«Orazio si ricollega a una famiglia di spiriti per i quali il luogo autentico dell’uomo non è la continuità di una durata, con le illusioni inerenti alla memoria e al progetto, ma la singolarità degli istanti dove la nostra libertà affronta il mondo». A. Traina considera, in un saggio assai fine (Introduzione a Q. Orazio Flacco, Odi e Epodi, Rizzoli, Milano 1985), questa riflessione di J. Perret (Horace, Paris 1907, p.122) come una perifrasi del celebre motivo del carpe diem, così celebre da aver acquisito la vita autonoma della citazione. Il motivo ricorre in tutta l’opera di Orazio in una ricca gamma di variazioni sinonimiche, ma in quest’ode è espresso con così essenziale icasticità da divenire proverbiale. La iunctura, davvero callida, «ha dato un conio nuovo alla saggezza di sempre … Carpo è il più nuovo e il più espressivo, dicendosi di un movimento lacerante e progressivo tra le parti e il tutto, come sfogliare una margherita o piluccare un grappolo d’uva. Il tutto è l’ætas, il tempo maligno (invida) visto nella continuità della sua fuga: la parte è il dies, l’oggi, da spiccare giorno per giorno senza contare sul domani» (Traina). La traduzione letterale è impossibile. Ma il concetto è quello di un poeta persiano (che ha più di un’affinità con Orazio), ‘Omar Khayyām: «Passa la vita, misteriosa carovana: rubale il suo attimo di gioia!» (trad. Gottardi), o di un romanziere contemporaneo, V. Saltini: «Come strappare un po’ di gioia a questo tempo che fugge?».

Il carpe diem appare poi, qui come altrove nell’opera oraziana, connesso col divieto: non pensare al domani. Un domani che per Orazio è incertezza d’ogni cosa, tranne che della morte. E il pensiero della morte, inscindibile da quello del tempo che fugge, egli cerca di rimuovere, contraendosi nel breve giro dell’oggi: «Un oggi cui s’oppone un futuro non sperato ma temuto, una fuga dal domani, che sull’oggi getta un’ombra di morte». «Da esse Orazio si difende contraendosi nel breve giro dell’oggi. Dies, occasio, hora, præsens, quod adest sono tutti sinonimi della puntualità dell’istante, in cui Orazio tenta di neutralizzare la fuga dell’ætas» (Traina). Perché «vivere il tempo, vuol dire morirne» (M. Bonaparte). In Orazio il polo opposto al presente è il futuro: un futuro non sperato ma temuto, una fuga dal domani, che sull’oggi getta un’ombra di morte. Di qui il monito del carme IV 7, 7 ss.: «Non attenderti l’immortalità, te lo ripete la stagione che rapisce (rapit) i giorni della nostra vita». Conclude Traina: «Fra queste due rapine, quella che il tempo fa all’uomo e quella che l’uomo tenta di fare al tempo, si tende la drammatica temporalità di Orazio». Una temporalità che ha poi, come suo corrispettivo spaziale, l’angulus, che assicura l’immobilità nello spazio. «Alla chiusura del tempo risponde la chiusura protettiva dello spazio», nell’angosciosa ricerca di una doppia immobilità, spaziale e temporale, cioè nel vano tentativo di sfuggire alla morte.
Quanto alla dibattuta questione delle ascendenze filosofiche dell’ode, certo da Epicuro proviene il rifiuto dell’astrologia, come dimostrano i frammenti seguenti, di scuola epicurea: «Epicurea è la dottrina che distrugge la divinazione: se la necessità domina su tutto, tu soffri prima del tempo, se predici una sventura. Invece ti privi della gioia, se predici una cosa piacevole» (fr. 212 Arr.). E ancora: «La divinazione non ha alcun fondamento, e anche se l’avesse, si deve convenire che gli eventi non dipendono da noi» (fr. 5 Arr.). Ma la topica dell’invito a godere del presente senza pensare al domani è spesso oggetto di momenti parenetici della lirica greca e non è riconducibile a una scuola di pensiero definita. Certo, anche in Epicuro l’invito al piacere era unito alla consapevolezza amara che quel piacere stesso è caduco, e che di fronte all’incalzare del tempo e della morte non resta che fabbricarsi il solido riparo dei beni già fruiti, della felicità già goduta (Conte). Ma forse, nell’esortazione a Leuconoe, è poco epicureo proprio «quel senso di morte di cui ogni pausa si riempie» (C. Diano).
È invece fuori discussione il fascino dell’ode, in cui la gnome antica è espressa con limpidezza suprema, con liricità ad un tempo intensa e misurata, in uno stile sobrio che non disdegna i moduli del parlato, come la spezzatura del discorso in brevi membri semanticamente forti, isolati dal coriambo (scire nefas, Leuconoe, vina liques, carpe diem, ecc.).
Hor., Carm. I 11
Tu ne quæsieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati.
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quæ nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
ætas: carpe diem quam minimum credula postero.Tu non cercare, non è dato saperlo, quando il mio, quando il tuo
termine ultimo gli dei hanno fissato, o Leuconoe, e non tentare
i calcoli Babilonesi. Quant’è meglio sopportare tutto ciò che
accadrà, qual che sia. Gli altri inverni che Giove donerà o se è
l’ultimo, questo che stanca il mare etrusco e gli scogli di pomice
leggera: sii saggia, filtra i vini e poiché il tempo è breve,
riduci la lunga speranza. Mentre ci parliamo, sarà già fuggito
il tempo invidioso: cogli l’attimo il meno possibile fiduciosa nel domani.
Ci chiediamo se l’ode I 11 semplicemente riecheggi una topica che al tempo di Augusto era publica materies o se rimandi a precisi modelli letterari. Accertarlo è importante per la decifrazione critica di una poesia “alessandrina” come quella oraziana: poesia colta, per destinatari colti la cui collimazione culturale con l’emittente era scontata, arte allusiva che richiedeva di continuo nel fruitore la capacità di risalire ai brevia semina dell’originale emulato, elaborato, dilatato.
Secondo un’ipotesi di Carlo Del Grande (in Orazio, ode XI del libro primo, «Atene e Roma», 1971, n. XXV), una fonte possibile è un passo dell’Alcesti di Euripide (485-407/6 a.C.). Admeto, re di Tessaglia, deve morire giovane, ma gli dèi concedono che la moglie Alcesti muoia in sua vece. Eracle così consola un servo di Alcesti, affranto per la morte della padrona.
…Vieni qui che ti insegno. Sai qual è la natura delle cose umane? Penso di no: come faresti a saperlo? Ascoltami: tutti i mortali devono morire, e nessuno di loro sa se vivrà il giorno di domani: è oscuro il cammino della sorte, non si può apprendere e non si afferra con l’arte. Ora che hai appreso questo, divertiti, bevi, pensa che a te appartiene la vita giorno per giorno: il resto è della sorte. E onora anche Afrodite, la dea più dolce per gli uomini: è una dea benigna…
Eur., Alc. 783 ss. (trad. it. di G. Paduano)

Nelle Vespe di Aristofane (450-385 a.C.), quando il giovane Bdelicleone esamina il padre Filocleone per saggiare se possa condurlo a un simposio di persone a modo, pronuncia un asclepiadeo maggiore (v. 1229) e chiede al genitore come lo commenterebbe. Al verso citato lo scoliaste al passo ne aggiunge un secondo, avvertendo che quei versi, da qualcuno attribuiti ad Alceo o a Saffo, appartenevano in realtà ad un canto conviviale di Prassilla, poetessa del V secolo a.C. Ecco la distichia:
O compagno, facendo tesoro del discorso fatto ad Admeto, ama i valorosi e sta’ lontano dai vili, sapendo bene che i vili hanno scarsa grazia.
Quale fosse questo Admḗtou lógos (“discorso rivolto ad Admeto”) ce lo dice Bacchilide (516-451 a.C.) nel terzo epinicio. Chi parla è Apollo, non più Eracle:
… Breve è la vita;
e tuttavia il pensiero degli uomini, creature di un giorno,
è una speranza alata; il signore Apollo
… disse al figlio di Ferete ( = Admeto):
«Chi è mortale deve aver presente un duplice
pensiero: o che verrà soltanto
per il domani la luce del sole,
o che potrà continuare per altri
cinquant’anni una vita resa facile dalla ricchezza.
Serba sereno l’animo agendo sanamente: perché questo,
infatti, è il massimo che guadagni».
Bacch., Ep. III 74-84
Il mito di Alcesti, cui l’Admḗtou lógos è legato (che a pronunciarlo sia Eracle o Apollo poco importa), risale attraverso il poeta tragico Frinico (VI-V sec. a.C.) fino ad Esiodo (VIII sec. a.C.), che nelle Eèe (una rassegna delle donne amate dagli dèi) ne ha dato la prima redazione nota.
La gnome di Euripide e di Bacchilide si può confrontare con qualche passo di Pindaro (518-438 a.C.):
Certo il termine di morte
degli uomini per nulla è discernibile,
né quando trascorreremo tranquillo, con il bene
che si consuma, un giorno, figlio del sole.
Pind., Olym. II 30-33

Il frammento che segue doveva costituire l’inizio di un lamento funebre (thrēnos) composto da Simonide (556-466 a.C.) in occasione del crollo del soffitto che travolse la famiglia degli Scopadi, in Tessaglia, presso i quali il poeta era ospite. Affiora qui il tema dell’imprevedibilità del futuro, che apparirà con frequenza nella tragedia attica e in Erodoto (I, 30). Ma la banalità del motivo (definito lógos archaîos in Sofocle, Trachinie 1) è riscattata dall’icastico, originale paragone con l’umile insetto. Il drammatico richiamo alla fragilità umana e alla tragica imponderabilità della sorte non era nuovo, poiché questo tema aveva già ispirato altri poeti, oltre a comparire in molte massime della sapienza delfica; tuttavia, nessuno si era mai espresso con una così efficace capacità di sintesi, né con un’immagine così nuova e potente. L’accenno al velocissimo scarto della mosca, talmente repentino che l’occhio quasi non riesce a coglierlo, sottolinea l’imprevedibile rapidità della metástasis, del «cambiamento» sempre in agguato, pronto a distruggere nell’uomo ogni illusione di stabilità e di durata, e conferisce a questi versi un doloroso fatalismo che richiama inesorabilmente l’uomo sotto all’effimera realtà del suo essere.
Tu che sei uomo non dire mai che cosa avverrà
domani né, vedendo un uomo fortunato, per quanto tempo (lo) sarà:
perché neppure il volo di una mosca
dalle ali distese (è) così rapido…
Simon., fr. 521 Page
L’elegia che segue s’impernia sull’opposizione giovinezza/vecchiaia, sul cui modello si articolano tutte le più specifiche antitesi e variazioni. Senonché in questo brano il timbro espressivo appare più decisamente accorato, tanto che il margine dell’idillio, l’evocazione delle gioie giovanili, quasi scompare. Non più quindi il chiaroscuro generato dalla giustapposizione di due quadri antitetici, ma una dolente meditazione in cui il dato positivo è già compenetrato in partenza dalla coscienza dei mali futuri. Qui abbondano schegge epiche, sapientemente riutilizzate attraverso scarti originali e spesso intrecciate a stilemi e vocaboli prediletti da Mimnermo (VII-VI sec. a.C.).
Noi, quali le foglie che genere la rigogliosa stagione
di primavera, quando d’un tratto crescono ai raggi del sole,
simili ad esse godiamo dei fiori di giovinezza per il tempo
di un cubito, non conoscendo la parte degli dèi né bene
né male; ma le scure Parche ci stanno accanto,
l’una tenendo il termine della dolorosa vecchiaia,
l’altra quello della morte; e dura un attimo il frutto
della giovinezza, per quanto (tempo) il sole si effonde sulla terra.
Ma quando sia trascorso questo termine dalla stagione,
morire subito è meglio che (continuare a) vivere;
infatti, molti mali nascono nell’animo: talora la casa
si consuma, e insorgono gli effetti penosi di povertà;
un altro invece sente la mancanza di figli, sommamente
rimpiangendo i quali scende sotto terra all’Ade;
un altro ha un morbo che gli tormenta l’animo; e non c’è
alcuno fra gli uomini a cui Zeus non infligge molti mali.
Mimn., fr. 2 West
Qui sembra di cogliere, al di là del consueto reimpiego di un patrimonio espressivo sentito come tradizionale, l’aggancio a un determinato passo omerico secondo una tecnica di intenzionale bricolage: si tratta del preambolo della replica di Glauco a Diomede in Iliade VI, 145-149:
Titide magnanimo, perché mi domandi la stirpe?
Come stirpi di foglie, così le stirpi degli uomini;
le foglie, alcune ne getta il vento a terra, altre la selva
fiorente le nutre al tempo di primavera;
così le stirpi degli uomini: nasce una, l’altra dilegua.
(trad. it. di R. Calzecchi Onesti)

Spesso nella poesia greca la riflessione sulla fugacità del vivere è associata all’invito a bere, come in questi canti conviviali di Alceo (640/30-560 a.C.); nel primo, con un attacco caratteristico della sua poesia metasimposiale, Alceo esorta Melanippide, un compagno di eteria, a bere insieme con lui, forse per scordare le sofferenze presenti. La morte è comunque inevitabile, come illustra l’autorità mitica di Sisifo, che grazie alle sue astuzie varcò per due volte il vorticoso Acheronte. L’ode sembra esprimere un timbro consolatorio, scandito da un’inconsueta presenza di riprese interne e articolato secondo la composizione anulare (Ringkomposition). L’esemplarità della vicenda di Sisifo è inserita fra le esortazioni a non aspirare a cose troppo grandi e a non pensare alla morte finché dura la giovinezza. Più che Mimnermo, l’invito all’oblio del dolore ricorda il riconoscimento archilocheo (fr. 128) del flusso che regola l’esistenza degli uomini. E la fitta trama di omerismi, favoriti dal ritmo dattilico, conferisce spessore e prestigio allo sviluppo delle riflessioni e delle apostrofi.
Bevi, o Melanippo, insieme con me,
che una volta varcato il vorticoso
Acheronte avendo attraversato grande , di nuovo
potrai vedere la luce pura del sole? Ma suvvia, non
a cose troppo grandi; e infatti Sisifo, sovrano, figlio di Eolo,
che era il più accorto fra gli uomini, di…
ma pur essendo molto astuto varcò per due volte
soggiacendo al destino di morte il vorticoso Acheronte:
il sovrano, figlio di Crono gli di avere una
pena sotto la scura terra. Ma suvvia, non…
finché siamo giovani se mai anche un’altra volta…
le sventure che
di soffrire… il vento di tramontana.
Alc., fr. 38a Voigt
Nel secondo componimento – diversamente che nel precedente – il tono, senza raggiungere l’asprezza del fr. 332, appare tutt’altro che riflessivo o didattico: il frammento è scandito da una serie di imperativi impazienti, che traducono il perentorio invito a bere prima dell’ora consueta, con un dosaggio ben forte di vino:
Beviamo! Perché aspettiamo le lucerne? Un dito è il giorno;
tira giù, ragazzo, le grandi coppe decorate.
Infatti, il figlio di Semele e di Zeus donò agli uomini il vino
come oblio degli affanni. Versa mescolando una e due misure,
le coppe colme fino all’orlo, e l’una coppa spinga via l’altra.
Alc., fr. 346 Voigt

Meno utili per l’interpretazione dell’ode oraziana sono le sentenze di Epicuro (341-271 a.C.) e di Filodemo di Gadara (110-35 a.C.), presso la cui scuola epicurea in Campania è supposizione non provata che Orazio compisse il suo noviziato filosofico:
Nasciamo una sola volta, due volte non è concesso: in eterno non saremo più. Tu, pur non essendo padrone del domani, rimandi al domani la gioia: la via si spreca così nell’indugio e ciascuno di noi muore senza aver goduto del riposo.
Epic., Sentenze capitali, 14
Il motivo dell’effimero dell’esistenza ritorna insistente nell’epigramma ellenistico e bizantino, costituendo un tópos (il “luogo” del carpe diem, appunto) di grande vitalità letteraria.
Ecco un esempio di Pallada, poeta di epigrammi del IV secolo d.C.:
Questa vita, soltanto questa: vivere è godere. Via, o preoccupazioni!
Gli uomini hanno vita breve. Qui Lieo,
qui danze, corone di fiori, qui donne;
oggi è una buona giornata: il domani a nessuno è noto.
Anth. Pal. V 72
Il breve sondaggio, pur non avendo individuato con certezza il modello privilegiato dell’ode oraziana, ha circoscritto il campo dei possibili archetipi letterari, fornendoci alcune indicazioni: Orazio, innanzitutto, non definì la gnome libera da legami di tradizione, bensì riattualizzando un motivo famoso nella lirica e nella tragedia greca; la sostanza concettuale dell’ode, da cui germinano le immagini che la compongono, è già nei brani greci pertinenti al “Discorso ad Admeto”; quest’ultimo ha ascendenze arcaiche nell’ambito della poesia gnomica (a partire da Esiodo); esisteva un paroínon di Prassilla in asclepiadei maggiori (come appunto l’ode I 11) che esponeva la stessa tematica gnomica conservata in Euripide e in Bacchilide.
Tenendo conto del fatto che Orazio, quando volle riprendere in termini di æmulatio un qualche componimento della lirica greca, oltre al motto iniziale, era solito mantenere la tessitura ritmica (procedimento messo in rilievo da Norden e da Pasquali) nell’illusione di conservare gli animi del modello pur mutandone le res, e che l’ode I 11 è in asclepiadei maggiori ed è probabilmente un paraínon (Pascoli credette di poter riferire la scena a un «convito intimo», il Carducci ad un «simposio invernale per il natalizio di Orazio e Leuconoe») proprio come la distichia di Prassilla, si possono avanzare due ipotesi: il paraínon prassileo di cui ci sono rimasti due versi è il modello di Orazio; oppure, Orazio aveva sott’occhio un componimento ellenistico in distichie di asclepiadei maggiori, che forse meglio del paroínon di Prassilla intrecciava gli elementi diversi concorrenti alla totalità dell’Admḗtou lógos.

Bibliografia:
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Deschamps L., Il tempo in Orazio, ossia dal tempo perduto al tempo ritrovato, «Orpheus» 1983, pp. 195-214.
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Rist J.M., Introduzione a Epicuro, Milano 1972.
Traina A., Semantica del carpe diem, «Riv. Filol. Class.» 1973, pp. 5-21.
Traina A., Introduzione a Q. Orazio Flacco, Odi e Epodi, Milano 1985.
Edizione dei testi:
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Edmonds J.M., Elegy and Iambus, Cambridge, 1931.
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Shorey P. – Laing G.J., Horace. Odes and Epodes, Chicago 1919.
cit. F. Piazzi – A. Giordano Rampioni, Multa per æquora. Letteratura, antologia e autori della lingua latina, Vol. II – Augusto e la prima età imperiale, Bologna 2004.
cit. F. Ferrari, La porta dei canti. Storia e antologia della lirica greca, Bologna 2000.
cit. I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca. Vol. I – Dalle origini al V secolo a.C., Messina-Firenze 2004.
ecco bisognerebbe leggerlo diverse volte questo tuo scritto, per non dimenticare e imprimere nella testa certe verità, antiche come la notte dei tempi
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[…] perché non scivolino via) comunica un messaggio assai differente rispetto a quello contenuto nel carpe diem dell’Ode I 11 di Orazio. Il poeta, infatti, rifacendosi al pensiero sapienziale greco, esortava a […]
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