di J.-P. VERNANT, La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, Bologna 1987, 39-62.
La maschera di Medusa

Il modello iconografico della Gorgone, nella sua doppia forma di γοργόνειον da una parte (la sola maschera), di personaggio femminile dalla faccia gorgonica dall’altra, non è rappresentato soltanto nella serie dei vasi dipinti. Figura anche, fin dall’epoca arcaica, sul frontone dei templi, ed anche quale acroterio o antefissa. Lo si trova ancora sugli scudi, quale ἐπίσημα, a decorazione di utensili domestici, appeso nei laboratori degli artigiani, fissato sui loro forni, collocato nelle case private, figurato su monete. Apparso agli inizi del VII secolo a.C., questo modello vede costituirsi i suoi tipi canonici nei loro tratti essenziali verso il secondo quarto di tale secolo. Al di là delle varianti che ne presenta l’iconografia corinzia, attica, laconica, si possono delineare, in prima analisi, due caratteristiche fondamentali della rappresentazione di Medusa. Innanzitutto la frontalità. Contrariamente alle convenzioni figurative che regolano lo spazio pittorico greco in epoca arcaica, la Gorgone è sempre, senza alcuna eccezione, rappresentata di faccia. Pura maschera o persona intera, il viso della Gorgone è ogni volta frontale rispetto all’osservatore. In secondo luogo la «mostruosità». Di qualunque tipo siano le modalità adottate nella distorsione espressiva, la figura si avvale sistematicamente delle interferenze tra l’umano e il bestiale, associate e commiste in maniera diversa. La testa, slargata, arrotondata, ricorda un muso leonino, gli occhi sono sbarrati, lo sguardo è fisso e penetrante, la chioma trattata come una criniera animalesca o irta di serpenti, le orecchie ingrandite, deformate, simili talora ad orecchie bovine; il cranio può presentare corna; la bocca, ghignante, si allarga fino ad occupare tutta l’ampiezza del volto, scoprendo le file dei denti, con zanne ferine o di cinghiale, e con la lingua che fuoriesce, protesa in avanti; il mento è peloso o barbuto, la pelle solcata talvolta da rughe profonde. Questo volto si presenta più come orribile ghigno che come viso. Nello sconvolgimento dei tratti tipici della faccia umana, esso esprime, per un effetto di inquietante estraneità, un mostruoso che oscilla tra due poli: l’orrore del terrifico, il ridicolo del grottesco. Allo stesso modo, tra la Gorgone che è dalla parte del terrifico, e i Sileni o Satiri che, nel registro del mostruoso, si situano dalla parte del grottesco, si possono rilevare, insieme a evidenti contrasti, significative convergenze. Queste due categorie di personaggi hanno del resto chiare affinità con la rappresentazione cruda e brutale del sesso, femminile o maschile – rappresentazione che, come il volto mostruoso di cui essa è per certi aspetti l’equivalente, può provocare sia il terrore di un’angoscia sacra sia lo scoppio del riso liberatore.

Per precisare questo gioco d’interferenze tra la faccia di Medusa e l’immagine del sesso femminile – come tra il φαλλός e i personaggi tipo Satiri o Sileni, la cui mostruosità, pur prestandosi al riso, non manca di inquietare –, bisogna spendere una parola sulla singolare figura di Baubo, personaggio dal duplice aspetto: spettro notturno, sorta di orchessa, avvicinata, al pari di Medusa, Mormo o Empusa, a Ecate infernale, ma anche buona vecchia le cui allegre facezie e i cui gesti indecenti riescono a rompere il digiuno di Demetra afflitta per la figlia, provocandone il riso. Il confronto dei testi che riferiscono questo episodio con le statuette di Priene raffiguranti un personaggio femminile ridotto a un semplice volto, che è al tempo stesso un bassoventre, conferisce al gesto di Baubo che alza la veste per ostentare la sua intimità un significato inequivocabile: quel che Baubo fa vedere a Demetra è un sesso che ha preso le sembianze di un volto, un volto in forma di sesso; si potrebbe dire: il sesso fatto maschera.
Nel ghigno, questa figura del sesso si fa risata, uno scoppio di riso al quale risponde il riso della dea, come al ghigno d’orrore che solca il viso di Medusa risponde il terrore di chi la guarda. Il φαλλός, del quale uno dei nomi con cui è indicato, βαυβών, sottolinea il rapporto con Baubo, assume al polo opposto del mostruoso una funzione simmetrica. Normalmente esso accresce il ridicolo, denuncia il grottesco di quei mostri piacevoli che sono i Satiri, ma nelle iniziazioni provoca un effetto di terrore sacro, di spavento affascinato espresso dal gestire di certi personaggi femminili che indietreggiano davanti al φαλλός scoperto.
Esistono del resto due versioni del riso di Demetra mentre è alla disperata ricerca della figlia; e in ognuna di esse la protagonista, per creare l’effetto di choc liberatore rispetto alla tristezza, utilizza l’elemento scandaloso in un diverso registro. Secondo la prima versione, Iambe, γραῖα Ιάμβη, la vecchia Iambe come la chiama Apollodoro, deride Demetra e rompe la sua afflizione con battute licenziose, con l’αἰσχρολογία, come si faceva durante le Tesmoforie o nel γεφυρισμός della processione eleusina. Iambe può essere considerata il femminile di Iambos, il giambo, nel suo aspetto musicale di canto satirico, di poesia di invettiva e di derisione. L’effetto liberatore di una sessualità sfrenata, prossima al mostruoso per il suo carattere anomico, opera del linguaggio e per mezzo del linguaggio: frizzi ingiuriosi, scherzi osceni, battute scatologiche, tutto ciò che il greco comprende nel termine σκόπτειν o nella locuzione παρασκόπτειν πολλά. Nella seconda versione Baubo, sostituendo Iambe, mette in atto le stesse procedure sul piano visivo; ella sostituisce lo spettacolo alle parole, mostra la cosa invece di nominarla. Quando esibisce crudamente il proprio sesso imprimendogli una sorta di movimento, Baubo vi fa apparire il volto ilare di un giovane, il piccolo Bacco (Ἴακχος), il cui nome evoca il grido degli iniziati (ἰάχω, ἰαχή) ma è pure ravvicinato a χοῖρος, porcellino ed anche, certamente, sesso femminile.

Frontalità, mostruosità: queste due caratteristiche pongono il problema delle origini dello schema figurativo di Medusa. Sono stati ricercati antecedenti nel Vicino Oriente, nel mondo cretese-miceneo, in quello sumerico-accadico. Sono stati proposti agganci con la figura di Bes egiziano e soprattutto con quella del demone Hambaba, così come è rappresentato nell’arte assira. Nonostante l’interesse di questi studi, essi non toccano ciò che ai nostri occhi costituisce il fatto essenziale: la specificità di una figura che, quali che possano essere state le derivazioni o le trasposizioni, si profila come una creazione nuova, assai diversa dagli antecedenti invocati. La sua originalità non può essere colta al di fuori delle relazioni che, in seno all’arcaismo greco, la legano a pratiche rituali, a temi mitici, ad una Potenza soprannaturale, infine, che emerge e si afferma nello stesso tempo in cui si costruisce e si fissa il modello simbolico che la rappresenta nella forma particolare della maschera gorgonica.
A questo riguardo i tentativi di Jane Harrison di basarsi su alcune analogie figurative tra Arpie, Erinni, Gorgoni per ascriverle tutte ad un medesimo fondo religioso «primitivo», e per farne specie diverse di Kῆρες, spiriti nefasti, spettri, brutture, sembrano assolutamente inutili. Non è buona metodologia fondere insieme in un’unica, vaga categoria figure diverse, ignorando le divergenze che, distinguendole chiaramente, conferiscono a ciascuna di esse il loro significato e il loro posto particolare nel sistema delle Potenze divine. Le Erinni non hanno né ali né maschera; le Arpie hanno ali, ma non maschera; le sole Gorgoni, oltre alle ali, presentano la facies di una maschera. Le affinità, sottolineate specialmente da Th.G. Karagiorgia, tra Medusa e la Signora degli Animali, la Πότνια, sono più suggestive. Tra questi due personaggi esistono punti di contatto così come esistono somiglianze o almeno parallelismi nella loro iconografia. Bisognerà tenerne conto. Per alcuni aspetti Medusa si presenta come la faccia cupa, il sinistro rovescio della Grande Dea di cui Artemide in modo particolare raccoglierà l’eredità. La presenza di divergenze, di stacchi tra i due modelli deve tuttavia metterci in guardia da una pura e semplice assimilazione. Essenziale rimane comprendere perché e come i Greci abbiano elaborato una figura simbolica che, combinando in una forma singolare faccialità e mostruosità, si distingue abbastanza nettamente da tutte le altre per farsi subito riconoscere per quel che è: la faccia di Medusa.

Al fine di illustrare questi punti di vista un po’ astratti faremo un esempio. Sul Vaso François (verso il 570 a.C.) tutti gli dèi sono rappresentati come in un repertorio: sono tutti di profilo, ad eccezione di tre personaggi: la Gorgone, raffigurata sulla faccia interna delle due anse, Dioniso, che regge un’anfora sulle spalle, e Calliope, una delle Muse. Nei casi della Gorgone e di Dioniso, il cui volto è reso come una maschera, la frontalità non ci sorprende: si potrebbe dire che va da sé. Nel caso di Calliope costituirebbe un problema se la Musa non fosse rappresentata, nel corteo divino, intenta a suonare la zampogna, lo strumento campestre detto anche “flauto di Pan”. E noi mostreremo, ampliando le osservazioni di Paul M. Laporte su questo argomento, che soffiare nel flauto equivale, per molteplici ragioni, a farsi la faccia di Medusa. Alle Gorgoni dipinte internamente alle anse corrispondono, all’esterno, le figurazioni della Signora degli Animali. I due tipi di Potenza si trovano dunque praticamente associati e, al tempo stesso, contrapposti. Il contrasto si realizza su vari piani. In primo luogo, e soprattutto, le Gorgoni sono di prospetto, le Signore degli Animali di profilo, come tutti gli altri dèi o eroi che figurano sul vaso. Inoltre le Gorgoni sono in corsa, con le ginocchia flesse; le Signore sono immobili, in piedi, ritte, in atteggiamento ieratico. Le Gorgoni hanno un chitone corto, le Signore una lunga tunica che le avvolge fino ai piedi. La chioma delle prime, irta, si contrappone a quella delle seconde, portata normalmente all’indietro sulle spalle mediante una fascia. Il valore di maschera del volto gorgonico si accompagna dunque, nell’iconografia, a tutta una serie di indizi che contrassegnano senza ambiguità la differenza rispetto al modello della Πότνια, la Signora degli Animali.
Uno studio iconografico dovrà tendere ad esplorare tutta la rete di questi segni e a delineare il quadro degli elementi significativi dell’immagine, del loro ruolo all’interno di diverse serie omogenee, stabilite in funzione del luogo d’origine, della natura degli oggetti, dei temi figurati. […]

Nelle rappresentazioni figurate il cavallo – o i cavalli quando sono due in posizione simmetrica – si associa alla Gorgone talora come una parte di lei, un suo prolungamento o una sua emanazione, talora come il piccolo che ella nutre e protegge, talora come la prole che ella partorisce o anche la cavalcatura che ella cavalca, talora infine, sulla linea del mito di Perseo, come il cavallo Pegaso che balza, mentre ella muore, dal suo collo troncato. Riguardo alle varie possibilità di associazione tra la Gorgone e il cavallo c’è dunque nell’iconografia, quando la si confronti con la leggenda, un surplus e quasi un’esuberanza di significati.
Una faccia del terrore
Ma passiamo ai testi per chiarire – attraverso le indicazioni che ci forniscono sui miti e sugli elementi del rituale legati alla Gorgone – la personalità, i modi d’azione, i campi d’intervento, le forme di manifestazione della Potenza fatta maschera.
Fin da Omero è già innalzato il teatro sul quale Medusa fa la sua apparizione e interpreta i suoi differenti ruoli. Nell’Iliade la scena è guerresca. Medusa figura sull’egida di Atena e sullo scudo di Agamennone; sull’altro fronte, quando Ettore, portando la morte nella mischia, fa girare in tutti i sensi i cavalli, «i suoi occhi hanno lo sguardo della Gorgone». In questo contesto di scontro senza remissione, Gorgone è una Potenza di Terrore, associata a «Spavento, Rotta, Inseguimento che gelano i cuori». Ma questo terrore di cui incarna la presenza, che in qualche maniera mobilita, non è «normale»; non dipende dalla situazione particolare di pericolo in cui ci si può trovare. È il terrore allo stato puro, il Terrore come dimensione del soprannaturale. In effetti, questa paura non è né seconda né motivata, come quella che provocherebbe la coscienza di un pericolo. È prima. Di primo acchito e di per se stessa Medusa produce un effetto di spavento perché appare sul campo di battaglia come un prodigio (τέρας), un mostro (πέλωρ), in forma di testa (κεφαλή), terribile e spaventosa (a guardarsi e a udirsi, δεινή τε σμερδή τε), con il volto dall’occhio terribile (βλοσυρῶπις), con lo sguardo terrificante (δεινόν δερκομένη). Maschera e occhio gorgonici, se ci si attiene all’Iliade, operano in un contesto ben definito; essi appaiono integrati all’attrezzatura bellica, alla mimica, alla smorfia stessa del guerriero (uomo o dio) posseduto dal μένος, il furore guerresco; concentrano in qualche modo la potenza di morte che irradia dalla persona del combattente ricoperto dell’armatura e pronto a manifestare la straordinaria vigoria nella battaglia, la forza (ἀλκή) di cui è dotato. La folgorazione dello sguardo di Medusa agisce congiuntamente allo splendore del bronzo rilucente i cui barbagli, dall’armatura e dall’elmo, salgono fino al cielo e diffondono il panico. La bocca del mostro, spalancata, evoca il terrificante grido di guerra che Achille, risplendente della fiamma che Atena gli fa sprigionare dal capo, lancia a tre riprese prima del combattimento. «Si direbbe che si tratta della voce sonora della tromba che squilla» e questa «voce di bronzo», nella bocca dell’Eacide, basta a far tremare di terrore le file nemiche.

Non è necessario accettare la tesi di Thalia Phillies Howes, che collega Γοργώ, γοργός, γοργοῦμαι al sanscrito garġ, per riconoscere le connotazioni sonore della maschera della Gorgone. Thalia Phillies Howes scrive: «È chiaro che un qualche suono terrificante era la forza che in origine stava dietro la Gorgone: un suono gutturale, un urlo animale, che usciva dalla gola con un possente respiro, e che richiudeva una bocca spalancata». I nostri rilievi saranno più limitati e più precisi. Sappiamo da Pindaro che dalle mascelle vorticose delle Gorgoni lanciate all’inseguimento di Perseo si alza uno strepito lamentoso (ἐρικλάγταν γόον) e che queste grida escono ad un tempo dalle loro bocche di fanciulle e da quelle degli orribili serpi loro associati. Questo grido acuto, inumano (κλάζω, κλαγγή) è quello che nell’oltretomba urlano i morti nell’Ade (κλαγγή νεκύων). […] Per sottolineare, sul doppio registro visivo e sonoro, i legami della maschera di Medusa con la mimica facciale del combattente in preda alla frenesia bellica, insisteremo tuttavia su un particolare significativo. Tra gli elementi che rendono terrificante il personaggio del guerriero, accanto al grido formidabile, al bagliore del bronzo, alle fiamme che si sprigionano dalla sua testa e dai suoi occhi, il testo dell’Iliade aggiunge, nel caso di Achille, una notazione che attirò già l’attenzione di Aristarco: lo stridore dei denti (ὀδόντων καναχή). François Bader ha spiegato il senso di questo rictus sonoro collegandolo, attraverso i suoi paralleli nella letteratura irlandese, all’immagine del guerriero indoeuropeo che Georges Dumézil ha saputo ricostruire. Ebbene, nello Scudo, menzionando «le teste di terribili serpenti» che gettavano il terrore (φοβέεσκον) fra le tribù degli uomini, Esiodo riprende al v. 164 l’espressione omerica: «risuonava lo stridore dei loro denti» (ὀδόντων καναχή πέλεν); e al v.234, riferendosi questa volta ai serpenti delle Gorgoni in corsa sulla scia di Perseo, scrive che questi mostri «dardeggiavano la lingua, digrignavano i denti dal furore (μένει δ᾽ ἐχάρασσον ὀδόντας), lanciando sguardi selvaggi». Quando, le armi rilucenti, un raggio di fuoco negli occhi, Achille stravolge il volto in una smorfia terribile, batte le mascelle, lancia un grido inumano di guerra al pari di Atena Egioca, l’eroe, infuriato, posseduto dal μένος, presenta un volto da maschera gorgonica.

Bagliore folgorante delle armi, sfavillio insostenibile della testa e degli occhi, violento grido di guerra, rictus e stridore di denti – un altro aspetto ancora avvicina la faccia mostruosa di Medusa al guerriero posseduto dal μένος, il furore della carneficina. Lo si potrebbe situare nella rubrica «effetti della chioma». Quando sarà necessario precisare il posto del cavallo nel bestiario strettamente associato a Medusa e notare le affinità cavalline della stessa, dovremo segnalare i valori dell’aggettivo γοργός applicato al cavallo. È lo stesso termine usato da Senofonte per caratterizzare l’aspetto che i lunghi capelli conferiscono ai giovani guerrieri spartani. Per i giovani che escono dall’efebia il non tagliarsi i capelli non dipende da civetteria o da una scelta individuale; è, per tutta una classe d’età, un obbligo stretto, il segno e quasi la consacrazione del loro stato: «A coloro che uscivano dall’efebia Licurgo ingiunse di portare i capelli lunghi, ritenendo che sembrassero più grandi, più nobili, più terribili (γοργοτέρους)». Plutarco conferma e precisa Senofonte: allora «allentavano anche ai giovani la rigidezza della disciplina (ἀγωγή): permettevano loro di abbellire la chioma, adornare le armi e le vesti, godendo che scalpitassero e sbuffassero come cavalli prima della corsa. All’uscire dall’adolescenza si lasciavano crescere i capelli, e specialmente in tempo di pericolo curavano che fossero scriminati e lucidi, ricordandosi di un detto di Licurgo: “I capelli rendono i belli più affascinanti e i brutti più orribili (φοβεροτέρους)”».
Una glossa ci indica il nome di questa operazione che mirava a far brillare la lunga chioma: «ξανθίζεσθαι: a Sparta “curarsi i capelli”; in Attica “tingersi i capelli”». Ξανθός significa «biondo» nel senso di «dorato», in un’accezione di splendore, come per l’oro e per il fuoco. Ξανθός è diverso da χλωρός, giallastro, con una sfumatura di pallore, addirittura di debolezza: la paura, δέος, è detta anche χλωρόν. Xanthos è anche un nome di cavallo, il cavallo guerriero e divino. Uno dei cavalli di Achille, nato da Zefiro e da Podarge, si chiama Xanthos. E Xanthos è anche il nome del cavallo di Castore, quello dei due Dioscuri che rappresenta il giovane e il cavaliere. Presso i Macedoni il termine designa le cerimonie rituali di purificazione della cavalleria, le Ξανθικὰ, nel corso delle quali si sacrificava al dio Xanthos. C’è un rapporto tra le fulve criniere dei cavalli da guerra e il biondo ramato dei capelli che il giovane guerriero, all’uscir dall’efebia, fa agitare come una criniera.

Nella Vita di Lisandro Plutarco segnala, per respingerla, un’altra interpretazione di cui si era fatto eco Erodoto e che collegava il costume spartano di mantenere i capelli lunghi alla battaglia in cui si affrontarono, per la Tireaide, due corpi scelti di trecento combattenti che rappresentavano per Argo e Sparta, le due città in lotta, il fior fiore della gioventù guerriera. Alla fine gli Argivi furono vinti. «Si rasero allora gli Argivi la testa – mentre prima portavano d’obbligo i capelli lunghi – […] Mentre i Lacedemoni istituirono una legge opposta: decidendo, con opposto costume a quello solito, di portare i capelli lunghi». Plutarco respinge invece la spiegazione che riallaccia l’usanza spartana alla volontà dei vincitori di distinguersi dai vinti: «Non è vero ciò che dicono alcuni, e cioè che gli Argivi, dopo aver subito una grave sconfitta, si facevano tagliare i capelli in segno di lutto, e viceversa gli Spartani, per aver combattuto bene, se li lasciarono crescere in segno di esultanza […]. Anche quest’usanza si deve a Licurgo. Egli, raccontano, disse della chioma lunga che rende i belli più affascinanti all’aspetto, e i brutti più orribili».
Tuttavia, se del racconto erodoteo si considera meno il fondamento «storico» che l’autore pretende di dare alla regola spartana e si sottolinea maggiormente il rapporto di opposizione che vi si esprime tra capelli rasati, onta della sconfitta, lutto e dolore, e capelli lunghi, vittoria, celebrazione, si potrà concludere che le due spiegazioni dell’antica usanza non sono contraddittorie. La bellezza virile del guerriero, enfatizzata da una capigliatura lunga e ondeggiante, comporta un aspetto «terrificante» il cui effetto sul campo di battaglia è, nel senso attivo del termine, «segno» di vittoria, così come i capelli rasati sono, con le altre manifestazioni del lutto, uno dei mezzi rituali che, oltraggiando e imbruttendo il volto dei viventi, consente di avvicinarli, nel corso dei funerali, a quel mondo di fantasmi senza forza e senza smalto, dove si dirige il defunto di cui si piange la scomparsa.
Il contrasto capelli lunghi/capelli corti chiarisce forse un’altra usanza spartana. A Sparta si conservò la tradizione di sposarsi con il rapimento della donna: «Rapita, la sposa veniva presa in consegna dalla madrina (νυμφεύτρια), così era chiamata, che le rasava il capo, le faceva indossare un mantello e dei calzari virili…».
Nessuno negherà che si tratta di un rito di passaggio, con mascheramento e inversione dello statuto sessuale. Ma questo non è tutto, e forse non è nemmeno l’essenziale, nella misura in cui il giovane, divenuto uomo compiuto all’uscire dall’efebia – come la giovane diventa donna completa entrando nello stato matrimoniale –, conserva i suoi capelli lunghi proprio in segno della sua piena virilità, una virilità che fin nella formazione oplitica conserva il ricordo e quasi la traccia di quel «furore» che, in tempi eroici, doveva abitare l’anima del giovane guerriero perché questi portasse il terrore nel campo nemico. Rasando il capo della giovane sposa, si estirpa da lei ciò che ancora poteva restare di mascolino e di guerresco nella sua femminilità, di selvaggio nel suo nuovo stato matrimoniale. Si evita di introdurre in casa, sotto la maschera della sposa, la faccia di Medusa.
Esichio nota che a Sparta è detto πόλος il giovane, o la giovane, non civilizzato, non integrato. Πόλος è il giovane cavallo, puledro o puledra. Nella Lisistrata Aristofane evoca le κόραι, le giovani vergini di Sparta: «Simili a puledre lungo l’Eurota scherzano le fanciulle fitta polvere levando coi piedi, le chiome agitando come fossero Baccanti che sfrenate brandiscono il tirso».

La selvatichezza del guerriero maschio si esprime attraverso la sua capigliatura lunga e fluttuante, simile alla criniera di un cavallo. La selvatichezza della giovane si manifesta nei suoi capelli sciolti che l’assimilano ad una puledra in libertà. Il rituale della testa rasata, per la giovane sposa, gioca su questi due simbolismi contrastanti che nella loro opposizione si rafforzano, dato che la sposa, se deve distinguersi dalla παρθένος per entrare nello stato coniugale, deve anche distinguersi nettamente dal marito.
Tagliando i capelli delle donne appena sposate, non soltanto si addomesticavano queste puledre non ammansite, ma si esorcizza in esse quell’inquietante elemento di selvatichezza che Atena e Artemide, le due vergini escluse dal matrimonio, detengono ciascuna a suo modo, Atena la guerriera mediante il volto di Medusa che tiene sul petto, Artemide la nutrice, la giovane selvaggia, con il lato gorgonico del suo personaggio e con le maschere che intervengono nei riti di iniziazioni dei giovani cui ella presiede.
Con l’Odissea, cambiamento di scena. Da guerresca, questa si fa infernale. I luoghi sotterranei, il regno della Notte, non sono tuttavia un mondo di silenzio. Nel libro XI Odisseo racconta il suo arrivo nell’Ade; la folla dei morti, ivi radunata, solleva «terribili grida» (ἠχῇ θεσπεσίῃ). «E verde orrore mi prese che il capo della Gorgone, il mostro tremendo, dall’Ade mandasse la lucente Persefone» (ἐμὲ δὲ χλωρὸν δέος ᾕρει,/μή μοι Γοργείην κεφαλὴν δεινοῖο πελώρου/ἐξ Ἀίδεω πέμψειεν ἀγαυὴ Περσεφόνεια). Subito Odisseo retrocede. Medusa è a casa propria nel paese dei morti di cui vieta l’entrata a ogni uomo vivente. Il suo ruolo è simmetrico a quello di Cerbero: lei impedisce al vivo di penetrare nel regno dei morti, Cerbero impedisce al morto di ritornare nel mondo dei vivi. Al pari di Omero, Aristofane colloca nell’Ade, accanto a Cerbero, Stige ed Echidna, le Gorgoni; Apollodoro racconta, anche lui, che davanti ad Eracle disceso negli Inferi tutte le ψυχαί fuggirono, eccetto Meleagro e Medusa. Dal fondo dell’Ade dove dimora, la testa di Medusa sorveglia, custodisce, vigila i confini del regno di Persefone. La sua maschera esprime e conserve l’alterità radicale del mondo dei morti cui nessun vivente può avvicinarsi. Per valicarne la soglia bisognerebbe aver affrontato la faccia di terrore ed essersi trasformati, secondo l’immagine di Medusa, in quello che sono i morti: teste, teste vuote, prive di forza, di ardore, i νεκύων ἀμενηνὰ κάρηνα secondo le parole di Omero.
Il volto del vivo, nella singolarità dei suoi tratti, è uno degli elementi della persona. Ma, nella morte, quella testa alla quale ci si trova ridotti, quella testa ormai inconsistente e senza più forza, pari all’ombra di un uomo o al suo riflesso in uno specchio, è annegata nell’oscurità, incappucciata di tenebre. È una testa vestita di notte, simile, nel regno dell’ombra, a quei volti che alla luce del sole alcuni eroi, come Perseo, ricoprono dell’elmo di Ade per rendersi così invisibili agli occhi dei viventi. L’Ἄιδος κυνέη, l’elmo in pelle di cane, copricapo di Ade, «contiene le tenebre lugubri della Notte» secondo le parole di Esiodo. Esso avvolge come una nube tenebrosa tutta la testa, la maschera, rendendo chi la porta invisibile a tutti gli sguardi, alla pari di un morto.

Le affinità infernali di Medusa orientano la ricerca in una duplice direzione. In primo luogo, ci portano a fare una digressione in ambito etrusco e ad aprire una parentesi circa la tesi di Altheim, ripresa e modificata in particolare da Agnello Baldi e da J.H. Croon. Richiamando la derivazione del latino persona (maschera, ruolo, persona) dall’etrusco Phersu, Altheim istituiva un’equivalenza tra Phersipnai e Περσεφόνη. Phersu figura in due affreschi della tomba detta degli Auguri, a Tarquinia (verso il 530 a.C.). Su una delle pareti laterali della camera mortuaria si affrontano due personaggi. L’uno porta una maschera tenebrosa che gli nasconde il volto e presenta una barba bianca che sembrerebbe posticcia. Un’iscrizione lo designa come Phersu, che dunque significherebbe «uomo mascherato», «portatore di maschera». Questo personaggio mascherato tiene con le due mani una lunga corda che si attorciglia alle gambe e alle braccia del suo avversario. Un’estremità di questa corda è fissata al collare di un cane che morde la gamba sinistra del secondo lottatore che impugna nella destra una clava e la cui testa è avvolta da un drappo bianco. Dalle ferite il sangue cola copioso. Lo stesso gruppo di due personaggi è rappresentato sulla parete di fronte. L’uomo mascherato non ha più né laccio né cane. Fugge a gambe levate, inseguito dall’avversario verso il quale gira la testa protendendo il braccio destro con la mano levata. L’interpretazione delle due scene è difficile e nessuna spiegazione sembra del tutto soddisfacente. Per Altheim si tratterebbe di una lotta rituale all’ultimo sangue in un gioco funebre in onore del defunto. Il termine Phersu designerebbe il Portatore di maschera officiante nel corso della cerimonia. Per J.H. Croon, la maschera costituisce nei giochi funebri un modo di figurare lo spirito del morto; nel corso di una danza rituale il Portatore di maschera mima e attualizza la Potenza d’Oltretomba, come Persefone, attraverso la maschera di Medusa posta sotto la sua autorità, presiede di persona al mondo infernale. Per R.B. Onians le scene hanno un significato diverso: il lottatore, armato di clava e attaccato dal cane, sarebbe Eracle disceso agli Inferi; Phersu andrebbe allora interpretato come Ade, alla fine vinto e messo in fuga. Per Agnello Baldi, Phersu, Περσεύς, Ade sono una sola e identica divinità. Comunque stiano le cose, nelle pitture murali etrusche di Orvieto e di Tarquinia, Ade è figurato con un elmo di pelle di lupo o di cane, che evoca sia la κυνέη indossata da Perseo sia la maschera di Phersu.

La seconda via offre un terreno più sicuro. Si tratta di seguire Esiodo in quei confini del mondo dove la Teogonia localizza le Gorgoni e le associa a tutta la stirpe dei mostri loro apparentati. Le Gorgoni appartengono alla discendenza di Forco e Ceto, il cui nome evoca al tempo stesso un’enormità mostruosa e, nel più profondo del mare e della terra, cavernose voragini. In effetti, tutti i figli della coppia hanno in comune, accanto alla mostruosità, il fatto di abitare «lontano dal dio e dagli uomini», nelle regioni sotterranee, al di là dell’Oceano, alla frontiera della Notte, spesso per svolgervi il ruolo di guardiani, addirittura di spauracchi, che sbarrano l’accesso a luoghi proibiti. Nati dall’unione di Ponto e Gea, Forco e Ceto generano prima le Graie, le vergini canute della nascita, che uniscono in sé il giovane e il vecchio, la freschezza della bellezza e le rughe di una pelle paragonabile a quella pellicola ruvida che si forma sulla superficie del latte raffreddato e che ha per l’appunto il loro nome: γραῦς, pelle rugosa. La prima delle Graie esiodee si chiama Πεμφρηδώ; πεμφρηδών è una sorta di vespa vorace che scava cavità sotterranee. La seconda si chiama Ἐνυώ, nome che evoca la signora dei combattimenti e il violento grido di guerra, l’invocazione squillante (ἀλαλή), che si alza in onore di Enialo. Sorelle delle Graie, le tre Gorgoni, che uniscono nel loro gruppo il mortale e l’immortale, abitano al di là delle frontiere del mondo, dalla parte della Notte, nel paese delle Esperidi dalla voce canora (λιγύφωνοι). La Gorgone mortale, di nome Medusa, si unisce a Poseidone in una tenera prateria fiorita di fiori primaverili, paragonabile a quella dove Ade rapisce la giovane Kore per portarla sottoterra e farne Persefone. Quando Perseo ebbe reciso la testa di Medusa, le uscirono dal collo Crisaore e il cavallo Pegaso che si slanciò verso il cielo. Crisaore generò Gerione tricefalo, colui che fa risuonare la sua voce (γηρύω), che fa esplodere un γήρυμα come l’ὑπέρτονον γήρυμα, il grido acutissimo della tromba d’Etruria.

A Gerione è associata una dei nati dalla terza nidiata di Forco e Ceto, l’atroce Echidna, metà ragazza metà serpente, che abita nelle segrete profondità della terra, lontano dagli dèi e dagli uomini. Tra altri mostri, questa Echidna dà a sua volta la vita ai due cani ringhiosi, stizzosi e latranti, ai due cani simmetrici Orto, cane di Gerione, e Cerbero, cane di Ade, la bestia dalle cinquanta teste, «dalla voce di bronzo», che custodisce le dimore piene di frastuono (δόμοι ἠχήεντες) del suo padrone e di Persefone, la Temibile. In questi stessi luoghi dell’Averno, regno della Tenebra e del Terrore, goccia l’acqua dello Stige (Στύξ), il solenne testimone dei giuramenti degli dèi. Alle divinità colpevoli di spergiuro questa acqua primordiale (ὕδωρ ὠγύγιον) porta ciò che corrisponde alla morte per gli Immortali che ad essa non sono sottoposti: un κῶμα temporaneo che li avvolge, privati di respiro e di voce, per un anno buono, così come la morte avvolge per sempre di tenebre la testa degli uomini. In questo senso Stige rappresenta per gli dèi ciò che è Medusa per le creature umane: un oggetto di orrore e di terrore. Come Stige è στυγερή ἀθανάτοισι, orrore degli Immortali, così le Gorgoni, che nessun essere umano può guardare senza spirare all’istante, sono βροτοστυγεῖς, l’orrore dei mortali. Styx è anche il barbagianni, doppio sinistro della civetta, uccello infausto, caratterizzato dalla grossa testa, dall’occhio malvagio, dal grido notturno della sua bocca.

Nelle zone infernali Tenebre, Spavento, figure e grida mostruose si assommano per esprimere l’«alterità» di Potenze estranee al dominio delle divinità celesti come pure al mondo degli uomini, lo statuto interamente separato di esseri ai quali, come dice Eschilo a proposito delle γραῖαι παλαιαὶ παῖδες, le vecchie fanciulle ancestrali, non si mescolano né dio, né uomo, né bestia.
Le sonorità inquietanti fanno a tal punto parte dell’universo al quale si collegano le Gorgoni che nel passo dello Scudo dove si parla della loro corsa, Esiodo aggiunge alle indicazioni puramente visive, di cui si è servito fino a quel momento per descrivere la scenda dello scudo di Eracle, notazioni auditive: sotto i loro piedi lo scudo risuonava con un grande clamore stridente e sonoro (ἰάχεσκε σάκος μεγάλῳ ὀρυμαγδῷ /ὀξέα καὶ λιγέως). Le uniche ulteriori indicazioni sonore del testo riguardano, l’abbiamo visto, il battito delle mascelle dei serpenti che terrorizzano gli esseri umani o di quelli che si attorcigliano intorno alle cinture delle Gorgoni.
Nella schiatta dei mostri nati da Forco e Ceto i serpenti hanno il posto d’onore. I suoni stridenti emessi dalla strozza delle Gorgoni o che vanno modulando le loro mascelle vorticose sono anche quelli dei serpenti che, di concerto, digrignano e battono i denti. Con il serpente, sono il cane e il cavallo a costituire le tre specie animali la cui forma e la cui voce entrano più specificamente nella composizione del «mostruoso». Se la «voce di bronzo» di Cerbero (χαλκεόφωνος) echeggia nelle dimore dell’Ade, le Erinni, quando Eschilo le paragona a Gorgoni, fanno sentire grugniti, ringhi stridenti; gemono, come «geme» negli Inferi il lungo lamento degli uomini suppliziati; esse «latrano come cani», dice il tragediografo, ed il termine impiegato, κλαγγαίνω, richiama la κλαγγή dei morti nell’Odissea e il lamento stridente e sonoro delle Gorgoni e dei loro serpenti.

Anche il cavallo, per come agisce e per le sonorità che gli sono proprie, può tradurre la presenza inquietante di una Potenza degli Inferi che si manifesta in forma animale. Alla sua nervosità, alla sua tendenza ad imbizzarrirsi di colpo per effetto di un improvviso terrore come quello causato dalla potenza demoniaca di Tαράξιππος, il Terrore dei cavalli (τὸ τῶν ἵππων δεῖμα), che lo porta a diventare frenetico e selvaggio fino a divorare la carne umana, a fremere, a sbavare, a coprirsi di schiuma bianca, bisogna aggiungere il nitrito, il fragore degli zoccoli che martellano la terra, il sordo digrignare dei denti (βρυγμός) e infine, tra le mascelle, il rumore sinistro del morso che provoca terrore, facendo risuonare l’omicidio. Nel lessico riferito al cavallo, γοργός assume un significato quasi tecnico. Riferito a tale animale, infatti, γοργοῦμαι significa «scalpitare». Senofonte nota, nell’Equitazione, che il cavallo nervoso e impetuoso è terribile a vedersi (γοργὸν ἰδεῖν), che le sue nari spalancate lo rendono γοργότερον, che i cavalli, quando si uniscono in torme, con il battito degli zoccoli, i nitriti, gli sbuffi moltiplicati dal numero, sembrano più ardenti e focosi (γοργότατοι).
Quanto mi\ ci manca Vernant..
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