Dell’inutilità della pena di morte

Statua di Tyche con in braccio Pluto e la cornucopia. Arte ellenistica, II secolo d.C. Museo Archeologico di Istanbul.
Statua di Tyche con in braccio Pluto e la cornucopia. Arte ellenistica, II secolo d.C. Museo Archeologico di Istanbul.

[45, 1] «Ἐν οὖν ταῖς πόλεσι πολλῶν θανάτου ζημίαι πρόκεινται, καὶ οὐκ ἴσων τῷδε, ἀλλ᾽ ἐλασσόνων ἁμαρτημάτων· ὅμως δὲ τῇ ἐλπίδι ἐπαιρόμενοι κινδυνεύουσι, καὶ οὐδείς πω καταγνοὺς ἑαυτοῦ μὴ περιέσεσθαι τῷ ἐπιβουλεύματι ἦλθεν ἐς τὸ δεινόν. [2] Πόλις τε ἀφισταμένη τίς πω ἥσσω τῇ δοκήσει ἔχουσα τὴν παρασκευὴν ἢ οἰκείαν ἢ ἄλλων ξυμμαχίᾳ τούτῳ ἐπεχείρησεν; [3] πεφύκασί τε ἅπαντες καὶ ἰδίᾳ καὶ δημοσίᾳ ἁμαρτάνειν, καὶ οὐκ ἔστι νόμος ὅστις ἀπείρξει τούτου, ἐπεὶ διεξεληλύθασί γε διὰ πασῶν τῶν ζημιῶν οἱ ἄνθρωποι προστιθέντες, εἴ πως ἧσσον ἀδικοῖντο ὑπὸ τῶν κακούργων. Καὶ εἰκὸς τὸ πάλαι τῶν μεγίστων ἀδικημάτων μαλακωτέρας κεῖσθαι αὐτάς, παραβαινομένων δὲ τῷ χρόνῳ ἐς τὸν θάνατον αἱ πολλαὶ ἀνήκουσιν· καὶ τοῦτο ὅμως παραβαίνεται. [4] Ἢ τοίνυν δεινότερόν τι τούτου δέος εὑρετέον ἐστὶν ἢ τόδε γε οὐδὲν ἐπίσχει, ἀλλ᾽ ἡ μὲν πενία ἀνάγκῃ τὴν τόλμαν παρέχουσα, ἡ δ᾽ ἐξουσία ὕβρει τὴν πλεονεξίαν καὶ φρονήματι, αἱ δ᾽ ἄλλαι ξυντυχίαι ὀργῇ τῶν ἀνθρώπων ὡς ἑκάστη τις κατέχεται ὑπ᾽ ἀνηκέστου τινὸς κρείσσονος ἐξάγουσιν ἐς τοὺς κινδύνους. [5] Ἥ τε ἐλπὶς καὶ ὁ ἔρως ἐπὶ παντί, ὁ μὲν ἡγούμενος, ἡ δ᾽ ἐφεπομένη, καὶ ὁ μὲν τὴν ἐπιβουλὴν ἐκφροντίζων, ἡ δὲ τὴν εὐπορίαν τῆς τύχης ὑποτιθεῖσα, πλεῖστα βλάπτουσι, καὶ ὄντα ἀφανῆ κρείσσω ἐστὶ τῶν ὁρωμένων δεινῶν. [6] Καὶ ἡ τύχη ἐπ᾽ αὐτοῖς οὐδὲν ἔλασσον ξυμβάλλεται ἐς τὸ ἐπαίρειν· ἀδοκήτως γὰρ ἔστιν ὅτε παρισταμένη καὶ ἐκ τῶν ὑποδεεστέρων κινδυνεύειν τινὰ προάγει, καὶ οὐχ ἧσσον τὰς πόλεις, ὅσῳ περὶ τῶν μεγίστων τε, ἐλευθερίαςἄλλων ἀρχῆς, καὶ μετὰ πάντων ἕκαστος ἀλογίστως ἐπὶ πλέον τι αὑτὸν ἐδόξασεν. [7] Ἁπλῶς τε ἀδύνατον καὶ πολλῆς εὐηθείας, ὅστις οἴεται τῆς ἀνθρωπείας φύσεως ὁρμωμένης προθύμως τι πρᾶξαι ἀποτροπήν τινα ἔχειν ἢ νόμων ἰσχύι ἢ ἄλλῳ τῳ δεινῷ».

[45, 1] «Nelle città è prevista la pena di morte per molte offese, che non sono eguali a queste, ma minori: e tuttavia gli uomini, trascinati dalla speranza, corrono il rischio, e nessuno ha mai affrontato il pericolo ritenendosi incapace di riuscire nelle sue trame. [2] E quale città nel ribellarsi ha mai tentato l’impresa avendo mezzi che a suo parere fossero inferiori, sia che si trattasse solo di forze proprie, sia di forze procurate grazie a un’alleanza con altri Stati? [3] Tutti gli uomini per natura sono portati a commettere colpe, sia come privati sia come Stati, e non c’è legge che glielo impedirà, poiché gli uomini, aggiungendo nuove pene, le hanno esaurite tutte, nella speranza di subire meno offese dai criminali. È probabile che nei tempi antichi le pene stabilite per i delitti più gravi fossero più miti, ma poiché queste leggi venivano trasgredite, la maggior parte di esse col tempo è arrivata alla pena di morte; e tuttavia anche così le leggi sono trasgredite. [4] Perciò, o bisogna trovare qualche terrore più terribile di questo, oppure in ogni caso questo terrore non impedisce niente: ma la povertà, che spinta dal bisogno provoca l’audacia, la ricchezza, che con l’insolenza e l’orgoglio provoca l’avidità, e le altre condizioni degli uomini, in preda alle passioni, ogni volta che ciascuna subisce un impulso più potente e irresistibile, li spingono verso i pericoli. [5] E in ogni occasione la speranza e il desiderio, questo alla guida e quella al suo seguito, mentre il secondo escogita il piano e la prima fa balenare il favore della fortuna, compiono i danni più gravi, ed essendo invisibili sono più potenti dei pericoli visibili. [6] E la fortuna, che vi si aggiunge, non contribuisce meno di essi a trascinare all’azione: talvolta, infatti, essa assiste qualcuno inaspettatamente e lo spinge a correr rischi anche se si trova provvisto di mezzi inferiori: e soprattutto spinge le città, in quanto sono in gioco gli interessi più importanti, la libertà e il dominio sugli altri, e ciascuno, operando insieme a tutti i suoi concittadini, si stima senza alcun fondamento ben più forte di quello che è. [7] È semplicemente impossibile – e dà prova di grande stupidità chi lo crede – che quando la natura si muove con ardore per far qualcosa, si riesca a impedirlo con la forza delle leggi o con qualsiasi altro terrore».

Thuc., III 45.
trad. it. G. Donini, in Tucidide, Le Storie_1. Torino, 2005.

La pentēkontaetía

da D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 322-334.

1.Tucidide e la storia della pentēkontaetía

Per pentēkontaetía i moderni intendono il periodo di circa 50 anni che intercorre tra la fine delle guerre persiane (con la conseguente fondazione della Lega navale delio-attica) e l’inizio della Guerra del Peloponneso. L’espressione non è così antica, come può far intendere il suo aspetto, né di uso così frequente ed univoco nelle fonti antiche come può far credere la sua diffusione nei testi moderni. L’astratto pentēkontaetía («cinquantennio») è anzi di uso rarissimo; nella storiografia di Diodoro Siculo appare l’equivalente concreto «periodo di cinquant’anni»; ma l’idea di considerare unitariamente quegli anni ricchi di eventi diversi e complicati, che investono teatri storici disparati, configurabili in fasi realmente distinte fra loro, è di Tucidide, perciò nel fondo antica e in parte, anche se solo in parte, giustificata. Per Tucidide il periodo è un’ampia premessa alla narrazione della Guerra del Peloponneso, la lunga gestazione dello scontro tra Atene e Sparta. Al di là di aspetti particolari, e diversità d’opinioni possibili solo in questioni specifiche, il modo in cui Tucidide (nel I libro delle Storie) rappresenta le vicende e le responsabilità storiche del cinquantennio di preparazione alla Guerra del Peloponneso è alquanto chiaro. In esso si mescolano (e sarebbe insensato tentare di distinguerle, contrapporle, privilegiare una sull’altra) due nozioni fondamentali. L’una è quella secondo cui gli Stati tendono a crescere (auxánesthai) come esseri organici; se perciò in un determinato spazio storico, geografico, politico coesistono e concrescono due realtà di questo tipo, è anche una sorta di dato naturale, fisiologico, che esse si scontrino; ed è appunto quel che è inevitabile accada fra Sparta e il mondo peloponnesiaco da un lato, e Atene e il suo impero dall’altro. Con questa concezione naturalistica di fondo (di radicale e fatalistico pessimismo) si intreccia una concezione, più critica, delle responsabilità di ciascuna di queste realtà: Sparta è la città che psicologicamente si configura come il mondo della conservazione, dell’avversione al nuovo, del timore di ciò che è diverso, distante, in movimento; Atene è la città del coraggio, dell’audacia, dell’iniziativa, dell’intraprendenza che sconfina nel gusto del rischio, dell’avventura, del nuovo e del grande, spesso troppo grande[1].
Avendo concepito il «cinquantennio» sotto l’aspetto eminente del conflitto interstatale, e avendo conferito a tale rappresentazione un profilo unitario, Tucidide ha anche dato il senso fondamentale dello svolgersi degli eventi di politica interstatale greca, ma da un lato non ha segnato cesure nette che favoriscano una periodizzazione (come quella che amano invece adottare i manuali moderni), pur se non ha mancato di segnare certi cambiamenti (almeno quelli del tono generale) del rapporto tra Atene e gli alleati; dall’altro, egli non ci ha dato una rappresentazione parallela degli svolgimenti politici interni ad Atene, per i quali siamo affidati piuttosto alle tradizioni attidografiche o a traduzioni biografiche più tarde, di complessa genesi e difficile valutazione. Certo, sulla responsabilità di fondo e primaria di Atene, e della sua crescita imperialistica, nello scoppio della Guerra del Peloponneso egli non ha dubbi; ma questo vale appunto per le cause e responsabilità profonde e remote dell’insorgere di quel terribile conflitto che devastò la Grecia per quasi un trentennio; così come egli, operando una distinzione del tutto coerente con le sue chiare impostazioni metodologiche, attribuisce invece la responsabilità immediata, dell’apertura cioè della guerra, ai Peloponnesiaci: la guerra “del Peloponneso” è definibile così perché l’aprirono (nel senso dell’avvio delle ostilità) i Peloponnesiaci, e perché così furono essi a «portare guerra» contro Atene e i suoi alleati[2].
D’altra parte, il fatto che nella rappresentazione tucididea abbia un posto così spiccato il fattore psicologico, non significa di certo, come talora si rischia di intendere, che nella storia siano per lui determinanti e fondamentali le cause psicologiche, con pregiudizio di quelle politiche, sociali, economiche e così via di seguito[3]. La psicologia in Tucidide è un segno, la rappresentazione psicologica quindi un linguaggio storiografico: l’opposizione “paura-coraggio”, che riassume l’opposizione “Sparta-Atene”, è appunto una rappresentazione simbolica, che tutte le altre contiene e riassume, senza che quelle di altro tipo siano negate o perfino manchino talora di emergere in proprio. Dovendo dare un segno complessivo a quegli eventi e a quei comportamenti, Tucidide ricorre a rappresentazioni e motivazioni psicologiche, che sono da prendere per quel che sono, cioè per grandi metafore storiche, che facilitano al lettore il primo approccio alla lettura e alla comprensione complessiva degli eventi, senza esimerlo affatto dal pensare attraverso di esse e oltre di esse.
Il periodo è certo tutto all’insegna di una crescita (aúxēsis) della potenza di Atene. La ricostruzione delle mura cittadine è realizzata da Temistocle a dispetto delle diffidenze di Sparta e dei suoi interessati tentativi di dissuasione. Ma Atene rivendica ormai pienamente a sé la consapevolezza, e perciò la tutela, dei suoi interessi, e così avvia anche la fortificazione del Pireo. Agli anni di Pericle è riservata invece la costruzione delle Lunghe Mura, dalla città al Pireo e al Falero[4].

Pittore Nicostene. Oplita di corsa. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 495 a.C. ca. Baltimore, Walters Art Museum.
Pittore Nicostene. Oplita di corsa. Pittura vascolare dal tondo di una kylix attica a figure rosse, 495 a.C. ca. Baltimore, Walters Art Museum.

2.Fondazione della Lega delio-attica (477 a.C.)

Ma il momento decisivo della presa di coscienza, da parte di Atene, del nuovo ruolo della città all’interno del mondo greco, è nell’assunzione dell’egemonia della Lega ellenica. Vi contribuiscono al principio fondamentalmente gli Ioni, ma non tutti a condizioni identiche. I più pagheranno un tributo in denaro (phóros), che in totale ammonta a 460 talenti annui; con navi contribuiscono città insulari (Samo, Chio, Lesbo), che hanno funzione di sentinelle sul fianco orientale dell’impero egeo che sta nascendo. Sede del tesoro e delle riunioni del sinedrio federale sarà Delo, l’isola tradizionalmente teatro delle grandi panēgúreis («assemblee») ioniche; una località abbastanza distinta da Atene, perché la scelta non sia sentita come una mortificazione della dignità degli altri Ioni, ma abbastanza vicina e tradizionalmente in stretto rapporto con la città egemone, perché resti soddisfatta l’esistenza di Atene di esplicare il suo ruolo di città-guida[5]. La finalità dichiarata, e di fatto a lungo perseguita, sotto la spinta di Cimone, è quella della continuazione della difesa dai Persiani, e di un regolamento dei rapporti nell’Egeo soddisfacente per i Greci, cioè per la loro sicurezza e per i loro interessi. La cerimonia solenne del giuramento, con il contemporaneo affondamento in mare di barre di ferro (múdroi), sancisce l’impegno di questi Greci di avere sempre «gli stessi amici e gli stessi nemici»: solo uno spezzone di unità nazionale, il quale è anche l’unico fine, in queste condizioni storiche, perseguibile, ed anche l’unico concepito[6].
Su questo programma non si vedono ad Atene vere e proprie contrapposizioni di partiti o gruppi politici: le voci discordi sembrano poche e isolate. Ne conosciamo certamente una, quella di Temistocle, ormai assai meno interessato a un conflitto con la Persia e ben più sensibile al maturare di un conflitto con Sparta; ma egli fu ostracizzato, forse nel 471 a.C., in un momento che appare fermamente incluso in un periodo di predominio politico di uomini come Cimone (sul piano strategico) e come Aristide (sul piano politico e diplomatico), nonché di generale prestigio dell’Areopago, il vecchio consiglio aristocratico formato da ex-arconti, cioè da notabili inclini a una politica di conservazione. Ma in questi anni politica di conservazione non significa ostilità all’impero navale: sulla linea dell’impero la classe politica ateniese sembra fondamentalmente d’accordo, anche se la direzione eminentemente anti-persiana può non essere da tutti ugualmente condivisa.

Mappa dell'impero ateniese all'inizio della Guerra del Peloponneso (431 a.C.).
Mappa dell’impero ateniese all’inizio della Guerra del Peloponneso (431 a.C.).

3.Temistocle e Pausania il reggente

L’ostracismo porterà Temistocle dapprima nel Peloponneso, naturalmente in città ostili a Sparta, e poi in Epiro, in Macedonia e finalmente (dopo il 465, anno della morte di Serse), presso il re persiano Artaserse, che gli assegnerà il possesso di Magnesia, Lampsaco e Miunte, nell’Asia minore occidentale, dove l’eroe di Salamina morrà, forse suicida, poco dopo. Non è facile comunque, neanche per Temistocle (in un’epoca in cui le tradizioni biografiche ancora non sono consolidate in forme mature, atte a rendere conto di tutte le vicende e di tutti gli aspetti personali pertinenti a un uomo politico democratico), stabilire le circostanze e i motivi dell’ostracismo, e il tipo di contrapposizione politica che isola quel personaggio dagli altri e che ne fa un perdente. Nella tradizione domina, più accreditato degli altri, il motivo del medismo[7]; un sospetto e un’accusa che gravano anche sull’altro grande protagonista delle guerre persiane, il reggente spartano Pausania. Rientrato, come sembra, con iniziativa personale a Bisanzio, Pausania ne fu sloggiato da Cimone; occupata Colone nella Troade, non potendo consolidare il suo dominio nella regione, finì con il rientrare a Sparta, dove (circa gli anni 471-469) fu inquisito, e accusato di tentare con gli iloti una sovversione contro lo Stato spartano e in particolare contro l’eforato. Pausania si rifugia allora nel tempio di Atena Calcieco («dal tempio [con struttura] in bronzo»: porte, tetto, ecc.), dove viene tenuto chiuso, e da dove è fatto uscire solo all’avvicinarsi della morte, sopravvenuta per inedia. Molte sono invero le incertezze sui particolari delle ultime vicende di Pausania, soprattutto sui suoi soggiorni a Bisanzio (per i quali sussistono difficoltà a distinguerne nettamente due, e permangono persino sospetti di duplicazioni), sul senso del suo medismo (un medismo “comportamentale”, nel senso di attitudini eterodosse, tiranniche, o vere e proprie collusioni con il re?), sui suoi progetti (se veramente ne ebbe) di cambiamenti politici e sociali[8].

Ostrakon risalente alla votazione relativa al caso di Temistocle. 482 a.C. ca. Atene, Stoà di Attalo (Museo dell’Antica Agorà).
Θεμιστοκλής Νεοκλέους (“Temistocle, figlio di Neocle”). Ostrakon, 482 a.C. ca. Atene, Museo dell’Antica Agorà.

4.Democrazia nel Peloponneso

Non meno incerti sono i fondamenti delle affermazioni, che frequentemente si ritrovano negli studi moderni, riguardo all’impegno esplicato da Temistocle nell’alimentare, diffondere e sostenere il cosiddetto “moto democratico” nel Peloponneso, cioè le trasformazioni politiche che nella prima metà del V secolo si possono, e secondo i casi, debbono ammettere in città del Peloponneso diverse da Sparta e magari ad essa ostili: ad Argo, in Elide, in Arcadia. Appare invero molto difficile parlare di una pura e semplice esportazione del regime democratico da Atene in altri Stati. Nello stesso ambito della lega navale il processo non sembra essere stato né così precoce né così automatico (come insegnano i casi di Mileto o di Samo). In alcuni casi poi, come quello dell’Arcadia, che tante volte si cita ad esemplificare un processo di democratizzazione avvenuto sotto l’influsso di Atene e magari in correlazione con la presenza di Temistocle nel Peloponneso, non siamo neanche in grado di affermare che nel V secolo qui vi fosse una forma politica democratica generalizzata (Mantinea sembra rappresentare un esempio di democrazia, comunque moderata, nel 421 a.C.). Per quanto poi riguarda i due casi più evidente, Argo ed Elide, non è facile dare la preminenza all’importazione di un modello, rispetto allo sviluppo, in larga misura autonomo, di condizioni interne[9]. Ad Argo, dopo la sconfitta subita a Sepeia nel 494 ad opera degli Spartani, guidati da Cleomene I, si instaura provvisoriamente un governo di servi; è probabile che l’ammissione di perieci («abitanti intorno») nella cittadinanza, attestata da Aristotele (Politica V 1303 a), sia in qualche relazione di fatto con quel traumatico, anche se transitorio episodio, ed è anche possibile, in assoluto, che nei perieci trasformati in cittadini debbano riconoscersi servi rurali ammessi nella cittadinanza. Si ha quindi ad Argo, dove la monarchia sopravvive fino al V secolo, un’evoluzione della città verso forme democratiche, che si realizza attraverso un assorbimento nelle strutture politiche di quella popolazione rurale, che invece a Sparta – città dorica dallo sviluppo bloccato – permane stabile nella forma e condizione dell’ilota. L’introduzione ad Argo di una quarta tribù, quella degli Hyrnáthioi, accanto alle tre tribù doriche tradizionali (Illei, Dimani, Pànfili), sembra appunto segnare questo particolare sviluppo (la tribù ha certo una sua sottolineata peculiarità: prende nome da una donna, la mitica figlia del mitico eraclide Temeno, collegata nella tradizione con l’entroterra rurale di Argo, o con Epidauro). Le recenti scoperte epigrafiche ad Argo consentono di conoscere anche i nomi della maggior parte di ulteriori suddivisioni di ciascuna delle quattro tribù, suddivisioni equivalenti a 1/12 di ogni phûla (forse fratrie, che in totale dovevano essere quindi 48, distribuite su quattro tribù). Naturalmente a questi sviluppi democratici di Argo si accompagna l’attenzione, la benevolenza e la simpatia di Atene (che sboccherà nel trattato di alleanza del 462 circa); e la stessa letteratura ateniese sembra registrare puntualmente l’evoluzione politica argiva[10].
Nelle Supplici di Eschilo (463-461?), che contengono una precoce attestazione della parola δημοκρατία, anche se in forma di perifrasi, è rappresentata un’assemblea di cittadini ad Argo, presieduta dal re Pelasgo, che decide, all’unanimità, e con alzata di mano (della «dominante mano del popolo», la dmou kratoûsa cheír), di concedere asilo alle Danaidi in fuga. Il poeta evita certo l’anacronismo di usare il termine formale di dēmokratía per epoca mitica, ma indugia con commozione nella rappresentazione della cheirotonía democratica, una procedura così caratteristica per la sua evidente quantificabilità e la valorizzazione del volere dell’uomo comune (una mano vale l’altra). E mentre fa spazio a una procedura tipica della sua città, Eschilo allude anche accortamente, e senza anacronismi troppo marcati, al regime al suo tempo vigente ad Argo (forma democratica, con un vertice monarchico privo di particolari poteri)[11].

Mappa del Peloponneso
Mappa del Peloponneso.

In Elide, poi, gli sviluppi verso la forma democratica, che si compiono nel V secolo, sono il risultato storico, certo anch’esso probabilmente favorito dall’affermazione della democratica Atene, della condizione e organizzazione del territorio: una campagna libera, popolata cioè da centri dotati di una forte autonomia, che tutti insieme producono e promuovono un centro urbano, sede delle decisioni politiche (Elide): in questo particolare rapporto, vigente all’interno del territorio, che corrisponde certo alla locale storia dei rapporti di proprietà, è una delle premesse dello sviluppo della forma democratica nella stessa Atene, e non è da meravigliarsi che la storia politica abbia avuto un tale sbocco in Elide, anche se qui ha prodotto una forma solo moderata di democrazia[12].
Il destino politico e umano di Temistocle e di Pausania conserva dunque parecchi aspetti oscuri; forse l’unico dato veramente evidente è l’isolamento di ciascuno dei due personaggi nelle (e dalle) rispettive póleis: una città di democrazia areopagitica, quale è tra il 478 e il 461 Atene, rifiuta l’innovatore Temistocle, che non si adatta ai vincoli che la pólis costituisce e impone come comunità (e comunità con una sua prevalente unità di intenti, in questa fase); e altrettanto vale, e si verifica in una forma necessariamente più marcata e traumatica, per una città quale Sparta, ormai sotto il forte controllo degli efori, di una magistratura cioè che, dall’eforato di Chilone e poi dal regno di Cleomene I, ha rafforzato il suo potere sia verso i re sia verso la stessa apélla e il corpo civico spartano in generale. Custode delle leggi l’Areopago ad Atene, custodi della costituzione a Sparta gli efori: è contro questo più marcato spirito della pólis che si vanno a scontrare le impazienze e le imprudenze dei vincitori di Salamina e di Platea.

5.Cimone o il lealismo dei conservatori

Ad Atene è invece il momento dell’ascesa di Cimone, il figlio di Milziade. È lui il generale delle prime operazioni della Lega navale, o almeno di quelle, fra esse, che Tucidide espressamente gli attribuisce. L’azione militare della Lega comincia in quell’area egea settentrionale, che, per essere meno direttamente a tiro della potenza persiana e del governatore persiano di Sardi, è poi quella in cui tradizionalmente si concentrano gli ultimi tentativi di resistenza alla Persia, o da cui può, con ragionevole speranza di successo, partire il moto di liberazione. Cimone libera perciò dalla residua resistenza persiana Eione, alla foce dello Strimone (476), poi assoggetta Sciro (475). Non è certo se a lui vada attribuita la guerra contro Caristo in Eubea, che si conclude comunque con un accordo; e ancora meno certo è che egli sia il generale che asservì l’alleata Nasso contro tutte le regole vigenti (Tucidide, I 98), circa il 471 a.C. L’asservimento di Nasso è una delle poche cesure marcate da Tucidide all’interno della sua storia e rappresentazione della pentēkontaetía: fu un salto di qualità, in senso deteriore, nel rapporto fra gli Ateniesi e gli alleati, sempre più in balia, questi ultimi, degli umori della città egemone, a sua volta sempre più addestrata e potente sul piano militare. Ma l’acme della carriera di Cimone è senza dubbio nella battaglia dell’Eurimedonte: una duplice battaglia, navale e terrestre, che, a seconda dei casi, le fonti collocano alla foce del fiume della Panfilia, per entrambi i suoi momenti, o invece distinguono in uno scontro navale, svoltosi al largo di Cipro, ed uno terrestre, svoltosi presso la foce dell’Eurimedonte[13].

Cimone di Atene. Busto, marmo, 510-450 a.C. ca. dal monumento omonimo sulla spiaggia di Larnaca (Cipro).
Cimone di Atene. Busto, marmo, 510-450 a.C. ca. da Larnaca (Cipro).

Diodoro data la battaglia al 470/469. Recenti tentativi di abbassarne la data al 466/465 appaiono poco giustificati, e comunque non più giustificati di quelli che fanno conto su un’assoluta contiguità tra la vittoria all’Eurimedonte e l’acclamazione degli strateghi, incluso Cimone, a giudici del concorso tragico delle Dionisie del 468 (il concorso che diede la vittoria a Sofocle contro il vecchio Eschilo). Se l’episodio è vero, esso non impone affatto che il trionfo di Cimone fosse del 469: infatti, alla designazione degli strateghi come giudici, si arrivò solo a seguito di una non prevista rissa fra spettatori nel teatro. L’acclamazione a giudice attesta certo l’alto prestigio di Cimone; ma poiché non si tratta di un’acclamazione pacifica, non è da concepire necessariamente come la prima celebrazione del reduce o di un trionfatore di recentissima data[14].
Se c’è incertezza sulla paternità cimoniana dell’ingloriosa spedizione contro Nasso (del 471 circa), è invece ben noto il ruolo di Cimone nella spedizione ateniese contro Taso, l’isola prospiciente le coste della Tracia e l’area mineraria del Pangeo: qui Taso possedeva e sfruttava miniere d’oro (a Skaptè Hyle), non meno redditizie di quelle di cui disponeva nell’isola stessa (e che sono state messe in luce), e aveva allestito degli empori. Nel 465 Taso defeziona, e dal quell’anno al 463 si svolge il lungo assedio dell’isola, di cui con fatica si doma la ribellione. La miniera di Skaptè Hyle e i possessi del continente passano nelle mani degli Ateniesi, che nel frattempo (465) avevano anche tentato di colonizzare Ennéa Hodoì (Nove Strade), sul sito della futura Anfipoli (che sarà fondata nel 437/6 da Agnone, il padre di Teramene), sul corso dello Strimone, poco più a monte di Eione. Addentratisi nella regione, avevano però subito ad opera dei Traci Edoni la dura sconfitta di Drabesco, che doveva ritardare di decenni il progetto di impianto coloniario.
La guerra di Taso rappresenta, in maniera e con dimensioni ancor più evidenti dell’episodio di Nasso, un salto di qualità nella politica ateniese verso gli alleati: è chiaro, almeno a giudicare dalle conseguenze della guerra, che ormai Atene interferisce nello stesso assetto economico delle città alleate. Può sembrare strano che a guidare l’impresa sia stato proprio Cimone, che, più di tutti gli altri politici ateniesi, sembra voler conferire alla Lega la funzione di uno strumento per la guerra contro i barbari e attenersi ai principi di equità verso gli alleati. Si può pensare, in effetti, che ormai egli si adatti a fare una politica non sua, ad essere, in un certo senso, il braccio esecutore della politica “democratica”, che va assumendo aspetti imperialistici sempre più marcati, con una potenzialità di sviluppi interni, che gli anni prossimi metteranno pienamente in luce.
È probabile che si debba riconoscere un errore politico nell’assunzione di questa responsabilità da parte di Cimone. Va tenuta comunque presente, a integrazione di queste riflessioni, una serie di fatti: l’intervento ateniese a Taso faceva seguito a una rivolta, e comunque questa dell’Egeo settentrionale è un’area in cui l’interesse di Cimone è in qualche modo sostenuto da una tradizione familiare di presenze nel Chersoneso Tracio e a Lemno e forse nella stessa area del Pangeo (dove del resto sappiamo che lo storico Tucidide, parente di Cimone, aveva possedimenti familiari). Il processo che, a vittoria conseguita, i gruppi democratici radicali ormai emergenti ed attivi intentarono a Cimone, benché rimasto senza seguito di condanna, era inteso a colpire un uomo che ormai aveva imboccato la curva discendente della sua parabola politica. Lontano dai fulgori dell’Eurimedonte, esecutore di una politica solo parzialmente sua, Cimone poté essere denunciato per il sospetto che fosse stato corrotto da Alessandro I il Macedone, al fine di evitare una spedizione ateniese, che avrebbe dovuto punire Alessandro per aver aizzato i Tasi alla ribellione e mostrato un troppo vivo interesse a quell’area mineraria del Pangeo a cui ora rivolgeva le sue mire Atene.
Ma Cimone doveva ancora commettere il suo maggiore errore politico. Ciò accadde nel 462, quando egli impegnò Atene in una misura imprudentemente eccessiva al fianco degli Spartani, che avevano richiesto l’aiuto di Atene e di altre città nella guerra che conducevano contro i Messeni e iloti ribelli, la III Guerra messenica, detta anche «del terremoto» (464-455 a.C. ca.). Il terremoto che distrusse Sparta, e produsse molte vittime fra gli Spartani, avvenne durante la guerra di Taso. Infatti, gli abitanti dell’isola avevano preso contatto con gli Spartani durante l’assedio, ottenendone promessa d’aiuto, quando sopraggiunse la catastrofe, durante la quale furono divelte alcune cime del Taigeto. E dovette trattarsi di una lunga sequenza di eventi sismici, che fu lì per mettere in ginocchio Sparta: ne approfittarono, per ribellarsi, dapprima gli iloti della Laconia e soprattutto della Messenia (i Messeni asserviti) e un paio di comunità perieciche dell’area del Taigeto (Turia e Aithaia). Presto ne nacque una guerra di rivolta e di resistenza (per così dire, “nazionale”) dei Messeni, arroccatisi sull’Itome, nella parte orientale della Messenia (circa 800 m). L’intervento ateniese, voluto da Cimone, non risultò efficace come sperato; viceversa, esso alimentò negli Spartani il timore di collusioni con gli insorti derivanti da una qualche solidarietà ideologica anti-aristocratica. Di qui la brusca decisione di rinvio a casa del contingente ateniese; lo smacco, oltre che una svolta in senso apertamente anti-spartano della politica estera ateniese (alleanze con Argo, con i Tessali, e anche con Megara, in funzione anti-corinzia, perciò anti-peloponnesiaca in genere), segnò anche un crollo del prestigio e della credibilità politica di Cimone, che dell’intervento era stato fervido fautore[15]. Ne seguì l’ostracismo dell’uomo politico (circa 461 a.C.), che certamente dovette essere motivato con l’aver fatto Cimone pericolosamente prevalere una sua convinzione personale sull’interesse dello Stato; ma l’arma veniva ormai chiaramente usata non con un fine corrispondente al senso originario dell’istituto, bensì allo scopo di regolare i conti col partito avverso, nel clima di frontale contrapposizione politica che si va ormai determinando all’interno della democrazia ateniese[16].

***

Note

[1] Thuc I 89117, in part. 97 e 118, 2; Diod. XI 41 sgg.; XII 1-34. Sul tema del coraggio (o audacia) ateniese e della paura spartana, cfr. Thuc I 95, 7; 102, 34.

[2] Tucidide, I 118, 2: non c’è dubbio che per lui sono gli Spartani a iniziare materialmente la guerra. Sul significato dell’aggettivo Πελοποννησιακός o Πελοποννήσιος denotante il πόλεμος, cfr. Paus. IV 6, 1.

[3] A. Momigliano, Some Observations on Causes of War in Ancient Historiography (1958), ora in Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, pp. 13-27.

[4] Thuc. I 93 (sulla ricostruzione delle mura della città e sul completamento di quelle del Pireo, sotto l’impulso di Temistocle); 107 (sull’inizio delle Lunghe Mura, verso il Falero e verso il Pireo, circa il periodo della nuova guerra contro Egina).

[5] Hom. hymn. III (Ad Apollo), 146 ss. Cfr. Delo e l’Italia, F. Coarelli – D. Musti – H. Solin (cur.), Roma 1983, p. 150.

[6] Thuc. I 9597; Aristot. Cost. Ath. 23, 5; Plut. Arist. 25, 1 (μύδροι).

[7] Sulla data dell’ostracismo (verosimilmente 471, per alcuni già 474) e dell’εἰσαγγελία, e sulla data di morte (459 o 440), cfr. R.J. Lenardon, The Chronology of Themistokles: Ostracism and Exile, Historia 8 (1959), pp. 23-48; P.J. Rhodes, Thucydides on Pausanias and Themistocles, Historia 19 (1970), pp. 387-400; L. Piccirilli, Temistocle, Aristide, Cimone, Tucidide di Melesia, Genova 1987, pp. 31-49. Il passaggio di Temistocle al largo di Nasso o di Taso assediata dagli Ateniesi – nel viaggio dalla Macedonia all’Asia – dipende anche dalla cronologia delle due imprese ateniesi (per Taso, Plut. Them. 25, 2, tradizione S; per Nasso, Thuc. I 137, 2, e Plutarco, l.c., tradizione Γ). La cronologia da noi proposta favorisce Taso.

[8] Thuc. I 128 ss.; Diod. XI 44 ss.; Iust. IX 1, 3; Nep. Paus. 23. Cfr. Beloch, GG2 II 2, pp. 154-159.

[9] Così Beloch, GG2 II 1, pp. 122 sgg., e G. De Sanctis, Storia dei Greci II, pp. 51 sgg.; L. Moretti, Problemi di storia tarantina, in Atti X Convegno Taranto 1970, Napoli 1971, pp. 40 sg., con qualche riserva sul rapporto Atene-Taranto.

[10] R.A. Tomlinson, Argos and the Argolid. From the End of the Bronze Age to the Roman Occupation, London 1972, pp. 189 sgg.; D. Musti ne Le origini dei Greci cit., pp. 45 sg e 390 sg.; Id, in Pausania. Guida della Grecia II, Milano 1986 (in collab. Con M. Torelli), comm. Cap. 28, pp. 306 sg.; Ch.B. Kritzas, Κατάλογος πεσόντων από το Άργος, in ΣΤΗΛΗ, Athenai 1980, pp. 487 sgg.; M. Piérart, Le origini dei Greci cit., pp. 277 sgg.

[11] Cfr. l’intero passo delle Supplici 600-624; cfr. anche nel coro, a v. 699, τὸ δάμιον, τὸ πτόλιν κρατύνει: il gioco di parole continua; interessante l’insistenza sull’unanimità del voto dato dagli Argivi in favore delle donne supplici (ai vv. 605 e 607).

[12] Vd. G. Pochettino – F. Olmi, Storia e civiltà dei Greci 6, Milano 1979, pp. 559 sg.

[13] Thuc. I 98100.

[14] Diod. XI 6062 (sotto il 470/69 tutto, con tipico accentramento biografico, dalla presa di Eione fino alla battaglia dell’Eurimedonte). Si può accettare o respingere il racconto di Diodoro, ma è chiaro che esso corrisponde a una scelta precisa e coerente, nei fatti, nei nomi dei generali persiani, Titrauste e Ferendate, nella dinamica, tutti improntati all’idea di separazione dei luoghi della battaglia navale e di quella terrestre. Cfr., per l’episodio dell’acclamazione degli strateghi come giurati, Plutarco, Cim. 79. Date più basse per tutti gli eventi, da Nasso a Taso, in R. Meiggs, The Athenian Empire, Oxford 1972.

[15] Cfr. Thuc. I 100103; Diod. XI 6364; Plut. Cim. 1417; sul numero di 4000 opliti ateniesi, Aristoph. Lysistr. 1143; Beloch, GG2 II 1, pp. 151-154.

[16] Plut. Peric. 11, 3: il conflitto tra Pericle e Tucidide di Melesia (ostracizzato nel 443) aprì nella città una βαθυτάτη τομή (un taglio profondissimo), in luogo della precedente nascosta venatura (διπλόη ὕπουλος: διπλόη Ruhnken).

La «pólis»: luogo per persone adulte e responsabili

di A.J. Toynbee, Il mondo ellenico. L’emancipazione dell’individuo per opera delle città-stato, Torino 1967, 52-58.

[…] Gli Elleni presero a venerare la pólis quasi fosse una divinità, invece di considerarla semplicemente un’istituzione sorta per il pubblico vantaggio. I sacrifici che le città-stato così deificate esigevano dai cittadini si fecero infine altrettanto duri di quelli imposti da Juggernaut ai propri fedeli, e in tal modo fu segnata la condanna dell’istituzione. […] Dopo aver permesso agli Elleni di risolvere successivamente i due problemi dell’anarchia e della carestia, le città-stato resero loro possibile non solo di «condurre un’esistenza», ma anche di «condurla in modo più ricco».
Il passo tratto dalla Politica di Aristotele […], «le città-stato nacquero per render possibile la vita», prosegue dicendo che «la raison d’être dell’istituzione è di rendere la vita degna di essere vissuta». E questa seconda parte della sentenza di Aristotele sarebbe stata giustificata dai fatti, se egli l’avesse scritta circa cento anni prima di quanto in realtà non fece. Per almeno tre secoli terminati con l’anno 431 a.C., le città-stato elleniche offrirono all’individuo un campo d’azione e un incentivo, liberandolo dai vincoli del culto della natura – soprattutto da quel vincolo particolarmente paralizzante che è il culto della natura sotto la forma della famiglia. La vita familiare mantiene il genere umano schiavo della natura extraumana. Nel seno della famiglia gli esseri umani non sono personalità indipendenti, con una propria mente e una propria volontà; essi non sono che le ramificazioni di un albero genealogico, il quale è a sua volta un ramo dell’albero evolutivo della vita, le cui radici affondano nell’abisso della psiche subconscia.
Nella «trilogia» del poeta tragico ateniese, Eschilo, che narra le vicende del casato di Atreo e che fu rappresentata per la prima volta nel 458 a.C., troviamo drammaticamente descritta la lotta disperata di un individuo per fuggire dal vicolo cieco in cui l’hanno condotto gli obblighi familiari, e la sua liberazione da un’immeritata tortura per l’intervento umano di una città-stato. È la storia di una famiglia i cui membri hanno preso ad uccidere i propri consanguinei, con il risultato che i sopravvissuti si trovano di fronte agli irreconciliabili e categorici doveri che gravano su di loro. Il dio Apollo ordina a Oreste di vendicare la morte del padre, Agamennone, trucidando l’assassina di lui, Clitemnestra, moglie di Agamennone e madre di Oreste – dopo di che, le Erinni perseguitano spietatamente il giovane per aver tolto la vita alla più stretta consanguinea dell’uomo. Le Erinni sono la personificazione mitica del senso di colpa. Preso nel circolo vizioso dei doveri familiari in conflitto fra loro, Oreste non ha via di scampo dall’orribile situazione, per quanto la ragione affermi ch’egli non è uno scellerato, ma una vittima. Chi lo salva è la dea Atena, personificazione mitica della città-stato ateniese. Ella persuade le Erinni ad accettare il verdetto di una giuria ateniese; ed essendo i voti dei giurati equamente divisi fra le due parti in causa, Atena, che presiede la corte, dà il voto decisivo a favore della clemenza e della ragione.

Pittore anonimo. L’assassinio di Egisto per mano di Oreste e Pilade. Pittura vascolare da un’oinochoe apula a figure rosse, 430-400 a.C. c. Paris, Musée du Louvre.

La legislazione della città-stato, ed anche il servizio militare da essa imposto, liberarono l’individuo, a presso di una nuova schiavitù, dalla sua antica soggezione alla famiglia. All’epoca di Eschilo, ad Atene la questione era già stata decisa a favore dell’individuo, ma non era ancora passato tanto tempo da rendere il tema dell’Orestea superato o incomprensibile per il pubblico ateniese del V secolo. Nel Lazio, al limite occidentale dell’espansione ellenica, la famiglia combatté una più ostinata battaglia a difesa dei suoi diritti primordiali. Per tutta la lunga vicenda della legge romana, il pater familias conservò molti dei suoi antichi diritti dispotici sulla moglie e sui figli adulti, e ciò anche nell’ultima codificazione ordinata dall’imperatore Giustiniano nel VI secolo dell’era cristiana, quando la legge di Roma subiva già da sette secoli l’influenza umanitaria della filosofia ellenica, e da due quella moderatrice del cristianesimo. Durante la maggior parte del corso della storia romana, il cittadino maschio adulto rimaneva virtualmente lo schiavo del padre fino al giorno della morte di lui; dalla fondazione dello Stato romano, in un solo posto il figlio-schiavo era un uomo libero: il campo di battaglia. All’atto della mobilitazione, padre e figlio diventavano «uguali», compagni d’arme entrambi al servizio della Repubblica.
Oltre a fornire all’individuo il campo d’azione, la città stato gli forniva uno stimolo ad agire. Pur liberandolo dalla secolare schiavitù alla famiglia, non impoveriva la sua vita col privarlo di quell’intimità che forma il fascino della vita familiare. Le città-stato stesse erano comunità abbastanza piccole da poter funzionare come funziona una famiglia – attraverso i rapporti diretti tra individui. Naturalmente, per quanto limitata possa essere la scala della vita politica, la legge è una cosa impersonale paragonata alle consuetudini familiari, e altrettanto lo è la guerra in confronto alle faide. D’altra parte, se paragonata all’impersonalità delle relazioni umane nell’Impero romano o in uno Stato nazionale dell’Occidente moderno, la città-stato ellenica dell’epoca pre-imperialistica godeva in misura assai più larga della stimolante immediatezza di un ordinamento di tipo familiare. Aristotele prescrive che il corpo dei cittadini non debba essere troppo numeroso, ma tale che un «araldo senza gridare» […] possa farsi udire dall’intera assemblea; e, per la verità storica, poche città-stato elleniche […] ebbero una cittadinanza che sorpassasse i limiti aristotelici. […]
Il grado di nuove possibilità e di stimolo offerto all’individuo dalla città-stato nell’epoca dell’espansione marittima del mondo ellenico (dall’VIII al VI secolo a.C.) è indicato (dimostrato) dalle conquiste individuali realizzate in questo periodo da uomini che s’illustrarono nei campi più svariati. Nella letteratura sorsero poeti come Mimnermo di Colofone, Archiloco di Paro, Alceo e Saffo di Lesbo. Tema delle loro opere erano le esperienze dell’individuo che ha preso coscienza di sé: i piaceri e le pene del sesso e dell’alcool, la fedeltà allo Stato e i rancori politici, ma soprattutto «la grandezza e la miseria» del mortale genere umano. Archiloco aveva uno spirito così totalmente libero, ch’ebbe l’audacia di vantarsi di aver mancato al proprio dovere di cittadino sul campo di battaglia. In un’ingiusta guerra di conquista condotta da Paro contro gli indigeni traci dell’isola di Taso, Archiloco a un certo punto si era salvato la pelle gettando via lo scudo. Invece di nascondere il volto nella vergogna, si gloriava nei suoi versi di questa condotta poco militare, e il fatto che la poesia sia giunta fino a noi, dimostra che il poeta doveva aver trovato dei simpatizzanti fra i suoi contemporanei. Nel campo del pensiero, filosofi fisici specularono attorno alla natura dell’universo. Quale fosse la sostanza primordiale, se l’acqua o una sostanza indeterminata o lo spirito, fu il problema dibattuto fra Talete di Mileto, i suo concittadino Anassimandro e Anassagora di Clazomene. Era l’universo un’unità indifferenziata e immobile? O era molteplicità, varietà, movimento e ritmo? Ed era questo ritmo un alternarsi della mescolanza e della separazione di elementi qualitativamente diversi? O le apparenti caratteristiche e forme di tutte le cose visibili erano il prodotto di una pioggia perpetua di miriadi di atomi uniformi? Furono questi gli argomenti dibattuti fra Zenone di Elea, Empedocle di Agrigento e Leucippo di Mileto.

Pittore di Brygos. Suonatrice di aulós. Pittura vascolare dal tondo di una kýlix attica a figure rosse, 490 a.C. ca., da Vulci. Paris, Musée du Lovure.

Altri si illustrarono nel campo della tecnologia, per esempio Ameinia di Corinto, che fu il primo fra gli Elleni a progettare navi spinte da un triplice ordine di rematori, e Teodoro di Samo, il primo Elleno che fuse oggetti in bronzo. […] La matematica, la filosofia, la poesia erano i campi in cui gli Elleni si muovevano a loro agio.
In questi le loro conquiste erano già così notevoli all’epoca dell’espansione marittima, che non fa meraviglia se essi idolatravano l’istituzione politica che aveva dato libertà d’azione al genio individuale. A quel tempo, il culto del potere collettivo dell’uomo, eretto a città-stato, aveva sostituito di fatto, seppure non apertamente né ufficialmente, il culto del pantheon olimpico quale religione suprema del mondo ellenico. Le città-stato erano offerte al culto dei cittadini sotto la veste di divinità tradizionali – olimpiche alcune, altre ancora più antiche – che vennero mobilitate per questa nuova funzione. Raramente, la divinità era un dio maschile. […] La maggior parte delle città-stato era rappresentata da dee tutelari […].
La città-stato era un più degno oggetto di culto che non gli dèi olimpici fatti ad immagine dell’uomo barbarico; e la personalità dell’uomo che si è emancipato decade, se egli non trova fuori del proprio Io un oggetto più o meno degno della sua devozione. Le città-stato intanto meritavano la devozione dei cittadini, in quanto offrivano loro l’ambiente sociale che li stimolava a sviluppare le proprie capacità […].