Il greco antico… perché studiarlo?

Kylix a figure nere;  opera autografata dal pittore Exekias. Dioniso sulla nave, circondato da pesci. VI secolo a.C. Monaco di Baviera, Staatliche Antikensammlungen.
Kylix a figure nere; opera autografata dal pittore Exekias. Dioniso sulla nave, circondato da pesci. VI secolo a.C. Monaco di Baviera, Staatliche Antikensammlungen.

«[…] Probabilmente nessuno di noi, quando, attorno ai 13/14 anni, ha deciso di iscriversi al Liceo Classico sapeva bene che senso avesse fare questo genere di studi. Io non mi sono posta il problema e ho scelto questo tipo di scuola semplicemente perché mi “incuriosiva” e perché mi affascinavano i grandi testi del passato. Poi ho continuato a farlo, trasformandolo, diciamo così, in un lavoro. Ma non è questa la strada che seguirà la gran parte di voi. Qualcuno, certo, si iscriverà a Lettere e continuerà lo studio del greco, ma molti faranno altro: tempo sprecato, allora, studiare il greco? Non credo proprio, ma cerchiamo di vedere perché.
Per rispondere provo a partire da un “no”, che è forse la nostra unica e indiscutibile certezza. Non si studia il greco per parlarlo. Proprio il fatto che si tratti di una “lingua morta” ci permette di impostare un metodo di studio che ci tornerà sempre utile nella vita. Se infatti si può “imparare” l’inglese (o una qualunque altra lingua parlata) andando in Inghilterra, guardando film e ascoltando canzoni, ciò non è ovviamente possibile con il greco, che proprio in quanto lingua “morta” si può apprendere solo con l’applicazione e la riflessione metodica costante. All’inizio, certo, sarà difficile e faticoso (e forse anche noioso), ma vi accorgerete presto che il metodo che vi sarete venuti formando vi faciliterà molto in tutte le attività e gli studi, umanistici o scientifici. Questa è, secondo me, l’utilità “pratica” garantita da un simile tipo di studio.
C’è poi l’aspetto culturale. Senza soffermarmi sul ruolo che il mondo greco ha avuto nella formazione della nostra società, mi limito qui a una considerazione strettamente connessa alla grammatica e al tradurre, che vi riguardano da vicino. Affrontando lo studio della grammatica e cercando il significato più esatto di parole, sintagmi, frasi e periodi, vi renderete conto che ogni singolo termine, anche uno in apparenza semplice e banale, sia fortemente polisemico e che proprio di qui derivi la difficoltà del tradurre: il significato di una parola è, infatti, strettamente legato a quello del contesto in cui si trova, ma allo stesso tempo il significato di un testo dipende da quello dei singoli termini che lo compongono. Quindi per “tradurre” un brano, una frase, una parola, è necessario conoscere non solo la grammatica, ma anche gli aspetti culturali della civiltà che l’ha prodotto: e l’una è in qualche modo specchio dell’altra. Ciò vale, naturalmente, non solo per il greco (o il latino), ma anche per qualsiasi altra lingua. Tra lingua e civiltà c’è insomma un nesso inscindibile di reciprocità, e riflettere su una lingua, dunque, è un modo per imparare a conoscere e apprezzare una civiltà […]».

cit. S. Corbinelli, Premessa alla nuova edizione di “Grammatica greca”, di A. Sivieri, P. Vivian, Messina-Firenze 2008.

La rapina del tempo

«Orazio si ricollega a una famiglia di spiriti per i quali il luogo autentico dell’uomo non è la continuità di una durata, con le illusioni inerenti alla memoria e al progetto, ma la singolarità degli istanti dove la nostra libertà affronta il mondo». A. Traina considera, in un saggio assai fine (Introduzione a Q. Orazio Flacco, Odi e Epodi, Rizzoli, Milano 1985), questa riflessione di J. Perret (Horace, Paris 1907, p.122) come una perifrasi del celebre motivo del carpe diem, così celebre da aver acquisito la vita autonoma della citazione. Il motivo ricorre in tutta l’opera di Orazio in una ricca gamma di variazioni sinonimiche, ma in quest’ode è espresso con così essenziale icasticità da divenire proverbiale. La iunctura, davvero callida, «ha dato un conio nuovo alla saggezza di sempre … Carpo è il più nuovo e il più espressivo, dicendosi di un movimento lacerante e progressivo tra le parti e il tutto, come sfogliare una margherita o piluccare un grappolo d’uva. Il tutto è l’ætas, il tempo maligno (invida) visto nella continuità della sua fuga: la parte è il dies, l’oggi, da spiccare giorno per giorno senza contare sul domani» (Traina). La traduzione letterale è impossibile. Ma il concetto è quello di un poeta persiano (che ha più di un’affinità con Orazio), ‘Omar Khayyām: «Passa la vita, misteriosa carovana: rubale il suo attimo di gioia!» (trad. Gottardi), o di un romanziere contemporaneo, V. Saltini: «Come strappare un po’ di gioia a questo tempo che fugge?».

Affresco dalla Casa di Cecilio Giocondo, a Pompei. Una coppia a letto. Parete settentrionale del Peristilio. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Affresco dalla Casa di Cecilio Giocondo, a Pompei. Una coppia a letto. Parete settentrionale del Peristilio. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Il carpe diem appare poi, qui come altrove nell’opera oraziana, connesso col divieto: non pensare al domani. Un domani che per Orazio è incertezza d’ogni cosa, tranne che della morte. E il pensiero della morte, inscindibile da quello del tempo che fugge, egli cerca di rimuovere, contraendosi nel breve giro dell’oggi: «Un oggi cui s’oppone un futuro non sperato ma temuto, una fuga dal domani, che sull’oggi getta un’ombra di morte». «Da esse Orazio si difende contraendosi nel breve giro dell’oggi. Dies, occasio, hora, præsens, quod adest sono tutti sinonimi della puntualità dell’istante, in cui Orazio tenta di neutralizzare la fuga dell’ætas» (Traina). Perché «vivere il tempo, vuol dire morirne» (M. Bonaparte). In Orazio il polo opposto al presente è il futuro: un futuro non sperato ma temuto, una fuga dal domani, che sull’oggi getta un’ombra di morte. Di qui il monito del carme IV 7, 7 ss.: «Non attenderti l’immortalità, te lo ripete la stagione che rapisce (rapit) i giorni della nostra vita». Conclude Traina: «Fra queste due rapine, quella che il tempo fa all’uomo e quella che l’uomo tenta di fare al tempo, si tende la drammatica temporalità di Orazio». Una temporalità che ha poi, come suo corrispettivo spaziale, l’angulus, che assicura l’immobilità nello spazio. «Alla chiusura del tempo risponde la chiusura protettiva dello spazio», nell’angosciosa ricerca di una doppia immobilità, spaziale e temporale, cioè nel vano tentativo di sfuggire alla morte.
Quanto alla dibattuta questione delle ascendenze filosofiche dell’ode, certo da Epicuro proviene il rifiuto dell’astrologia, come dimostrano i frammenti seguenti, di scuola epicurea: «Epicurea è la dottrina che distrugge la divinazione: se la necessità domina su tutto, tu soffri prima del tempo, se predici una sventura. Invece ti privi della gioia, se predici una cosa piacevole» (fr. 212 Arr.). E ancora: «La divinazione non ha alcun fondamento, e anche se l’avesse, si deve convenire che gli eventi non dipendono da noi» (fr. 5 Arr.). Ma la topica dell’invito a godere del presente senza pensare al domani è spesso oggetto di momenti parenetici della lirica greca e non è riconducibile a una scuola di pensiero definita. Certo, anche in Epicuro l’invito al piacere era unito alla consapevolezza amara che quel piacere stesso è caduco, e che di fronte all’incalzare del tempo e della morte non resta che fabbricarsi il solido riparo dei beni già fruiti, della felicità già goduta (Conte). Ma forse, nell’esortazione a Leuconoe, è poco epicureo proprio «quel senso di morte di cui ogni pausa si riempie» (C. Diano).
È invece fuori discussione il fascino dell’ode, in cui la gnome antica è espressa con limpidezza suprema, con liricità ad un tempo intensa e misurata, in uno stile sobrio che non disdegna i moduli del parlato, come la spezzatura del discorso in brevi membri semanticamente forti, isolati dal coriambo (scire nefas, Leuconoe, vina liques, carpe diem, ecc.).

Hor., Carm. I 11

Tu ne quæsieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati.
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quæ nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
ætas: carpe diem quam minimum credula postero.

Tu non cercare, non è dato saperlo, quando il mio, quando il tuo
termine ultimo gli dei hanno fissato, o Leuconoe, e non tentare
i calcoli Babilonesi. Quant’è meglio sopportare tutto ciò che
accadrà, qual che sia. Gli altri inverni che Giove donerà o se è
l’ultimo, questo che stanca il mare etrusco e gli scogli di pomice
leggera: sii saggia, filtra i vini e poiché il tempo è breve,
riduci la lunga speranza. Mentre ci parliamo, sarà già fuggito
il tempo invidioso: cogli l’attimo il meno possibile fiduciosa nel domani.

Ci chiediamo se l’ode I 11 semplicemente riecheggi una topica che al tempo di Augusto era publica materies o se rimandi a precisi modelli letterari. Accertarlo è importante per la decifrazione critica di una poesia “alessandrina” come quella oraziana: poesia colta, per destinatari colti la cui collimazione culturale con l’emittente era scontata, arte allusiva che richiedeva di continuo nel fruitore la capacità di risalire ai brevia semina dell’originale emulato, elaborato, dilatato.
Secondo un’ipotesi di Carlo Del Grande (in Orazio, ode XI del libro primo, «Atene e Roma», 1971, n. XXV), una fonte possibile è un passo dell’Alcesti di Euripide (485-407/6 a.C.). Admeto, re di Tessaglia, deve morire giovane, ma gli dèi concedono che la moglie Alcesti muoia in sua vece. Eracle così consola un servo di Alcesti, affranto per la morte della padrona.

…Vieni qui che ti insegno. Sai qual è la natura delle cose umane? Penso di no: come faresti a saperlo? Ascoltami: tutti i mortali devono morire, e nessuno di loro sa se vivrà il giorno di domani: è oscuro il cammino della sorte, non si può apprendere e non si afferra con l’arte. Ora che hai appreso questo, divertiti, bevi, pensa che a te appartiene la vita giorno per giorno: il resto è della sorte. E onora anche Afrodite, la dea più dolce per gli uomini: è una dea benigna…
Eur., Alc. 783 ss. (trad. it. di G. Paduano)

Affresco dalla Casa del Poeta Tragico, a Pompei. Alcesti e Admeto. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Affresco dalla Casa del Poeta Tragico, a Pompei. Alcesti e Admeto. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Nelle Vespe di Aristofane (450-385 a.C.), quando il giovane Bdelicleone esamina il padre Filocleone per saggiare se possa condurlo a un simposio di persone a modo, pronuncia un asclepiadeo maggiore (v. 1229) e chiede al genitore come lo commenterebbe. Al verso citato lo scoliaste al passo ne aggiunge un secondo, avvertendo che quei versi, da qualcuno attribuiti ad Alceo o a Saffo, appartenevano in realtà ad un canto conviviale di Prassilla, poetessa del V secolo a.C. Ecco la distichia:

O compagno, facendo tesoro del discorso fatto ad Admeto, ama i valorosi e sta’ lontano dai vili, sapendo bene che i vili hanno scarsa grazia.

Quale fosse questo Admḗtou lógos (“discorso rivolto ad Admeto”) ce lo dice Bacchilide (516-451 a.C.) nel terzo epinicio. Chi parla è Apollo, non più Eracle:

… Breve è la vita;
e tuttavia il pensiero degli uomini, creature di un giorno,
è una speranza alata; il signore Apollo
… disse al figlio di Ferete ( = Admeto):
«Chi è mortale deve aver presente un duplice
pensiero: o che verrà soltanto
per il domani la luce del sole,
o che potrà continuare per altri
cinquant’anni una vita resa facile dalla ricchezza.
Serba sereno l’animo agendo sanamente: perché questo,
infatti, è il massimo che guadagni».

Bacch., Ep. III 74-84

Il mito di Alcesti, cui l’Admḗtou lógos è legato (che a pronunciarlo sia Eracle o Apollo poco importa), risale attraverso il poeta tragico Frinico (VI-V sec. a.C.) fino ad Esiodo (VIII sec. a.C.), che nelle Eèe (una rassegna delle donne amate dagli dèi) ne ha dato la prima redazione nota.
La gnome di Euripide e di Bacchilide si può confrontare con qualche passo di Pindaro (518-438 a.C.):

Certo il termine di morte
degli uomini per nulla è discernibile,
né quando trascorreremo tranquillo, con il bene
che si consuma, un giorno, figlio del sole.

Pind., Olym. II 30-33

Mosaico dello Scheletro coppiere («carpe diem»), a Pompei. I secolo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Mosaico dello Scheletro coppiere («carpe diem»), a Pompei. I secolo. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Il frammento che segue doveva costituire l’inizio di un lamento funebre (thrēnos) composto da Simonide (556-466 a.C.) in occasione del crollo del soffitto che travolse la famiglia degli Scopadi, in Tessaglia, presso i quali il poeta era ospite. Affiora qui il tema dell’imprevedibilità del futuro, che apparirà con frequenza nella tragedia attica e in Erodoto (I, 30). Ma la banalità del motivo (definito lógos archaîos in Sofocle, Trachinie 1) è riscattata dall’icastico, originale paragone con l’umile insetto. Il drammatico richiamo alla fragilità umana e alla tragica imponderabilità della sorte non era nuovo, poiché questo tema aveva già ispirato altri poeti, oltre a comparire in molte massime della sapienza delfica; tuttavia, nessuno si era mai espresso con una così efficace capacità di sintesi, né con un’immagine così nuova e potente. L’accenno al velocissimo scarto della mosca, talmente repentino che l’occhio quasi non riesce a coglierlo, sottolinea l’imprevedibile rapidità della metástasis, del «cambiamento» sempre in agguato, pronto a distruggere nell’uomo ogni illusione di stabilità e di durata, e conferisce a questi versi un doloroso fatalismo che richiama inesorabilmente l’uomo sotto all’effimera realtà del suo essere.

 

 

Tu che sei uomo non dire mai che cosa avverrà
domani né, vedendo un uomo fortunato, per quanto tempo (lo) sarà:
perché neppure il volo di una mosca
dalle ali distese (è) così rapido…

Simon., fr. 521 Page

L’elegia che segue s’impernia sull’opposizione giovinezza/vecchiaia, sul cui modello si articolano tutte le più specifiche antitesi e variazioni. Senonché in questo brano il timbro espressivo appare più decisamente accorato, tanto che il margine dell’idillio, l’evocazione delle gioie giovanili, quasi scompare. Non più quindi il chiaroscuro generato dalla giustapposizione di due quadri antitetici, ma una dolente meditazione in cui il dato positivo è già compenetrato in partenza dalla coscienza dei mali futuri. Qui abbondano schegge epiche, sapientemente riutilizzate attraverso scarti originali e spesso intrecciate a stilemi e vocaboli prediletti da Mimnermo (VII-VI sec. a.C.).

Noi, quali le foglie che genere la rigogliosa stagione
di primavera, quando d’un tratto crescono ai raggi del sole,
simili ad esse godiamo dei fiori di giovinezza per il tempo
di un cubito, non conoscendo la parte degli dèi né bene
né male; ma le scure Parche ci stanno accanto,
l’una tenendo il termine della dolorosa vecchiaia,
l’altra quello della morte; e dura un attimo il frutto
della giovinezza, per quanto (tempo) il sole si effonde sulla terra.
Ma quando sia trascorso questo termine dalla stagione,
morire subito è meglio che (continuare a) vivere;
infatti, molti mali nascono nell’animo: talora la casa
si consuma, e insorgono gli effetti penosi di povertà;
un altro invece sente la mancanza di figli, sommamente
rimpiangendo i quali scende sotto terra all’Ade;
un altro ha un morbo che gli tormenta l’animo; e non c’è
alcuno fra gli uomini a cui Zeus non infligge molti mali.

Mimn., fr. 2 West

Qui sembra di cogliere, al di là del consueto reimpiego di un patrimonio espressivo sentito come tradizionale, l’aggancio a un determinato passo omerico secondo una tecnica di intenzionale bricolage: si tratta del preambolo della replica di Glauco a Diomede in Iliade VI, 145-149:

Titide magnanimo, perché mi domandi la stirpe?
Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini;
le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva
fiorente le nutre al tempo di primavera;
così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua.

(trad. it. di R. Calzecchi Onesti)

Diomede (s) scambia le armi con Glauco (d). Pelike attica a figure rosse (attribuita al pittore Hasselmann). 420 a.C., Gela. Museo Archeologico Regionale.
Diomede (s) scambia le armi con Glauco (d). Pelike attica a figure rosse (attribuita al pittore Hasselmann). 420 a.C., Gela. Museo Archeologico Regionale.

Spesso nella poesia greca la riflessione sulla fugacità del vivere è associata all’invito a bere, come in questi canti conviviali di Alceo (640/30-560 a.C.); nel primo, con un attacco caratteristico della sua poesia metasimposiale, Alceo esorta Melanippide, un compagno di eteria, a bere insieme con lui, forse per scordare le sofferenze presenti. La morte è comunque inevitabile, come illustra l’autorità mitica di Sisifo, che grazie alle sue astuzie varcò per due volte il vorticoso Acheronte. L’ode sembra esprimere un timbro consolatorio, scandito da un’inconsueta presenza di riprese interne e articolato secondo la composizione anulare (Ringkomposition). L’esemplarità della vicenda di Sisifo è inserita fra le esortazioni a non aspirare a cose troppo grandi e a non pensare alla morte finché dura la giovinezza. Più che Mimnermo, l’invito all’oblio del dolore ricorda il riconoscimento archilocheo (fr. 128) del flusso che regola l’esistenza degli uomini. E la fitta trama di omerismi, favoriti dal ritmo dattilico, conferisce spessore e prestigio allo sviluppo delle riflessioni e delle apostrofi.

Bevi, o Melanippo, insieme con me,
che una volta varcato il vorticoso
Acheronte avendo attraversato grande , di nuovo
potrai vedere la luce pura del sole? Ma suvvia, non
a cose troppo grandi; e infatti Sisifo, sovrano, figlio di Eolo,
che era il più accorto fra gli uomini, di…
ma pur essendo molto astuto varcò per due volte
soggiacendo al destino di morte il vorticoso Acheronte:
il sovrano, figlio di Crono gli di avere una
pena sotto la scura terra. Ma suvvia, non…
finché siamo giovani se mai anche un’altra volta…
le sventure che
di soffrire… il vento di tramontana.

Alc., fr. 38a Voigt

Nel secondo componimento – diversamente che nel precedente – il tono, senza raggiungere l’asprezza del fr. 332, appare tutt’altro che riflessivo o didattico: il frammento è scandito da una serie di imperativi impazienti, che traducono il perentorio invito a bere prima dell’ora consueta, con un dosaggio ben forte di vino:

Beviamo! Perché aspettiamo le lucerne? Un dito è il giorno;
tira giù, ragazzo, le grandi coppe decorate.
Infatti, il figlio di Semele e di Zeus donò agli uomini il vino
come oblio degli affanni. Versa mescolando una e due misure,
le coppe colme fino all’orlo, e l’una coppa spinga via l’altra.

Alc., fr. 346 Voigt

Eveone, Scena di banchetto con auleta. 460-450 a.C. ca. Musée du Louvre, Parigi.
Eveone, Scena di banchetto con auleta. 460-450 a.C. ca. Musée du Louvre, Parigi.

Meno utili per l’interpretazione dell’ode oraziana sono le sentenze di Epicuro (341-271 a.C.) e di Filodemo di Gadara (110-35 a.C.), presso la cui scuola epicurea in Campania è supposizione non provata che Orazio compisse il suo noviziato filosofico:

Nasciamo una sola volta, due volte non è concesso: in eterno non saremo più. Tu, pur non essendo padrone del domani, rimandi al domani la gioia: la via si spreca così nell’indugio e ciascuno di noi muore senza aver goduto del riposo.

Epic., Sentenze capitali, 14

Il motivo dell’effimero dell’esistenza ritorna insistente nell’epigramma ellenistico e bizantino, costituendo un tópos (il “luogo” del carpe diem, appunto) di grande vitalità letteraria.
Ecco un esempio di Pallada, poeta di epigrammi del IV secolo d.C.:

Questa vita, soltanto questa: vivere è godere. Via, o preoccupazioni!
Gli uomini hanno vita breve. Qui Lieo,
qui danze, corone di fiori, qui donne;
oggi è una buona giornata: il domani a nessuno è noto.

Anth. Pal. V 72

Il breve sondaggio, pur non avendo individuato con certezza il modello privilegiato dell’ode oraziana, ha circoscritto il campo dei possibili archetipi letterari, fornendoci alcune indicazioni: Orazio, innanzitutto, non definì la gnome libera da legami di tradizione, bensì riattualizzando un motivo famoso nella lirica e nella tragedia greca; la sostanza concettuale dell’ode, da cui germinano le immagini che la compongono, è già nei brani greci pertinenti al “Discorso ad Admeto”; quest’ultimo ha ascendenze arcaiche nell’ambito della poesia gnomica (a partire da Esiodo); esisteva un paroínon di Prassilla in asclepiadei maggiori (come appunto l’ode I 11) che esponeva la stessa tematica gnomica conservata in Euripide e in Bacchilide.
Tenendo conto del fatto che Orazio, quando volle riprendere in termini di æmulatio un qualche componimento della lirica greca, oltre al motto iniziale, era solito mantenere la tessitura ritmica (procedimento messo in rilievo da Norden e da Pasquali) nell’illusione di conservare gli animi del modello pur mutandone le res, e che l’ode I 11 è in asclepiadei maggiori ed è probabilmente un paraínon (Pascoli credette di poter riferire la scena a un «convito intimo», il Carducci ad un «simposio invernale per il natalizio di Orazio e Leuconoe») proprio come la distichia di Prassilla, si possono avanzare due ipotesi: il paraínon prassileo di cui ci sono rimasti due versi è il modello di Orazio; oppure, Orazio aveva sott’occhio un componimento ellenistico in distichie di asclepiadei maggiori, che forse meglio del paroínon di Prassilla intrecciava gli elementi diversi concorrenti alla totalità dell’Admḗtou lógos.

Mosaico con allegoria della Fortuna («Memento mori»). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Mosaico con allegoria della Fortuna («Memento mori»). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Bibliografia:

Bachelard G., La poétique de l’espace, Paris 1958.
Bonaparte M., Eros, Thanatos, Chronos, Rimini 1973.
Citti F., Hor. «Ars» 172, e della speranza in Orazio, «Orpheus» 1992, pp. 261¬-277.
D’Anna G., Ancora sul motivo oraziano del «carpe diem», «Atti e Mem. Arcadia» 1979, pp. 103-115.
Del Grande C., Orazio, ode XI del libro primo, «Atene e Roma», 1971, n. XXV.
Deschamps L., Il tempo in Orazio, ossia dal tempo perduto al tempo ritrovato, «Orpheus» 1983, pp. 195-214.
Diano C., Orazio e l’epicureismo, in Saggezza e poetiche degli antichi, Vicenza 1968, p. 17.
Perret J., Horace, Paris 1907.
Pesce D., Introduzione a Epicuro, Bari 1980.
Rist J.M., Introduzione a Epicuro, Milano 1972.
Traina A., Semantica del carpe diem, «Riv. Filol. Class.» 1973, pp. 5-21.
Traina A., Introduzione a Q. Orazio Flacco, Odi e Epodi, Milano 1985.

Edizione dei testi:

Bacchylides. The Poems and Fragments, Cambridge 1905.
Edmonds J.M., Elegy and Iambus, Cambridge, 1931.
Kovacs D., Euripides. The Loeb Classical Library Euripides. Vol. 1 – Cyclops, Alcestis, Medea, Harvard University Press 1994.
Lobel E. – Page D., Poetarum Lesbiorum fragmenta, Oxford 1955.
Paton W.R., The Greek Anthology, London 1916.
Shorey P. – Laing G.J., Horace. Odes and Epodes, Chicago 1919.

cit. F. Piazzi – A. Giordano Rampioni, Multa per æquora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, Vol. II – Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004.
cit. F. Ferrari, La porta dei canti. Storia e antologia della lirica greca, Bologna 2000.
cit. I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca. Vol. I – Dalle origini al V secolo a.C., Messina-Firenze 2004.

Rose sulle monete

Oncia in bronzo da Paestum (Lucania), 264-241 a.C. ca. Bronzo – g 7,37; mm 19; h 9. Recto – Testa laureata e barbata di Nettuno; Verso – Nettuno che cavalca un delfino e impugna il tridente, con Nike che gli corona il capo. SNG Copenhagen.
Oncia in bronzo da Paestum (Lucania), 264-241 a.C. ca. Bronzo – g 7,37; mm 19; h 9. Recto – Testa laureata e barbata di Nettuno; Verso – Nettuno che cavalca un delfino e impugna il tridente, con Nike che gli corona il capo. SNG Copenhagen.

Per Marziale, vissuto a Roma nel I sec. d.C., le rose di Paestum sono quasi proverbiali: in uno dei suoi epigrammi, nell’elencare le qualità che vorrebbe trovare in un giovane schiavo, il poeta dice: «che i suoi occhi rivaleggino con lo scintillio delle stelle… che le sue labbra rosse sfidino le rose di Paestum»; e in un altro, a proposito di una fanciulla: «più bella delle perle dei mari d’Oriente… della neve vergine, del giglio immacolato… il cui alito aveva il profumo di un roseto di Paestum…». Ma cercheremo invano immagini dei fiori profumati sulle monete di Paestum: è Poseidone, la divinità dalla quale Poseidonia (Paestum) prese il nome, raffigurato sulle emissioni arcaiche e classiche, tra la fine del VI e il V sec. a.C., secondo un’abitudine attestata presso le póleis. Come Poseidone a Poseidonia, troviamo la testa di Atena e la civetta, animale sacro alla dea, sulle monete di Atene, o il Minotauro e il labirinto sulle monete della cretese Cnosso.
La volontà di autorappresentarsi sulle monete è particolarmente evidente nei casi in cui le póleis greche appongono dei tipi “parlanti”: pronunciando la parola che indica il tipo che compare sulla moneta, si evoca il nome della città. Esempi sono quelli di Focea in Asia Minore, che adotta come tipo monetario la foca (phokḗ); Selinunte in Sicilia, che ha come tipo la foglia di sedano (selínon); Melos nelle Cicladi che ha la mela (mḗlos). Fra i tipi “parlanti”, c’è quello di Rodi, le cui monete avranno, dalla fine del V sec. a.C. e per tutta l’età ellenistica, al dritto, la testa di Helios e, al rovescio, una rosa (rhódon). Il fiore è reso talvolta in maniera così naturalistica, da riprodurre le piccole spine delle foglie alla base del bocciolo schiuso (riconoscibile quindi nella varietà “rosa canina”). Più tardi, la rosa verrà raffigurata dall’alto, completamente sbocciata, e rimarrà simbolo di Rodi anche quando, con Alessandro, la monetazione del mondo greco verrà unificata.
Nella stessa Macedonia la rosa era associata al racconto mitico dell’origine della dinastia macedone. La leggenda, narrata da Erodoto, racconta che tre fratelli, Aeropo, Gavane e Perdicca, cacciati da Argo, dopo aver servito un sovrano locale, inseguiti dalle sue guardie si stabilirono in una parte della Macedonia vicina ai «giardini di Mida», dove crescevano «rose ciascuna con sessanta petali e dal profumo insuperabile». Di lì il più giovane, Perdicca, partì per fondare il regno di Macedonia. Le rose dai sessanta petali dei giardini di Mida sono poi diventate «dai cento petali» nel trattato di Teofrasto sulle piante, dove si dice che crescevano nei dintorni di Filippi e sul Pangeo, il massiccio della Grecia settentrionale famoso per i metalli preziosi. Così alcune delle città della regione scelsero di utilizzare quale tipo monetale la rosa, come nel caso di Tragilos, che sorgeva non lontano da Filippi ai piedi del Pangeo. In altre monete coniate nella stessa area, un motivo floreale che compare come simbolo accanto al tipo principale è stato identificato con la rosa del Pangeo: è il caso delle monete, battute all’inizio del V sec. a.C., delle locali tribù dei Derroni e dei Migdoni.

Tetradramma in argento, da Rodi. 404-385 a.C. ca. Argento – 22 mm, 14, 98 g, 12 h. Recto – Testa di Elio (il sole); Verso – una rosa vista di profilo.
Tetradramma in argento, da Rodi. 404-385 a.C. ca. Argento – 22 mm, 14, 98 g, 12 h. Recto – Testa di Elio (il sole); Verso – una rosa vista di profilo.

Cit. art. di A. Polosa, in Archeologia Viva – Bimestrale, Anno XXXII – n.160 – Luglio/Agosto 2013, pp. 20-21.

Brescia: una vita nuova per il Capitolium

F. Morandini, in Archeologia Viva – Bimestrale, Anno XXXII – n.160 – Luglio/Agosto 2013, pp. 68-71.

Non capita spesso di entrare all’interno di un Capitolium del I secolo d.C., ammirarne i policromi pavimenti in opus sectile, con parte degli arredi originali, statue di culto comprese. Accade a Brescia, in un’area, in pieno centro storico, che ancora conserva una sequenza ininterrotta di edifici di culto a partire dal II secolo a.C., a pochi metri di distanza dal complesso monumentale di Santa Giulia, sede del Museo della Città. Un luogo già iscritto nella Lista del Patrimonio mondiale. Grazie a una particolare situazione conservativa e a efficaci interventi di valorizzazione, questo è diventato possibile a partire dalla scorsa primavera.

Cella sinistra del tempio repubblicano con decorazione parietale ad affresco. II-I sec. a.C. Brescia, area del Foro romano
Cella sinistra del tempio repubblicano con decorazione parietale ad affresco. II-I sec. a.C. Brescia, area del Foro romano.

In età romana Brixia era una delle città più importanti dell’Italia settentrionale, lungo la cosiddetta via Gallica (arteria che collegava alcuni tra i più significativi centri d’origine celtica a nord del Po), allo sbocco di vallate alpine di antico insediamento (la valle Camonica e la valle Trompia), tra il lago d’Iseo e il lago di Garda, e immediatamente a nord di una fertile ed estesa area di pianura, valorizzata a partire dal I secolo a.C. con imponenti lavori di organizzazione agraria (centuriazioni). Dal 1998, nell’area archeologica ai piedi del colle Cidneo (l’altura storica della città), Comune di Brescia e Soprintendenza per i Beni archeologici della Lombardia hanno avviato un progetto di recupero (a cura di F. Rossi, F. Morandini, P. Faroni) per la completa e definitiva apertura del sito del Capitolium. Proprio intorno al Capitolium ha avuto inizio la storia dell’archeologia bresciana, esattamente nel 1822, quando, a seguito di un invito ufficiale da parte della Congregazione Municipale, l’Ateneo di Scienze Lettere e Arti si fece promotore della riscoperta della città romana. Scavando intorno a un capitello di pietra bianca che emergeva dal giardino di un palazzo, progressivamente vennero in luce i resti dell’antico tempio della Triade Capitolina (Giove, Giunone, Minerva) e numerosi reperti appartenenti allo stesso edificio di culto e alle epoche successive al suo abbandono. Gli scavi culminarono nel luglio del 1826 con la scoperta, del tutto inattesa, di un deposito di grandi bronzi di cui faceva parte anche la celebre vittoria alata (metà I sec. d.C.) ora esposta al Museo della Città e divenuta simbolo dell’opulenza della Brixia antica.

Vista l’importanza di quanto era emerso dalla felicissima campagna d’indagini, i membri dell’Ateneo e l’Amministrazione comunale decisero di allestire nelle celle del tempio, appositamente restaurate e integrate soprattutto negli alzati, il Museo Patrio, primo museo cittadino, inaugurato nel 1830. Inoltre, durante il Ventennio fascista, in risposta alle sollecitazioni che arrivavano da Roma per le celebrazioni augustee (nel 1937 ricorrevano duemila anni dalla nascita del primo imperatore), venne parzialmente ricostruito il pronao del Capitolium, innalzando le colonne con i frammenti superstiti e ricollocando una porzione del frontone con l’iscrizione che menziona l’imperatore Vespasiano. Nel 1998, con l’apertura del Museo della Città all’interno dell’ex monastero benedettino di Santa Giulia, e il trasferimento della maggior parte dei reperti nei percorsi di visita lì realizzati, intorno al Capitolium è iniziata una nuova stagione di studi e di scoperte.

Tempio di Giove Cidneo (Capitolium), a Brescia.  Sul frontone la dedica di Vespasiano, 73 d.C.: [Imp(erator) Caes(ar) Ves]pasianus A[u]gust[us] / [pont(ifex) max(imus) tr(ibunicia) pote]st(ate) IV imp(erator) X p(ater) p(atriae) co(n)s(ul) I[II]I censor (CIL V 4312 = Inscr.It. X, 5, 88 = AE 2012, 592 = AE 2013, 110).
Tempio di Giove Cidneo (Capitolium), a Brescia. Sul frontone la dedica di Vespasiano, 73 d.C.: [Imp(erator) Caes(ar) Ves]pasianus A[u]gust[us] / [pont(ifex) max(imus) tr(ibunicia) pote]st(ate) IV imp(erator) X p(ater) p(atriae) co(n)s(ul) I[II]I censor (CIL V 4312 = Inscr.It. X, 5, 88 = AE 2012, 592 = AE 2013, 110).
Ora l’antico edificio, per la prima volta dalla sua scoperta, non si presenta come un museo, ma ha finalmente recuperato la sua identità primigenia di luogo di culto. L’atmosfera sacrale delle tre ampie aule del Capitolium è stata recuperata grazie a un intervento architettonico che ha introdotto tre monumentali portali di bronzo, necessari anche per ragioni conservative, e una suggestiva illuminazione. Una narrazione immersiva, a cura di StudioAzzurro, costituita da voci, immagini e suoni, accoglie i visitatori nell’aula orientale e li accompagna in un emozionante viaggio nel tempo; un plastico modellato da disegni, iconografia storica, ricostruzioni, mappe, cambia aspetto e segue il racconto mentre una suggestiva atmosfera notturna favorisce la messa in scena di un rituale di culto alla divinità, momento chiave per comprendere le funzioni antiche del tempio.

Nell’aula centrale, quella che era dedicata a Giove, è visibile il podio della grande statua oggetto dell’antica devozione, che doveva essere alta circa quattro metri e settanta. Sui pavimenti in marmi policromi sapientemente disposti a formare ricercati motivi geometrici, ancora in buona parte originali e risalenti al I sec. d.C., risaltano tre altari in pietra di Botticino (le cave sono vicine a Brescia) scolpiti a rilievo con la riproduzione di ghirlande vegetali e prezioso vasellame utilizzato da sacerdoti e fedeli. Le pareti, ricostruite nell’Ottocento per ospitare il Museo Patrio, ospitano il racconto della storia di Brescia romana, affidato alla “voce” delle epigrafi monumentali, distinte in categorie, perché i visitatori possano leggerle e conoscere i loro predecessori. Le epigrafi forniscono uno spaccato delle divinità venerate a Brixia e nel suo territorio (quali Minerva, Mercurio, Giove, Giunone, Ercole, Apollo e Vittoria, affiancati da altri dèi di origine celtica, a testimonianza del lontano passato gallico della città), degli imperatori menzionati in dediche e monumenti, come Druso, Germanico, Claudio, Antonino Pio, Marco Aurelio, Aureliano, Settimio Severo e Vespasiano (un’iscrizione ricorda la costruzione dell’acquedotto a opera di Tiberio e Germanico), e, infine, della stessa società bresciana, attraverso le epigrafi sui monumenti funerari. Nell’aula occidentale, sede in antico della statua di culto di Giunone o di Minerva, che con Giove costituivano la Triade Capitolina, apice del pantheon romano, sono proposte le teste di tre sculture raffiguranti divinità, in origine presenti nel tempio: due di Minerva e una del dio silvestre Sileno. I marmi policromi del pavimento, disposti a scalare con effetto di grande resa, sono pressoché integri e costituiscono una delle superfici in opus sectile meglio conservate.

Vittoria Alata. Statua, bronzo, I sec. d.C. da un'intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. Giulia
Vittoria Alata. Statua, bronzo, I sec. d.C. da un’intercapedine del Capitolium. Brescia, Museo di S. 
Giosuè Carducci la cantò in una delle sue “Odi barbare” (Alla Vittoria):
«Lieta del fato Brescia raccolsemi, / Brescia la forte, Brescia la ferrea, / Brescia lëonessa d’Italia / beverata nel sangue nemico».

L’apertura del Capitolium dell’antica Brixia è il primo “assaggio” di quello che sarà un percorso più ampio. La sistemazione dello scavo ancora aperto nell’area antistante la scalinata del tempio costituirà la seconda tappa di questo affascinante percorso, per poi proseguire con l’edificio più straordinario di tutta l’area: il santuario di età repubblicana (secondo quarto I sec. a.C.). è un monumento conservato in modo sorprendente nel quale sopravvivono gli affreschi delle pareti, i pavimenti a mosaico e alcuni arredi cultuali, caso unico in tutta l’Italia settentrionale.

L’Eau de rose a Paestum

in Archeologia Viva – Bimestrale, Anno XXXII – n.160 – Luglio/Agosto 2013.

Jean-Pierre Brun, Profumieri nel Foro di Paestum
Che la Campania fosse diventata durante l’Impero romano, la regione dominante per la produzione di profumi, lo sapevamo da Plinio che scrive: questa regione «produce più profumi di quanto le altre producano olio». Plinio ne ricorda le ragioni: nell’area si ritrovano concentrati un eccellente olio d’oliva – l’oliva di Venafro – e rose di campo che fiorivano due volte all’anno. E, in aggiunta, una lunga tradizione di fabbricazione, risalente all’età etrusca, la presenza di mercanti che importavano spezie dall’Arabia e dall’India e, infine, schiavi orientali o liberti esperti nel fissare gli odori sull’olio. Oggi l’archeologia è in grado di mostrare i luoghi stessi di questa produzione, negli scavi di Pompei, di Ercolano e di Paestum. In particolare Paestum ci ha conservato una profumeria edificata al momento della creazione del foro, dopo la fondazione della colonia romana nel 273 a.C., e nella quale, in età flavia o all’inizio del II secolo d.C., viene impiantato un torchio con base di pietra. La bottega così allestita fu utilizzata nel II e probabilmente nel III secolo d.C.

La preparazione dei profumi presso gli antichi Egizi.
La preparazione dei profumi presso gli antichi Egizi.

I profumi erano diversi dai nostri perché utilizzavano sempre una base oleosa, spesso olio d’oliva, sulla quale si fissavano gli odori. La base era fondamentale e doveva essere preparata con gran cura. Sei erano le principali categorie di oli adottate: ben (Balanites Aegyptica), olive selvatiche o verdi, datteri adipsos (forse la palma dum), papavero, sesamo e mandorle. Per lungo tempo l’olio venne estratto da questi frutti e semi spremendone la pasta anche tramite sacchetti di tela che venivano torti come si torce un bucato, come mostrano alcuni dipinti egizi. Probabilmente era questo il tipo di strumento utilizzato nelle botteghe di Paestum tra il III secolo a.C. e il momento dell’istallazione del torchio a base di pietra. Appunto durante la seconda metà del I secolo d.C. entrarono in funzione i torchi a vite centrale: su entrambi i lati della base del torchio erano gli alloggiamenti per fissare due pali di legno collegati tra loro da una trave che passava sotto la pietra. Nella parte superiore della struttura, i due montanti erano collegati da una trave nella quale era inserita la vite.
Si realizzavano soprattutto oli profumati facendo macerare gli aromi e i petali di fiori in un bagno d’olio e d’acqua, oppure si riscaldavano insieme a bagnomaria. In Campania, famosa per il suo rhodinon italikon, essenziale era la rosa. La rilevanza della produzione di corone e di profumi motivava lo sviluppo straordinario delle coltivazioni di rose attorno a Paestum.

Affresco dalla Casa dei Vettii a Pompei. La bottega dei profumiere, I secolo d.C.
Affresco dalla Casa dei Vettii a Pompei. La bottega dei profumiere, I secolo d.C.

Adele Campanelli, A Paestum ‘in nome della rosa’
I roseti di Paestum erano famosi e sono rimasti famosi anche quando non esistevano più. Ecco ora la nuova piantumazione di rose nell’area archeologica dei templi, fatta in collaborazione con il Parco del Cilento. La bellezza della rosa e il suo profumo sono immediatamente connessi alla bellezza femminile che gli artisti classici hanno fissato nelle armoniose forme di Venere e nel vasto campo di simboli che legano a Venere alla nascita; anche il sorgere del giorno è associato, in alcune metafore letterarie, al manifestarsi di Venere in un giardino profumato di rose. Il mito narra come l’uso degli unguenti profumati rendesse la dea potentissima, dal momento che la sua arma evanescente e inafferrabile, penetrando attraverso qualsiasi difesa, arriva direttamente al cuore. Nell’antica Grecia l’importanza degli aromi nel rapporto amoroso è documentato dalle Adonie, la festa in cui si piangeva l’amante di Afrodite.
Il segreto della produzione di rose e il suo successo nel mondo antico sono stati rivelati da scavi e ricerche, che proprio a Paestum hanno evidenziato una bottega di profumiere. Appena fuori delle mura, un edificio sacro in località Santa Venera documenta – anche attraverso la persistenza del toponimo – un luogo di culto dedicato alla dea dell’eros. La vicinanza del mare, che lambiva il lato occidentale delle mura, suggerisce che la divinità era inizialmente l’Afrodite Ericina al cui culto sarebbero da riferire spazi e oggetti relativi alla pratica della prostituzione sacra. A questa combinazione di argomenti s’ispira la mostra “Rosantico”, inaugurata al Museo Archeologico di Paestum in concomitanza con la fioritura del roseto all’ingresso del parco archeologico.
Nella religione romana Venere è soprattutto la forza del desiderio carnale cui alcuni hanno voluto riferire anche l’oscura origine del nome di Afrodite, secondo i Greci derivato dal termine aphrós, che indica la schiuma del mare. Il mito esiodeo della nascita della dea dalle onde, nelle quali era stato scagliato il membro di Urano, collega Afrodite all’atto sessuale, definendo sin dall’inizio l’ambito del suo dominio. Una riflessione sul disusato termine “afrore”, che indica anche l’odore acre del corpo umano sudato, ci riporta all’ambiguità olfattiva cui si riferiscono recenti studi sul profumo, riportata a comportamenti tra i più antichi della specie umana da sempre interessata alla riproduzione della specie.
Il nome latino di Venere, Venus, è un neutro che indica la «forza amorosa», da cui deriva anche l’appellativo del filtro amoroso, il venenum. Venus rivela significati simili anche nella somiglianza della radice a quella del vino (che accende il desiderio). Sembra confermarlo l’epiteto osco della dea nota come Herentas, riferito dagli studiosi al verbo herio, «desiderio». Alcune ricette afrodisiache di vino mescolato a rose e al mirto potrebbero chiarire altri aspetti simbolici sulla pertinenza delle due piante alla sacralità di Venere.
L’abitudine a festeggiare Venere con infiorate, di cui ancora rimane la tradizione in molti centri dell’Italia centromeridionale, non era l’unica occasione nella quale era fondamentale una grande disponibilità di fiori: la produzione di fiori, e rose in particolare, era necessaria per corone e addobbi, ma anche nella medicina, nella cosmesi, nell’arte della profumeria, nella culinaria. La coltivazione e il commercio dei fiori alimentò i traffici e produzioni ceramiche che ebbero una grande diffusione in tutto il mondo antico, tracciando con le loro presenze una mappa distributiva che si estende da Cipro alla penisola arabica, dall’Egitto alla Campania, dalla Spagna alla Macedonia, da Cirene alla Caria. La fama che le fonti letterarie attribuiscono alla produzione di profumi in Campania è confermata dal ritrovamento di numerosissimi esemplari di porta-profumi e di edifici utilizzati per questo scopo a Capua, a Pozzuoli, a Pompei ed Ercolano e anche a Paestum.