Il filosofo che volle educare il tiranno

di L. Canfora, Corriere della Sera, 29/11/12

Discendente dalla più antica e illustre nobiltà ateniese, Platone ha sentito sin dal principio l’attrazione della politica. Ha avuto la ventura di vivere una serie di esperienze straordinarie e traumatiche: i Trenta Tiranni – il cui capo era un suo congiunto – , la restaurazione democratica, la dispersione dei socratici, la grandezza e la miseria della tirannide siciliana, l’irretimento nelle beghe della corte siracusana, la delusione, il ritiro nella scuola. Ha idoleggiato una società comunistica e profondamente «interventista» nella vita di ogni singolo come unica via per la realizzazione non individualistica, ma collettiva del «sommo bene»; ma una tale società non ha saputo concepirla che come rigidamente castale e autoritaria; attratto, come già Crizia, da un modello che, per quanto gli appaia col tempo sempre più insoddisfacente, deludente e caduco, è pur sempre presente alla sua coscienza: quello della Sparta egualitaria, povera, virtuosa, delle leggi di Licurgo.

Platone (dettaglio), dalla 'Scuola di Atene' di Raffello Sanzio. Affresco, 1509-1510. Città del Vaticano, Stanza della Segnatura, Palazzi Apostolici.
Platone (dettaglio), dalla ‘Scuola di Atene’ di Raffello Sanzio. Affresco, 1509-1510. Città del Vaticano, Stanza della Segnatura, Palazzi Apostolici.

Assumendo i «tiranni» di Siracusa come interlocutori del suo esperimento di «monarchi-filosofi», Platone adotta un punto di vista che potremmo definire “hobbesiano”: quello della indistinguibilità tra monarca e tiranno (se non in ragione delle azioni compiute), e il rifiuto, per converso, della usuale loro distinzione basata sul giudizio soggettivo di sostenitori e avversari. (Non è inutile ricordare che proprio dalla considerazione della tirannide greca – e ateniese in particolare – Hobbes era per la prima volta approdato, nell’introduzione a Tucidide, 1629, a quella formulazione dell’inconsistenza del concetto di per sé negativo di «tirannide» che affiderà più tardi al De Cive).
Questo atteggiamento dovette essere comune anche ad altri socratici, e discende, forse, dall’atteggiamento radicalmente critico dello stesso Socrate – il quale non a caso restò in Atene durante il governo dei Trenta – nei confronti di tutte le forme politiche tradizionali.

John Michael Wright, Ritratto di Thomas Hobbes. London, National Portrait Gallery.
John Michael Wright, Ritratto di Thomas Hobbes. London, National Portrait Gallery.

Un socratico non trascurabile, quale Senofonte, svilupperà nello Ierone il tema della «infelicità» del tiranno. Ma Platone andrà oltre. Col suo esperimento siracusano, egli si è aperto, nella prassi, ad una empirica intesa con i tiranni. È stata una scelta di realismo politico che di solito resta in ombra, quando si parla di Platone, collocato, di norma, agli antipodi del realismo o addirittura della Realpolitik.
Non sarà forse mai del tutto esaustivo lo sforzo volto a scandagliare le molte facce di questo genere di scelte: il misto di fascinazione del potere (e della persona che eventualmente lo incarni); di illusione o ragionevole convinzione di riuscire ad incidere in dinamiche e meccanismi che, lasciati a se stessi, sarebbero, forse, di gran lunga peggiori; di certezza che una testimonianza resa fino alle estreme conseguenze può rendere frutti a distanza di tempo (a futura memoria); di fatalismo per non saper più «uscirne»; di effettiva commistione di comportamenti tra il politico e il filosofo, che si produce comunque, anche nel loro confliggere. E siamo certi che questa casistica è del tutto incompleta: non rende appieno la ricchezza di possibilità che il difficile intreccio comporta o suscita.
Il moderno fautore del Principe, che teorizzò la necessità di affidare l’educazione ad un ideal-tipico Chirone perché mezzo uomo e mezzo bestia, fu, al tempo stesso, uomo di azione che dalla diretta esperienza della politica uscì schiacciato. E tuttavia egli è riuscito a ripensare quell’esperienza con un distacco tale da finire coll’apparire ai lettori – specie a quelli non benevoli, ma non per questo impertinenti – addirittura come il «cantore» dei metodi di governo del Duca Valentino. Né risolse l’evidente aporia la gramsciana intuizione di spostare su di un soggetto collettivo, la forza, il ruolo e le prerogative del «moderno principe».
È probabilmente illusorio il proposito di conciliazione o di ricomposizione tra morale individuale e morale politica. Ed è difficile sostenere che le esperienze risolutive non siano state ancora fatte, che il ritrovato risolutivo non sia stato ancora escogitato. Al contrario, la vastità e la ripetitività delle esperienze che abbiamo alle spalle, e che la superstite Historia rerum gestarum ci documenta, è tale da indurre piuttosto a ritenere che quel ritrovato non esista. Al punto che la medesima persona, ove per avventura trapassi da intellettuale a politico – raro ma non impossibile scambio di ruoli – cambia anche morale.

Altobello Melone, Ritratto di gentiluomo, detto Cesare Borgia. Olio su tavola 1500-1524. Bergamo, Galleria dell'Accademia Carrara.
Altobello Melone, Ritratto di gentiluomo, detto Cesare Borgia. Olio su tavola 1500-1524. Bergamo, Galleria dell’Accademia Carrara.

Libero resta, invece, il tipo di fuoruscita individuale, quando si sia approdati ad una situazione che appare ormai insostenibile. Seneca ha lasciato alle età successive, oltre che l’esempio della grandezza e miseria di un esperimento fallito, anche la ricetta, tipica dell’aristocrazia stoicheggiante romana, per chiudere sul piano individuale la partita: «Chiedi quale sia la strada per la libertà? Una qualsiasi vena del tuo corpo» (De Ira, III, 15, 4).
La politica è arte troppo grande e troppo rischiosa, già per il fatto che grazie ad essa alcuni divengono arbitri del destino di tutti gli altri, per non comportare, per chi vi si cimenta da protagonista, prezzi altissimi. Come ben sapeva il Socrate platonico, è l’unica arte che non dispone di canoni «insegnabili», e che tuttavia qualcuno, necessariamente, deve praticare. Anche il tiranno è dunque vittima, e talora vittima sacrificale. A ben vedere, è talmente «ovvio» che la morale da lui praticata sia diversa da quella individuale (e non per sua libera scelta malefica), che, a distanza di tempo, sorge talora, tra i molti, pungente nostalgia di lui: consapevoli tutti, è da pensare, che egli fosse, per così dire, costretto ad una morale diversa. Donde il sorgere, ad esempio, dopo la morte di Nerone, di «falsi Neroni» ritornanti nel tempo nella fantasia collettiva, pur dopo la fine fisica di quel determinato principe che portò quel nome e che morì esecrato. Fenomeno destinato a coesistere con l’altro, complementare e indissolubile dal primo, dell’alta stima, anche da parte dei critici più acerbi, nei confronti della «via alla libertà» che Seneca, quando lo ritenne doveroso, seppe praticare.

Luciano Canfora.
Luciano Canfora.

I rischi della democrazia (Pʟᴀᴛ. 𝑅𝑒𝑠𝑝. I 343-344; VIII 561-562)

Una sera – narra Platone – a casa di Cefalo, padre di Polemarco, si trovano riuniti Socrate con Lisia, Eutidimo, Trasimaco ed altri. Mancando la televisione, si discute dei grandi temi e di cosa sia la giustizia. Ad un certo punto della conversazione, Trasimaco si lancia in un elogio dell’ingiusto che costringerà Socrate, il quale sostiene che nelle cose grandi anche i particolari più piccoli risultano meglio visibili, a costruire il più giusto degli stati. La Repubblica che Platone fa inventare al personaggio di Socrate, si fonda su tre idee rivoluzionarie: affidare il potere ai filosofi, assegnare identica dignità alle donne, se opportunamente educate alla filosofia e spossessare i governanti di ogni loro bene. Questa repubblica verrà anche confrontata con le altre forme di costituzione: il regno, l’oligarchia, la democrazia e la tirannide dando luogo a passi sconvolgenti per la loro attualità.

TRASIMACO «[…] E devi poi tenere presente questo, sempliciotto d’un Socrate, che in qualunque modo un uomo giusto ci perde rispetto ad un ingiusto.
Ciò vale anzitutto nei contratti d’affari: ogni volta che si associano un giusto e un ingiusto, non troverai mai che allo sciogliersi della società il giusto ci guadagni sull’ingiusto, bensì che ci perde. Poi, nei rapporti con lo Stato: quando ci siano dei tributi da pagare, il giusto, a parità di condizioni, paga di più, l’altro di meno; e quando c’è da ricevere, l’uno non guadagna nulla e l’altro molto.
Quando l’uno e l’altro ricoprono una carica pubblica, al giusto succede, anche se non gli capitano altri guai, di veder andare sempre peggio i propri affari, non potendosene occupare, e di non ricavare dalla cosa pubblica profitto alcuno, a causa della sua giustizia; e di venire poi in odio ai familiari e ai conoscenti se non vuole favorirli per rispettare la giustizia. All’ingiusto accade tutto l’opposto. Mi riferisco a chi dicevo poco fa, a chi è assai abile a soverchiare. Ed è a questi che devi guardare, se è vero che vuoi giudicare quanto maggior utile egli ritragga dalla ingiustizia che dalla giustizia. Lo comprenderai senza fatica se ti spingerai fino a realizzare l’ingiustizia assoluta, che rende sommamente felice chi la commette e sommamente infelice chi la subisce e rifugge dal commetterla.
Parlo della tirannide, che con inganno e violenza porta via i beni altrui, sacri e profani, privati e pubblici, non un po’ alla volta, ma tutti in un colpo: e quando in ciascuno di questi ambiti uno viene sorpreso a commettere un atto contro giustizia, non solo viene punito, ma riceve anche i titoli più disonorevoli. A coloro che, ciascuno nel proprio àmbito, si rendono colpevoli di simili misfatti contro giustizia, si dà il nome di sacrileghi, di schiavisti, di sfonda-muri, di rapinatori, di ladri… Ma quando uno, oltre che delle sostanze dei concittadini, s’impadronisce delle loro persone e se ne serve come schiavi, anziché ricevere questi turpi titoli, ecco che è chiamato felice e beato non soltanto dai concittadini, ma anche da quanti vengono a sapere che ha realizzato l’ingiustizia assoluta. Chi biasima l’ingiustizia lo fa non perché tema di commettere le azioni ingiuste, ma perché teme di patirle. E così, Socrate, sempre che sia realizzata in misura adeguata, l’ingiustizia è più forte e più degna di un uomo libero e di un signore di quanto lo sia la giustizia; e, come dicevo fin da principio, la giustizia consiste nell’utile del più forte, e l’ingiustizia in ciò che comporta vantaggio e utile personale».

Propilei. Ingresso monumentale in stile dorico e ionico, 437-432 a.C. Atene, Acropoli
Propilei. Ingresso monumentale in stile dorico e ionico, 437-432 a.C. Atene, Acropoli.

Molte pagine dopo, quasi al termine dell’opera di edificazione dello “Stato giusto” cui Socrate si è sobbarcato per contrastare Trasimaco, dice:

S – E ora ci resterebbero da esaminare la più bella costituzione e il più bel tipo umano, secondo quanto dice Trasimaco, ossia la tirannide e il tiranno.
T – Precisamente.
S – Allora, suvvia, caro amico, quale è il carattere della tirannide? È pressoché chiaro che risulta da una trasformazione della democrazia.
T – Sì, è evidente.
S – Ora, non nascono in maniera pressappoco identica la democrazia dall’oligarchia e la tirannide dalla democrazia?
T – Come?
S – Quel bene, dissi, che i cittadini si erano proposti come obiettivo e che comportava l’instaurazione dell’oligarchia era la ricchezza eccessiva, non è vero?
T – Sì.
S – A rovinare l’oligarchia furono dunque l’insaziabilità di ricchezza e la noncuranza del resto, provocata dall’avarizia..
T – È andata così.
S – Ebbene, a distruggere la democrazia, non è pure l’insaziabilità di ciò che essa definisce un bene?
T – E, secondo te, che cosa essa definisce così?
S – La libertà. In uno Stato democratico sentirai dire che la libertà è il bene migliore e che soltanto là dovrebbe perciò abitare ogni spirito naturalmente libero.
T – Sì, è una frase molto comune.
S – Allora, come stavo per dire, l’insaziabilità di libertà e la noncuranza delle altre cose non mutano anche questa costituzione? Non la preparano a ricorrere fatalmente alla tirannide?
T – E come?
S – Quando, credo, uno Stato democratico si trova alla mercé di cattivi “coppieri” e troppo si inebria di schietta libertà; a quel punto – a meno che i suoi governanti non siano assai miti e non concedano grande libertà – li pone in stato d’accusa e li condanna come “oligarchici”.
T – Si, si comporta così.
S – E coloro che obbediscono ai governanti li copre d’improperi, trattandoli da gente contenta di essere schiava e buona a nulla, mentre loda e onora privatamente e pubblicamente i governanti che sono simili ai governati e i governati che sono simili ai governanti. Non è inevitabile che in uno Stato simile il principio di libertà si allarghi del tutto?
T – Come no?
S – E così, mio caro amico, si sviluppa l’anarchia e s’insinua nelle case private e s’estende fino alle bestie.
T – Come possiamo convenire su una cosa simile?
S – Beh, per esempio, nel senso che il padre si abitua a comportarsi come il figlio e a temere i figli stessi, e il figlio ad atteggiarsi come un padre, senza portar rispetto né timore verso i genitori, per sentirsi “libero”; e lo straniero (lett., il meteco) si pone sullo stesso piano di diritto del cittadino, e viceversa.
T – Sì, succede così.
S – A tutto ciò si aggiungano altre bagatelle, come queste, per esempio: in un sistema come questo, un maestro teme e adula i propri alunni; e gli alunni se ne infischiano di lui, così come degli educatori (lett., i pedagoghi). In generale, i giovani si pongono alla pari degli anziani e li emulano nei discorsi e nelle azioni, mentre gli adulti e i vecchi accondiscendono ai giovani, si fanno giocosi e faceti, imitandoli, per non passare per dispotici e disprezzabili.
T – Senza dubbio, accade questo.
S – Ma, a dirla tutta, caro mio, l’estremo della libertà cui la massa può giungere in uno Stato come questo si ha quando le persone, uomini e donne, acquistate (cioè, gli schiavi) sono “liberi” tanto quanto lo sono i loro acquirenti. Ah, e quasi ci siamo scordati di dire quanto grandi siano la parificazione giuridica e la libertà nei rapporti reciproci fra uomini e donne.
T – Ebbene, con Eschilo non «diremo quel che ora è venuto alle labbra»?
S – Precisamente! La penso così anch’io. Consideriamo ora gli animali domestici (lett., soggetti all’uomo): nessuno potrà convincersi, senza averli visti, che qui, in un sistema simile, siano più liberi che in qualsiasi alto posto al mondo. Le cagne – per stare al proverbio – sono esattamente «come le loro padrone»; e ci sono cavalli e asini che, abituati a camminare in piena libertà e solennità, cozzano per le strade contro i passanti, se non si scansano. E dappertutto c’è questa libertà. Ora, non pensi anche tu quanto l’anima dei cittadini si lasci impressionare dal sommarsi di tutte queste circostanze insieme raccolte, al punto che uno, se gli si prospetta anche la minima forma di schiavitù, si sdegna e non la tollera? E tu sai che finiscono con il trascurare del tutto le leggi scritte e quelle non scritte per poter essere assolutamente senza padroni.
T – Certo che lo so.

La concezione politica di Platone

di F. Ferrari, in Enciclopedia Treccani.

 

Nonostante i tentativi compiuti negli ultimi decenni da numerosi studiosi di interpretare in senso liberal-democratico la filosofia politica di Platone, la tesi del filosofo austriaco Karl Popper secondo la quale Platone fu un pensatore totalitario, che avversò in maniera radicale la società aperta e la democrazia, appare difficilmente contestabile. L’avversione platonica nei confronti della democrazia è di natura profonda e investe importanti aspetti del suo pensiero filosofico, sia sul versante antropologico sia su quello etico e morale. Per Platone la democrazia assume in maniera del tutto ingiustificata l’uguaglianza degli uomini e rinuncia programmaticamente al principio di competenza. Inoltre essa è destinata inevitabilmente a degenerare nella più terribile delle forme di governo: la tirannide.

Protagora ‘ideologo’ della democrazia
La riflessione filosofica del V-IV secolo a.C. fu generalmente ostile alla democrazia. Forse la prassi democratica non aveva bisogno di venire legittimata sul piano teorico dal momento che era, almeno ad Atene, diffusa e accettata. Quando la filosofia, con Socrate, Platone e, sia pure in misura meno radicale, con Aristotele, iniziò a riflettere sistematicamente sui fondamenti della democrazia, assunse un atteggiamento critico e polemico. Non mancarono tuttavia, soprattutto in ambiente sofistico, tentativi di legittimare teoreticamente la prassi democratica. Il più interessante di questi tentativi fu probabilmente compiuto da Protagora di Abdera, uno degli intellettuali più prestigiosi e celebri attivi ad Atene nella seconda metà del V secolo.
Platone, proprio nel dialogo dedicato a questo sofista, fa esporre a Protagora il celebre mito sull’origine della civiltà. In base al racconto di Protagora nella distribuzione originaria delle capacità, che Zeus affidò al poco preveggente Epimeteo, gli uomini restarono privi di dotazioni naturali, cioè senza forza, velocità, robustezza, ecc., e di conseguenza non erano in grado di sopravvivere di fronte alla soverchiante forza degli altri esseri viventi. Per supplire a questa carenza, Prometeo donò agli uomini la sapienza tecnica, cioè la competenza artigianale (dēmiourgiké téchnē) sotto forma di fuoco. Per Protagora, tuttavia, il possesso di una competenza tecnico-artigianale non è ancora sufficiente a garantire la sopravvivenza, perché gli uomini sono naturalmente portati a sopraffarsi a vicenda e, sulla base della sola dotazione tecnica, non risultano orientati ad associarsi tra loro e a dare vita a forme di collaborazione e a nuclei associativi. Per questa ragione intervenne direttamente Zeus, donando la tecnica politica (politiké téchnē), la quale si costituisce di due principi: il rispetto (aidòs), cioè una forma di riconoscimento reciproco, e il senso di giustizia (dikē). A differenza delle dotazioni naturali e delle singole competenze artigianali, la tecnica politica venne distribuita a tutti gli uomini, i quali risultano così legittimati ad assumere le decisioni che riguardano la vita della comunità (Protagora, 320 D-323 C).
Il mito di Protagora viene considerato il “manifesto” dell’ideologia democratica perché in esso trova giustificazione una certa forma di uguaglianza tra gli uomini, i quali sono tutti, almeno potenzialmente, in possesso della virtù politica, cioè sia di una dotazione minima di competenze utili a governare la città, sia di un’autonomia decisionale, che rinvia a una soggettività autonoma e trasparente. In altre parole, Protagora sembra fondare l’assunto fondamentale dell’ideologia democratica, il quale stabilisce che i membri di un gruppo chiamati a discutere, a deliberare e a istituire norme valide per tutti, sono liberi e consapevoli, cioè perfettamente in grado di stipulare un patto negoziale.

Platone. Erma, marmo bianco, copia romana da originale greco del 348 a.C. ca. Berlin, Antikensammlung
Platone. Erma, marmo bianco, copia romana da originale greco del 348 a.C. ca. Berlin, Antikensammlung.

Disuguaglianza naturale e principio di competenza
Sul piano della riflessione filosofica la polemica antidemocratica di Platone si indirizza proprio contro la validità di questo insieme di assunti. Alla tesi dell’uguaglianza degli uomini egli contrappone un celebre argomento di natura antropologica, che si fonda su una spregiudicata analisi della struttura dell’anima. Quest’ultima presenta tre differenti centri motivazionali, dalla prevalenza di uno dei quali dipende l’orientamento generale della vita psichica dell’individuo. Solo il primo di questi centri motivazionali è razionale, e si identifica con la capacità calcolativa della ragione (logismòs). La sua prevalenza nell’anima dell’individuo garantisce l’orientamento dello stesso alla conoscenza e soprattutto la capacità di universalizzazione. Viceversa le altre due “parti” sono irrazionali: l’una rappresenta le istanze dell’impulsività e della reattività collerica, l’altra dei desideri collegati alla corporeità.
Secondo Platone solo in un numero molto limitato di individui il centro razionale esercita il dominio e assoggetta le altre due parti; le anime della maggioranza dei cittadini sono invece dominate dalle parti irrazionali. Ciò significa che in questi individui gli interessi privati, i desideri, la pretesa di autoaffermazione prendono il sopravvento nei confronti dell’orientamento al bene generale. Si tratta di uomini che risultano ‘schiavi’ dei desideri e che perciò non sono in grado di esercitare in maniera libera e veramente autonoma il loro ruolo di cittadini. Solo coloro nei quali prevale l’istanza calcolativa e razionale, cioè i filosofi, possono assumere legittimamente il governo della città, perché solo loro sono in grado di universalizzare le proprie decisioni, cioè di agire nell’interesse collettivo. Inoltre i filosofi conoscono il mondo delle idee, cioè l’ambito eterno e invariabile dei valori normativi (la giustizia, il bene, ecc.) ai quali deve uniformarsi ogni comportamento politico razionale. La conoscenza delle idee consente di fissare dei criteri universali e assoluti in riferimento ai quali l’uomo politico può stabilire se una certa legge o un determinato comportamento sia conforme alla ragione e al bene. E’ evidente che, secondo Platone, la democrazia viola le due norme fondamentali del buon governo: la naturale disuguaglianza degli uomini e il principio di competenza, cioè il possesso del sapere.

Il paradosso della democrazia: l’avvento della tirannide
Platone affianca alla riflessione filosofica sui fondamenti etici e antropologici della politica un’approfondita analisi storico-fenomenologica delle varie forme di governo. Come la città democratica è dominata dall’uguaglianza (isonomìa) dei cittadini, così l’uomo democratico è un individuo “isonomico”, nel quale è assente ogni principio gerarchico tra i desideri. Nell’uomo democratico non esiste un orientamento psichico prevalente, dal momento che ogni desiderio (perfino quello di sapere) si colloca sullo stesso piano degli altri: la sua anima è dominata dal principio di libertà, la quale sconfina inevitabilmente nella licenza.
Dal punto di vista storico la democrazia è destinata a trasformarsi nella tirannide che rappresenta la forma più nefasta di governo. L’eccesso di libertà induce i cittadini a consegnarsi a un difensore, solitamente un demagogo, il quale sollecita le istanze irrazionali degli individui e riesce a farsi consegnare “democraticamente” il potere, trasformandosi in tiranno, ed eliminando tutte le libertà della democrazia. Platone fu il primo pensatore a formulare il cosiddetto paradosso della libertà o della democrazia: si tratta dell’incapacità della democrazia di auto-fondarsi, cioè della circostanza che una democrazia può decidere in forma democratica di annullarsi.

Attualità di Platone?
Come si vede, la filosofia politica di Platone fu profondamente antidemocratica; essa appare del tutto inconciliabile con principi liberali della modernità. Tuttavia la riflessione platonica ha il merito di aiutarci a collocare in prospettiva, e forse a relativizzare, una serie di assunzioni che appaiono naturali. In particolare essa invita a considerare l’uguaglianza tra gli uomini non come il presunto dato di partenza, ma come il fine dell’azione politica. Inoltre l’orientamento universalizzante e comunitario del pensiero platonico può rappresentare un eccellente antidoto contro l’individualismo e l’eccesso di privatezza che deformano di fatto la prassi democratica moderna.

 

La lontananza dei Greci

Non siamo più Greci. Nessuno oggi penserebbe seriamente di ripetere con Shelley «we are all Greeks», o aderirebbe all’opinione di Wilhelm von Humboldt secondo il quale i Greci rappresentano l’ideale di quello che noi tutti dovremmo aspirare ad essere. G. Camassa in questo saggio affascinante di storia culturale ricostruisce il senso profondo del nostro attuale senso di alterità. Se i Greci si sono allontanati questo però non significa che siano assenti: forse «the Greeks are still very much with us», come ha scritto di recente Robert Knox (The Oldest Dead White European Males, New York-London, 1993).

Amazzone, anfora a collo con figure nere, 530-520 a.C. circa, University of Mississippi.
Amazzone, anfora a collo con figure nere, 530-520 a.C. circa, University of Mississippi.

Il rapporto tra mondo moderno ed antico è stato un incessante confronto tra i Greci e i Romani esemplari e noi. Anzi si può dire che abbia interessato in primo luogo gli stessi Romani che si erano impadroniti della cultura greca prima di diventare a loro volta antichi e costituire quindi un modello (per l’«antico» nello stesso mondo antico si veda: S. Azzarà, Osservazioni sul senso delle rovine nella cultura antica, in Senso delle rovine e senso dell’antico, a cura di W. Cuppari, Ann. Scuola Norm. Sup. di Pisa, Quad. 14, 2002, p. 1-12). Se nella prima età umanistica il parallelismo tra mondo antico e moderno riguardò soprattutto la sfera dell’etica, dal tardo Rinascimento in poi sono gli aspetti politici a prendere il sopravvento (in proposito la fortuna conosciuta dalla figura di Cicerone nei secoli è significativa: si veda ora E. Narducci, Cicerone e i suoi interpreti. Studi sull’Opera e la Fortuna, Pisa, 2004).
La ricerca delle analogie assunse una forma assai peculiare nella dotta Olanda del ‘600. A Leida, infatti, nel 1625 gli editori Elzevier iniziarono a pubblicare una serie di volumetti, di piccolo formato e scritti in latino, dal chiaro intento divulgativo, allo scopo di illustrare le repubbliche antiche e moderne, secondo un progetto, che era già stato di Grozio, di istituire una comparazione tra l’Olanda, da un lato, Atene e Roma, dall’altro (cf. V. Conti, Consociatio civitatum. Le repubbliche nei testi elzeviriani, 1625-1649, Firenze, 1997). Lo stesso Meursius, d’altra parte, aveva insistito sul parallelismo tra l’Areopago ateniese e il senato veneziano: tanto in Olanda che a Venezia Atene aveva soppiantato Sparta nelle simpatie del pubblico colto. Intanto anche l’Inghilterra, all’approssimarsi della caduta della monarchia, riscopriva modelli repubblicani. Ci fu addirittura chi, come il giurista N. Bacon (A Historical Discourse of the Uniformity of the Government of England, 1647), arrivò a sostenere che non solo il governo degli antichi Britanni era stato repubblicano, ma che addirittura essi discendevano dai Greci, tanto simili era la loro forma di governo a quella di Atene e le loro istituzioni militari a quelle di Sparta.
La cultura del XVIII secolo è notoriamente percorsa da un eccezionale interesse per le antiche repubbliche greche e per Roma, considerate come una sorta di laboratorio per l’elaborazione di progetti di riforma politica e sociale. Proprio questa prospettiva spiega come l’attendibilità sul piano della ricostruzione storica e filologica cui si perveniva passasse di necessità in secondo piano.
Michiel Jansz Van Mierevelt, Ritratto del giurista e statista olandese Hugo de Groot (noto come Hugo Grotius). Olio su tavola, 1631. Delft, Museum Het Prinsenhof.
Michiel Jansz Van Mierevelt, Ritratto del giurista e statista olandese Hugo de Groot (noto come Hugo Grotius). Olio su tavola, 1631. Delft, Museum Het Prinsenhof.

Sparta, come G. Camassa puntualmente sottolinea, è un caso esemplare e le Rivoluzioni americana e francese sono un laboratorio straordinario. Il mito di Sparta è riutilizzato in America e in Francia dopo aver attraversato il mondo antico ed aver conosciuto un ritorno di interesse tra ‘500 e ‘600. Mably, come gli altri filo-laconisti settecenteschi, si ispira, nella ricerca di un modello di costituzione ideale, alla presentazione che dell’organizzazione politica di Sparta faceva Plutarco nella Vita di Licurgo. Proprio questo mito era rovesciato poco tempo dopo dal pensatore che è giusto considerare, con Camassa, il capofila della reazione moderna all’idealizzazione dei Greci, Benjamin Constant. Non a caso Constant poté deridere Mably come colui il quale detestava la libertà individuale come si detesta un nemico personale.
Per Constant, «libertà» e indisturbato uso della ricchezza individuale sono sinonimi. È questo il tema forte del ragionamento con cui egli respinge come oppressiva l’idea di libertà che gli antichi (specie Spartani) avevano praticato, e che i Giacobini, in tempi a lui vicini, avevano ripreso e rilanciato.
La storia del pensiero politico occidentale ha avuto nella democrazia ateniese un termine di riferimento costante talvolta esaltata come modello ideale, più spesso esecrata come un regime da evitare. In realtà, come è stato di recente sottolineato da Luciano Canfora (La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari, 2004), e come Camassa suggerisce, la democrazia nasce sotto il segno di una contraddizione: in Grecia, come negli stessi Stati Uniti al momento della loro fondazione, l’ampiezza di diritti dei cittadini presuppone la schiavitù; in Francia, a partire dalla rivoluzione del 1789 e, quindi, nel mondo occidentale la democrazia è costantemente in bilico tra giacobinismo e bonapartismo. Forse non è un caso se fu proprio il Bonaparte a farsi promotore di edizioni di «Stato» dei classici greci, come la Geografia di Strabone. Viceversa Condorcet, nell’aprile del 1792, in un momento in cui pure agli autori antichi si guardava come paradigmi di valore assoluto, in un Rapport all’Assemblea Legislativa aveva sentenziato che per i grandi scrittori del passato erano ormai disponibili delle traduzioni.
Pochi poeti hanno sentito il fascino del mondo ellenico come Friedrich Hölderlin. Ebbene la lettura delle sue liriche (se ne veda l’eccellente edizione con commento di Luigi Reitani, Milano 2001) ci può dare una sorpresa. In «Grecia», una poesia giovanile, tutto sommato di maniera, il mondo ellenico è celebrato secondo i canoni dell’idealizzazione classicistica. Ben più complessa e originale è l’ispirazione di «Arcipelago». Qui si canta la gloria di Atene, intesa come una comunità organicistica fondata su valori autenticamente religiosi, con il rimpianto di un passato irrimediabilmente perduto, contrapposto ad un presente dove predomina l’individualismo : «Dimmi dov’è Atene? E’ forse crollata nella cenere, sulle urne dei maestri, Dio in lutto, la tua città, la più amata da te, sulle tue rive ?» (vv. 62-64, trad. di L. Reitani).
Cavaliere 'Rampin', età arcaica, 550 a.C., Musée du Louvre.
Cavaliere ‘Rampin’, età arcaica, 550 a.C., Musée du Louvre.

A fronte di tanti «antichi», spesso falsi perché sentiti o voluti troppo vicini e quindi inevitabilmente falsificati, una matura e consapevole consapevolezza della lontananza dei Greci può rappresentare un favorevole punto di partenza per studiarli e capirli nella loro preziosa originalità (per una proposta di cercare nell’antico non l’identico ma il diverso si veda S. Settis, Futuro del «classico», Torino 2004 con le osservazioni di V. Saladino, in Il Ponte 60, 2004, p. 106-115). Categorie come quelle di tempo e di spazio, cui nel libro di Camassa sono dedicati due capitoli significativi, sono particolarmente importanti (in proposito si vedano anche le considerazioni di M. Bretone, Diritto e tempo nella tradizione europea, Roma-Bari, 2004).
Merita, per sintetizzare il tema di fondo di questo libro, ridare la parola a Hölderlin che, nella famosa lettera inviata all’amico Böhlendorff all’inizio di dicembre del 1801, poco prima della partenza per Bordeaux, scrive (cito da M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, trad. it., Milano, 1988, p. 107) : «Non c’è cosa che apprendiamo con più difficoltà di questo: servirci liberamente di ciò che appartiene alla nostra nazione. E, come credo, è proprio la chiarezza della rappresentazione che è per noi così naturale come lo è per i Greci il fuoco del cielo. Ma il proprio deve venire appreso esattamente come l’estraneo. Per questo i Greci sono per noi indispensabili. Solo che precisamente in ciò che abbiamo di proprio, di nazionale, noi non terremo loro dietro, perché, come dicevo, il servirsi liberamente di ciò che è proprio è la cosa più difficile di tutte».
Dobbiamo essere grati a G. Camassa per averlo dimostrato in maniera tanto accattivante e persuasiva.

cit. recens. di A. Marcone, «Giorgio Camassa, La lontananza dei Greci», Anabases, 1 | 2005, 299-301.