti nella grammatica reale del latino adoperato ogni giorno. Mutamenti che, in molti casi, sono già indirizzati verso esiti che verranno accolti nelle lingue romanze. Insomma, abbiamo le prove di una transizione in atto. Per esempio, nei trisillabici proparossitoni (sdruccioli, con l’accento sulla terz’ultima sillaba) come SPECULUM, VETULUS, FRIGIDA, OCULUS, VIRIDIS, cade la vocale postonica. Con l’andare del tempo – si parla di secoli – i nessi di consonante + L (-CL-, -TL-, ecc.) daranno luogo a consonante + IOD: da OCLUS a occhio, da VETLUS (con velarizzazione della dentale T) a vecchio, da SPECLUS a specchio. In VINIA e SOLIA abbiamo la chiusura della prima vocale in iato, che, oltre al raddoppiamento della nasale N e della laterale L, produrrà poi la palatalizzazione delle due consonanti (vigna, soglia). In COLOMNA c’è già stato il passaggio da U breve tonica a o chiusa in sillaba implicata (seguirà l’assimilazione regressiva di M a n), in VIRDIS e FRICDA (in italiano, poi, fredda) la I breve tonica non ha ancora dato e chiusa in sillaba implicata. Interessante ORICLA, da un precedente AURICULA(M). Intanto, notiamo che per significare ‘orecchia’, il latino volgare ha abbandonato la forma classica AURIS, sostituendola con il suo diminutivo. Si tratta di un fenomeno che prolifera, la lingua parlata preferisce le forme più espressive. In ORICLA/AURICULA leggiamo già l’italiano orecchia (altro esempio: l’italiano agnello prosegue il diminutivo AGNELLUS e non il classico AGNUS). Inoltre, ORICLA ha già il monottongamento di AU (vedi anche CAUSA che darà cosa, AURU(M) che darà oro) e la già descritta caduta della vocale postonica.

2 pensieri su “Il latino che parliamo

  1. Il latino volgare, purtroppo, si conosce molto poco: sarebbe bello poter portare nelle scuole, assieme alle molte pagine di Cicerone, Seneca e Virgilio, più estratti di lingua popolare o di letteratura che la imita. Leggendo il “Satyricon” di Petronio, un’opera comunque letteraria, che, quindi, risente dei filtri dell’espressione artistica, si incontrano molte forme lessicali e idiomatiche che anticipano parole italiane o, addirittura, modi di dire popolari che usiamo ancora oggi; una su tutte, molto coloristica: “utres inflati” equivale al nostro “palloni gonfiati”! Scoprire questo lato della lingua classica, anche se poco inerente ai programmi scolastici, aiuta davvero a capire le dinamiche di evoluzione linguistica e a capire il complesso rapporto fra ciò che si perde e ciò che persiste nei secoli.

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