Il volto dell’indicibile

di J.-P. VERNANT, La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, Bologna 1987, 39-62.

La maschera di Medusa

Pittore della Gorgone. Testa di Gorgone circondata da animali. Pittura vascolare da un piatto attico a figure nere. 600 a.C. ca. Baltimora, Walters Art Museum.

Il modello iconografico della Gorgone, nella sua doppia forma di γοργόνειον da una parte (la sola maschera), di personaggio femminile dalla faccia gorgonica dall’altra, non è rappresentato soltanto nella serie dei vasi dipinti. Figura anche, fin dall’epoca arcaica, sul frontone dei templi, ed anche quale acroterio o antefissa. Lo si trova ancora sugli scudi, quale ἐπίσημα, a decorazione di utensili domestici, appeso nei laboratori degli artigiani, fissato sui loro forni, collocato nelle case private, figurato su monete. Apparso agli inizi del VII secolo a.C., questo modello vede costituirsi i suoi tipi canonici nei loro tratti essenziali verso il secondo quarto di tale secolo. Al di là delle varianti che ne presenta l’iconografia corinzia, attica, laconica, si possono delineare, in prima analisi, due caratteristiche fondamentali della rappresentazione di Medusa. Innanzitutto la frontalità. Contrariamente alle convenzioni figurative che regolano lo spazio pittorico greco in epoca arcaica, la Gorgone è sempre, senza alcuna eccezione, rappresentata di faccia. Pura maschera o persona intera, il viso della Gorgone è ogni volta frontale rispetto all’osservatore. In secondo luogo la «mostruosità». Di qualunque tipo siano le modalità adottate nella distorsione espressiva, la figura si avvale sistematicamente delle interferenze tra l’umano e il bestiale, associate e commiste in maniera diversa. La testa, slargata, arrotondata, ricorda un muso leonino, gli occhi sono sbarrati, lo sguardo è fisso e penetrante, la chioma trattata come una criniera animalesca o irta di serpenti, le orecchie ingrandite, deformate, simili talora ad orecchie bovine; il cranio può presentare corna; la bocca, ghignante, si allarga fino ad occupare tutta l’ampiezza del volto, scoprendo le file dei denti, con zanne ferine o di cinghiale, e con la lingua che fuoriesce, protesa in avanti; il mento è peloso o barbuto, la pelle solcata talvolta da rughe profonde. Questo volto si presenta più come orribile ghigno che come viso. Nello sconvolgimento dei tratti tipici della faccia umana, esso esprime, per un effetto di inquietante estraneità, un mostruoso che oscilla tra due poli: l’orrore del terrifico, il ridicolo del grottesco. Allo stesso modo, tra la Gorgone che è dalla parte del terrifico, e i Sileni o Satiri che, nel registro del mostruoso, si situano dalla parte del grottesco, si possono rilevare, insieme a evidenti contrasti, significative convergenze. Queste due categorie di personaggi hanno del resto chiare affinità con la rappresentazione cruda e brutale del sesso, femminile o maschile – rappresentazione che, come il volto mostruoso di cui essa è per certi aspetti l’equivalente, può provocare sia il terrore di un’angoscia sacra sia lo scoppio del riso liberatore.

Baubò/Iambe. Statuetta, terracotta policroma, V sec. a.C. da Priene.

Per precisare questo gioco d’interferenze tra la faccia di Medusa e l’immagine del sesso femminile – come tra il φαλλός e i personaggi tipo Satiri o Sileni, la cui mostruosità, pur prestandosi al riso, non manca di inquietare –, bisogna spendere una parola sulla singolare figura di Baubo, personaggio dal duplice aspetto: spettro notturno, sorta di orchessa, avvicinata, al pari di Medusa, Mormo o Empusa, a Ecate infernale, ma anche buona vecchia le cui allegre facezie e i cui gesti indecenti riescono a rompere il digiuno di Demetra afflitta per la figlia, provocandone il riso. Il confronto dei testi che riferiscono questo episodio con le statuette di Priene raffiguranti un personaggio femminile ridotto a un semplice volto, che è al tempo stesso un bassoventre, conferisce al gesto di Baubo che alza la veste per ostentare la sua intimità un significato inequivocabile: quel che Baubo fa vedere a Demetra è un sesso che ha preso le sembianze di un volto, un volto in forma di sesso; si potrebbe dire: il sesso fatto maschera.
Nel ghigno, questa figura del sesso si fa risata, uno scoppio di riso al quale risponde il riso della dea, come al ghigno d’orrore che solca il viso di Medusa risponde il terrore di chi la guarda. Il φαλλός, del quale uno dei nomi con cui è indicato, βαυβών, sottolinea il rapporto con Baubo, assume al polo opposto del mostruoso una funzione simmetrica. Normalmente esso accresce il ridicolo, denuncia il grottesco di quei mostri piacevoli che sono i Satiri, ma nelle iniziazioni provoca un effetto di terrore sacro, di spavento affascinato espresso dal gestire di certi personaggi femminili che indietreggiano davanti al φαλλός scoperto.
Esistono del resto due versioni del riso di Demetra mentre è alla disperata ricerca della figlia; e in ognuna di esse la protagonista, per creare l’effetto di choc liberatore rispetto alla tristezza, utilizza l’elemento scandaloso in un diverso registro. Secondo la prima versione, Iambe, γραῖα Ιάμβη, la vecchia Iambe come la chiama Apollodoro, deride Demetra e rompe la sua afflizione con battute licenziose, con l’αἰσχρολογία, come si faceva durante le Tesmoforie o nel γεφυρισμός della processione eleusina. Iambe può essere considerata il femminile di Iambos, il giambo, nel suo aspetto musicale di canto satirico, di poesia di invettiva e di derisione. L’effetto liberatore di una sessualità sfrenata, prossima al mostruoso per il suo carattere anomico, opera del linguaggio e per mezzo del linguaggio: frizzi ingiuriosi, scherzi osceni, battute scatologiche, tutto ciò che il greco comprende nel termine σκόπτειν o nella locuzione παρασκόπτειν πολλά. Nella seconda versione Baubo, sostituendo Iambe, mette in atto le stesse procedure sul piano visivo; ella sostituisce lo spettacolo alle parole, mostra la cosa invece di nominarla. Quando esibisce crudamente il proprio sesso imprimendogli una sorta di movimento, Baubo vi fa apparire il volto ilare di un giovane, il piccolo Bacco (Ἴακχος), il cui nome evoca il grido degli iniziati (ἰάχω, ἰαχή) ma è pure ravvicinato a χοῖρος, porcellino ed anche, certamente, sesso femminile.

Pittore di Anagiro. Gorgone. Pittura vascolare da un piatto attico a figure nere, da Atene. 600-575 a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Frontalità, mostruosità: queste due caratteristiche pongono il problema delle origini dello schema figurativo di Medusa. Sono stati ricercati antecedenti nel Vicino Oriente, nel mondo cretese-miceneo, in quello sumerico-accadico. Sono stati proposti agganci con la figura di Bes egiziano e soprattutto con quella del demone Hambaba, così come è rappresentato nell’arte assira. Nonostante l’interesse di questi studi, essi non toccano ciò che ai nostri occhi costituisce il fatto essenziale: la specificità di una figura che, quali che possano essere state le derivazioni o le trasposizioni, si profila come una creazione nuova, assai diversa dagli antecedenti invocati. La sua originalità non può essere colta al di fuori delle relazioni che, in seno all’arcaismo greco, la legano a pratiche rituali, a temi mitici, ad una Potenza soprannaturale, infine, che emerge e si afferma nello stesso tempo in cui si costruisce e si fissa il modello simbolico che la rappresenta nella forma particolare della maschera gorgonica.
A questo riguardo i tentativi di Jane Harrison di basarsi su alcune analogie figurative tra Arpie, Erinni, Gorgoni per ascriverle tutte ad un medesimo fondo religioso «primitivo», e per farne specie diverse di Kῆρες, spiriti nefasti, spettri, brutture, sembrano assolutamente inutili. Non è buona metodologia fondere insieme in un’unica, vaga categoria figure diverse, ignorando le divergenze che, distinguendole chiaramente, conferiscono a ciascuna di esse il loro significato e il loro posto particolare nel sistema delle Potenze divine. Le Erinni non hanno né ali né maschera; le Arpie hanno ali, ma non maschera; le sole Gorgoni, oltre alle ali, presentano la facies di una maschera. Le affinità, sottolineate specialmente da Th.G. Karagiorgia, tra Medusa e la Signora degli Animali, la Πότνια, sono più suggestive. Tra questi due personaggi esistono punti di contatto così come esistono somiglianze o almeno parallelismi nella loro iconografia. Bisognerà tenerne conto. Per alcuni aspetti Medusa si presenta come la faccia cupa, il sinistro rovescio della Grande Dea di cui Artemide in modo particolare raccoglierà l’eredità. La presenza di divergenze, di stacchi tra i due modelli deve tuttavia metterci in guardia da una pura e semplice assimilazione. Essenziale rimane comprendere perché e come i Greci abbiano elaborato una figura simbolica che, combinando in una forma singolare faccialità e mostruosità, si distingue abbastanza nettamente da tutte le altre per farsi subito riconoscere per quel che è: la faccia di Medusa.

Frontone del tempio di Artemide. La Gorgone (dettaglio), da Corfù. Museo Archeologico di Corfù.

Al fine di illustrare questi punti di vista un po’ astratti faremo un esempio. Sul Vaso François (verso il 570 a.C.) tutti gli dèi sono rappresentati come in un repertorio: sono tutti di profilo, ad eccezione di tre personaggi: la Gorgone, raffigurata sulla faccia interna delle due anse, Dioniso, che regge un’anfora sulle spalle, e Calliope, una delle Muse. Nei casi della Gorgone e di Dioniso, il cui volto è reso come una maschera, la frontalità non ci sorprende: si potrebbe dire che va da sé. Nel caso di Calliope costituirebbe un problema se la Musa non fosse rappresentata, nel corteo divino, intenta a suonare la zampogna, lo strumento campestre detto anche “flauto di Pan”. E noi mostreremo, ampliando le osservazioni di Paul M. Laporte su questo argomento, che soffiare nel flauto equivale, per molteplici ragioni, a farsi la faccia di Medusa. Alle Gorgoni dipinte internamente alle anse corrispondono, all’esterno, le figurazioni della Signora degli Animali. I due tipi di Potenza si trovano dunque praticamente associati e, al tempo stesso, contrapposti. Il contrasto si realizza su vari piani. In primo luogo, e soprattutto, le Gorgoni sono di prospetto, le Signore degli Animali di profilo, come tutti gli altri dèi o eroi che figurano sul vaso. Inoltre le Gorgoni sono in corsa, con le ginocchia flesse; le Signore sono immobili, in piedi, ritte, in atteggiamento ieratico. Le Gorgoni hanno un chitone corto, le Signore una lunga tunica che le avvolge fino ai piedi. La chioma delle prime, irta, si contrappone a quella delle seconde, portata normalmente all’indietro sulle spalle mediante una fascia. Il valore di maschera del volto gorgonico si accompagna dunque, nell’iconografia, a tutta una serie di indizi che contrassegnano senza ambiguità la differenza rispetto al modello della Πότνια, la Signora degli Animali.
Uno studio iconografico dovrà tendere ad esplorare tutta la rete di questi segni e a delineare il quadro degli elementi significativi dell’immagine, del loro ruolo all’interno di diverse serie omogenee, stabilite in funzione del luogo d’origine, della natura degli oggetti, dei temi figurati. […]

Sigillo in sardonico con la rappresentazione di una «Potnia thḗrōn», da Cnosso (Creta). Periodo Neopalaziale (1600-1400 a.C.). Museo Archeologico di Herakleion.

Nelle rappresentazioni figurate il cavallo – o i cavalli quando sono due in posizione simmetrica – si associa alla Gorgone talora come una parte di lei, un suo prolungamento o una sua emanazione, talora come il piccolo che ella nutre e protegge, talora come la prole che ella partorisce o anche la cavalcatura che ella cavalca, talora infine, sulla linea del mito di Perseo, come il cavallo Pegaso che balza, mentre ella muore, dal suo collo troncato. Riguardo alle varie possibilità di associazione tra la Gorgone e il cavallo c’è dunque nell’iconografia, quando la si confronti con la leggenda, un surplus e quasi un’esuberanza di significati.

Una faccia del terrore

Ma passiamo ai testi per chiarire – attraverso le indicazioni che ci forniscono sui miti e sugli elementi del rituale legati alla Gorgone – la personalità, i modi d’azione, i campi d’intervento, le forme di manifestazione della Potenza fatta maschera.
Fin da Omero è già innalzato il teatro sul quale Medusa fa la sua apparizione e interpreta i suoi differenti ruoli. Nell’Iliade la scena è guerresca. Medusa figura sull’egida di Atena e sullo scudo di Agamennone; sull’altro fronte, quando Ettore, portando la morte nella mischia, fa girare in tutti i sensi i cavalli, «i suoi occhi hanno lo sguardo della Gorgone». In questo contesto di scontro senza remissione, Gorgone è una Potenza di Terrore, associata a «Spavento, Rotta, Inseguimento che gelano i cuori». Ma questo terrore di cui incarna la presenza, che in qualche maniera mobilita, non è «normale»; non dipende dalla situazione particolare di pericolo in cui ci si può trovare. È il terrore allo stato puro, il Terrore come dimensione del soprannaturale. In effetti, questa paura non è né seconda né motivata, come quella che provocherebbe la coscienza di un pericolo. È prima. Di primo acchito e di per se stessa Medusa produce un effetto di spavento perché appare sul campo di battaglia come un prodigio (τέρας), un mostro (πέλωρ), in forma di testa (κεφαλή), terribile e spaventosa (a guardarsi e a udirsi, δεινή τε σμερδή τε), con il volto dall’occhio terribile (βλοσυρῶπις), con lo sguardo terrificante (δεινόν δερκομένη). Maschera e occhio gorgonici, se ci si attiene all’Iliade, operano in un contesto ben definito; essi appaiono integrati all’attrezzatura bellica, alla mimica, alla smorfia stessa del guerriero (uomo o dio) posseduto dal μένος, il furore guerresco; concentrano in qualche modo la potenza di morte che irradia dalla persona del combattente ricoperto dell’armatura e pronto a manifestare la straordinaria vigoria nella battaglia, la forza (ἀλκή) di cui è dotato. La folgorazione dello sguardo di Medusa agisce congiuntamente allo splendore del bronzo rilucente i cui barbagli, dall’armatura e dall’elmo, salgono fino al cielo e diffondono il panico. La bocca del mostro, spalancata, evoca il terrificante grido di guerra che Achille, risplendente della fiamma che Atena gli fa sprigionare dal capo, lancia a tre riprese prima del combattimento. «Si direbbe che si tratta della voce sonora della tromba che squilla» e questa «voce di bronzo», nella bocca dell’Eacide, basta a far tremare di terrore le file nemiche.

Gorgone alata in corsa. Statua acroteriale, terracotta policroma, VII sec. a.C. da un tempio dorico (Siracusa). Siracusa, Museo Archeologico Regionale.

Non è necessario accettare la tesi di Thalia Phillies Howes, che collega Γοργώ, γοργός, γοργοῦμαι al sanscrito garġ, per riconoscere le connotazioni sonore della maschera della Gorgone. Thalia Phillies Howes scrive: «È chiaro che un qualche suono terrificante era la forza che in origine stava dietro la Gorgone: un suono gutturale, un urlo animale, che usciva dalla gola con un possente respiro, e che richiudeva una bocca spalancata». I nostri rilievi saranno più limitati e più precisi. Sappiamo da Pindaro che dalle mascelle vorticose delle Gorgoni lanciate all’inseguimento di Perseo si alza uno strepito lamentoso (ἐρικλάγταν γόον) e che queste grida escono ad un tempo dalle loro bocche di fanciulle e da quelle degli orribili serpi loro associati. Questo grido acuto, inumano (κλάζω, κλαγγή) è quello che nell’oltretomba urlano i morti nell’Ade (κλαγγή νεκύων). […] Per sottolineare, sul doppio registro visivo e sonoro, i legami della maschera di Medusa con la mimica facciale del combattente in preda alla frenesia bellica, insisteremo tuttavia su un particolare significativo. Tra gli elementi che rendono terrificante il personaggio del guerriero, accanto al grido formidabile, al bagliore del bronzo, alle fiamme che si sprigionano dalla sua testa e dai suoi occhi, il testo dell’Iliade aggiunge, nel caso di Achille, una notazione che attirò già l’attenzione di Aristarco: lo stridore dei denti (ὀδόντων καναχή). François Bader ha spiegato il senso di questo rictus sonoro collegandolo, attraverso i suoi paralleli nella letteratura irlandese, all’immagine del guerriero indoeuropeo che Georges Dumézil ha saputo ricostruire. Ebbene, nello Scudo, menzionando «le teste di terribili serpenti» che gettavano il terrore (φοβέεσκον) fra le tribù degli uomini, Esiodo riprende al v. 164 l’espressione omerica: «risuonava lo stridore dei loro denti» (ὀδόντων καναχή πέλεν); e al v.234, riferendosi questa volta ai serpenti delle Gorgoni in corsa sulla scia di Perseo, scrive che questi mostri «dardeggiavano la lingua, digrignavano i denti dal furore (μένει δ᾽ ἐχάρασσον ὀδόντας), lanciando sguardi selvaggi». Quando, le armi rilucenti, un raggio di fuoco negli occhi, Achille stravolge il volto in una smorfia terribile, batte le mascelle, lancia un grido inumano di guerra al pari di Atena Egioca, l’eroe, infuriato, posseduto dal μένος, presenta un volto da maschera gorgonica.

Exekias. Achille e Pentesilea. Pittura vascolare da un’anfora attica a figure nere. 540-530 a.C. London, British Museum.

Bagliore folgorante delle armi, sfavillio insostenibile della testa e degli occhi, violento grido di guerra, rictus e stridore di denti – un altro aspetto ancora avvicina la faccia mostruosa di Medusa al guerriero posseduto dal μένος, il furore della carneficina. Lo si potrebbe situare nella rubrica «effetti della chioma». Quando sarà necessario precisare il posto del cavallo nel bestiario strettamente associato a Medusa e notare le affinità cavalline della stessa, dovremo segnalare i valori dell’aggettivo γοργός applicato al cavallo. È lo stesso termine usato da Senofonte per caratterizzare l’aspetto che i lunghi capelli conferiscono ai giovani guerrieri spartani. Per i giovani che escono dall’efebia il non tagliarsi i capelli non dipende da civetteria o da una scelta individuale; è, per tutta una classe d’età, un obbligo stretto, il segno e quasi la consacrazione del loro stato: «A coloro che uscivano dall’efebia Licurgo ingiunse di portare i capelli lunghi, ritenendo che sembrassero più grandi, più nobili, più terribili (γοργοτέρους)». Plutarco conferma e precisa Senofonte: allora «allentavano anche ai giovani la rigidezza della disciplina (ἀγωγή): permettevano loro di abbellire la chioma, adornare le armi e le vesti, godendo che scalpitassero e sbuffassero come cavalli prima della corsa. All’uscire dall’adolescenza si lasciavano crescere i capelli, e specialmente in tempo di pericolo curavano che fossero scriminati e lucidi, ricordandosi di un detto di Licurgo: “I capelli rendono i belli più affascinanti e i brutti più orribili (φοβεροτέρους)”».
Una glossa ci indica il nome di questa operazione che mirava a far brillare la lunga chioma: «ξανθίζεσθαι: a Sparta “curarsi i capelli”; in Attica “tingersi i capelli”». Ξανθός significa «biondo» nel senso di «dorato», in un’accezione di splendore, come per l’oro e per il fuoco. Ξανθός è diverso da χλωρός, giallastro, con una sfumatura di pallore, addirittura di debolezza: la paura, δέος, è detta anche χλωρόν. Xanthos è anche un nome di cavallo, il cavallo guerriero e divino. Uno dei cavalli di Achille, nato da Zefiro e da Podarge, si chiama Xanthos. E Xanthos è anche il nome del cavallo di Castore, quello dei due Dioscuri che rappresenta il giovane e il cavaliere. Presso i Macedoni il termine designa le cerimonie rituali di purificazione della cavalleria, le Ξανθικὰ, nel corso delle quali si sacrificava al dio Xanthos. C’è un rapporto tra le fulve criniere dei cavalli da guerra e il biondo ramato dei capelli che il giovane guerriero, all’uscir dall’efebia, fa agitare come una criniera.

Metopa. Perseo decapita Medusa, assistito da Atena, dal Tempio C (Selinunte). VI secolo a.C. ca. Museo Archeologico Regionale di Palermo.

Nella Vita di Lisandro Plutarco segnala, per respingerla, un’altra interpretazione di cui si era fatto eco Erodoto e che collegava il costume spartano di mantenere i capelli lunghi alla battaglia in cui si affrontarono, per la Tireaide, due corpi scelti di trecento combattenti che rappresentavano per Argo e Sparta, le due città in lotta, il fior fiore della gioventù guerriera. Alla fine gli Argivi furono vinti. «Si rasero allora gli Argivi la testa – mentre prima portavano d’obbligo i capelli lunghi – […] Mentre i Lacedemoni istituirono una legge opposta: decidendo, con opposto costume a quello solito, di portare i capelli lunghi». Plutarco respinge invece la spiegazione che riallaccia l’usanza spartana alla volontà dei vincitori di distinguersi dai vinti: «Non è vero ciò che dicono alcuni, e cioè che gli Argivi, dopo aver subito una grave sconfitta, si facevano tagliare i capelli in segno di lutto, e viceversa gli Spartani, per aver combattuto bene, se li lasciarono crescere in segno di esultanza […]. Anche quest’usanza si deve a Licurgo. Egli, raccontano, disse della chioma lunga che rende i belli più affascinanti all’aspetto, e i brutti più orribili».
Tuttavia, se del racconto erodoteo si considera meno il fondamento «storico» che l’autore pretende di dare alla regola spartana e si sottolinea maggiormente il rapporto di opposizione che vi si esprime tra capelli rasati, onta della sconfitta, lutto e dolore, e capelli lunghi, vittoria, celebrazione, si potrà concludere che le due spiegazioni dell’antica usanza non sono contraddittorie. La bellezza virile del guerriero, enfatizzata da una capigliatura lunga e ondeggiante, comporta un aspetto «terrificante» il cui effetto sul campo di battaglia è, nel senso attivo del termine, «segno» di vittoria, così come i capelli rasati sono, con le altre manifestazioni del lutto, uno dei mezzi rituali che, oltraggiando e imbruttendo il volto dei viventi, consente di avvicinarli, nel corso dei funerali, a quel mondo di fantasmi senza forza e senza smalto, dove si dirige il defunto di cui si piange la scomparsa.
Il contrasto capelli lunghi/capelli corti chiarisce forse un’altra usanza spartana. A Sparta si conservò la tradizione di sposarsi con il rapimento della donna: «Rapita, la sposa veniva presa in consegna dalla madrina (νυμφεύτρια), così era chiamata, che le rasava il capo, le faceva indossare un mantello e dei calzari virili…».
Nessuno negherà che si tratta di un rito di passaggio, con mascheramento e inversione dello statuto sessuale. Ma questo non è tutto, e forse non è nemmeno l’essenziale, nella misura in cui il giovane, divenuto uomo compiuto all’uscire dall’efebia – come la giovane diventa donna completa entrando nello stato matrimoniale –, conserva i suoi capelli lunghi proprio in segno della sua piena virilità, una virilità che fin nella formazione oplitica conserva il ricordo e quasi la traccia di quel «furore» che, in tempi eroici, doveva abitare l’anima del giovane guerriero perché questi portasse il terrore nel campo nemico. Rasando il capo della giovane sposa, si estirpa da lei ciò che ancora poteva restare di mascolino e di guerresco nella sua femminilità, di selvaggio nel suo nuovo stato matrimoniale. Si evita di introdurre in casa, sotto la maschera della sposa, la faccia di Medusa.
Esichio nota che a Sparta è detto πόλος il giovane, o la giovane, non civilizzato, non integrato. Πόλος è il giovane cavallo, puledro o puledra. Nella Lisistrata Aristofane evoca le κόραι, le giovani vergini di Sparta: «Simili a puledre lungo l’Eurota scherzano le fanciulle fitta polvere levando coi piedi, le chiome agitando come fossero Baccanti che sfrenate brandiscono il tirso».

Pittore Macrone. Una menade invasata. Pittura vascolare a una kylix attica a figure rosse, 490-480 a.C. c. da Vulci. Berlin, Antikensammlung.

La selvatichezza del guerriero maschio si esprime attraverso la sua capigliatura lunga e fluttuante, simile alla criniera di un cavallo. La selvatichezza della giovane si manifesta nei suoi capelli sciolti che l’assimilano ad una puledra in libertà. Il rituale della testa rasata, per la giovane sposa, gioca su questi due simbolismi contrastanti che nella loro opposizione si rafforzano, dato che la sposa, se deve distinguersi dalla παρθένος per entrare nello stato coniugale, deve anche distinguersi nettamente dal marito.
Tagliando i capelli delle donne appena sposate, non soltanto si addomesticavano queste puledre non ammansite, ma si esorcizza in esse quell’inquietante elemento di selvatichezza che Atena e Artemide, le due vergini escluse dal matrimonio, detengono ciascuna a suo modo, Atena la guerriera mediante il volto di Medusa che tiene sul petto, Artemide la nutrice, la giovane selvaggia, con il lato gorgonico del suo personaggio e con le maschere che intervengono nei riti di iniziazioni dei giovani cui ella presiede.
Con l’Odissea, cambiamento di scena. Da guerresca, questa si fa infernale. I luoghi sotterranei, il regno della Notte, non sono tuttavia un mondo di silenzio. Nel libro XI Odisseo racconta il suo arrivo nell’Ade; la folla dei morti, ivi radunata, solleva «terribili grida» (ἠχῇ θεσπεσίῃ). «E verde orrore mi prese che il capo della Gorgone, il mostro tremendo, dall’Ade mandasse la lucente Persefone» (ἐμὲ δὲ χλωρὸν δέος ᾕρει,/μή μοι Γοργείην κεφαλὴν δεινοῖο πελώρου/ἐξ Ἀίδεω πέμψειεν ἀγαυὴ Περσεφόνεια). Subito Odisseo retrocede. Medusa è a casa propria nel paese dei morti di cui vieta l’entrata a ogni uomo vivente. Il suo ruolo è simmetrico a quello di Cerbero: lei impedisce al vivo di penetrare nel regno dei morti, Cerbero impedisce al morto di ritornare nel mondo dei vivi. Al pari di Omero, Aristofane colloca nell’Ade, accanto a Cerbero, Stige ed Echidna, le Gorgoni; Apollodoro racconta, anche lui, che davanti ad Eracle disceso negli Inferi tutte le ψυχαί fuggirono, eccetto Meleagro e Medusa. Dal fondo dell’Ade dove dimora, la testa di Medusa sorveglia, custodisce, vigila i confini del regno di Persefone. La sua maschera esprime e conserve l’alterità radicale del mondo dei morti cui nessun vivente può avvicinarsi. Per valicarne la soglia bisognerebbe aver affrontato la faccia di terrore ed essersi trasformati, secondo l’immagine di Medusa, in quello che sono i morti: teste, teste vuote, prive di forza, di ardore, i νεκύων ἀμενηνὰ κάρηνα secondo le parole di Omero.
Il volto del vivo, nella singolarità dei suoi tratti, è uno degli elementi della persona. Ma, nella morte, quella testa alla quale ci si trova ridotti, quella testa ormai inconsistente e senza più forza, pari all’ombra di un uomo o al suo riflesso in uno specchio, è annegata nell’oscurità, incappucciata di tenebre. È una testa vestita di notte, simile, nel regno dell’ombra, a quei volti che alla luce del sole alcuni eroi, come Perseo, ricoprono dell’elmo di Ade per rendersi così invisibili agli occhi dei viventi. L’Ἄιδος κυνέη, l’elmo in pelle di cane, copricapo di Ade, «contiene le tenebre lugubri della Notte» secondo le parole di Esiodo. Esso avvolge come una nube tenebrosa tutta la testa, la maschera, rendendo chi la porta invisibile a tutti gli sguardi, alla pari di un morto.

Uomo mascherato (Phersu) in fuga. Affresco, 540-530 a.C. c. dalla Tomba degli Auguri, Tarquinia, Necropoli di Monterozzi.

Le affinità infernali di Medusa orientano la ricerca in una duplice direzione. In primo luogo, ci portano a fare una digressione in ambito etrusco e ad aprire una parentesi circa la tesi di Altheim, ripresa e modificata in particolare da Agnello Baldi e da J.H. Croon. Richiamando la derivazione del latino persona (maschera, ruolo, persona) dall’etrusco Phersu, Altheim istituiva un’equivalenza tra Phersipnai e Περσεφόνη. Phersu figura in due affreschi della tomba detta degli Auguri, a Tarquinia (verso il 530 a.C.). Su una delle pareti laterali della camera mortuaria si affrontano due personaggi. L’uno porta una maschera tenebrosa che gli nasconde il volto e presenta una barba bianca che sembrerebbe posticcia. Un’iscrizione lo designa come Phersu, che dunque significherebbe «uomo mascherato», «portatore di maschera». Questo personaggio mascherato tiene con le due mani una lunga corda che si attorciglia alle gambe e alle braccia del suo avversario. Un’estremità di questa corda è fissata al collare di un cane che morde la gamba sinistra del secondo lottatore che impugna nella destra una clava e la cui testa è avvolta da un drappo bianco. Dalle ferite il sangue cola copioso. Lo stesso gruppo di due personaggi è rappresentato sulla parete di fronte. L’uomo mascherato non ha più né laccio né cane. Fugge a gambe levate, inseguito dall’avversario verso il quale gira la testa protendendo il braccio destro con la mano levata. L’interpretazione delle due scene è difficile e nessuna spiegazione sembra del tutto soddisfacente. Per Altheim si tratterebbe di una lotta rituale all’ultimo sangue in un gioco funebre in onore del defunto. Il termine Phersu designerebbe il Portatore di maschera officiante nel corso della cerimonia. Per J.H. Croon, la maschera costituisce nei giochi funebri un modo di figurare lo spirito del morto; nel corso di una danza rituale il Portatore di maschera mima e attualizza la Potenza d’Oltretomba, come Persefone, attraverso la maschera di Medusa posta sotto la sua autorità, presiede di persona al mondo infernale. Per R.B. Onians le scene hanno un significato diverso: il lottatore, armato di clava e attaccato dal cane, sarebbe Eracle disceso agli Inferi; Phersu andrebbe allora interpretato come Ade, alla fine vinto e messo in fuga. Per Agnello Baldi, Phersu, Περσεύς, Ade sono una sola e identica divinità. Comunque stiano le cose, nelle pitture murali etrusche di Orvieto e di Tarquinia, Ade è figurato con un elmo di pelle di lupo o di cane, che evoca sia la κυνέη indossata da Perseo sia la maschera di Phersu.

Rito del Phersu. Affresco, 540-530 a.C. c. dalla Tomba degli Auguri, Tarquinia, Necropoli di Monterozzi.

La seconda via offre un terreno più sicuro. Si tratta di seguire Esiodo in quei confini del mondo dove la Teogonia localizza le Gorgoni e le associa a tutta la stirpe dei mostri loro apparentati. Le Gorgoni appartengono alla discendenza di Forco e Ceto, il cui nome evoca al tempo stesso un’enormità mostruosa e, nel più profondo del mare e della terra, cavernose voragini. In effetti, tutti i figli della coppia hanno in comune, accanto alla mostruosità, il fatto di abitare «lontano dal dio e dagli uomini», nelle regioni sotterranee, al di là dell’Oceano, alla frontiera della Notte, spesso per svolgervi il ruolo di guardiani, addirittura di spauracchi, che sbarrano l’accesso a luoghi proibiti. Nati dall’unione di Ponto e Gea, Forco e Ceto generano prima le Graie, le vergini canute della nascita, che uniscono in sé il giovane e il vecchio, la freschezza della bellezza e le rughe di una pelle paragonabile a quella pellicola ruvida che si forma sulla superficie del latte raffreddato e che ha per l’appunto il loro nome: γραῦς, pelle rugosa. La prima delle Graie esiodee si chiama Πεμφρηδώ; πεμφρηδών è una sorta di vespa vorace che scava cavità sotterranee. La seconda si chiama Ἐνυώ, nome che evoca la signora dei combattimenti e il violento grido di guerra, l’invocazione squillante (ἀλαλή), che si alza in onore di Enialo. Sorelle delle Graie, le tre Gorgoni, che uniscono nel loro gruppo il mortale e l’immortale, abitano al di là delle frontiere del mondo, dalla parte della Notte, nel paese delle Esperidi dalla voce canora (λιγύφωνοι). La Gorgone mortale, di nome Medusa, si unisce a Poseidone in una tenera prateria fiorita di fiori primaverili, paragonabile a quella dove Ade rapisce la giovane Kore per portarla sottoterra e farne Persefone. Quando Perseo ebbe reciso la testa di Medusa, le uscirono dal collo Crisaore e il cavallo Pegaso che si slanciò verso il cielo. Crisaore generò Gerione tricefalo, colui che fa risuonare la sua voce (γηρύω), che fa esplodere un γήρυμα come l’ὑπέρτονον γήρυμα, il grido acutissimo della tromba d’Etruria.

Dea assisa in trono (forse Persefone?). Statua, marmo, 460 a.C. ca. da Taranto. Berlin, Pergamonmuseum.

A Gerione è associata una dei nati dalla terza nidiata di Forco e Ceto, l’atroce Echidna, metà ragazza metà serpente, che abita nelle segrete profondità della terra, lontano dagli dèi e dagli uomini. Tra altri mostri, questa Echidna dà a sua volta la vita ai due cani ringhiosi, stizzosi e latranti, ai due cani simmetrici Orto, cane di Gerione, e Cerbero, cane di Ade, la bestia dalle cinquanta teste, «dalla voce di bronzo», che custodisce le dimore piene di frastuono (δόμοι ἠχήεντες) del suo padrone e di Persefone, la Temibile. In questi stessi luoghi dell’Averno, regno della Tenebra e del Terrore, goccia l’acqua dello Stige (Στύξ), il solenne testimone dei giuramenti degli dèi. Alle divinità colpevoli di spergiuro questa acqua primordiale (ὕδωρ ὠγύγιον) porta ciò che corrisponde alla morte per gli Immortali che ad essa non sono sottoposti: un κῶμα temporaneo che li avvolge, privati di respiro e di voce, per un anno buono, così come la morte avvolge per sempre di tenebre la testa degli uomini. In questo senso Stige rappresenta per gli dèi ciò che è Medusa per le creature umane: un oggetto di orrore e di terrore. Come Stige è στυγερή ἀθανάτοισι, orrore degli Immortali, così le Gorgoni, che nessun essere umano può guardare senza spirare all’istante, sono βροτοστυγεῖς, l’orrore dei mortali. Styx è anche il barbagianni, doppio sinistro della civetta, uccello infausto, caratterizzato dalla grossa testa, dall’occhio malvagio, dal grido notturno della sua bocca.

Persefone. Pinax, terracotta, V sec. a.C. da Mannella (Locri). Reggio Calabria, Museo Nazionale della Magna Grecia.

Nelle zone infernali Tenebre, Spavento, figure e grida mostruose si assommano per esprimere l’«alterità» di Potenze estranee al dominio delle divinità celesti come pure al mondo degli uomini, lo statuto interamente separato di esseri ai quali, come dice Eschilo a proposito delle γραῖαι παλαιαὶ παῖδες, le vecchie fanciulle ancestrali, non si mescolano né dio, né uomo, né bestia.
Le sonorità inquietanti fanno a tal punto parte dell’universo al quale si collegano le Gorgoni che nel passo dello Scudo dove si parla della loro corsa, Esiodo aggiunge alle indicazioni puramente visive, di cui si è servito fino a quel momento per descrivere la scenda dello scudo di Eracle, notazioni auditive: sotto i loro piedi lo scudo risuonava con un grande clamore stridente e sonoro (ἰάχεσκε σάκος μεγάλῳ ὀρυμαγδῷ /ὀξέα καὶ λιγέως). Le uniche ulteriori indicazioni sonore del testo riguardano, l’abbiamo visto, il battito delle mascelle dei serpenti che terrorizzano gli esseri umani o di quelli che si attorcigliano intorno alle cinture delle Gorgoni.
Nella schiatta dei mostri nati da Forco e Ceto i serpenti hanno il posto d’onore. I suoni stridenti emessi dalla strozza delle Gorgoni o che vanno modulando le loro mascelle vorticose sono anche quelli dei serpenti che, di concerto, digrignano e battono i denti. Con il serpente, sono il cane e il cavallo a costituire le tre specie animali la cui forma e la cui voce entrano più specificamente nella composizione del «mostruoso». Se la «voce di bronzo» di Cerbero (χαλκεόφωνος) echeggia nelle dimore dell’Ade, le Erinni, quando Eschilo le paragona a Gorgoni, fanno sentire grugniti, ringhi stridenti; gemono, come «geme» negli Inferi il lungo lamento degli uomini suppliziati; esse «latrano come cani», dice il tragediografo, ed il termine impiegato, κλαγγαίνω, richiama la κλαγγή dei morti nell’Odissea e il lamento stridente e sonoro delle Gorgoni e dei loro serpenti.

Gruppo del pittore Leagro. Gorgoneion. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure nere, 520 a.C. ca. da Cerveteri. Paris, Cabinet des médailles.

Anche il cavallo, per come agisce e per le sonorità che gli sono proprie, può tradurre la presenza inquietante di una Potenza degli Inferi che si manifesta in forma animale. Alla sua nervosità, alla sua tendenza ad imbizzarrirsi di colpo per effetto di un improvviso terrore come quello causato dalla potenza demoniaca di Tαράξιππος, il Terrore dei cavalli (τὸ τῶν ἵππων δεῖμα), che lo porta a diventare frenetico e selvaggio fino a divorare la carne umana, a fremere, a sbavare, a coprirsi di schiuma bianca, bisogna aggiungere il nitrito, il fragore degli zoccoli che martellano la terra, il sordo digrignare dei denti (βρυγμός) e infine, tra le mascelle, il rumore sinistro del morso che provoca terrore, facendo risuonare l’omicidio. Nel lessico riferito al cavallo, γοργός assume un significato quasi tecnico. Riferito a tale animale, infatti, γοργοῦμαι significa «scalpitare». Senofonte nota, nell’Equitazione, che il cavallo nervoso e impetuoso è terribile a vedersi (γοργὸν ἰδεῖν), che le sue nari spalancate lo rendono γοργότερον, che i cavalli, quando si uniscono in torme, con il battito degli zoccoli, i nitriti, gli sbuffi moltiplicati dal numero, sembrano più ardenti e focosi (γοργότατοι).

Robuste case per gli dèi

di F. Canciani, La cultura orientalizzante e le sue espressioni figurative, in Storia e civiltà dei Greci (Dir. R. Bianchi Bandinelli) – Vol, II – Origini e sviluppo della città: l’Arcaismo, Milano. 1977.

Nel VII secolo a.C. si costruiscono i primi edifici monumentali dopo la fine dell’età micenea e inizia l’elaborazione degli ordini architettonici. Purtroppo la documentazione è scarsa e non sempre di facile interpretazione. La tecnica edilizia continua ad essere quella di età geometrica, con fondazioni in pietra ed elevato in scheggioni o mattoni crudi, eventualmente con rinforzi in legno. Presto si introduce anche l’uso di blocchi in pietra regolarmente squadrati, forse dall’Egitto, dove esiste una lunga tradizione di architettura litica; nel campo dell’architettura le connessioni con l’Oriente non sono però così evidenti come nelle altre arti. I muri di pietra, più robusti, potevano sopportare un tetto di un certo peso; viene così introdotta la copertura mediante tegole, che sono un’invenzione greca.

Resti dell'Heráion di Olimpia (risalenti al 600 a.C. ca.).
Resti dell’Heráion di Olimpia (risalenti al 600 a.C. ca.).

La pianta ora prevalente è quella rettangolare, che soppianta quasi del tutto quella absidata. Alla fine del secolo appartengono due dei più antichi templi dorici conosciuti, quello di Apollo a Thermos in Etolia, già ricordato per le sue metope, e quello di Hera a Olimpia, mentre il tempio di Poseidone a Isthmia è più antico, ancora anteriore alla metà del secolo. I templi di Apollo e di Hera avevano muri di mattoni crudi su zoccolo in pietra (a Olimpia ortostrati) e colonne di legno; il tempio di Hera conservava ancora nel II secolo d.C. una colonna di legno nell’opistodomo (Paus. V, 16, 1); di legno doveva essere pure l’epistilio. Il tempio di Apollo a Thermos presenta una peristasi di cinque colonne in facciata e quindici sui lati lunghi; la cella, stretta e allungata, divisa in due navate da una fila di colonne o pilastri, ha un profondo opistodomo. Il tempio di Hera si avvicina maggiormente allo schema del tempio arcaico: la peristasi è di sei per sedici colonne – la pianta è quindi meno allungata – e la cella, con pronao e opistodomo, era divisa originariamente in tre navate. Il tempio di Poseidone invece, con una peristasi lignea – ipotetica – di sette per diciannove colonne, aveva le pareti della cella interamente costruite in blocchi di pietra squadrati e decorate con pitture; il tetto, probabilmente a quattro spioventi, era coperto con tegole di tipo laconico.

Le parti lignee degli edifici dovevano essere protette e decorate con rivestimenti in terracotta e metallo: a Olimpia si sono trovati frammenti di lamina di bronzo decorata a sbalzo, che rivestivano la sommità di colonne e la parte inferiore di capitelli. Anche la decorazione vera e propria doveva comprendere parti in metallo, e una lamina di bronzo come quella, trovata a Olimpia, con una femmina di grifone che allatta un cucciolo, potrebbe appartenere ad una metopa. Secondo la tradizione, il terzo tempio di Apollo a Delfi e quella di Atena Chalkìoikos a Sparta erano di bronzo; in qual senso sia da intendersi l’espressione mostra il Pythion di Gortina, del quale si è conservata parte dell’elevato, predisposta per un rivestimento in piastre di metallo.

I primi capitelli dorici in pietra risalgono alla fine del VII secolo a.C. e sono probabilmente ispirati a capitelli, ancora visibili, di età micenea; esempi caratteristici sono quelli del più antico tempio di Atena Pronaia a Delfi e un capitello sporadico da Tirinto, che si distinguono per l’echino largo, gonfio e schiacciato. Di derivazione micenea è probabilmente anche un capitello a foglie di palma, trovato reimpiegato nella necropoli di Arkades; il tipo è documentato ancora nella seconda metà del VI secolo a Delfi nei thēsauroì di Massilia e di Clazomene e sarà ripreso in età ellenistica nei caratteristici capitelli pergameni.

Ricostruzione assonometrica del tempio di Poseidone a Isthmia (Corinzia). Elaborazione grafica da E.R. Gebhard, 2001.
Ricostruzione assonometrica del tempio di Poseidone a Isthmia (Corinzia). Elaborazione grafica da E.R. Gebhard, 2001.

La genesi dell’ordine ionico è più complessa. Già il secondo Heraion di Samo, costruito verso la metà del VII secolo o poco dopo, con le sue dimensioni di m 11,70×37,70 è uno dei pochi edifici veramente monumentali dell’epoca; anche il secondo tempio di Apollo Dafnoforo ad Eretria, che gli è pressappoco contemporaneo e simile per la pianta, appartiene probabilmente alla storia dell’architettura ionica.

Il tempio di Hera presenta una peristasi di sei per diciotto colonne, che dovevano essere semplici sostegni di legno; in facciata però sono disposte in doppia fila, prefigurando i grandi dipteri arcaici. Non molto diversi dovevano essere i sostegni della stoà meridionale, quasi una leggera tettoia, costruita nel santuario di Hera nella seconda metà del VII secolo a.C. Il capitello ionico vero e proprio sembra apparire all’inizio del VI secolo, ma ancora nella seconda metà del secolo, nell’Heráion di Policrate, erano impiegati capitelli a semplice corona di foglie per la peristasi interna e per il naòs. Capitelli a corona di foglie sono documentati pure nelle città dell’Asia Minore nella prima metà del VI secolo – uno è stato erroneamente unito in un restauro a un capitello a volute da Neandria – e trovano riscontri in capitelli orientali; elementi formalmente affini si incontrano spesso in Oriente nella decorazione di mobili.
Per l’Eolide sono caratteristici i capitelli con due volute dirette verso l’alto, tra le quali si inserisce una palmetta o un elemento triangolare; capitelli di tipo affine sono documentati in Fenicia e a Cipro. Lo scarto cronologico tra i più antichi capitelli eolici e ionici è minimo, se non inesistente, e non sembra fondata l’ipotesi, spesso ripetuta, di una derivazione dei secondi dai primi.

Dal tempio di Atena a Smirne, distrutto dal re lidio Aliatte, proviene una serie di problematici pezzi architettonici, formati da una corona di foglie e da un elemento svasato circondato da foglie e fiori di loto; la loro destinazione è incerta: parti di capitello, o forse un esperimento nel lungo processo di elaborazione della base della colonna ionica.
Non mancano edifici di pianta anomala. Il tempio sull’acropoli di Gortina, probabilmente dedicato ad Atena, presenta un atrio che introduce a sei ambienti disposti in due file, e resta per ora senza confronti convincenti; l’ingresso era forse fiancheggiato da due sfingi, come certi edifici orientali, e ad un costume orientale risponde pure il deposito di fondazione.

Riferimenti bibliografici:
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Auberson P., Eretria I, Temple d’Apollon Daphnéphoros, Berne 1968, p. 13.
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Verzone P., Il bronzo nella genesi del tempio greco, in Studies Presented to D. M. Robinson I, St. Louis 1951, pp. 272 ss.
Wesenberg D., Kapitelle und Basen, «Bonner Jahrbücher» Beiheft 32, Düsseldorf 1971, p. 52; p. 60.

 

La ceramica “orientalizzante”

di F. CANCIANI, La cultura orientalizzante e le sue espressioni figurative, in Storia e civiltà dei Greci (Dir. R. BIANCHI BANDINELLI) – Vol, II – Origini e sviluppo della città: l’Arcaismo, Milano 1977.

Con il termine di «Protoattico» si indica la produzione ateniese tra la fine dell’VIII e la fine del VII secolo a.C.; comunemente essa viene divisa in tre periodi: antico (710-680 a.C.), medio (680-630 a.C.) e tardo (630-600 a.C.). Data la consistenza della tradizione figurativa precedente, il passaggio all’Orientalizzante non è netto, e vari elementi di ascendenza geometrica si conservano alquanto a lungo. La personalità che sembra avventurarsi per prima oltre la tradizione è il Pittore di Analatos. Il vaso eponimo, l’ὑδρία 313 del Museo Nazionale di Atene, la cui destinazione funeraria è sottolineata dai serpenti plastici che si snodano sull’ansa, sulla spalla, intorno all’imboccatura, conserva molti elementi di origine geometrica: cornice, riempitivi, la fila di quadrupedi sotto le anse, il χορός intorno al collo.

Pittore di Analatos. Χορός di giovani e donne (dettaglio del collo). Pittura vascolare dall’ὑδρία 313 in stile orientalizzante e geometrico, inizi VII sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Pittore di Analatos. Χορός di giovani e donne (dettaglio del collo). Pittura vascolare dall’ὑδρία 313 in stile orientalizzante e geometrico, inizi VII sec. a.C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

La forma del vaso è però sfinata, il collo altissimo; il contorno delle figure è fluido, organico. Sulla spalla ai lati di una pianta si affrontano due leoni famelici, con grandi occhi risparmiati, fauci e artigli ben in evidenza. Sotto l’ansa verticale è un’ampia zona con motivi fitomorfi derivati dalle palmette incorniciate fenicie, resi però con una sensibilità per la sostanza vegetale estranea ai modelli. Il gusto coloristico del Pittore si manifesta nelle superfici coperte di punti, nelle corpose strisce di vernice. Ad un momento più avanzato della sua attività appartiene l’anfora CA 2985 del Louvre, anch’essa una forma tardo-geometrica, ma con un collo spropositato; ogni articolazione è annullata dalle pareti di argilla all’interno delle anse, e il vaso acquista una fluidità di contorno quasi organica. Attorno al corpo si svolge una sfilata di carri, sul collo di un χορός e una fila di sfingi sono divisi da rosette alternate a brevi trecce verticali. Le figure sono a silhouette e a contorno, le donne portano ampie vesti coperte di punti, i cavalli, delicati e nervosi, hanno una criniera a lunghe ciocche ondulate indicate a graffito. L’anfora, più matura dell’ὑδρία per il calcolato equilibrio dei contrasti di colore, rappresenta bene il coesistere di tradizione e nuovi fermenti, caratteristico per il Protoattico Antico.

Pittore di Analatos. Anfora CA 2985 Louvre. Pittura vascolare di una loutrofora protoattica, da Atene. 690 a.C. ca. Musée du Louvre.
Pittore di Analatos. Anfora CA 2985 Louvre. Pittura vascolare di una λουτροϕόρος protoattica, da Atene, 690 a.C. ca. Paris, Musée du Louvre.

Un caso fortunato ci consente di intravvedere l’organizzazione di una bottega ateniese. Una sola bottega infatti ha prodotto su commissione per un’unica sepoltura cinque crateri e altre ceramiche – ora conservati nella Collezione Universitaria di Magonza – affidandone la decorazione a tre pittore diversi in collaborazione tra loro: il Pittore di Analatos, il Pittore N e il Pittore di Passas. Il Pittore di Analatos, il più notevole dei tre, mostra il suo gusto coloristico nel largo uso del bianco, anticipando una voga caratteristica per il Protoattico Medio. I crateri combinano elementi diversi: il calderone con manici ad anello sormontati da un fiore di loto e il sostegno troncoconico di derivazione orientale, i serpenti plastici caratteristici per i vasi funerari greci. La decorazione pittorica è tutta improntata da un incombente simbolismo funerario: file di guerrieri, leoni famelici e uccelli in volo sul campo di battaglia, sfingi minacciose, forse le Keres, demoni della morte. Le figure, benché spigolose, sono piene di vitalità e di energia, i leoni, di magrezza spettrale, sembrano grandi cani e nulla devono all’iconografia orientale. I soli elementi forestieri sono le sfingi e le palmette incorniciate.

Pittore della Mesogaia. Hydría ad uso funerario. Pittura vascolare di stile protoattico, da Atene. 700 a.C. ca. Berlin Antikensammlung.
Pittore della Mesogaia. Ὑδρία di uso funerario. Pittura vascolare in stile protoattico, ca. 700 a.C. da Atene. Berlin, Antikensammlung.

Tra i contemporanei del Pittore di Analatos i due più importanti sono il Pittore della Mesogaia e il Pittore dell’Avvoltoio, che ne condividono la formazione ancora geometrica e il gusto per gli ornamenti curvilinei. Il Pittore della Mesogaia dipinge con baldanza alcune ὑδρίαι, inserendo in una cornice ancora abbastanza fedelmente geometrica centauri alati, sfingi, leoni, χοροί, grandi viticci che richiamano quelli dei vasi protocorinzi del gruppo di Cuma; le sue opere più tarde arrivano agli inizi del Protoattico Medio. Il Pittore dell’Avvoltoio ha un disegno preciso e una nitida distribuzione di chiari e di scuri, che sembra rifarsi alla migliore tradizione geometrica. Alla sua bottega è attribuita un’anfora nel Metropolitan Museum di New York, decorata con donne piangenti e con una sfilata di carri interrotta da un solitario cavaliere; un gusto geometrico, quasi retrospettivo, si avverte nella sua puntigliosa simmetria con cui i due leoni affrontati sulla spalla sono risolti in due doppie spirali contrapposte.

Pittore dell’Avvoltoio. Coppa protoattica con alto piede, dall’Attica. 715-700 a.C. ca. Musée du Louvre.
Pittore dell’Avvoltoio. Coppa protoattica con alto piede, ca. 715-700 a.C. dall’Attica. Paris, Musée du Louvre

Nel Protoattico Medio si intrecciano tendenze diverse, e spesso è difficile scorgere relazioni tra le singole personalità: una prima fase, sino alla metà del secolo, si distingue per il largo uso del colore bianco (black and white style). Caratteristici sono soprattutto grandi vasi, anfore, crateri, che sembrano contenere a stento una decorazione straripante: animali in lotta, scene mitologiche; le formulazioni, uniche e irripetibili, rivelano il formarsi di una tradizione. Rappresentativo di questa tendenza, confusa ma vitale, è il Pittore della Scacchiera; un suo cratere nel Museo di Berlino è decorato con un daino azzannato da due leoni; le figure sono a silhouette con particolari risparmiati o graffiti; le teste dei leoni, disegnate a contorno, tradiscono la conoscenza dell’iconografia tardo-hittita in particolari come sopracciglia arcuate, il muso corrugato, ma la derivazione è generica, senza la puntigliosa esattezza e la felice sintesi decorativa dei contemporanei leoni protocorinzi.
Le due personalità di maggior rilievo sono però il Pittore di Polifemo e il Pittore della Brocca degli Arieti, che continuano in varia misura rispettivamente la tradizione dei Pittori della Mesogaia e di Analatos. L’opera più significativa del Pittore di Polifemo è la grande anfora, da cui prende il nome, impiegata ad Eleusi per l’inumazione di un bambino. Soltanto la parte anteriore del vaso è decorata, su quella posteriore sono schizzati sommari viticci. Sul corpo è rappresentato Perseo, assistito da Atena, in fuga davanti alle Gorgoni Steno ed Euriale, mentre a sinistra giace il grande corpo decapitato di Medusa. L’iconografia delle Gorgoni è ancora incerta, e le loro teste ricordano stranamente i contemporanei calderoni con protomi di animali. Sulla spalla dell’anfora si affrontano un leone e un cinghiale, mentre sul collo è rappresentato l’accecamento di Polifemo; Odisseo si distingue dai suoi compagni per il colore bianco del corpo. Sono figure smisurate, impegnate in azioni drastiche, ai limiti del possibile. Su un ὑποκρατήριον dello stesso Pittore, pure a Berlino, una generica sfilata di personaggi riccamente vestiti acquista invece significato mitologico grazie all’iscrizione “ΜΕΝΕΛΑΣ” dipinta accanto a uno di essi.

Pittore di Polifemo. «Anfora di Eleusi». L’accecamento di Polifemo (Dettaglio sul collo). 660 a.C. ca. Museo Archeologico di Eleusi.
Pittore di Polifemo. L’accecamento del Ciclope (dettaglio del collo). Pittura vascolare dalla cosiddetta «Anfora di Eleusi», c. 660 a.C. Eleusi, Museo Archeologico Nazionale.

Il Pittore della Brocca degli Arieti è di poco più giovane del collega e ne differisce per uno slancio più contenuto, un più calcolato equilibrio compositivo, un gusto attento al particolare. Sul collo di un’anfora frammentaria conservata a Berlino, Peleo affida il piccolo Achille alle cure di Chirone; il centauro ritorna dalla caccia portando in spalla, appesi a un bastone, tre cuccioli – di leone, di cinghiale, di lupo – da cui trarrà nutrimento il suo pupillo. Su un cratere, pure a Berlino, è rappresentata probabilmente l’uccisione di Egisto da parte di Oreste, e la drasticità dell’azione è accentuata da tre bizzarre figure sotto le anse, forse demoni; sotto si snoda una fila di cavalli al pascolo, con zampe esili e lunghe criniere, che ricordano analoghe figure del Pittore di Analatos. Il vaso eponimo, uno dei più maturi, è un’oinochòē a bocca circolare, una forma estranea alla tradizione attica e forse derivata dal repertorio cretese o greco-orientale, con sulla spalla la fuga di Odisseo e dei suoi compagni dalla grotta di Polifemo aggrappati agli arieti del Ciclope.
Di particolare interesse è una serie di vasi a destinazione funeraria, con fantasiose aggiunte plastiche, decorati dopo la cottura con ricca policromia. Un esempio assai elaborato è un’οἰνοχόη del Ceramico, databile verso il 660 a.C.: sulla spalla tre figure femminili a tutto tondo sembrano reggere l’imboccatura, l’ansa è sormontata da un fiore, due serpenti si snodano sulla spalla e spuntano poi dall’interno del collo; la πρόθεσις dipinta sul corpo documenta la continuità di tradizione e di iconografia con l’età geometrica. Anche l’ἐκφορά è documentata da un gruppo fittile trovato a Vari.
Nella seconda metà del VII secolo a.C. lo slancio si mitiga, le figure si fanno più compatte e precise, mentre la policromia si arricchisce con il frequente impiego del rosso. Un’opera particolarmente rappresentativa per questo momento di transizione e consolidamento è l’anfora da Cinosarge nel Museo di Atene, decorata sul collo con una coppia di lottatori, sul corpo con due personaggi su un carro tirato da cavalli alati, che sembrano congedarsi da una donna. Le figure delle due scene principali sono a contorno, con ricca policromia, mentre in un pannello sulla spalla è inserito un quadrupede a silhouette; lo sfondo è invaso da riempitivi geometrici e fitomorfi.
Alla fine del secolo prevale ormai la tecnica a figure nere, di derivazione corinzia. La personalità più notevole è il Pittore di Netos, la cui produzione giovanile era stata dapprima raggruppata sotto l’etichetta di Pittore della Chimera. Il suo gusto per le composizioni è ben rappresentato dal cratere di Vari, con il mito di Prometeo liberato da Eracle, mentre il cratere A dello stesso ritrovamento, con i grandi gruppi antitetici di fiere che dilaniano un animale ha la grandiosità delle – più tarde – sculture frontonali in πόρος sull’Acropoli. Sul collo dell’anfora eponima, Atene 1002, è rappresentato Eracle che uccide il centauro Nesso; sul corpo a sinistra giace Medusa decapitata, al centro le due Gorgoni inseguono Perseo, che però non compare. Il confronto con l’anfora del Pittore di Polifemo è istruttivo: le Gorgoni hanno assunto la loro fisionomia definitiva e si muovono rapide sopra il mare, indicato da una fila di delfini. Il prevalere degli interessi narrativi porta ad una drastica riduzione dei motivi di riempimento, le figure, quasi concentrate, sono di una compressa monumentalità.
A Corinto la situazione è del tutto diversa, e la cesura tra il Tardo Geometrico e il Protocorinzio Antico è netta. L’Orientalizzante appare a Corinto in modo quasi improvviso, con l’immissione di tutta una serie di elementi nuovi, probabilmente conseguenza di contatti diretti e intensi con il Vicino Oriente; la prima fase, il Protocorinzio Antico, appartiene ancora all’ultimo venticinquennio dell’VIII secolo a.C. Caratteristici sono gli ἀρύβαλλοι, vasetti per profumi, spesso con delicata decorazione miniaturistica. Parallelamente si svolge una produzione monotona, ma di alta qualità tecnica, di vasi con decorazione lineare sub-geometrica. Forme frequenti sono particolarmente le κύλιξ e la κοτύλη, derivata dal tipo Aetos 666, decorata dapprima con file di uccelli schematici eseguiti meccanicamente con un pennello multiplo, poi con file di «sigma». Sulla sequenza tipologica, relativamente chiara, della κοτύλη, e soprattutto dell’ἀρύβαλλος, si basa la cronologia del Protocorinzio, e indirettamente quella di tutto l’Orientalizzante. Il Protocorinzio Antico è caratterizzato dall’ἀρύβαλλος globulare, che si diffonde rapidamente dopo sporadiche apparizioni nel Geometrico, e dal persistere di σκύφοι del tipo Tapso; la κοτύλη tende a diventare sempre più slanciata. Alla fine del periodo la parte inferiore dei vasi non è più verniciata, ma racchiusa da una schematica corolla di raggi triangolari. La decorazione comprende numerosi elementi figurativi: cervi al pascolo, uccelli, pesci, protomi di animali, motivi vegetali; su un’οἰνοχόη conica del Metropolitan Museum è rappresentato anche un cratere con protomi di grifone sul relativo ὑποκρατήριον. I vasi del gruppo di Cuma, così chiamati dal luogo di ritrovamento di alcuni di essi, sono decorati con elaborati viluppi vegetali che interpretano con libertà spunti orientali; sul collo delle οἰνοχόαι si conserva ancora la decorazione a uccelli e file di sigma.

Autore ignoto. Aryballos protocorinzio a forma di testa femminile con combattimento tra opliti, da Tebe. 650-630 a.C. ca. Musée du Louvre.
Pittore anonimo. Ἀρύβαλλος protocorinzio con protome femminile e rappresentazione di un combattimento oplitico sul corpo, c. 650-630 a.C. da Tebe. Paris, Musée du Louvre.

Nel Protocorinzio Medio gli interessi figurativi si fanno più complessi, appaiono episodi del mito, battaglie, animali in lotta o in corsa; si sviluppa la tecnica a figure nere, con i contorni e i particolari indicati mediante linee graffite, forse ispirata al procedimento, usuale della toreutica, di rifinire le figure a bulino. Gli ἀρύβαλλοι sono di forma più allungata, ovoide, alti in media 6-8 cm, spesso con più fregi di puntiglioso miniaturismo. Su un ἀρύβαλλος dall’Heraion di Argo appaiono i primi leoni protocorinzi, che tradiscono la derivazione da modelli tardo-hittiti nel disegno delle zampe e della testa con le fauci spalancate e la lingua pendente; una delle fiere, con il corpo maculato e la testa di prospetto, è forse una pantera. Di solito gli ἀρύβαλλοι sono decorati sulla spalla con elaborati viluppi di palmette, fiori e boccioli di loto. Nei fregi secondari ricorre spesso il motivo del cane che insegue una lepre; reso a semplice silhouette, esso è la decorazione principale di una serie di ἀρύβαλλοι o κοτύλαι di qualità andante, che continuano sino alla fine del secolo.
Un ἀρύβαλλος a Berlino con il suicidio di Aiace è opera di un ceramografo – il Pittore di Aiace – che ha decorato pure altri vasi con soggetti mitologici; le figure schiacciate nei due fregi sovrapposti, con membra troppo lunghe, si muovono gesticolando con impegno, ma sembrano a disagio nello spazio troppo basso. Le scene mitologiche sono piuttosto frequenti nel Protocorinzio Medio, ma non sempre di facile esegesi: come nel Protoattico, si tratta di esperimenti caratteristici per il costituirsi di una tradizione, che non stabiliscono ancora una norma iconografica. Non mancano opere di carattere diverso: grandi vasi, οἰνοχόαι, κοτύλαι, decorati con poche figure campite sul fondo chiaro. Particolarmente rappresentativo per questa tendenza è il Pittore dei Cani, che dipinge alcune κοτύλαι con cani e leoni in corsa, figure nervose ed eleganti, rette da una mordente linea di contorno, raggiungendo effetti monumentali. Su una κοτύλη da Egina del Pittore di Bellerofonte è rappresentata la lotta dell’eroe con la Chimera, un mostro che trova appena ora la sua definizione iconografica rielaborando spunti orientali.

Gruppo di Alari. Cani da caccia in corsa. Aryballos protocorinzio, da Corinto. 650-620 a.C. ca. Musée du Louvre.
Gruppo di Alari. Cani da caccia in corsa. Pittura vascolare da un ἀρύβαλλος protocorinzio, ca. 650-620 a.C. da Corinto. Paris, Musée du Louvre.

L’iconografia del leone costituisce uno degli elementi più indicativi delle connessioni orientali del Protocorinzio – e in genere di tutto l’Orientalizzante. Nella prima metà del secolo si seguono modelli siriaci e tardo-hittiti, con muso massiccio, fauci spalancate, lingua pendente, naso corrugato, sopracciglia arcuate, orecchie a cuore o semicircolari, testa e punta del muso contornati, criniera sommaria e compatta, artigli indicati con linee parallele. Esemplare per la rielaborazione protocorinzia dell’iconografia del leone tardo-hittita è la protome che serve da imboccatura all’ἀρύβαλλος Macmillan, conservato nel British Museum. Il vasetto appartiene a una particolare classe a cavallo tra il Protocorinzio Medio e il Protocorinzio Tardo, che si distingue per un uso assai disinvolto della policromia, ed è un vero miracolo di tecnica miniaturistica; alto appena 6,8 cm, è decorato con ben quattro fregi: sulla spalla un intreccio di palmette e fiori di loto, sul corpo una battaglia e, in grandezza decrescente, una corsa di cavalli e una caccia alla lepre.
Nella seconda metà del secolo, nel Protocorinzio Tardo (650-635 a.C.) la produzione aumenta, ma il livello è spesso più modesto. Gli ἀρύβαλλοι sono ora di forma più slanciata, a pera (ἀρύβαλλοι piriformi), si diffonde una nuova forma di brocca a sacco, l’ὄλπη . Le figure hanno maggior ricchezza di particolari anatomici, indicati con incisione, e più abbondanti ritocchi di colore. Si diffonde l’uso di larghe fasce di vernice, in cui sono graffite con un compasso file di squame disposte ad embrice ravvivate con ritocchi di colore.
Non mancano opere di qualità. Un’ὄλπη trovata a Veio, tarda opera del Pittore dei Cani, ripropone il tema del leone che azzanna un toro con il piglio monumentale caratteristico del Maestro; le figure, graffite sul fondo di vernice, sembrano la traduzione ceramica di un’opera della toreutica.

L'«Olpe Chigi». Particolare: due falangi oplitiche che si affrontano. Pittura vascolare da un olpe tardo-corinzio a figure nere e policrome. 630 a.C. ca., da Veio. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
Combattimento tra due falangi oplitiche (dettaglio). Pittura vascolare tardo-corinzia a figure nere e policrome dalla cosiddetta «Olpe Chigi», c. 630 a.C., da Veio. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

L’olpe Chigi, nel Museo di Villa Giulia a Roma, appartiene alla stessa classe policroma dell’ἀρύβαλλος  Macmillan ed è opera dello stesso pittore. Nei due fregi maggiori sono rappresentati una battaglia di opliti, il giudizio di Paride, una sfilata di carri e cavalieri, una caccia al leone; la composizione è bilanciata, con sapiente uso di sovrapposizioni. La movimentata caccia al leone ricorda le imprese dei re assiri nelle loro riserve, ma è svolta con un piglio fabulistico estraneo ai modelli orientali. Attorno al collo verniciato si snoda una bianca ghirlanda di palmette e fiori di loto; due fregi minori sul corpo del vaso hanno scene di caccia: uno, in bianco sul fondo nero, presenta il consueto motivo dei cani che inseguono vari quadrupedi; l’altro, policromo, disteso, con un cacciatore in agguato dietro un cespuglio, ha uno straordinario senso di aria aperta.
Vengono svolte anche scene di argomento quotidiano: un’οἰνοχόη frammentaria trovata ad Egina mostra una fila di animali condotti al sacrificio, descritti con minuzia nei particolari dell’anatomia. Tra gli ornamenti di riempimento, ora spesso molto fitti, sono frequenti le rosette a puntini, che si trasformeranno poi in cerchietti con un punto al centro. Nel Protocorinzio Tardo i leoni presentano spesso elementi dell’iconografia assira, derivati probabilmente attraverso la mediazione siro-hittita: muso più appuntito, pieghe a palmetta sotto gli occhi, folta criniera, che saranno più evidenti nel Transizionale. Le forme più comuni sono ἀρύβαλλοι, ὄλπαι, οἰνοχόαι, κοτύλαι, decorati con file di animali; sugli ἀρύβαλλοι sono frequenti le composizioni antitetiche. Appaiono sporadicamente forme nuove, che si diffonderanno in seguito: l’ἀρύβαλλος sferico, l’ἀλάβαστρον, entrambi di derivazione orientale. Le figure tendono a diventare più grandi e corpose, alla precedente vivacità di atteggiamenti subentra una certa staticità.
Nel periodo di transizione al Corinzio, il cosiddetto «Transizionale» (636-620 a.C.), questi fenomeni si accentuano, mentre l’ἀρύβαλλος piriforme è gradualmente soppiantato dall’ἀλάβαστρον. Le figure tendono ad allungarsi, appaiono bizzarre creature mostruose, come uccelli con testa di pantera. Su ἀρύβαλλοι e ἀλάβαστρα sono frequenti coppie araldiche di leoni, sfingi, grifoni; nei casi più felici si giunge a una formulazione monumentale dei corpi felini, rielaborando liberamente elementi desunti dall’iconografia del leone assiro. Di notevole interesse è l’attività di botteghe e di pittori, come il Pittore della Sfinge, la cui attività si estende dal Transizionale al Corinzio Antico.
Le metope fittili del tempio di Apollo a Thermos in Etolia, la cui decorazione architettonica fu affidata a una bottega corinzia, costituiscono un prezioso documento della pittura di età transizionale. Si riconoscono tra l’altro un Γοργόνειον, Perseo con la testa di Medusa, Chelidone e Aedone, le figlie di Proitos, figure membrute, descritte minuziosamente e campite con sicurezza nella metopa, che occupano in tutta la superficie. Più che pitture, sono disegni colorati, vicini per tecnica e qualità ai migliori prodotti della ceramica, come i vasi del gruppo policromo.

Filomela, figlia di Pandione, re di Atene. Metopa dipinta, terracotta, VII sec. a.C. ca. dal Tempio di Apollo di Thermos (Etolia). Atene, Museo Archeologico Nazionale.
Filomela, figlia di Pandione, re di Atene. Metopa dipinta, terracotta, VII sec. a.C. ca. dal Tempio di Apollo di Thermos (Etolia). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Con l’avvento del Corinzio la produzione aumenta considerevolmente, ma le opere di alta qualità si fanno più rare. La cesura con il Transizionale non è netta e si riscontra una certa continuità nelle forme e nel repertorio iconografico. Nel Corinzio Antico (620-590 a.C.) appaiono anche forme nuove, come la pisside a pareti curve, il cratere a colonnette, mentre prosegue la tradizione del fregio orientalizzante di animali e creature fantastiche. Gli ἀρύβαλλοι e gli ἀλάβαστρα sono spesso decorati con un’unica figura, che si dilata a coprire tutta la superficie del vaso; frequente è un personaggio alato con il corpo anguiforme, convenzionalmente chiamato «Tifone». Caratteristiche sono le rosette a macchia, divise internamente a graffito, che a volte riempiono così fittamente ogni superficie disponibile, da far quasi scomparire le figure. Scene con personaggi – cavalieri, guerrieri, comasti – sono abbastanza frequenti, mentre più rare sono le rappresentazioni mitologiche. Tra queste va ricordata quella di Eracle a banchetto nel palazzo di Eurialo a Echalia su un cratere nel Museo del Louvre, per la sua composizione pacata, l’equilibrio nell’uso delle figure nere e a contorno, la sicurezza del segno; sotto si svolge una cadenzata corsa di cavalieri. Il solo elemento di origine orientale, ormai remota è il fregio di palmette e fiori di loto sulla spalla del cratere. La tradizione del fregio orientalizzante di animali continua sino alla metà del VI secolo, ma è destinata a spegnersi per progressivo esaurimento; sulle opere di maggior impegno, quelle con scene di carattere narrativo, è sempre confinato in posizione secondaria. I vasi corinzi non hanno però una tradizione narrativa così ricca e articolata come i vasi attici, e forse questo è uno dei motivi che ne hanno determinato il declino.
Tra le creazioni più felici della ceramica protocorinzia sono alcuni vasetti plastici, in forma di uccelli, di protome di leone; per la definizione dei volumi e l’intimo rapporto di forma e decorazione sono tra le espressioni più riuscite della plastica del VII secolo.

Scena di κῶμος. Pittura vascolare in stile corinzio dal cosiddetto «Cratere di Eurito», c. 600 a.C. Paris, Musée du Louvre.
Scena di κῶμος. Pittura vascolare in stile corinzio dal cosiddetto «Cratere di Eurito», c. 600 a.C. Paris, Musée du Louvre.

La situazione dell’Argolide è ancora poco chiara. Continua una tradizione sub-geometrica, piuttosto trita, documentata dai ritrovamenti nel santuario di Agamennone a Micene, ma non mancano esempi di notevole impegno figurativo. Su uno scudo fittile da Tirinto, databile intorno al 700 a.C., è forse rappresentato il duello fra Achille e Pentesilea; i personaggi, esagitati e grotteschi, hanno il corpo a silhouette e la testa a contorno, le armi e le vesti sono descritte con minuzia. Su un frammento di cratere trovato ad Argo, già nel secondo venticinquennio del VII secolo, è rappresentato l’accecamento di Polifemo ad opera di Odisseo. Le figure sono a contorno, lunghe e spigolose, l’incarnato è reso con un colore giallo ocra. Per ora si tratta però di pezzi isolati, che non si inseriscono in una tradizione riconoscibile.
In ambiente euboico-cicladico la situazione è sostanzialmente simile a quella del Tardo Geometrico, mentre la documentazione per la Tessaglia è elusiva. In Eubea i ritrovamenti di Calcide ed Eretria documentano il persistere di grandi anforoni, decorati con leoni, sfingi, processioni di donne, motivi vegetali, caratteristici viluppi in forma di “8”; le figure sono dipinte a contorno e a silhouette, con vivace policromia. La produzione euboica ha comunque perso la qualità e la diffusione raggiunte nel Tardo Geometrico.

Nelle Cicladi la situazione è complessa, e permangono le difficoltà già incontrate nel Geometrico per localizzare le singole botteghe. Una serie caratteristica è costituita dai vasi del gruppo A(d) di Delo, anfore, ὑδρίαι, σκύφοι, decorati con file di animali, cavalli, capre, grifoni, qualche sporadico leone, e riempitivi fittissimi e minuti; di solito il corpo del vaso è circondato da una vistosa faccia a scacchiera. Gli animali, allungati, quasi filiformi, sono di tradizione geometrica. Probabilmente uno sviluppo più tardo di questa classe è costituito dai vasi «melii», in cui si conservano molti dei caratteri motivi di riempimento.

Pithos-anfora di tipo «melio». Eracle e Deianira su un carro trainato da cavalli alati. Sul collo – Hermes, Artemide e due cavalli, da Aptera (Creta). Fine VII secolo a.C. Museo Archeologico Nazionale di Atene.
Eracle e Deianira su cocchio trainato da cavalli alati (dettaglio sul corpo centrale); Hermes, Artemide e due cavalli (dettaglio sul collo). Pittura vascolare da un’anfora di tipo melio, fine VII sec. a.C. da Aptera (Creta). Atene, Museo Archeologico Nazionale.

I vasi, soprattutto anforoni, del gruppo «nesiotico lineare» continuano la tradizione della ceramica «paria» di età geometrica e ne hanno condiviso le localizzazioni più svariate. Tra di essi si riscontrano alcuni dei rari casi di contatti con l’iconografia frigia: caratteristici sono gli uccelli con una rientranza a “U” tra le ali e la coda, e i quadrupedi con il corpo riempito di punti ma con la spalla risparmiata. In relazione con questo gruppo sono alcune opere relativamente isolate, ma di eccezionale qualità. Alcune anfore presentano da un lato una grande figura di animale, dall’altro due metope con cerchi concentrici. Su un’anfora a Stoccolma è un cervo al pascolo, su un’altra a Leida un leone accovacciato. Le figure, snelle e nervose, hanno una serrata articolazione, che conferisce loro carattere monumentale. Ancora più singolare è un’οἰνοχόη, trovata ad Egina ed ora nel British Museum, con l’imboccatura e il collo in forma di protome di grifone, ancora anteriore alla metà del VII secolo. La spalla è ripartita in tre metope; quelle laterali contengono ciascuna un cavallo, quella centrale un leone che azzanna un cervo. Le figure, disegnate a contorno e con la spalla delineata, sono fragili, sinuose; il leone riprende l’iconografia siro-hittita, mentre i cavalli mostrano sulla coscia posteriore un singolare motivo a “S” che trova riscontri su bronzetti iranici.

Autore ignoto. Oinochoe con protome a testa di grifone. Sulla spalla un leone che attacca un cervo e due cavalli, da Egina. 675-650 a.C. ca. British Museum.
Autore ignoto. Un leone che attacca un cervo e due cavalli. Pittura vascolare su οἰνοχόη con protome a testa di grifone, c. 675-650 a.C. da Egina. London, British Museum.

Più sicura è l’attribuzione a Nasso di gran parte dei vasi del gruppo B di Delo, grazie anche al ritrovamento in quell’isola di un anforone policromo con Ares e Afrodite su un carro tirato da cavalli alati. Le forme del gruppo B(a) sono alte e slanciate, la decorazione è limitata alla parte anteriore, sulla spalla e sul collo. Frequenti sono composizioni araldiche con sfingi o animali affrontati, eseguiti con un disegno minuto e attento, che li distingue dalle figure di più vasto respiro del nesiotico lineare. Anche le connessioni con l’Oriente sono diverse, più varie: la sfinge di un’anfora porta il grembiule caratteristico delle sfingi fenicie, altre hanno un ricciolo a spirale che scende dalla sommità del capo, come le consorelle siriache. Un’οἰνοχόη decorata con leoni e cavalli è stata trovata in una tomba nella necropoli di Cuma; purtroppo il contesto, che suggerirebbe una datazione alla fine dell’VIII secolo, è stato ricostruito ed ha dubbio valore cronologico. Il gruppo B(a) sembra comunque appartenere alla prima metà del VII secolo.
Alcune anfore del gruppo C di Delo, decorate da ambo i lati con grandi protomi di animali, si riallacciano sia al nesiotico lineare che alla tradizione nassia, e la loro posizione non è chiara. Comunque devono appartenere ormai alla seconda metà del VII secolo; la predilezione per le protomi suggerisce contatti con l’Attica.
Poco prima della metà del VII secolo a.C. si affermano i cosiddetti vasi «melii», che sembrano soppiantare quelli di Nasso e del nesiotico lineare. Si tratta di una classe di vasi, soprattutto grandi anfore funerarie, dei quali sono ancora problematiche la localizzazione e la cronologia; il fatto che molti siano stati trovati a Taso e a Neapolis – l’odierna Kavala – rende probabile la loro attribuzione a Paro, che stabilì una colonia a Taso all’inizio del VII secolo. La genesi del gruppo non è chiara; i precedenti più plausibili sono i vasi A(d) di Delo. Un’anfora relativamente antica, databile poco dopo la metà del secolo, è quella inv. 911 del Museo di Atene. Sul corpo è rappresentato Apollo con due figure femminili su un carro tirato da cavalli alati, cui muove incontro Artemide che tiene un cervo per le corna; sul collo si affrontano due guerrieri, assistiti da due figure femminili. Nello spazio libero sono disposti con cura fitti riempitivi: volute, fioroni, losanghe, linee spezzate. Le figure, disegnate a contorno, con viva policromia, si muovono con impaccio, i cavalli hanno zampe tese e lunghissime. Al gruppo va attribuito pure un piatto, trovato a Taso, sul quale è rappresentato Bellerofonte in lotta contro la Chimera, con figure fragili, legnose, e parco uso di riempitivi. Alla fine del secolo appartiene ormai l’anfora 354 di Atene, con Eracle e Deianira su un carro tirato da cavalli alati; i personaggi, pieni e corposi, ricordano le metope di Thermos, mentre i fitti riempitivi e le rosette a petali presuppongono la conoscenza di opere del Corinzio Antico.

Due piatti, trovati a Delo e a Taso, decorati con eleganti coppie di leoni araldici, sono prodotti in una bottega di Taso, derivata da Paro ma aperta anche a influenze greco-orientali; particolari come il labbro inferiore arricciato a spirale, denotano la conoscenza di opere urartee. Il problema dei rapporti tra botteghe cicladiche e greco-orientali è però ancora tutto da chiarire.
Una categoria particolare è costituita dai grandi pìthoi decorati a rilievo trovati in Beozia e nelle Cicladi, probabilmente fabbricati a Tenos. Alcuni di essi sono decorati con episodi del mito troiano, desunti dai poemi ciclici: l’agguato di Achille ai buoi di Enea, il cavallo di Troia; e dall’Iliade: l’offerta del peplo ad Atena. Si tratta di opere di notevole qualità, con un gusto ingenuo e attento per la descrizione: il cavallo di Troia ha ruote alle zampe e il corpo costellato di finestrelle, nelle quali si scorgono le teste degli eroi greci. Su un altro πίθος Perseo decapita Medusa; la Gorgone, stranamente in forma di centauro, forse un’allusione a Pegaso, nato dalla sua unione con Poseidone, non ha ancora trovato la sua precisazione iconografica. A sinistra delimita la scena un albero formato da spirali sovrapposte, derivato dall’albero della vita dell’iconografia orientale.

Autore ignoto. Coppa beotica orientalizzante con gli uccelli. 560-540 a.C. ca., da Tebe. Musée du Louvre.
Autore ignoto. Coppa beotica con la raffigurazione di uccelli, stile orientalizzante, ca. 560-540 a.C. da Tebe. Paris, Musée du Louvre.

La Beozia mantiene i contatti con le isole, come mostra anche l’importazione di numerosi πίθοι decorati a rilievo. Rispetto al Geometrico però i contatti si sono allentati e la produzione, particolarmente anforoni con animali e motivi vegetali, ha un carattere gradevole ma modesto. Non è ancora chiaro il nesso tra l’Orientalizzazione e le caratteristiche coppe con uccelli, sinora documentate appena nel VI secolo a.C.
In Laconia il Sub-geometrico si attarda sino alla metà del VII secolo a.C. con manifestazioni a volte caotiche. Successivamente appaiono timidi esperimenti di decorazione orientalizzante – leoni, tori, stambecchi –, ma una tradizione figurativa si forma appena alla fine del secolo. Tra le forme più frequenti sono coppe e σκύφοι con labbro altissimo (le cosiddette «λάκαιναι»); motivi caratteristici sono file di pavoni e ghirlande di melegrane. Alla fine del secolo si sviluppa una produzione di anforoni decorati a rilievo di grande qualità ma di breve durata; il repertorio comprende scene di battaglia e di caccia, nelle quali è ripreso in modo originale il tema orientale del signore degli animali.
A Creta l’Orientalizzante comincia piuttosto presto, prima ancora della fine dell’VIII secolo a.C., e del resto motivi di derivazione orientale non erano mancati neppure nel breve periodo geometrico; ora però l’isola presenta una maggiore uniformità culturale. Continua la produzione di πίθοι cinerari, che diventano slanciati e sono decorati con cerchi bianchi concentrici sul fondo di vernice, mentre gli ἀρύβαλλοι di derivazione cipriota si diffondono sempre più. L’inizio dell’Orientalizzante coincide con una rinnovata diffusione di elementi naturalistici e curvilinei: trecce multiple, palmette, fiori di loto – gli esempi più tardi mostrano contatti con le Cicladi –, uno strano motivo che combina ibridamente in un’unica forma un’ape e un fiore di loto. Caratteristici per la zona di Cnosso sono grandi πίθοι con decorazione policroma, blu e rosso sul bianco dell’ingubbiatura. Singolare è un’ὑδρία trovata a Kavousi, nella parte orientale dell’isola, decorata da un lato con un carro in corsa, dall’altro con donne piangenti, a figure nere, con particolari e contorni graffiti. Le donne ricordano quelle del cinturone di bronzo da Fortetsa, mentre il carro trova confronti su vasi cicladici della prima metà del secolo e sul rilievo in calcare di Chanià.
Alla metà del secolo appartiene l’unica personalità di rilievo, il pittore che ha decorato un ἀλάβαστρον da Fortetsa con tre sfingi mostrando sicura assimilazione della tecnica e stile protocorinzi, e pure un’οἰνοχόη, coppe e ἀρύβαλλοι di schietta tradizione cretese.
Nel corso del VII secolo, ben documentato anche nella ricca necropoli di Arkades nella Pediada, si sperimentano le tecniche più diverse con risultati bizzarri e spesso felici, senza però sviluppare una precisa tradizione figurativa. Tra le opere più riuscite sono l’οἰνοχόη di Arkades con sul collo una coppia a contorno (Teseo e Arianna?) e sulla spalla una fila di animali risparmiati nel fondo scuro, e un piatto da Praisos decorato da un lato con un cavaliere, dall’altro con un eroe in lotta con un pesce e con una gigantesca figura femminile (Peleo e Tetide?), databili rispettivamente poco prima e poco dopo la metà del VII secolo a.C. La figure, snelle, mobili, con membra lunghe e profili aguzzi, richiamano quelle della contemporanea toreutica cretese. Alcuni vasi di Arkades, derivati da modelli orientali, rivelano l’assimilazione di ideologie e pratiche di culto: un ἁσκός con protome di leone collegato a una patera, conservato a Heidelberg, ricorda oggetti rituali siriaci in pietra e avorio; un leone sdraiato con una patera tra le zampe anteriori è l’immediata traduzione ceramica di figure orientali in faïence; particolari come il muso corrugato, le sopracciglia arcuate, le orecchie semicircolari sono desunti dall’iconografia siro-hittita.

Autore ignoto. Πίθος orientalizzante, c. 675 a.C. da Arkades (Creta). Paris, Musée du Louvre.
Πίθος orientalizzante, c. 675 a.C. da Arkades (Creta). Paris, Musée du Louvre.

Un ἀρύβαλλος della metà del secolo, conservato a Berlino, esemplifica la situazione di Creta con la molteplicità delle sue connessioni: la forma e la decorazione sono di origine cipriota, la protome plastica femminile sotto l’imboccatura si adegua con riserva al canone dedalico, l’uso di decorare in questo modo il collo di un vaso è di origine fenicia.
Creta ha pure una ricca produzione di πίθοι a rilievo. La forma più frequente è una sorta di anforone con due anse verticali, troppo diverso dai πίθοι minoici per pensare a una connessione diretta. La decorazione figurata è ottenuta mediante stampi e cilindretti; i primi esempi, che appaiono verso il 700 a.C., portano figure di guerrieri e di centauri. Nel VII secolo sono frequenti figure di cavalli, leoni, sfingi, singole o affrontate, e poi cavalieri, coppie di personaggi, πότνιαι θηρῶν, di solito inquadrati in metope sul collo e sulla spalla del vaso; il resto del πίθος è decorato con spirali e motivi fitomorfi. Le fasce divisorie e le cornici portano rosette, spirali correnti, piccoli fregi con scene di caccia, carri e cavalli in corsa. Alla fine del secolo appartiene un gruppo di πίθοι, trovati a Festo, la cui decorazione figurata è limitata a un solo, grande animale che campeggia sul collo, mentre sul corpo sono distribuiti ampi ornati curvilinei. Gli esempi più recenti dei πίθοι a rilievo scendono ormai ai primi anni del VI secolo a.C.
Vista nel suo complesso, la ceramica cretese, alquanto discontinua, rielabora spunti orientali senza formare una tradizione figurativa coerente e non sembra aver svolto nella trasmissione di iconografie orientali al mondo greco il ruolo determinante che le è stato più volte attribuito. Miglior fortuna avrà la toreutica.
Le regioni greco-orientali – le grandi isole, la costa dell’Asia Minore – formano una sostanziale unità culturale, che trova espressione nel cosiddetto «stile della capra selvatica». All’interno dell’apparente uniformità si intravvedono varie diversificazioni, ma non è ancora possibile localizzare con sicurezza le varie botteghe. Per le città greche dell’Asia Minore l’inizio del VII secolo è un momento piuttosto difficile, che vede le rovinose scorrerie dei Cimmeri e poi la nascente espansione del regno di Lidia. Nonostante la loro posizione geografica i centri greco-orientali elaborano con un certo ritardo un proprio stile orientalizzante, ed anche gli elementi figurati sono dapprima alquanto rari. In tutta la regione si mantiene a lungo la tradizione geometrica e continua la voga delle caratteristiche coppe a uccelli, decorate in modo sempre più sommario: dopo la metà del VII secolo a.C. la parte inferiore della vasca, non più coperta di vernice, è racchiusa da una corona di raggi a contorno. Molte coppe sono di produzione sicuramente rodia, ma non mancano imitazioni locali.

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Raffigurazione della Πότνια θηρῶν (particolare). Pittura vascolare da un’anfora in stile orientalizzante, c. VII sec. a.C. da Tebe. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Una delle prime figurazioni di un certo impegno – una divinità maschile con il πόλος sul capo e le braccia alzate nel gesto dell’epifania – è un’anfora di Exochi a Rodi, ed è significativo che il vaso riprenda alquanto fedelmente modelli nassi. Al primo venticinquennio del secolo appartengono vari esperimenti figurativi – un centauro e altre figure su una situla da Camiro, una figura femminile armata, forse Atena, su uno scudo fittile di Samo – ma si tratta di tentativi impacciati, ancora di gusto sub-geometrico, anche se sullo scudo è impiegata l’incisione. Un repertorio orientalizzante si forma timidamente appena nel secondo venticinquennio del VII secolo: sfingi, animali, ornati curvilinei, motivi vegetali. Le figure sono campite con eleganza su uno sfondo disseminato di riempitivi: fiori, stelle, croci, suscitando quasi l’impressione di un tessuto decorato; forse s’ispirano veramente a stoffe, per noi irrimediabilmente perdute. Elementi come le superfici riempite di punti o un particolare tipo di svastica trovano confronti immediati nell’arte della Frigia.
Il caratteristico «stile della capra selvatica» si forma però appena verso la metà del VII secolo a.C. per continuare poi, con le sue manifestazioni più attardate, sino alla metà del secolo successivo. Si tratta di una produzione piacevole, di un discreto livello qualitativo, che raggiunge anche una certa circolazione nel mondo greco. Le figure sono di solito a silhouette, con la testa a contorno e i particolari dell’anatomia indicati con linee risparmiate. Le forme più diffuse sono l’oinochóē con bocca trilobata, l’οἰνοχόη con bocca rotonda, il δεῖνος, vari tipi di piatto con e senza piede. Il repertorio iconografico è piuttosto limitato: leoni, tori, sfingi, grifoni, cani, uccelli e soprattutto le caratteristiche capre selvatiche in corsa o al pascolo, derivate dall’iconografia assira o siriaca. In un momento più avanzato la parte inferiore delle οἰνοχόαι è racchiusa da una ghirlanda di fiori e boccioli di loto o da una corona di alti raggi triangolari. Al centro della spalla compaiono spesso gruppi antitetici ai lati di un elemento vegetale, talvolta anche animali in lotta; l’iconografia del leone, inizialmente di tipo siro-hittita, assimila gradualmente elementi assirizzanti. Sulle opere più antiche i fregi sono divisi da semplici ornamenti; in seguito i fregi, divisi da semplici strisce di vernice, aumentano spesso in altezza e gli animali tendono ad allungarsi.

Autore ignoto. Combattimento tra Menelao ed Ettore per il corpo di Euforbo. Pittura vascolare da un piatto rodio in stile orientalizzante, da Camiro (Rodi). 600 a.C. British Museum.
Duello tra Menelao ed Ettore per il corpo di Euforbo. Pittura vascolare da un piatto rodio in stile orientalizzante, c. 600 a.C. da Camiro. London, British Museum.

Alla fine del VII secolo appaiono vari elementi derivati dalla tradizione del Corinzio Antico: figure nere, incisione, rosette a macchia, spesso impiegati promiscuamente alla tradizionale tecnica delle figure a risparmio. Scene di carattere narrativo sono rare; l’esempio più notevole è un piatto a British Museum con un episodio omerico, il duello di Ettore e Menelao sul corpo di Euforbo. I due contendenti, armati come opliti, disegnati a contorno con vivace policromia, si affrontano simmetricamente su uno sfondo fitto di riempitivi. Le «fruttiere», specie di grandi piatti su piede, sono decorate spesso con protomi umane e di animali, motivi geometrici e fitomorfi.
Alcune botteghe locali sono riconoscibili per certe caratteristiche peculiari. Chio si distingue per i calici biansati, spesso dalle pareti sottilissime, e per un accentuato gusto per la policromia che, agli inizi del VI secolo, si manifesta in complesse decorazioni in bianco, giallo, rosso applicati sul fondo di vernice. La fabbrica, dalla caratteristica ingubbiatura bianca, è di ottima qualità tecnica. Nel VI secolo la produzione chiota acquista notevole indipendenza, affrontando composizione anche di notevole impegno narrativo, come la caccia al Cinghiale Calidonio su un cratere trovato a Neapolis, ora nel Museo di Kavala.
Le botteghe della Ionia e dell’Eolide sembrano caratterizzate da un disegno più impacciato, a volte angoloso, una policromia più viva, riempitivi più fitti e disordinati. Particolarità iconografiche rivelano contatti con le culture dell’Anatolia: il leone di un’οἰνοχόη di Smirne ricorda quelli degli scudi di bronzo urartei per la conformazione generale e anche per il particolare del labbro inferiore arricciato a spirale.
A Rodi verso il 700 a.C. comincia la produzione di πίθοι decorati a rilievo, per continuare poi sin quasi alla fine del VI secolo. I πίθοι attribuibili al VII secolo sono decorati con motivi frequenti nel repertorio greco-orientale tardo-geometrico e orientalizzante: spirali correnti, a volte contrapposte o combinate in composizioni a tappeto, rombi con ai vertici meandri contrapposti, viticci, disposti in una fitta successione di fregi che coprono la metà superiore del vaso. La decorazione figurata sembra iniziare piuttosto tardi, verso la fine del VII secolo a.C., e non presenta la varietà di soggetti che si è osservata a Creta e a Tenos: i motivi più frequenti sono sfingi, grifoni, carri in corsa.

Il mercante che divenne archeologo

di G.M. Della Fina (dir.), I segreti dell’Archeologia, vol. I, Novara 2001, pp. 20; 40; 60; 80.

 

Heinrich Schliemann nacque a Neubuchow, in Germania, il 6 gennaio del 1822. Compì studi da autodidatta e riuscì ad impadronirsi di diverse lingue antiche e moderne. Sempre in anni giovanili lesse Omero: una lettura destinata ad avere una grande influenza sul suo futuro.

Sydney Hodges, Ritratto di H. Schliemann. Olio su tela, 1877.

 

La vita sembrava portare Schliemann lontano dagli studi: fu prima garzone di bottega, poi mozzo su un brigantino diretto in Venezuela, quindi fattorino di una ditta commerciale e contabile di un’impresa. Nel 1846 si trasferì a San Pietroburgo e dette avvio a una fiorente attività commerciale. Riuscì anzi, in breve tempo, ad arricchirsi attraverso abili speculazioni, in particolare nel corso della Guerra di Crimea (1854-1856).

Durante l’intenso e felice soggiorno pietroburghese compì un lungo viaggio negli Stati Uniti, riuscendo addirittura a prendere la cittadinanza statunitense che, in seguito, gli sarebbe tornata utile. Nel 1852 aveva sposato Katerina Lyscin.
Heinrich Schliemann era dunque un mercante affermato e stimato quando, nel 1863, liquidò la ditta e iniziò una nuova vita. Aveva 41 anni, che all’epoca non erano considerati – né erano – pochi. Gli interessi giovanili erano riaffiorati e i personaggi di Omero riempivano di nuovo le sue giornate. Decise di riportare alla luce i luoghi cantati dal poeta prestando una fede cieca ai suoi versi: sembrava un’impresa impossibile. Non lo scoraggiarono né lo scetticismo degli “addetti ai lavori”, né le perplessità dei suoi stessi amici: non si poteva abbandonare una posizione di prestigio nella vivace società pietroburghese per inseguire miraggi da adolescente. Fece tutto con la consueta caparbietà: letture intense, viaggi, anche una laurea in filosofia all’Università di Rostock. Dopo anni di ricerche, pensò di aver individuato il sito giusto. A quel punto si dette da fare per ottenere un permesso di scavo, che riuscì ad acquistare dal governo turco: nel 1871 iniziò finalmente gli scavi sulla collinetta di Hissarlik. Aveva visto giusto o era ancora lontano da quello che stava cercando? Gli sarebbero apparse le mura di Troia oppure stava cercando in un luogo sbagliato? Sarebbe riuscito a riportarle alla luce? A convincere gli altri che Troia era esistita davvero?

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Arrivò il momento delle scoperte entusiasmanti e subito dopo l’ora delle polemiche con la scienza ufficiale. Allora Schliemann comprese, da uomo concreto quale era, che da solo non sarebbe stato in grado di continuare le indagini.

Planimetria del sito di Hissarlik (Troia), con indicazione delle varie fasi della città.

 

Gli scavi iniziarono e furono portati avanti a ritmi frenetici: Schliemann aveva al suo fianco la seconda moglie Sofia, tre collaboratori e circa 150 operai alle sue dipendenze. Il mercante divenuto archeologo voleva far presto, arrivare velocemente a una conferma – o anche a una smentita – della sua tesi. Dopo tre anni di campagne di scavo poté dare la notizia al mondo scientifico: la città di Troia era stata localizzata e quindi era esistita realmente. Il suo sogno di ragazzo, inseguito da adulto, era coronato.
Sulle ali del successo volle andare alla ricerca dei luoghi da cui erano partiti gli eroi cantati da Omero per giungere sotto le mura di Troia. Lasciò la Turchia e raggiunse la Grecia. Nel 1847 era già al lavoro a Micene. I risultati delle indagini furono subito di grande interesse: rinvenne infatti alcune tombe caratterizzate da corredi straordinariamente ricchi, in particolare di ori, nelle quali volle riconoscere le ultime dimore degli Atridi. Stava riscrivendo la sua personale Iliade.
Era ormai al centro di un interesse amplissimo, alimentato con un uso sapiente dei mezzi di comunicazione dell’epoca. Presto divenne protagonista anche del dibattito scientifico: i suoi metodi di scavo e soprattutto le sue conclusioni iniziarono ad essere criticati.
Certe sue interpretazioni, senza nulla togliere all’importanza della documentazione riportata alla luce, non potevano passare al vaglio della scienza ufficiale. Lui stesso ammise errori di valutazione: in una lettera all’archeologo italiano Giuseppe Fiorelli riconobbe con sincero rammarico di avere distrutto «tutte le costruzioni troiane che si trovano a una profondità compresa tra i 7 e i 10 metri».
I mesi esaltanti delle scoperte furono seguiti da quelli roventi delle polemiche, degli scontri, delle grane giudiziarie. Soltanto nel 1878 Heinrich Schliemann poté riprendere gli scavi sulla collinetta di Hissarlik: ripartiva da dove aveva iniziato, ma adesso era una persona più avveduta a cauta. L’entusiasmo iniziale non era venuto meno, me aveva compreso che non poteva proseguire le ricerche facendo affidamento soltanto sulle sue conoscenze e sul suo intuito: ciò che aveva riportato alla luce era troppo importante per non cercare collaborazioni e aiuto nel mondo della scienza ufficiale.

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Bassorilievo sull’architrave della ‘Porta dei Leoni’ (dettaglio), Palazzo di Micene.

Alla stagione frenetica e gioiosa dello scavo, doveva seguire quella più fredda ma altrettanto necessaria della documentazione, dello studio e dell’interpretazione dei dati. Schliemann volle al suo fianco prima il professore berlinese Rudolf Virchow, poi l’archeologo e architetto Wilhelm Dörpfeld, direttore fino al 1912 del prestigioso Istituto Archeologico Germanico di Atene. Quest’ultimo, in particolare, noto per gli scavi magistrali condotti a Olimpia e a Tirinto, riuscì a dare un’impronta più rigorosa alle indagini.
La fama di Schliemann nella società dell’epoca non era stata intaccata dalle polemiche: nel 1881 venne nominato cittadino onorario di Berlino. Nello stesso anno diede alle stampe il volume Ilios, ricco di pagine autobiografiche nelle quali l’archeologo, ormai celebre, si lasciava andare a considerazioni e ricordi, alcuni dei quali risalenti all’infanzia. È così che conosciamo figure poco note che ebbero però un peso determinate nella vita di Schliemann, come Minna Meincke. Era figlia di un agricoltore di un villaggio vicino a quello dove viveva, da ragazzo, il futuro archeologo. Fu la sua compagna di giochi, la persona a cui di preferenza parlava di Troia e delle vicende degli eroi omerici. Ancora nel 1881, quando aveva già individuato Troia, Schliemann ricorda: «Ero destinato a realizzare i nostri progetti infantili di cinquant’anni fa soltanto nell’autunno della mia vita e senza Minna: lontano, molto lontano da lei».
I suoi interessi si estendevano ormai all’intero mondo greco e le campagne di scavo a Troia si alternavano con quelle in Grecia, dove non mancarono nuovi successi: il rinvenimento di una grande tomba a cupola, nota come Tesoro di Minia, a Orcomeno in Beozia (1880-81) e la scoperta del palazzo di Tirinto (1884). Fu anche a Creta nel 1886, compiendovi un sopralluogo approfondito, e nel 1890 era di nuovo a Troia.
La morte lo colse a Napoli, in attesa di tornare ad Atene e mentre aveva in animo di iniziare nuove ricerche.

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Maschera di Agamennone. Lamina d’oro, XVI sec. a.C., dalla Tomba V, Micene.

Quale giudizio va dato, a più di cent’anni dalla morte, sull’opera di Heinrich Schliemann? La scienza ufficiale, o almeno una parte di essa, non accettò i suoi metodi d’indagine e il peso di questa valutazione ha influenzato il giudizio successivo.
Motivo per il quale ne sono stati messi in evidenza i limiti culturali dovuti a una preparazione da autodidatta, le speculazioni, gli atteggiamenti spregiudicati, gli scavi non accurati e finalizzati solo a riportare alla luce in breve tempo strutture e reperti di particolare valore storico-artistico trascurando altri meno spettacolari, ma altrettanto significativi sul piano storico.
In queste critiche, non possiamo negarlo, vi è una parte di verità: lo stesso Schliemann mostra di esserne stato consapevole. Ed è vero – come ha notato Antonio Giuliano – che in lui: «L’antichità classica non divenne mai cultura operante, non condizionò la ricerca di una maturità morale, fu solo curiosità, mondanità, spesso spunto di arrivismo».
Ma non dobbiamo dimenticare gli anni in cui egli operò, quando scelte per noi assolutamente non condivisibili erano considerate “normali”: quanti fra gli archeologi ufficiali dell’epoca scavavano secondo i metodi oggi seguiti, o che almeno vi si avvicinavano?
Quanti studiosi furono esenti da compromessi con il mondo politico coloniale, o lontani dalle speculazioni del mercato dell’arte che stava divenendo sempre più ampio e aggressivo? Schliemann fu un archeologo sul campo, che studiò le antichità non solo fra le pareti di un museo o di una biblioteca, ma vicino ai monumenti stessi e in diretto contatto con i materiali, e in questo è più attuale di tanti suoi illustri contemporanei. Un altro elemento di modernità della sua figura può essere riscontrato nella grande attenzione prestata alla divulgazione delle proprie scoperte, nell’alta considerazione che dimostrò per i media dell’epoca, nelle spiccate capacità manageriali: tutte doti che oggi vengono richieste in maniera sempre più pressante a un archeologo. Si tratta di considerazioni che vanno tenute presenti nel giudizio complessivo, ma occorre ricordare che per Schliemann fu sufficiente, con ogni probabilità, realizzare il suo sogno di ragazzo: riportare alla luce i luoghi che avevano visto le gesta degli eroi omerici.

La falange: tattiche e armamento degli opliti greci

di A. Frediani, Le grandi battaglie dell’Antica Grecia, Roma 2005, 37-59.

Risulta difficile individuare il momento in cui gli atti di eroismo individuale e i duelli «a singolar tenzone» iniziarono ad essere visti non più come l’obiettivo primario di un’azione militare sul campo di battaglia, bensì come ciò che lo comprometteva, ovvero la potenza scaturita da un assalto compatto e coeso di ampie unità tattiche. Il poeta spartano Tirteo afferma che ai suoi tempi, nel VII secolo a.C., si era compiuto il processo in base al quale ogni guerriero era tenuto a combattere spalla a spalla con il proprio commilitone e ad evitare qualunque gesto, per quanto valoroso, che potesse compromettere la coesione della formazione. Ed è a questo concetto che dobbiamo legare l’inizio dell’arte occidentale della guerra, con tutte le sue implicazioni etiche, politiche e sociali. L’invenzione, d’altronde, fu così devastante da suscitare l’interesse dei governi dell’intero bacino mediterraneo, che diedero allora avvio alla pratica, assai diffusa nei secoli successivi, di valersi di guerrieri greci come mercenari: «uomini di bronzo che provenivano dal mare», ad esempio, prestarono servizio sotto il faraone Psammetico I, nel corso del suo lungo regno, nella seconda metà del VII secolo a.C.

Doveva essersi trattato di un processo piuttosto lungo. Non bastava, infatti, che un clan agrario prima, una città-stato (pólis) poi, orientassero la loro tattica sul campo di battaglia verso azioni più coordinate tra uomini e tra unità, imbrigliando l’aggressività di guerrieri solitamente portati a partire all’attacco da soli o a piccoli gruppi; era anche necessario concepire delle formazioni che obbligassero i combattenti a contare l’uno sull’altro, ed equipaggiarli con armi diverse da quelle di cui avevano fruito fino ad allora, più maneggevoli e compatte. Possiamo asserire, pertanto, che la tattica precedette le nuove tecnologie, piuttosto che il contrario, e che le nuove armi resero più efficace e portarono a un maggior grado di evoluzione un consolidato modo di combattere. Probabilmente nel corso dell’VIII secolo a.C., dunque, fu istituzionalizzata la pratica di schierare le truppe in file; grazie ad essa, ciascun armato poteva prendere prontamente il posto di chi lo precedeva quando questi cadeva, o creare dei ranghi serrati con l’avanzamento negli interstizi tra i commilitoni schierati nella fila precedente, per imprimere una potente forza d’impatto nel momento dell’attacco e contenere qualsiasi spinta in difesa. Per ottenere la coesione auspicata, ci volevano uno scudo più maneggevole e nello stesso tempo sufficientemente grande da coprire il lato scoperto dell’uomo al proprio fianco sinistro, e una lancia con cui affondare i colpi al momento dell’impatto stesso, in luogo del leggero giavellotto da lanciare prima del cozzare degli schieramenti.

Autore ignoto. Cosiddetta «Olpe Chigi»: due falangi oplitiche che si affrontano (particolare). Pittura vascolare tardo-corinzia a figure nere e policrome, 630 a.C. ca., da Veio. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

Nasceva così l’«oplita» (ὁπλίτης), ovvero l’«uomo corazzato» anche grazie alla collaborazione dei suoi commilitoni, tutti componenti di una formazione che doveva agire sempre all’unisono e combattere come una singola unità: la «falange» (φάλαγξ), ovvero, nel significato attribuitole dai Greci antichi, la «formazione da battaglia», anche se noi moderni tendiamo a riferirla solo alle formazioni di fanteria pesante. L’invenzione avrebbe profondamente influenzato l’arte della guerra nei secoli a venire, se si eccettua l’evoluzione manipolare e coortale delle legioni romane e l’avanzamento in ordine sparso delle orde barbariche all’alba del Medioevo: secoli e secoli dopo l’epoca della Grecia classica, i picchieri delle armate europee dal XIII ad almeno il XVII secolo avrebbero seguito i canoni adottati dagli antichi opliti.

Non doveva esistere nulla di più solido, compatto e omogeneo della falange; ciascun combattente era consapevole dell’enorme danno che avrebbe provocato un suo cedimento nel muro di scudi che era tenuto a mantenere in battaglia con i propri commilitoni. Senofonte paragonava l’allestimento di una linea della falange alla costruzione di una casa nella quale i materiali più solidi, come la pietra e le tegole, sono per le fondazioni e il tetto, mentre mattoni di fango e travi sono puri riempitivi da porre nel mezzo. Allo stesso modo, nella falange, gli uomini migliori dovevano essere posti in prima e in ultima linea, per mantenere la coesione della formazione, e ciascuno avrebbe dovuto scegliersi l’uomo che gli stava dietro, per sentirsi più sicuro al momento dello scontro.

È lecito ritenere che siano stati gli Spartani a inventare la falange, anche se l’unico vero tratto che distingueva gli opliti lacedemoni da quelli delle altre póleis rimase il loro distintivo mantello rosso (τρίβων), che si avvolgevano completamente intorno al corpo, sia d’estate sia d’inverno, senza mai lavarlo, ma che d’altronde non usavano in battaglia: le fonti tramandano che fosse stato Licurgo a stabilire per i Lacedemoni indumenti rossi, perché essi non tolleravano la minima somiglianza con l’abbigliamento femminile.

Siamo portati a pensare che siano stati gli Spartani a inventare la falange anche perché all’epoca in cui ne abbiamo una descrizione accurata, ai tempi di Senofonte, agli inizi del IV secolo a.C., la loro è di gran lunga più evoluta, nei singoli reparti come nei comandanti subalterni, di qualsiasi altra pólis, e della stessa Atene; inoltre, è plausibile aspettarsi da una società guerriera come quella spartana innovazioni di carattere militare di portata rivoluzionaria; infine, la falange appare come la logica trasposizione, sul campo di battaglia, di quello stretto cameratismo che veniva inculcato negli Spartiati e della loro società di «eguali» (ὅμοιοι).

L’unità della falange spartana era l’ἐνωμοτία, originariamente composta da ventitré opliti, disposti in tre file da otto elementi, e due ufficiali: l’ἐνωμοτάρχης, che si posizionava davanti alla prima linea, e l’οὐραγός, che occupava uno dei posti dell’ultima fila e aveva la responsabilità del mantenimento della coesione della formazione; quest’ultimo, era l’unico ufficiale che non si posizionasse davanti alla prima linea o in testa alla fila di destra. Due ἐνωμοτίαι formavano una πεντηκοστή, ciascuna comandata da un πεντηκόνταρχος, e quattro l’unità principale della falange, il λόχος, che quindi, nei tempi più antichi, era costituito da un centinaio di uomini (al comando di un λοχαγός).

Tutte le póleis, almeno fino all’epoca delle Guerre persiane, avevano adottato uno standard di profondità basato su otto linee. Tuttavia il λόχος descritto da Senofonte a proposito della falange spartana al termine della Guerra del Peloponneso, è di centoquarantaquattro elementi, stante la tendenza ad aumentare la profondità delle file di ciascuna ἐνωμοτία, formata da trentasei opliti disposti su tre file da dodici di profondità, oppure su sei file da sei di profondità. A Sparta, ai tempi di Senofonte quattro λόχοι formavano una «divisione», ovvero una μόρα, sei delle quali, comandate ciascuno da un πολέμαρχος, costituivano l’intero esercito lacedemone; in tempi anteriori, la denominazione di λόχος poteva essere attribuita anche ad unità più consistenti, anche perché la parola μόρα in Erodoto è del tutto assente.

Falange oplitica. Illustrazione di K. Kopinski.

Mόρα era anche la denominazione dell’unità di cavalleria aggregata alla «divisione», che non doveva annoverare più di sessanta elementi, e che iniziò a comparire nell’armata spartana solo nel corso della Guerra del Peloponneso, precisamente nel 424 a.C.; la comandava un ἱππαρμοστής. In seguito passò a cento effettivi, divisi in due οὐλαμοί da cinquanta cavalieri ciascuno, che si piazzavano ai fianchi degli opliti, in dieci file da cinque elementi ciascuna, denominate πεμπάς (guidate dai rispettivi πεμπάδαρχοι).

L’élite della falange spartana era costituita dagli hippeís che, a dispetto del nome, non erano però «cavalieri». Si trattava, infatti, di trecento opliti aggregati alla prima μόρα e solitamente disposti all’ala destra, che costituivano anche la guardia del corpo reale. Erano prescelti ogni anno, tra gli Spartiati nel fiore degli anni, da tre ἱππαγρέται nominati a tal fine dagli efori, ciascuno dei quali aveva la responsabilità di selezionarne cento.

I movimenti di una falange erano estremamente complessi, ed era necessario un severo addestramento perché tutto filasse liscio e la compattezza, presupposto essenziale della formazione, fosse mantenuta costante nelle varie fasi che portavano dall’ordine di marcia a quello di battaglia. Certamente, gli Spartiati erano avvantaggiati dall’abitudine a concetti e movimenti con i quali erano cresciuti fin da bambini, ma questi straordinari soldati combattevano fianco a fianco con i perieci e con quanti, col tempo, fu necessario integrare nei ranghi dell’esercito per compensare la carenza di effettivi. Va ricordato, infatti, che ai tempi di Senofonte l’intero esercito spartano vantava solo quattromila effettivi – meno della metà rispetto a tre secoli prima – con un fabbisogno di circa cento nuove immissioni l’anno, stante la conclusione del quarantennale servizio di ciascun combattente e le perdite per cause varie.

Le reclute, richiamate per classi annuali, venivano collocate in un’apposita ἐνωμοτία, i cui vecchi componenti erano distribuiti nelle altre unità, a parte gli ufficiali che, invece, rimanevano a comandare i nuovi venuti; questi ultimi erano posizionati, nello schieramento, all’estrema sinistra della μόρα, nella collocazione meno prestigiosa.

Le reclute che componevano un’ἐνωμοτία erano addestrate a marciare in un’unica fila. Quando la tromba suonava l’ordine di schierarsi, il comandante, in testa alla fila, manteneva i suoi uomini fino al dodicesimo nella stessa posizione, mentre i seguenti dodici, guidati dal tredicesimo, si ponevano al fianco sinistro dei primi e i successivi, a loro volta, al fianco sinistro dei secondi. Tra le file, disposte così in ordine aperto, veniva lasciato sufficiente spazio, almeno due passi, per la successiva disposizione a ranghi serrati – oppure, prima di una battaglia, per il ripiegamento della fanteria leggera –, nella quale le seconde metà di ciascuna fila passavano al fianco della rispettiva prima metà, formando un blocco di sei per sei elementi, con un passo di distanza tra un oplita e il commilitone al suo fianco.

Oplita. Statuetta, bronzo, ultimo quarto del VI sec. a.C. ca. da una cista (?) presso il tempio di Zeus a Dodona (Epiro). Berlin, Antikensammlung.

La vera difficoltà, per il leader di ciascun plotoncino, era quello del corretto e uniforme conteggio dei passi, e l’attenzione che doveva porre nel disporsi alla stessa altezza dell’ἐνωμοτάρχης. Quando nella manovra erano coinvolti i quattro λόχοι di una μόρα, ogni successiva unità passava sul fianco sinistro di quella che la precedeva nell’ordine di marcia, formando una falange con una fronte e una profondità di dodici opliti. Volendo, si potevano ottenere ranghi serrati, se si erano mantenuti i due passi tra una fila e l’altra, costituendo così una falange con una fronte da ventiquattro e una profondità di sei. In caso di ritirata, era l’οὐραγός a prendere l’iniziativa e a condurre la marcia indietro.

Su scala ancora più ampia, relativamente a un’intera μόρα, la trasformazione di un ordine di marcia in una falange non era affare da poco: ogni divisione in ordine aperto aveva una fronte di quarantotto opliti, ciascuno dei quali in testa a una fila di dodici elementi. Il λοχαγός doveva quindi calcolare uno spostamento generale a sinistra, per affiancare il λόχος che lo precedeva, di settanta passi, che sommati ai ventiquattro della prima unità davano una fronte totale di novantaquattro passi, entro i quali si potevano anche serrare i ranghi.

Una volta schierata al completo la falange, era prevista, anche se scarsamente applicata, la manovra avvolgente da parte delle ali. Al suono della tromba, i due fianchi, il destro e il sinistro, marciavano verso l’esterno in colonna, fino a un determinato punto, in cui riprendevano a marciare in avanti, assecondati dal centro: farraginoso – a dir poco – tanto da spingere i grandi teorici della guerra del IV secolo, da Epaminonda a Filippo II, a escogitare altri sistemi per aggirare il nemico.

Tutti questi concetti, comunque, trovavano un’applicazione pratica al momento dell’entrata in guerra di una pólis. A Sparta erano gli efori, in tale circostanza, ad annunciare le classi annuali richiamate alle armi. Una volta radunata l’armata, il re traeva auspici con un sacrificio e, se questi erano favorevoli, un tedoforo prendeva il fuoco dall’altare sul quale era stata celebrata la cerimonia e lo portava fino ai confini della Laconia. L’esercito lo seguiva fin lì, quando il sovrano si fermava per celebrare un nuovo sacrificio e, in caso di esito favorevole, l’armata poteva avanzare, sempre accompagnata dal fuoco che non doveva spegnersi, mai.

Ciascun combattente si faceva accompagnare da un ilota, perciò la razione di cibo – fiocchi d’avena e orzo, principalmente; ma anche formaggio, cipolle e carne salata – che era tenuto a portarsi dietro doveva comprendere anche la quantità prevista per quest’ultimo, per un massimo di venti giorni, nel caso in cui la durata del conflitto fosse stimata superiore alle due settimane; si diceva che lo zaino dell’oplita puzzasse di cipolla. Il cibo e le razioni erano uguali per tutti, dal re al soldato semplice, e pare che in un’occasione il sovrano, vistosi offrire da un alleato un ricco menù in onore dell’armata spartana, abbia fatto dare tutto agli iloti.

Pittore Cleimaco. Combattimento di opliti sotto le mura di Tebe (dettaglio). Pittura vascolare da una hydria attica a figure nere, 560-550 a.C. c. Paris, Musée du Louvre.

Anche l’oplita ateniese si faceva accompagnare da un attendente, spesso un schiavo – chiamato σκηνοφόρος, «portatore di bagagli» – oppure da un parente più giovane cui far fare esperienza; questi marciava accanto al soldato, per spostarsi nelle retrovie in vista della battaglia, e quando il pericolo non era imminente, gli portava lo scudo, oltre a tutto il resto. Durante la marcia, l’aiutante portava sulle spalle il letto arrotolato – una sorta di sacco a pelo, detto στρώματα –, quando questo non era attaccato allo scudo dell’oplita.

La dieta del soldato ateniese era leggermente diversa da quella dello Spartiata, e consisteva in sale, talvolta aromatizzato con del timo, cipolle, pesce salato avvolto in foglie di fico, il tutto conservato in un paniere di vimini (γύλιος); egli disponeva anche di uno spiedo di ferro per cucinare la carne fresca che avrebbe acquistato nel corso della campagna, dal 462 a.C. con la paga corrisposta dalla pólis.

Tornando agli Spartani: l’occorrente per dormire veniva portato legato allo scudo, insieme ai vari cambi di vestiario; ma nulla, nell’equipaggiamento, riguardava il riparo per la notte, che consisteva in bivacchi in estate e capanne improvvisate con quanto si trovava sul posto nella stagione meno calda. Nei convogli di bagagli, la cui composizione e il numero erano anch’essi regolati dagli efori, i carri trasportavano pale e picconi, e gli animali da soma asce e falcetti, materiali usati dalla fanteria leggera per aprire la strada al convoglio; in generale, le salmerie erano costituite anche dagli strumenti utilizzati dai non combattenti come i medici, i fabbri e i carpentieri richiamati dagli efori.

Il primo giorno, la marcia procedeva lentamente, perché fosse consentito a chi avesse dimenticato qualcosa a casa di tornare a prenderla. La marcia, scandita dal corno e non dalla tromba, era preceduta dagli σκιρῖται, i montanari della Laconia settentrionale armati alla leggera, che costituivano lo schermo avanzato della colonna in cammino; con il tempo, vennero affiancati nei loro compiti dalla cavalleria di cui, durante le Guerre persiane, i Greci erano ancora molto carenti.

Solitamente, in campo aperto l’esercito spartano procedeva in quadrato, con il lato anteriore e quello posteriore schierati a falange, quelli laterali in colonna, e le salmerie, la fanteria leggera e i non combattenti nel mezzo. Nelle strettoie, dove era lecito temere qualche imboscata, la fanteria si divideva in due colonne che procedevano parallele, divise dalle salmerie, o con i λόχοι disposti su quattro file e perfino meno. In linea di massima, ogni móra teneva a portata di mano il rispettivo convoglio, per aver tutto a disposizione al momento della sosta.

I Greci non conoscevano nulla di simile alle zelanti regole romane sulla costruzione di un campo fortificato. Anche in situazioni di pericolo, era estremamente improbabile che costruissero un accampamento con palizzata e fossato, come erano tenuti a fare ogni sera i legionari di ogni epoca. L’unica precauzione era costituita dall’appostamento degli σκιρῖται e poi dei cavalieri in siti sopraelevati, da cui costoro potevano avvistare e prevenire i movimenti del nemico. Gli Spartani, piuttosto, ponevano molta più attenzione alla custodia delle armi per la notte, cui facevano una custodia serrata per scongiurare qualsiasi tentativo di impadronirsene da parte degli iloti.

Pittore C. Guerriero in ginocchio. Pittura vascolare da una kylix attica a figure nere (interno), 560 a.C. ca. München, Staatliche Antikensammlungen.

Per certi aspetti, erano più severe le restrizioni tra settori dell’esercito che tra il perimetro dell’accampamento e il territorio circostante; ogni μόρα era tenuta a occupare uno spazio determinato, dal quale i suoi compagni non potevano uscire nemmeno in occasione dei consueti esercizi ginnici cui si dedicavano ogni giorno prima di colazione e prima di cena. Il centro del campo era comunque occupato dal padiglione del re, attorniato dal suo stato maggiore e dai suoi attendenti, tre spartiati incaricati di vegliare su di lui, e poi i medici, gli indovini, i πολέμαρχοι, due Πυθόι, con il compito di andare a consultare l’oracolo di Delfi in particolari circostanze, i suonatori di flauto incaricati della “colonna sonora” durante le cerimonie sacrificali (e del ritmo di marcia in battaglia), gli araldi per comunicare gli ordini ai subalterni, e con ogni probabilità la guardia del corpo dei Trecento.

In un’epoca in cui l’arte ossidionale era ancora ad uno stato molto primitivo, le città costituivano un baluardo insormontabile per qualsiasi esercito e la più efficace delle difese per coloro che si vedevano invadere il proprio territorio. Nella migliore delle ipotesi, pur disponendo di un qualche ariete, ancora privo di copertura e di sofisticati mezzi di bilanciamento introdotti dagli ingegneri di Filippo II e Alessandro Magno, di scale d’assalto e della possibilità di porre un blocco alla cinta muraria, gli eserciti poliadi non erano in grado di prolungare la campagna per il tempo necessario ad attendere la caduta del caposaldo. I cittadini, tutti artigiani o agricoltori, non potevano far altro che tornare alle proprie attività dopo un limitato periodo di tempo, né la pólis era in grado di assumersi l’onere di compensarli per la perdita dei loro raccolti o per il prolungato arresto delle loro attività. Per questo motivo, si tendeva a votare stanziamenti per campagne brevi e gli strateghi si ponevano obiettivi a breve termine. Tutt’altro discorso per gli Spartani, che disponevano di un vero e proprio “esercito di Stato”, i cui componenti erano stati messi in condizione di non far altro che la guerra. Ma anch’essi necessitavano di attendenti, servitori e personale ausiliario la cui prolungata assenza dalla madrepatria avrebbe inciso in qualche modo sull’economia della pólis.

Lo scopo di una campagna militare, pertanto, era d’indurre quanto prima il nemico alla battaglia campale decisiva, e la strategia più diffusa per riuscirvi, nel caso frequente in cui questi si asserragliava all’interno delle proprie roccaforti, consisteva nella devastazione sistematica quanto più possibilmente capillare di tutte le sue fonti di approvvigionamento (in primis, le campagne). Non a caso, si preferiva avviare le ostilità nella stagione del raccolto, quando le messi erano ancora nei campi, per provocare i danni maggiori; sotto quest’aspetto, durante la Guerra del Peloponneso, Sparta era avvantaggiata nei confronti di Atene, poiché trovandosi più a sud il suo grano maturava prima, permettendo ai suoi uomini di raccoglierlo e poi di invadere l’Attica prima che gli Ateniesi raccogliessero il proprio. Ma spesso anche questa si rivelava una strategia a lungo termine, perché non era affatto detto che i nemici si lasciassero indurre a scendere in campo aperto per fermare lo scempio, ed era necessario fare terra bruciata per anni, prima che gli avversari considerassero la loro economia talmente danneggiata da non aver nulla da perdere ad affrontare gli invasori, o a chiedere la pace.

Pittore di Berlino. Guerriero siceliota con una 𝑝ℎ𝑖𝑎́𝑙𝑒̄ in atto di libare. Da una 𝑙𝑒̄́𝑘𝑦𝑡ℎ𝑜𝑠 attica a figure rosse, 480-460 a.C. ca. Palermo, Museo Archeologico Regionale.

Ogni mattina il sovrano spartano, in guerra, compiva un sacrificio, alla presenza dei suoi subalterni, dei comandanti dei contingenti stranieri e dei responsabili delle salmerie. Proprio in vista di uno scontro, si sviluppava un’accurata e complessa ritualità, dalla quale nessun comandante in capo osava prescindere. L’oggetto del sacrificio era solitamente una capra, che il re immolava dopo essersi cinto il capo con una ghirlanda (parimenti facevano tutti gli astanti). Se gli auspici erano dunque favorevoli – e talvolta si faceva in modo che lo fossero – , gli opliti facevano il primo di due pasti giornalieri, detto ἄριστον, che si consumava a metà mattinata accompagnato da copioso vino, per favorire un moderato stato di ebbrezza; quindi, senza togliersi la ghirlanda, i guerrieri prendevano posto nella falange in attesa di ordini, poggiando lo scudo lungo le ginocchia e la parte posteriore della lancia a terra. La sera precedente avevano lucidato i loro scudi e pettinato i loro lunghi capelli, usanza dalla quale non prescindevano quando mettevano a rischio la propria vita: Licurgo, il semi-leggendario legislatore, riteneva infatti che i capelli lunghi rendessero più gradevole un bell’uomo e più terrificante uno brutto!

Quindi, i comandanti subalterni che avevano partecipato al consiglio di guerra – πολέμαρχοι e λοχαγοί – si avvicinavano ai ranghi schierati e prendevano posizione, passando gli ordini definitivi ai propri subordinati, che a loro volta li trasmettevano agli ἐνωμοτάρχοι; in breve, tutti i soldati, passandosi la parola, ne erano informati. Una volta schierati anche gli ufficiali, arrivava al re, che trasmetteva la parola d’ordine alla prima linea i cui componenti la ripetevano a quanti li seguivano, fino a che essa non ritornava al sovrano dopo essere stata ripetuta da tutti due volte, sia la domanda che la risposta. L’artificio era essenziale per poter distinguere i compagni nella confusa mischia che sarebbe nata di lì a poco, tra opliti appartenenti a eserciti nemici ma spesso equipaggiati allo stesso modo, ragion per cui la parola d’ordine veniva stabilita e comunicata solo pochi minuti prima della battaglia.

A quel punto, supportato dai flautisti (αὐληταί), il re intonava il peana di guerra (παιάν) e subito dopo si dava fiato alle trombe, il cui suono dava inizio all’avanzata della falange, senza che il suono dei flauti e il canto del re, progressivamente accompagnato dal resto dell’armata, si interrompessero. Probabilmente gli Spartiati erano i soli, tra i Greci, in grado di mantenere la compattezza della falange in fase di avanzata; le fonti riportano che erano sufficienti un leggero avvallamento, un modesto corso d’acqua, un’altura appena abbozzata – ma anche una marcata differenza d’età tra i combattenti, che si rifletteva sul loro ritmo di corsa –, perché la formazione perdesse in coesione e le linee divenissero dei segmenti ondulati e frammentati. In alcuni casi, addirittura, la falange si dissolveva prima di arrivare a contatto con il nemico, e lo scontro non aveva luogo.

La musica si fermava solo quando l’armata giungeva a ridosso del nemico, per lasciar posto alle esortazioni degli ufficiali, cui gli stessi soldati rispondevano incoraggiandoli a condurli con ardimento. Un nuovo segnale di tromba, dato a meno di duecento metri di distanza dall’esercito nemico, dava inizio all’assalto vero e proprio (ἐπίδρομος), durante il quale gli ufficiali continuavano a incitare i propri commilitoni con frasi del tipo: «Chi seguirà? Chi si dimostrerà coraggioso? Chi sarà il primo ad abbattere il nemico?», che i soldati ripetevano fino a quando non giungevano a contatto con gli avversari. Gli opliti procedevano ora di corsa – al ritmo di otto chilometri l’ora – dopo aver posizionato lo scudo, fino ad allora portato di fianco, in modo da coprire la maggior parte del corpo, e la lancia in posizione d’attacco, che non si sa se fosse sopra o sotto la spalla, poiché le raffigurazioni la rappresentano in entrambi i modi.

Statua di guerriero troiano (o Priamo). Marmo, 485-480 a.C. ca. dal frontone ovest del Tempio di Aphaia (Egina). München, Glyptothek.

In linea di massima, un generale cercava di far scattare l’attacco prima degli avversari, per valersi dell’abbrivio, ma doveva prestare attenzione a non farlo partire troppo presto, per non far stancare i propri uomini, che avevano bisogno di tutte le loro energie per il corpo a corpo. Il momento dell’impatto tra le due schiere era sancito dal rombo assordante degli scudi che cozzavano l’un contro l’altro e, subito dopo, dalle urla degli opliti delle file successive, che incitavano i commilitoni impegnati nello scontro e cercavano di fare la loro parte, spingendoli contro il muro avversario per scompaginarne la coesione, o sostituendo i caduti. La saldezza degli uomini schierati nelle linee posteriori era fondamentale per mantenere la coesione della falange e la pressione sullo schieramento nemico.

Non meno decisiva era la volontà di ciascun oplita di prevalere sull’avversario diretto e su quelli vicini, per assicurarsi la sopravvivenza di chi combatteva immediatamente al suo fianco e che, spesso, era un suo vicino parente: ad Atene e in molte altre póleis greche i λόχοι, infatti, erano costituiti su base distrettuale, e vi prestavano servizio più membri di una stessa famiglia. Infine, altro fattore in grado di influenzare il risultato era la tendenza di ciascun oplita a cercare la protezione dello scudo del compagno sulla destra, con il conseguente spostamento dell’intero schieramento verso quella direzione e una forza d’impatto generale che poteva risultare meno efficace.

Tra un oplita e l’altro si svolgeva un combattimento quasi di scherma con le lance, nel quale ciascuno dei contendenti affondava la propria arma nel tentativo di colpire l’avversario sopra e sotto lo scudo, in particolar modo alla gola, all’inguine e alle cosce. Accadeva però spesso che la lancia si spezzasse, costringendo il soldato a proseguire con la spada.

Pittore di Atena. Guerriero con lancia e scudo sotto una pioggia di frecce. Pittura vascolare da una lekythos attica a figure bianche. 475-425 a.C. ca. Paris, Cabinet des médailles.

Lo scontro conservava una certa staticità fino a quando in uno dei due schieramenti si aprivano dei varchi, dovuti ai caduti e a quanti non erano in grado di conservare lo scudo al braccio. Era come se qualche mattone venisse sottratto a un muro, provocandone la caduta: i nemici si affrettavano a penetrare in quei buchi e diventava molto più facile, per loro, infliggere colpi mortali agli avversari.

Non è detto che la battagli finisse con la rotta degli sconfitti e l’inseguimento da parte dei vincitori. I comandanti potevano anche sancire la conclusione dello scontro facendo squillare le trombe per la ritirata quando si rendevano conto che la propria compagine stava prevalendo, né si curavano di darsi all’inseguimento dei nemici, poiché la carenza di effettivi di cavalleria, d’altronde, l’avrebbe reso inefficace. In linea di massima, se lo sconfitto mandava un araldo a negoziare una tregua per portare via i morti dal campo di battaglia, ciò implicava l’ammissione della sconfitta.

Prima della rimozione dei caduti, tuttavia, i vincitori si sentivano in diritto di spogliare i cadaveri dei nemici, cui sottraevano le armature, oltre agli eventuali effetti personali che si portavano addosso. L’intero bottino veniva diviso tra i soldati, salvo un decimo che era dedicato alle divinità cui il comandante aveva consacrato l’eventuale vittoria, oppure affidato a dei banditori che lo mettevano all’asta perché la pólis vittoriosa ne percepisse il ricavato. Le armi andavano a costituire un trofeo (τροφεῖον) eretto sul punto in cui lo scontro era stato decisivo.

L’ὁπλίτης greco aveva fama di fante pesante per eccellenza sebbene, ad esempio in Beozia, dove si praticava un vero e proprio culto del corpo attraverso la ginnastica costante, fosse molto diffusa l’abitudine di combattere pressoché nudi; il paradosso era che i Beoti adottavano degli stivaletti, in contrasto con gran parte degli opliti delle altre regioni, che avevano l’abitudine di combattere a piedi nudi.

In effetti fra i Greci, sempre attenti a non rendere il combattimento troppo impacciato, non si dotavano di un equipaggiamento particolarmente “pesante”, accettando il rischio che le proprie armi di difesa fossero trapassate, a vantaggio di una maggiore mobilità e fluidità delle manovre. Si trattava di una panoplia piuttosto costosa, che si preferiva trasmettere di padre in figlio, anche perché il suo acquisto corrispondeva alla paga mensile di un artigiano, e solo alla fine del periodo classico lo Stato avrebbe tolto ai cittadini l’onere di provvedervi. In ogni caso, pare che ancora agli inizi della Guerra del Peloponneso non ci fosse una piena uniformità di equipaggiamento nell’ambito di una stessa pólis, e che solo a partire dalla fine del medesimo conflitto il concetto si sia esteso fino a prevedere delle vere e proprie “uniformi”.

Scudo votivo. Bronzo, 700 a.C. ca. da Delfi. Museo Archeologico di Delfi.

Lo scudo (ἀσπίς) doveva essere maneggevole e allo stesso tempo coprire la maggior parte possibile del corpo. Quello che si utilizzò nel corso dell’età classica era frutto di una secolare evoluzione, inaugurata ancora in età micenea da un’arma “a forma di otto” con le rientranze mediane tagliate in dentro; prese la sua forma definitiva nel corso dell’VIII secolo a.C., con il modello argivo detto ὅπλον (da cui derivò il nome di chi lo portava). Si trattava di uno scudo più convesso dei precedenti e con la novità che il bordo era rinforzato per conferire all’attrezzo una rigidità sufficiente a impedirgli di curvarsi sotto i colpi subiti in battaglia. Rotondo e molto ampio, tanto da coprire il corpo del combattente dal mento al ginocchio – ma anche la parte scoperta del commilitone sulla sinistra –, aveva un diametro di un metro o poco meno e pesava poco più di sette/otto chilogrammi, il che vuol dire che era piuttosto sottile, tanto da essere sufficiente contro gli affondi di lance e spade, ma di scarsa efficacia contro giavellotti e frecce.

Lo scudo, trasportato dall’attendente dell’oplita fino a pochi istanti prima dello scontro, era saldamente ancorato al braccio dell’oplita mediante un bracciale di bronzo (πόρπαξ) saldato all’interno mediante due piastre; il soldato vi passava l’avanbraccio attraverso e poi afferrava con la mano una cordicella che correva lungo l’intera circonferenza del bordo, ancorata allo scudo mediante rovelli disposti con cadenza regolare e ricoperti sul lato esterno dal rivestimento. Il πόρπαξ era talmente decisivo ai fini dell’utilizzo dello scudo che l’oplita spartano – in particolare –, al termine di una campagna, lo staccava e lo conservava altrove, per evitare che gli iloti utilizzassero l’arma in caso di ribellione.

La base era di legno, probabilmente di noce, e solo in Età classica si trovò il modo di rivestirla di una sottile lamina di bronzo pressato – in alternativa alla pelle di bue, che continuò comunque a essere usata –, che nel periodo arcaico era limitato ai bordi e all’umbone centrale (quest’ultimo, poi, scomparso in epoca classica). Anche con il rivestimento in metallo, comunque, gli emblemi continuarono a essere dipinti, con colori convenzionali che nelle pitture sui vasi corrispondono al rosso su sfondo nero. A seguito dei primi contatti bellici con i Persiani, comparve anche una sorta di “grembiule” in cuoio che pendeva lungo il bordo inferiore, come ulteriore difesa contro i proietti dei tiratori nemici.

Le pitture sui vasi consentono l’individuazione di alcuni motivi costanti raffigurati sugli scudi, che dovevano rappresentare l’unico modo per distinguere un oplita dall’altro, poiché il viso era interamente celato dall’elmo. Gli Argivi erano famosi per i propri scudi bianchi, di cui parla anche Eschilo, forse con l’aggiunta di un’idra. In generale, si trattava in gran parte di motivi geometrici, di oggetti e di animali, anche se, con il tempo, vennero introdotti specifici simboli per contrassegnare l’appartenenza a una pólis, come la lámbda per Sparta o la clava per Tebe.

Oplita con elmo crestato (o Leonida). Statua, marmo locale, V secolo a.C. ca. Sparta, Museo Archeologico.

Anche l’elmo non era particolarmente rigido, e non sempre resistente al fendente di una spada; in compenso, la sua flessibilità consentiva di metterlo e toglierlo con una certa facilità, o di tenerlo sollevato all’altezza della fronte.

Oltretutto, mancava delle cinghie per fissarlo al mento, e l’oplita correva il rischio di perderlo, durante i movimenti convulsi che era costretto a compiere durante uno scontro. Il tipo più diffuso era quello detto “corinzio”, evolutosi a partire dall’VIII secolo attraverso forme sempre più sofisticate, ma mantenendo sempre la sua caratteristica di coprire tutto il viso tranne gli occhi, il naso e la bocca. Il suo vero problema era che copriva le orecchie, impedendo a chi lo indossava di recepire bene gli ordini del proprio comandante, tanto che si tendeva a tenerlo sollevato fino agli attimi precedenti lo scontro; nel corso del V secolo, pertanto, venne modificato e si sviluppò in almeno tre nuovi modelli: uno, detto “calcidico”, con le aperture per le orecchie, e con paragnatidi fissi o rimovibili, un altro, quello “attico”, con paragnatidi rimovibili e senza guardianaso, e infine un terzo, detto “tracico”, col bordo rialzato a protezione di occhi e orecchie, paragnatidi molto lunghi fino a chiudersi sulla bocca e una leggera cresta sulla sommità.

Parallelamente si sviluppò e si diffuse anche il tipo “beotico”, molto più aperto, derivante dal copricapo di feltro che, secondo Demostene, i contingenti di Platea indossavano ancora durante la prima invasione persiana. Tutto ciò che il soldato aveva sul viso, oltre alla calotta, era un’ampia visiera che aggettava su tutta la circonferenza dell’elmo, risultando più pronunciata sulla fronte.

L’interno degli elmi era rivestito di stoffa, ma qualcuno usava indossare sotto l’elmo un copricapo di tessuto, per attutire l’impatto dei colpi ricevuti. La cresta di cavallo che troneggiava sulla sommità svolgeva la precisa funzione di far apparire più alto e imponente l’oplita anche se, nel corso del tempo, con una maggiore definizione dei gradi e delle rispettive uniformi, divenne piuttosto un segno del rango. Il guerriero la conservava separata dall’elmo, in una scatola, perché i colori non si sciupassero, e l’attaccava al copricapo mediante due distinti sistemi, ovvero una o più forcelle disposte lungo la sommità, oppure un perno leggermente incurvato alla sommità, che staccava notevolmente la cresta dall’elmo.

Come i centurioni romani, gli ufficiali spartani solevano portare la cresta trasversale, mentre si ha notizia di creste multiple o di elmi piumati con piume di ostrica per ταξίαρχοι e στρατηγοί. Un altre segno distintivo era il βακτήριον, il «bastone», che poteva essere completamente dritto o ricurvo a un’estremità, che si usava porre sotto l’ascella sinistra per appoggiarvi il peso del corpo.

In Età arcaica la corazza degli opliti più importanti sembrava una sorta di campana, con delle piastre di bronzo a forma di anello orizzontale la cui struttura si allargava in vita. Questo ingombrante modello, che possiamo figurarci indosso agli eroi omerici, si affinò col tempo fino a divenire, in Età classica, la cosiddetta corazza “anatomica”, modellata secondo le forme del busto e chiusa in vita, dalla quale pendevano strisce di cuoio indurito, dette pterugi, disposte in due strati, il secondo dei quali andava a coprire gli intervalli lasciati dal primo. Fondamentalmente si trattava di due piastre di bronzo modellato, tenute insieme da tre cerniere per lato, una su ciascuna spalla e due lungo i fianchi, di cui si usava aprire e chiudere quelle sul lato destro, per fissarle inserendovi degli spilli. In alcuni modelli si usava anche assicurare la coesione dei due pezzi con delle cinghie sotto l’ascella, che si dipartivano da due anelli posti a ridosso della giunzione.

Ma era diffuso anche un altro tipo di corazza, detta “composita”, perché il bronzo era rivestito da lino o cuoio per prevenirne l’ossidazione; altre erano costruite soltanto da più strati sovrapposti di cuoio indurito o di lino pressato (λινοθώραξ); in quest’ultimo caso, preferito per la sua maggiore flessibilità, leggerezza e soprattutto per i suoi bassi costi, si raggiungeva uno spessore di mezzo centimetro. La giunzione era posta solitamente sul fianco sinistro. Un altro pezzo a forma di “U” si dipartiva dal centro della schiena per coprire le spalle, con le due estremità fissate sul petto.

Va da sé che qualsiasi corazza poggiava su un qualche indumento di stoffa, che fino alla metà del V secolo a.C. fu il caratteristico χιτών. Solitamente di lino o di lana, esso era costituito da un rettangolo di stoffa che rivestiva sia gli uomini sia le donne, e che si usava avvolgere e drappeggiare intorno al corpo, ripiegandolo lungo il bordo superiore affinché il risvolto arrivasse alla vita, che veniva stretta da una cintura. In seguito, questo capo d’abbigliamento fu affiancato e pressoché sostituito dall’ἐξωμίς, una tunica corta di lino senza maniche e stretta alla vita da una cintura, ricavata dall’unione di due rettangoli di stoffa cuciti insieme a mo’ di cilindro, lungo i quali venivano lasciate delle aperture per le braccia e il collo.

L’elenco delle armi difensive si conclude con i gambali (o schinieri), introdotti a partire dal VII secolo a.C., che grazie alla naturale elasticità del bronzo si stringevano intorno al polpaccio adattandosi alla sua muscolatura, senza bisogno di stringhe per tenerli fermi. Inizialmente coprivano la gamba dalla caviglia fin sotto il ginocchio, ma col tempo anche quest’ultimo, che in battaglia si dimostrava assai vulnerabile. In certi periodi, si usava metterci sotto qualcosa, forse delle “calze”, per evitare lo sfregamento del bronzo sulla pelle.

Pittore di Altamura. Efebo in armi, pronto per la guerra. Pittura vascolare da un calyx-krater attico a figure rosse, 470-460 a.C. ca. Baltimore, Walters Art Museum.

Tra le armi offensive la lancia (δόρυ), rivestiva, e di gran lunga, un ruolo più importante della spada. I Greci la preferivano con un fusto di frassino, un legno che offriva il giusto bilanciamento tra le esigenze di resistenza e di leggerezza, e che si poteva trovare in abbondanza nelle frequenti zone montane della penisola ellenica, sebbene alcune póleis preferissero importarlo da altri paesi più a nord. Pare fosse lunga poco meno di due metri e mezzo, sebbene le esigenze artistiche dei vasi la raffigurassero più corta, e pesasse circa un chilogrammo.

La lavorazione era piuttosto complessa. Si prendevano dei ciocchi di legno e si dividevano in lunghezza con mazzuoli e cunei di legno. Una volta stagionati, i pezzi venivano ulteriormente tagliati per eliminare tutte le parti “deboli”, e il lavoro proseguiva fino a quando non rimaneva un’asta grezza per circa due pollici di diametro. Un piccolo coltello ricurvo, detto (ξυήλη), in mano a un δορυξόος («raschiatore di lance»), si assumeva il compito di dare una forma a quel palo, che grazie al lavoro finale di una raspa diveniva perfettamente tondo e liscio.

Poi, l’attrezzo passava in mano ad altri artigiani, che lo dotavano delle parti in metallo – in ferro ma anche in bronzo – , valendosi della resina ma, in alcuni casi, anche di anelli di ferro, per le giunzioni. All’estremità più affilata veniva posta la punta vera e propria, a forma di “foglia”, a quella più grossa il puntale posteriore, detto στύραξ («uccisore di lucertole»), perché si usava soprattutto per conficcare l’attrezzo nel terreno durante il riposo dell’oplita. Lo stadio finale della lavorazione dell’arma consisteva nell’avvolgere un quadrato di stoffa al centro dell’asta, e poi cucirlo, per consentire al guerriero una salda presa.

Quanto alle spade, di bronzo, ve ne erano di diversi tipi, che l’oplita usava tenere in un fodero appeso a tracolla, di legno rivestito di cuoio. La più diffusa, della ξύφος, aveva un’elsa cruciforme e una lama dritta, a doppio taglio e a forma di “foglia” più larga verso l’impugnatura, per una lunghezza della lama di circa settantacinque centimetri. Ma a partire dal VI secolo a.C. si diffusero anche spade di probabile influenza orientale, a un taglio, l’una a mo’ di scimitarra, con il dorso dritto o appena concavo, e l’altra a forma di sciabola ricurva, denominate rispettivamente κοπίς e μάχαιρα, lunghe circa sessanta/sessantacinque centimetri, con l’elsa spesso a forma di uccello o comunque a testa di animale, e con un’accentuata uncinatura per la protezione delle nocche.

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