di G.M. Della Fina (dir.), I segreti dell’Archeologia, vol. I, Novara 2001, pp. 20; 40; 60; 80.
Heinrich Schliemann nacque a Neubuchow, in Germania, il 6 gennaio del 1822. Compì studi da autodidatta e riuscì ad impadronirsi di diverse lingue antiche e moderne. Sempre in anni giovanili lesse Omero: una lettura destinata ad avere una grande influenza sul suo futuro.

La vita sembrava portare Schliemann lontano dagli studi: fu prima garzone di bottega, poi mozzo su un brigantino diretto in Venezuela, quindi fattorino di una ditta commerciale e contabile di un’impresa. Nel 1846 si trasferì a San Pietroburgo e dette avvio a una fiorente attività commerciale. Riuscì anzi, in breve tempo, ad arricchirsi attraverso abili speculazioni, in particolare nel corso della Guerra di Crimea (1854-1856).
Durante l’intenso e felice soggiorno pietroburghese compì un lungo viaggio negli Stati Uniti, riuscendo addirittura a prendere la cittadinanza statunitense che, in seguito, gli sarebbe tornata utile. Nel 1852 aveva sposato Katerina Lyscin.
Heinrich Schliemann era dunque un mercante affermato e stimato quando, nel 1863, liquidò la ditta e iniziò una nuova vita. Aveva 41 anni, che all’epoca non erano considerati – né erano – pochi. Gli interessi giovanili erano riaffiorati e i personaggi di Omero riempivano di nuovo le sue giornate. Decise di riportare alla luce i luoghi cantati dal poeta prestando una fede cieca ai suoi versi: sembrava un’impresa impossibile. Non lo scoraggiarono né lo scetticismo degli “addetti ai lavori”, né le perplessità dei suoi stessi amici: non si poteva abbandonare una posizione di prestigio nella vivace società pietroburghese per inseguire miraggi da adolescente. Fece tutto con la consueta caparbietà: letture intense, viaggi, anche una laurea in filosofia all’Università di Rostock. Dopo anni di ricerche, pensò di aver individuato il sito giusto. A quel punto si dette da fare per ottenere un permesso di scavo, che riuscì ad acquistare dal governo turco: nel 1871 iniziò finalmente gli scavi sulla collinetta di Hissarlik. Aveva visto giusto o era ancora lontano da quello che stava cercando? Gli sarebbero apparse le mura di Troia oppure stava cercando in un luogo sbagliato? Sarebbe riuscito a riportarle alla luce? A convincere gli altri che Troia era esistita davvero?
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Arrivò il momento delle scoperte entusiasmanti e subito dopo l’ora delle polemiche con la scienza ufficiale. Allora Schliemann comprese, da uomo concreto quale era, che da solo non sarebbe stato in grado di continuare le indagini.

Gli scavi iniziarono e furono portati avanti a ritmi frenetici: Schliemann aveva al suo fianco la seconda moglie Sofia, tre collaboratori e circa 150 operai alle sue dipendenze. Il mercante divenuto archeologo voleva far presto, arrivare velocemente a una conferma – o anche a una smentita – della sua tesi. Dopo tre anni di campagne di scavo poté dare la notizia al mondo scientifico: la città di Troia era stata localizzata e quindi era esistita realmente. Il suo sogno di ragazzo, inseguito da adulto, era coronato.
Sulle ali del successo volle andare alla ricerca dei luoghi da cui erano partiti gli eroi cantati da Omero per giungere sotto le mura di Troia. Lasciò la Turchia e raggiunse la Grecia. Nel 1847 era già al lavoro a Micene. I risultati delle indagini furono subito di grande interesse: rinvenne infatti alcune tombe caratterizzate da corredi straordinariamente ricchi, in particolare di ori, nelle quali volle riconoscere le ultime dimore degli Atridi. Stava riscrivendo la sua personale Iliade.
Era ormai al centro di un interesse amplissimo, alimentato con un uso sapiente dei mezzi di comunicazione dell’epoca. Presto divenne protagonista anche del dibattito scientifico: i suoi metodi di scavo e soprattutto le sue conclusioni iniziarono ad essere criticati.
Certe sue interpretazioni, senza nulla togliere all’importanza della documentazione riportata alla luce, non potevano passare al vaglio della scienza ufficiale. Lui stesso ammise errori di valutazione: in una lettera all’archeologo italiano Giuseppe Fiorelli riconobbe con sincero rammarico di avere distrutto «tutte le costruzioni troiane che si trovano a una profondità compresa tra i 7 e i 10 metri».
I mesi esaltanti delle scoperte furono seguiti da quelli roventi delle polemiche, degli scontri, delle grane giudiziarie. Soltanto nel 1878 Heinrich Schliemann poté riprendere gli scavi sulla collinetta di Hissarlik: ripartiva da dove aveva iniziato, ma adesso era una persona più avveduta a cauta. L’entusiasmo iniziale non era venuto meno, me aveva compreso che non poteva proseguire le ricerche facendo affidamento soltanto sulle sue conoscenze e sul suo intuito: ciò che aveva riportato alla luce era troppo importante per non cercare collaborazioni e aiuto nel mondo della scienza ufficiale.
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Alla stagione frenetica e gioiosa dello scavo, doveva seguire quella più fredda ma altrettanto necessaria della documentazione, dello studio e dell’interpretazione dei dati. Schliemann volle al suo fianco prima il professore berlinese Rudolf Virchow, poi l’archeologo e architetto Wilhelm Dörpfeld, direttore fino al 1912 del prestigioso Istituto Archeologico Germanico di Atene. Quest’ultimo, in particolare, noto per gli scavi magistrali condotti a Olimpia e a Tirinto, riuscì a dare un’impronta più rigorosa alle indagini.
La fama di Schliemann nella società dell’epoca non era stata intaccata dalle polemiche: nel 1881 venne nominato cittadino onorario di Berlino. Nello stesso anno diede alle stampe il volume Ilios, ricco di pagine autobiografiche nelle quali l’archeologo, ormai celebre, si lasciava andare a considerazioni e ricordi, alcuni dei quali risalenti all’infanzia. È così che conosciamo figure poco note che ebbero però un peso determinate nella vita di Schliemann, come Minna Meincke. Era figlia di un agricoltore di un villaggio vicino a quello dove viveva, da ragazzo, il futuro archeologo. Fu la sua compagna di giochi, la persona a cui di preferenza parlava di Troia e delle vicende degli eroi omerici. Ancora nel 1881, quando aveva già individuato Troia, Schliemann ricorda: «Ero destinato a realizzare i nostri progetti infantili di cinquant’anni fa soltanto nell’autunno della mia vita e senza Minna: lontano, molto lontano da lei».
I suoi interessi si estendevano ormai all’intero mondo greco e le campagne di scavo a Troia si alternavano con quelle in Grecia, dove non mancarono nuovi successi: il rinvenimento di una grande tomba a cupola, nota come Tesoro di Minia, a Orcomeno in Beozia (1880-81) e la scoperta del palazzo di Tirinto (1884). Fu anche a Creta nel 1886, compiendovi un sopralluogo approfondito, e nel 1890 era di nuovo a Troia.
La morte lo colse a Napoli, in attesa di tornare ad Atene e mentre aveva in animo di iniziare nuove ricerche.
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Quale giudizio va dato, a più di cent’anni dalla morte, sull’opera di Heinrich Schliemann? La scienza ufficiale, o almeno una parte di essa, non accettò i suoi metodi d’indagine e il peso di questa valutazione ha influenzato il giudizio successivo.
Motivo per il quale ne sono stati messi in evidenza i limiti culturali dovuti a una preparazione da autodidatta, le speculazioni, gli atteggiamenti spregiudicati, gli scavi non accurati e finalizzati solo a riportare alla luce in breve tempo strutture e reperti di particolare valore storico-artistico trascurando altri meno spettacolari, ma altrettanto significativi sul piano storico.
In queste critiche, non possiamo negarlo, vi è una parte di verità: lo stesso Schliemann mostra di esserne stato consapevole. Ed è vero – come ha notato Antonio Giuliano – che in lui: «L’antichità classica non divenne mai cultura operante, non condizionò la ricerca di una maturità morale, fu solo curiosità, mondanità, spesso spunto di arrivismo».
Ma non dobbiamo dimenticare gli anni in cui egli operò, quando scelte per noi assolutamente non condivisibili erano considerate “normali”: quanti fra gli archeologi ufficiali dell’epoca scavavano secondo i metodi oggi seguiti, o che almeno vi si avvicinavano?
Quanti studiosi furono esenti da compromessi con il mondo politico coloniale, o lontani dalle speculazioni del mercato dell’arte che stava divenendo sempre più ampio e aggressivo? Schliemann fu un archeologo sul campo, che studiò le antichità non solo fra le pareti di un museo o di una biblioteca, ma vicino ai monumenti stessi e in diretto contatto con i materiali, e in questo è più attuale di tanti suoi illustri contemporanei. Un altro elemento di modernità della sua figura può essere riscontrato nella grande attenzione prestata alla divulgazione delle proprie scoperte, nell’alta considerazione che dimostrò per i media dell’epoca, nelle spiccate capacità manageriali: tutte doti che oggi vengono richieste in maniera sempre più pressante a un archeologo. Si tratta di considerazioni che vanno tenute presenti nel giudizio complessivo, ma occorre ricordare che per Schliemann fu sufficiente, con ogni probabilità, realizzare il suo sogno di ragazzo: riportare alla luce i luoghi che avevano visto le gesta degli eroi omerici.
Un personaggio che visto con l’occhio di poi è assolutamente controverso e un po’ dannoso, visto gli effetti pratici sui luoghi che ha scavato e per aver creato nell’immaginario il mito dell’archeologo avventuroso e fortunato.
Io credo che il suo vero pregio è aver fatto capire che i testi dei miti non erano mere favolette per ragazzini, ma veri strumenti di indagine storica.
Ricordo che alle superiori la mia professoressa di greco ci fece tradurre il 6 canto dell’Odissea (quello di Polifemo) cercando di capirne la società, cosa comunicava ai greci suoi contemporanei. Fu illuminante e capii dopo quanto fu fondamentale per la mia passione di rievocatrice storica.
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[…] e del bello. Assicuro che la presa della narrazione, sino all’Appendice con la storia di Heinrich Schliemann, è assoluta: sebbene conosca la storia della Guerra di Troia appunto fin da quando ero bambino, […]
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[…] alla fine dell’Ottocento le imprese romantiche di Heinrich Schliemann a Troia e a Micene aprirono la strada a una riflessione nuova sul valore del patrimonio di miti e […]
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