La versione di Appiano
La res publica romana, come ci riporta il libro I delle Guerre Civili di Appiano, non appena effettuava la conquista militare di un determinato territorio lo suddivideva, e ne rendeva una parte ager publicus: questo terreno dello Stato, e quindi dei cives romani, veniva dato agli abitanti delle nuove realtà coloniali che si potevano creare a ridosso delle nuove conquiste oppure o anche a chi si insediava in città già esistenti. La Repubblica romana era solita riconoscere due tipi di giurisdizione alle colonie: erano propriamente dette coloniae Latinae (colonie di diritto latino) e coloniae civium Romanorum (colonie di diritto romano). Queste due realtà giuridiche avevano scopi comuni in origine, ma diritti ed assegnazioni di terra estremamente diverse: se concordiamo con l’ipotesi che queste servissero all’assolvimento di compiti difensivi di territori e coste, si dovrà però notare che queste erano partecipi dell’attività dello Stato in maniera differente, ed usufruivano dell’ager in parti non eguali.
Le colonie di diritto latino godevano di parziali diritti, ed avevano un quantitativo di terra più o meno uguale per tutti gli insediamenti dello stesso tipo giurisdizionale: giusto per citare qualche cifra diciamo che a Thurii, colonia calabrese dedotta nel 194 a.C., i 3000 pedites ed i 300 equites ebbero come dotazione circa 20 iugeri i primi, 40 iugeri i secondi; nell’altra colonia calabrese di Vibo, dedotta circa un anno dopo, i 3700 pedites e i 300 equites, ricevettero rispettivamente 15 iugeri e 30 iugeri.
Numeri importanti, e di sicuro maggiori rispetto a quelli dati in dotazione ai coloni romani, in genere 2 iugeri: ai non addetti ai lavori sembrerebbe che la res publica romana favorisse la nascita di colonie latine e sfavorisse invece quelle di diritto romano, scoraggiando queste ultime con la magra dotazione dei 2 iugeri. In realtà, il fatto stesso di essere cittadini romani dava diritto d’accesso a tutto l’ager publicus, potendo quindi sfruttare l’immenso territorio ottenuto con la conquista. D’altro canto, Roma non poteva occuparsi di approvvigionare le colonie latine, che, anzi, dovevano diventare esse stesse fonte di reddito e di milizie per la res publica: si dovevano creare le condizioni necessarie allo sviluppo di realtà statali formalmente autonome, favorendo la crescita in loco di attività economiche assai redditizie, laddove nelle colonie romane sussisteva il modello socio-agrario della piccola azienda familiare.
La deduzione delle colonie, sia romane sia latine, doveva seguire un iter preciso e prestabilito; in altre parole, occorrevano le giuste formule giuridiche recitate dagli “attori” preposti: in origine ogni nuova colonia veniva avallata con un senatus consultum; considerando che con tale termine si indicava solitamente quella delibera fatta dal Senato in casi d’emergenza, con cui si dava ordine perentorio ai consoli di eseguire gli ordini della res publica a qualsiasi costo, e se si prende ad esempio quello contro i Baccanali e quello ultimum che portò Mario ad intervenire contro i suoi tirapiedi Glaucia e Saturnino, si ha l’impressione che l’atto di fondar colonie fosse – almeno nei primi momenti – una procedura straordinaria, forzata e mal voluta dall’élite patrizia.
Il decreto stabiliva la natura giuridica della colonia (romana o latina) e il numero dei coloni che vi si dovevano recare; in seguito i comitia tributa eleggevano tre commissari incaricati della deduzione coloniale. Questi Triumviri coloniae deducendae agroque dividendo si occupavano di pianificare l’impianto urbano, di stabilire i confini della colonia, di preparare la costituzione della nuova comunità e infine reclutavano i coloni. La costituzione ne definiva la religiosità, l’ambito delle cerimonie, ne assicurava la legge, l’ordine e l’amministrazione della giustizia, oltre che specificare i magistrati locali e la loro modalità di elezione. Ma prima di ciò, i triumviri dovevano suddividere il territorio destinato ai nuovi coloni. Da questa suddivisione venivano escluse le terre viritane, l’ager compascuus, l’ager occupatorius, l’ager publicus stipendiorus datus adsignandus (lasciato al medesimo titolo agli antichi proprietari), l’ager publicus a censoribus locatus e l’ager quaestorius. Il territorio veniva diviso secondo un reticolato di quadrati, che misuravano circa 20 actus (710 metri) per ogni lato, coprendo una superficie totale di 200 iugeri: questi quadrati presero il nome di centurie, da cui la definizione di centuriazione del territorio. Si prendeva come punto di riferimento l’Est, un elemento naturale, e si tracciava una linea verso Ovest: questa prendeva nome di decumanus maximus; perpendicolarmente si tracciava una seconda linea, il kardo maximus, della stessa lunghezza (asse Nord-Sud). Di norma, il decumanus maximus corrispondeva alla strada principale, ed era più largo rispetto al Kardo Maximus, considerato come strada di livello inferiore. In seguito, si tracciavano altri decumani ed altri kardines paralleli a quelli principali, in modo da formare un reticolato di quadrati (la centuriazione).
Volendo rifarci alle fonti, Varrone nel De re rustica ci dà informazioni preziosissime a riguardo dei sistemi di misurazione romane: l’unità fondamentale era il giogo, che in Campania era definito “verso”, mentre presso i Romani e nel Lazio era chiamato “iugera”; 1 giogo (o iugera) era l’estensione di terreno che una coppia di buoi poteva arare in un giorno. Uno iugera corrispondeva a 2 actus quadrati: 1 actus era uguale a 120 piedi in lunghezza e larghezza; 2 iugeri formavano un heredium, un estensione di terra che si vuole sia stato per la prima volta distribuito da Romolo; 100 heredia costituivano una centuria, che era un’area di forma quadrata con lato di 2400 piedi. Le centurie erano disposte in modo che ce ne siano 2 per ogni lato, formando il saltus. L’affidamento ai coloni veniva definito tramite un sorteggio tra gli aventi diritto, e perciò il nome sors degli appezzamenti di terreno dati a questi.
Non sempre il decumanus maximus era orientato nella direzione Est-Ovest, ma poteva essere anche Nord-Sud: in questo caso si dirà che la centuriazione sarà rivolta verso Sud, quindi in Meridiem. Questo orientamento fu eseguito a Cosenza, dove si è riscontrata una centuriazione rettangolare di 200 iugera sulla sinistra del fiume Crati orientata, appunto, in Meridiem, ovvero verso Sud.
Le colonie avevano molteplici scopi: avamposto di difesa delle coste e di controllo interno del territorio, ma potevano essere un’eventuale testa di ponte per un futuro avanzamento nella conquista in un determinato scenario ostile, come anche semplice sfogo demografico di una popolazione in esubero. L’attività coloniaria fu, come ci dice Velleio Patercolo, particolarmente attiva a partire dal 383 a.C., diffondendo la colonizzazione nelle regioni limitrofe del Lazio, per poi arrestarsi nel periodo di tempo tra il 218 ed il 203 a.C., arco di tempo in cui Annibale restò in Italia; l’attività coloniale riprese, almeno in apparenza, nel 197 a.C., con la fondazione delle coloniae maritimae lungo l’Italia meridionale tirrenica, continuando poi negli anni del secondo tribunato di Gaio Gracco con le colonie di Scolacium Minervorum, Tarentium Neptunia e Cartagine, prima colonia extra-italica, consacrata a Giunone (Carthago Iunionia). Nell’età dei Gracchi, a differenza di quanto fossero stati negli anni precedenti, le colonie si distinsero per il ruolo economico e sociale che andavano rivestendo, ovvero si rivelarono un mezzo potente per risollevare le condizioni agricole nella penisola italiana, oltre che provvedere al bisogno delle masse di veterani.

Tiberio Gracco e la sua “vecchia” legge
Nel primo dei cinque libri delle Guerre Civili, il tredicesimo dei ventiquattro che compongono la Ῥωμαϊκά (Storia romana) di Appiano ci viene mostrata, sullo sfondo di una tensione via via crescendo tra alcuni personaggi, i più illuminati del tempo, e i rappresentanti della res publica, tanto gelosi del proprio potere quanto impauriti nel perderlo: questa situazione sfocerà in contrasti dapprima sul piano politico-legale ma successivamente in ripetuti massacri, conseguente poi ad una situazione terriera difficile, che schiacciava il civis romano, o l’Italico, proprietari di piccoli appezzamenti di terra, mentre ingrassava il patrimonio fondiario dei grandi possidenti terrieri. Da quello che apprendiamo dal testo di Appiano, la terra presa da Roma veniva, quando non assegnata per le deduzioni coloniali, venduta o affittata. I Romani erano soliti distinguere le terre conquistate, denominandole in maniera differente a seconda dell’utilizzatore finale: l’ager colonicus era dedicato alla fondazione di colonie; l’ager viritanus datus adsignatus, ovvero assegnazioni viritane (da viritim), date ai singoli cittadini; con ager compascuus scripturarius si denominava la parte comune di terreno lasciata al pascolo; infine l’ager occupatorius o arcifinalis, che era appannaggio esclusivo dei cittadini romani, pagando però un canone all’Erario. Sull’ager viritanus ci sarebbe da dire un altro aspetto molto importante, ovvero quello sociale. Queste assegnazioni sono fatte a favore dei poveri e dei veterani, e quindi con lo scopo di aiutare la plebe, oltre che di eliminare i latifondi frazionando i terreni. Le assegnazioni viritane erano sempre in minore quantità rispetto alle altre tipologie per l’ovvio motivo di non poter ricavare da queste terre del denaro da parte dello Stato: ma dai Gracchi in poi, questa tendenza cambiò, grazie alla formulazione di leggi agrarie e dalle entrate fiscali delle provincie.
In Appiano vi è citato ager publicus detto quaestorius: era detto così perché era il questore a decidere dell’alienazione di un determinato lotto di terra; la proprietas restava comunque alla res publica (che ufficialmente ne rimaneva il dominus), ma venivano garantiti a chi lo acquistava alcuni diritti, tra i quali l’ereditarietà e la possessio perpetua. Il terreno pubblico indicato per l’affitto era classificato come censorius, poiché erano i censori che tramite una sorta di gara d’appalto mettevano a disposizione la terra, che poteva produrre il più alto tasso di rendita; in cambio si chiedeva al cittadino possessore la corresponsione di un vectigal. La terra non assegnata era affidata – tramite un editto – a chiunque volesse coltivarla, dietro pagamento – anche qui – di un vectigal annuo che poteva essere un decimo, per quanto riguardava le seminagioni, e un quinto, per le colture arboree.
La fonte di Appiano, oltre a ciò, spiega che la terra incolta non fosse assegnata in questo modo per la mancanza di tempo, ma perché questi terreni non erano stimati abbastanza produttivi […]. Il dato riferito dallo storico alessandrino potrebbe restituire una notizia negativa, in quanto mostrerebbe la carenza di cives, cioè un’oligandrìa, volenterosi di lavorare nuove terre in cui non mancavano quelle popolazioni locali italiche cui venivano sottratte. Va inoltre ricordato che ai coloni romani era assegnato un terreno in ottime condizioni, con strutture preesistenti tali da poterlo rendere pronto allo sfruttamento.

I ricchi imperversavano, prendendo per se la terra incolta che invece “spettava” agli italici, acquistando i terreni oppure offrendo dei canoni maggiori allo Stato: si rafforzava il ceto dei grandi possidenti terrieri a discapito dei piccoli proprietari, diventati capitecensi e quindi scesi in fondo all’ordinamento censitario. Si ricorse alle disposizioni di legge, limitando a 500 iugeri il terreno usufruibile per ogni cives romano, né di poter pascolare più di 100 capi di bestiame grosso o 500 di minuto. Ci si avvalse anche di un giuramento per vincolare tutti a rispettare le disposizioni dando, per un determinato arco di tempo, respiro ai ‘nuovi poveri’, che poterono restare sulle loro terre pagando l’affitto stabilito e coltivare il lotto assegnato loro fin dall’inizio.
In seguito, mancando forse un organo di controllo o perché coloro che erano preposti a farlo erano i maggiori detrattori della legge, tutto ritornò ad una situazione di caos, con i ricchi che spadroneggiavano sulle terre dello Stato e che, servendosi di prestanome compiacenti, si fecero intestare gli affitti di altre terre, per poi impossessarsene in maniera definitiva, lasciando così la penisola italiana piena sia di poveri non volenterosi di prestar servizio militare e di crescere figli, sia di schiavi impiegati nelle enormi estensioni di terra. Sullo sfondo di questo scenario scompaginato fece il suo ingresso Tiberio Sempronio Gracco che intendeva, grazie alla sua riforma, dare nuovo respiro alle masse di poveri cacciati con la forza dalle loro terre, e quindi nuova linfa al nerbo costituente della più grande ricchezza di Roma, il suo esercito. Egli era uomo nobile e ambiziosissimo, di grande potenza nel parlare, con un’oratoria che avrebbe potuto far apparire bella anche una causa meno nobile: fece una serie di discorsi, in cui ebbe parole di preoccupazione verso quella stirpe italica che tanto aveva dato a Roma, e che rischiava di esaurirsi a causa della povertà e della scarsezza demografica; inoltre inveì contro gli schiavi, inutili per la milizia e giammai fedeli ai padroni. Così il tribuno Tiberio Gracco propose di rinnovare la legge che vietava di occupare oltre 500 iugeri di ager publicus, con l’aggiunta di una clausola che consentiva, ai figli degli occupanti, di avere 250 iugeri a testa, per un totale di 1000 iugeri come possesso permanente e garantito: la terra che avanzava da questa riorganizzazione sarebbe stata riassegnata tra i poveri tramite l’istituzione di una commissione di tre uomini, un triumvirato agrario.
L’esubero di terra, quella occupata ed usufruita senza un pagamento di canone verso i detentori, sarebbe stata incamerata e successivamente suddivisa in lotti di 30 iugeri da distribuire parte ai cives romani, parte agli italici non come libera proprietà, ma come concessione ereditaria ed inalienabile. Il primo di questi triumvirati agrari fu composto da Tiberio Gracco, da suo fratello Gaio e dal suocero del primo Appio Claudio Pulcro: essi furono incaricati dell’incameramento e dell’assegnazione della terra in esubero, ma successivamente ebbero affidata l’importante e difficile mansione di indicare legalmente le terre demaniali e quelle di proprietà privata, compito che prima spettava solo ai censori, a consoli e pretori; Velleio Patercolo ci riporta inoltre la notizia che tale triumvirato fondava colonie. Plutarco nella Vita di Tiberio ci dice che il lavoro di Tiberio, e quindi della commissione triumvirale, poté procedere con calma poiché non vi furono opposizioni: si può intendere calma nell’accezione di un lavoro immenso, ossia la ricognizione di tutto l’ager publicus, e di conseguenza la demarcazione dei confini delle singole proprietà. Le assegnazioni non potevano essere fatte immediatamente dopo l’approvazione della legge: alcuni soggetti potevano dimostrarsi restii a cedere il surplus di terra, altri invece avere rimostranze a causa di assegnazione di terre non coltivabili. Si ritiene infatti che le assegnazioni siano state effettuate non prima del 131 a.C., e da questo deduciamo che la partecipazione di Tiberio Gracco sia stata solo all’inizio della parte preparatoria, ovvero non abbia partecipato all’attività triumvirale. Si aggiunga inoltre che tra il 132 ed il 131 a.C. si svilupperà un’intensa attività reazionaria anti-graccana. Come ultimo esempio del pensiero politico-economico di Tiberio Gracco, cioè la sua propensione alla questione della terra, riportiamo l’episodio del re Attalo III di Pergamo, morto nel 133 a.C., e del suo testamento, in cui nominava il popolo di Roma erede del suo regno. Tiberio Gracco propose una legge a favore del popolo, in base alla quale le ricchezze regali, trasportate a Roma, sarebbero state distribuite ai cittadini beneficiari della terra estratta a sorte, affinché potessero procurarsi gli attrezzi necessari alla coltivazione. Questo gesto, insieme allo schierarsi a favore della plebe rurale e alla deposizione illegale del tribuno Marco Ottavio lo portò ad inimicarsi il Senato: fu un punto di non ritorno per la politica e la vita del Gracco, che perì poco dopo insieme a 300 dei suoi, accusato di aver violato la santità del suo collega Ottavio. Tiberio Sempronio Gracco, che secondo Appiano fu ucciso per colpa del suo programma, ottimo ma attuato con la violenza, per Velleio Patercolo propose leggi che suscitarono in tutti intempestive cupidigie: egli sovvertì qualsiasi norma e trascinò lo Stato a rischi precipitosi e gravi anche se, a distanza di poche righe dice che si distinse come oratore insieme al fratello Gaio, dicendo inoltre che entrambi usarono malamente le loto ottime qualità.
Egli propose non nuove leggi, ma rinnovò semplicemente quelle che appartenevano ad un momento storico-politico in cui non sentiva il bisogno di proiettarsi verso la conquista mediterranea, ma di considerarsi pólis, con soldati-contadini auto-sufficienti che combattevano per la città, ma che ritornavano al momento della raccolta. Nel momento storico in cui Tiberio fece il suo lavoro, Roma si considera potenza mondiale, combatte e conquista fuori dai confini fisici della penisola italiana, comportando quindi lunghi periodi di permanenza lontano dalla fonte di ricchezza primaria, ovvero la terra.
[…] che non erano proprietari del lotto di terreno, che doveva restare inalienabile. In generale, la proposta di legge agraria avanzata da Gracco può essere considerata di ispirazione moderata, tanto più che il limite legale […]
"Mi piace""Mi piace"
[…] fondamentali[5]. Mi riferisco al caso di Tiberio Gracco che nel 133 a.C. presenta la sua legge agraria. Come è noto, le due fonti principali sono le Guerre Civili di Appiano I 1 e la biografia dei due […]
"Mi piace""Mi piace"
[…] Saturnino, in tutta risposta, organizzò dei disordini: i veterani provocarono scontri per le strade con gli abitanti della città, mentre gli altri tribuni, che erano intervenuti per tentare mediazioni, furono respinti con la violenza. Alla fine, la forza dei militari ebbe la meglio, e le proposte divennero legge, con la clausola che obbligava i senatori, sotto pena di esilio, a giurare che le avrebbero confermate e attuate. Subendo questa umiliazioni, i membri del venerando consesso si sottomettevano pubblicamente alle decisioni dell’assemblea popolare. Non rimaneva però loro altra scelta che giurare, poiché i soldati di Mario presidiavano le strade dell’Urbe. Infatti, grazie alla loro salda organizzazione interna, consolidata nel servizio militare attivo e ai rapporti di cameratismo, questi uomini avevano formato unità di combattimento che potevano affrontare senza difficoltà le masse urbane o anche quelle formazioni di cavalieri e servi che i senatori avevano impiegato per eliminare i Gracchi. […]
"Mi piace""Mi piace"