Le Panatenee di Ipparco

di A. Aloni, Da Pilo a Sigeo. Poemi, cantori e scrivani al tempo dei Tiranni, Alessandria 2003, pp. 93 sgg.

Le Panatenee riformate da Pisistrato sono occasione per la performance di canti rapsodici famosi in tutta la Grecia. Di che natura fossero questi canti nella fase immediatamente successiva alla riforma del 566 non possiamo essere certi. È comunque assai probabile che fossero canti già appartenenti a una fase panellenica, proprio perché la festa sembra riformata avendo come riferimento le grandi feste panelleniche.
La principale testimonianza della riforma è fornita dal dialogo pseudo-platonico a lui intitolato (Ps.-Plat., Hipparch. 228bc):

Ἱππάρχῳ, ὃς τῶν Πεισιστράτου παίδων ἦν πρεσβύτατος καὶ σοφώτατος, ὃς ἄλλα τε πολλὰ καὶ καλὰ ἔργα σοφίας ἀπεδείξατο, καὶ τὰ Ὁμήρου ἔπη πρῶτος ἐκόμισεν εἰς τὴν γῆν ταυτηνί, καὶ ἠνάγκασε τοὺς ῥαψῳδοὺς Παναθηναίοις ἐξ ὑπολήψεως ἐφεξῆς αὐτὰ διιέναι, ὥσπερ νῦν ἔτι οἵδε ποιοῦσιν.

a Ipparco, che era il più anziano e sapiente tra i figli di Pisistrato. Egli, oltre a fornire molte altre belle prove della sua sapienza, portò per primo in questa terra anche i poemi di Omero, e obbligò i rapsodi a recitarli durante le Panatenee, dandosi il cambio e in sequenza, come fanno ancora oggi.

(trad. it. M.L. Gatti)

Pittore Eufileto. Corsa a piedi con quattro atleti. Pittura vascolare da un’anfora panatenaica a figure nere, fine VI sec. a.C. ca., dall’Italia meridionale. London, British Museum.
Pittore Eufileto. Corsa a piedi con quattro atleti. Pittura vascolare da un’anfora panatenaic a a figure nere, fine VI sec. a.C. ca., dall’Italia meridionale. London, British Museum.

 

Anzitutto Ipparco fu il primo a portare in Attica tà Omḗrou épē. La nostra fonte non precisa ulteriormente quali fossero questi poemi; certamente erano quelli diffusi nelle occasioni panelleniche da quei rapsodi che si proclamavano discendenti di Omero e detentori unici e veritieri delle parole rivelate dalle Muse all’antico poeta. Si trattava di un oggetto di pregio e di prestigio, la cui performance tornava a gloria della città e del tiranno che la governava. Il valore – se vogliamo la timḗ – di questi poemi è rivelato dalla notizia (Hippostr. FGrHist 568F5) secondo cui Cineto di Chio fu il primo a recitare tà Omḗrou épē a Siracusa fra il 504 e il 501.
Inoltre Ipparco impose ai rapsodi di recitare le loro storie – in verità lo Pseudo-Platone usa il verbo díeimi, cioè «percorrere», che implica una sorta di movimento attraverso qualcosa di precostruito, e rende assai ben la procedura compositiva in performanceex upolḗpseōs ephexēs, cioè «dandosi il cambio e in sequenza», secondo una modalità ancora operante al tempo della composizione dell’Ipparco. I rapsodi, in altre parole, non potevano raccontare ognuno una sezione degli épē di Omero a loro scelta, ma dovevano narrare una storia continua, dandosi il cambio in una sorta di staffetta poetica.
La riforma di Ipparco dovrebbe collocarsi intorno al 530, anche se non tutti sono d’accordo nel ritenerne accertata la storicità. In effetti, Diogene Laerzio (I 57), citando lo storico megarese Dieuchida (FGrHist 486F6) attribuisce l’introduzione della performance a staffetta a Solone: «(Solone) fece una legge secondo la quale i canti di Omero dovevano essere recitati a staffetta, in modo che dove il primo terminava, da lì doveva cominciare il secondo. Dunque Solone fece maggiore luce su Omero di Pisistrato, come dice Dieuchida nel quinto libro delle sue Storie megaresi».
Nagy ritiene che entrambe le versioni siano valide da un punto di vista storico, perché entrambe forniscono una spiegazione della specifica modalità di performance introdotta nel VI secolo a.C. ad Atene. Si tratterebbe insomma di un mito eziologico, formatosi a partire da una realtà di fatto, cioè la staffetta dei rapsodi.
Ciò che conta, comunque, è che negli ultimi decenni del VI secolo ad Atene non solo venivano recitati dai rapsodi alle Panatenee gli épē  di Omero, ma che i cantori, dandosi il cambio, producevano un testo – orale di dimensione e complessità inusitate rispetto all’abituale pratica rapsodica.
La “regola panatenaica” dovette essere una novità talmente importante e significativa, che di essa è possibile individuare almeno due riflessi nei poemi omerici. Quando l’ambasceria giunge alla tenda di Achille, trova l’eroe impegnato in una performance poetica (Il. IX, 185 -191):

Μυρμιδόνων δ᾽ ἐπί τε κλισίας καὶ νῆας ἱκέσθην,
τὸν δ᾽ εὗρον φρένα τερπόμενον φόρμιγγι λιγείῃ
καλῇ δαιδαλέῃ, ἐπὶ δ᾽ ἀργύρεον ζυγὸν ἦεν,
τὴν ἄρετ᾽ ἐξ ἐνάρων πόλιν Ἠετίωνος ὀλέσσας·
τῇ ὅ γε θυμὸν ἔτερπεν, ἄειδε δ᾽ ἄρα κλέα ἀνδρῶν.
Πάτροκλος δέ οἱ οἶος ἐναντίος ἧστο σιωπῇ,
δέγμενος Αἰακίδην ὁπότε λήξειεν ἀείδων.

E giunsero alle tende e alle navi dei Mirmidoni,
e lo trovarono che con la cetra sonora si dilettava,
bella, ornata; e sopra vi era un ponte d’argento.
Questa, quando abbatté la città di Eezione, scelse per sé fra le spoglie;
si dilettava con essa, cantava glorie di eroi.
Patroclo solo, in silenzio, gli sedeva dirimpetto,
spiando l’Eacide, quando smettesse il canto.

Non siamo in presenza di una performance rapsodica perché, come sempre nei poemi, l’immagine riflessa del rapsodo attuale nel mondo eroico è quella di un cantore che accompagna il suo canto con la cetra. Il ruolo di Patroclo non è però quello di un passivo, o anche partecipe, ascoltatore. Egli stesso è parte della tradizione d’imprese gloriose condivise con Achille; per questo attende che il compagno interrompa il suo canto per subentrargli […].
Ulteriore traccia della performance panatenaica si trova all’inizio dell’Odissea; il cantore, dopo la presentazione della materia del suo canto, cioè le vicissitudini di Odisseo legate al ritorno, torna a rivolgersi alla Musa (Od., I 10):

τῶν ἁμόθεν γε, θεά, θύγατερ Διός, εἰπὲ καὶ ἡμῖν.

di queste cose, da un punto qualsiasi, dea, figlia di Zeus, dì anche a noi.

L’avverbio amòthen, un unicum in Omero, introduce una prospettiva autoriflessiva che non è delimitata solo a un compiacimento per la propria abilità compositiva. È invece probabile che qui il cantore celebri la propria capacità (certo anch’essa dono della Musa) di iniziare il racconto da un punto qualsiasi, corrispondente al momento in cui il precedente cantore ha concluso la propria performance. L’abilità con cui il cantore è fiero viene, secondo un usuale procedimento, proiettata al di là, e in questo caso al di sopra, del cantore stesso. Possiamo in definitiva osservare una sorta di regressione temporale della performance panatenaica, cui corrisponde anche un costante innalzamento di livello assiologico. Lo Pseudo-Platone e Dieuchida (o meglio la sua fonte attica) collocano la performance a staffetta al tempo di Pisistrato e Solone, cioè nel tempo lontano degli antenati; l’Iliade proietta nel tempo degli eroi, e l’Odissea la colloca infine nel mondo divino.
Solo nel contesto della performance panatenaica diventa possibile pensare a poemi di dimensione incommensurabile con la performance naturale e normale di un cantore. La narrazione a staffetta dà luogo – a livello orale – a una struttura monumentale che non è immaginabile a partire da una successione slegata di performance di cantori diversi, ognuno dei quali sviluppa un diverso episodio, in sé concluso.
A questo punto, Omero diventa non solo famoso, ma anche grande. West ha mostrato come il nome di Omero si imponga a partire dal 520 a.C. ca. Possiamo sospettare che questo non si leghi solo all’affermazione degli épē di Omero nei contesti panellenici, ma che derivi anche da una particolare evoluzione della tradizione che si rifaceva al suo nome. La norma panatenaica caratterizza in modo unico e peculiare la tradizione omerica rispetto alle altre.
L’esistenza di un testo scritto degli épē di Omero anteriore alla riforma panatenaica è molto discussa, ma in definitiva possibile, a due secoli dall’introduzione della scrittura in Grecia, e con il fiorire – a partire dall’inizio del VI secolo – dal commercio con l’Egitto, produttore unico del papiro, il principale materiale scrittorio. Occorre però interrogarsi sulla natura di questi testi. In assenza di una fruizione della poesia attraverso la lettura, questi scritti dovevano avere a che fare con il mondo dei rapsodi e con le loro performance. Quale ne fosse la funzione (anche di aiuto per la performance), difficilmente la loro forma, dimensione e complessità saranno state diverse da quella che le performance anteriori e diverse da quella panatenaica presupponevano. Le notizie, di varia antichità e autenticità, relative a operazioni di scrittura di testi poetici appaiono tutte riguardare testi di limitata estensione, compatibili con una performance rapsodica. È il caso dell’Inno ad Apollo che, testimone il Certamen (18 p. 44, 21-27 Wilamowitz = ll. 315-21 Allen), gli abitanti di Delo avrebbero fatto scrivere su una tavola di legno e avrebbero dedicata nel tempio di Artemide. I Beoti che abitavano intorno all’Elicona, a loro volta, indicarono a Pausania (IX, 31, 4) una tavola di piombo (uno strano materiale per una dedica) con inciso il testo delle Opere e giorni di Esiodo: di quale antichità non è dato sapere. Lo storico Gorgon (FGrHist 515F18) riferisce che l’Olimpica VII di Pindaro fu dedicata, scritta a lettere d’oro, nel tempio di Atena Lindia.

La scrittura, sotto qualsiasi forma, di un poema monumentale è altra cosa. Essa diventa possibile solo a partire dalla recitazione panatenaica che, a livello orale, fornisce il modello di un tale poema, senza tuttavia che l’esistenza di un tale modello sia la causa diretta della registrazione scritta.
In altre parole, la norma panatenaica non dipende dall’esistenza di un testo già fissato e messo per iscritto dei poemi, che non esistono in una dimensione monumentale: questa dimensione è conseguenza della norma stessa. D’altra parte la registrazione scritta non può neppure essere considerata una conseguenza diretta della norma panatenaica. In una cultura tradizionale non esiste necessità di una registrazione scritta di un testo, la cui esistenza è sempre e comunque resa possibile dalla realizzazione in performance. La scrittura è qualcosa di diverso, le cui ragioni vanno cercate fuori o oltre la fruizione del testo. Inoltre, a differenza di quanto ho pensato per anni, ritengo ora poco realistica l’idea di un testo scritto prodotto per servire da copione o anche solo per controllare le performance panatenaiche.
West, che sostiene la tesi di una scrittura molto antica dei poemi, ritiene possibile che il testo scritto dei poemi fosse conservato: dalla famiglia del poeta; da una comunità di rapsodi (gli Omeridi di Chio); in un tempio come oggetto dedicato. Delle tre possibilità, l’unica che abbia un qualche sostegno dalle fonti è la terza, la dedica in un tempio. Ai casi già ricordati – Inno ad Apollo, Opere e giorni, Olimpica VII di Pindaro – occorre aggiungere che Eraclito dedicò la sua opera nel tempio di Artemide a Efeso.
Vi è un tratto comune in tutte queste dediche: la scrittura materializza qualcosa che materiale non è, e rende possibile l’offerta e la dedica al dio. La performance, infatti, produce un testo che esiste solo nel momento e nel luogo della performance medesima. Nei santuari e nelle città del VI secolo le performance dei canti panellenici sono oggetti di valore, che sono però assai difficili da esibire (a differenza, per es. di una mitria di Sardi, bramata da Cleide, figlia di Saffo [fr. 98 Voigt]), per attestare la fama e il valore di chi li possiede. Come possessore dei canti non intendo il cantore, che è in grado di esibirsi in qualsiasi momento, bensì il committente – sia esso una città, un tiranno o un altro potente – che ingaggia e attira presso di sé un grande cantore, capace di una performance eccezionale. Per altri generi poetici la soluzione più ovvia consiste nell’invitare e trattenere, dietro lauti compensi, il poeta alla propria corte, nella città, ecc.
Per la performance panatenaica questo non è possibile. Per quanto sappiamo, la norma panatenaica valeva solo per le competizioni rapsodiche delle Grandi Panatenee, cioè ogni quattro anni. L’eccezionalità e il valore del testo (orale) prodotto alle Panatenee derivavano dall’azione sequenziale di numerosi rapsodi. L’esibizione non temporanea del testo panatenaico richiedeva perciò qualcosa di nuovo. E questo consistette, credo, in una registrazione scritta di un testo paragonabile, per quantità e qualità, a quello panatenaico.

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