di A.J. Toynbee, Il mondo ellenico. L’emancipazione dell’individuo per opera delle città-stato, Torino 1967, 52-58.
[…] Gli Elleni presero a venerare la pólis quasi fosse una divinità, invece di considerarla semplicemente un’istituzione sorta per il pubblico vantaggio. I sacrifici che le città-stato così deificate esigevano dai cittadini si fecero infine altrettanto duri di quelli imposti da Juggernaut ai propri fedeli, e in tal modo fu segnata la condanna dell’istituzione. […] Dopo aver permesso agli Elleni di risolvere successivamente i due problemi dell’anarchia e della carestia, le città-stato resero loro possibile non solo di «condurre un’esistenza», ma anche di «condurla in modo più ricco».
Il passo tratto dalla Politica di Aristotele […], «le città-stato nacquero per render possibile la vita», prosegue dicendo che «la raison d’être dell’istituzione è di rendere la vita degna di essere vissuta». E questa seconda parte della sentenza di Aristotele sarebbe stata giustificata dai fatti, se egli l’avesse scritta circa cento anni prima di quanto in realtà non fece. Per almeno tre secoli terminati con l’anno 431 a.C., le città-stato elleniche offrirono all’individuo un campo d’azione e un incentivo, liberandolo dai vincoli del culto della natura – soprattutto da quel vincolo particolarmente paralizzante che è il culto della natura sotto la forma della famiglia. La vita familiare mantiene il genere umano schiavo della natura extraumana. Nel seno della famiglia gli esseri umani non sono personalità indipendenti, con una propria mente e una propria volontà; essi non sono che le ramificazioni di un albero genealogico, il quale è a sua volta un ramo dell’albero evolutivo della vita, le cui radici affondano nell’abisso della psiche subconscia.
Nella «trilogia» del poeta tragico ateniese, Eschilo, che narra le vicende del casato di Atreo e che fu rappresentata per la prima volta nel 458 a.C., troviamo drammaticamente descritta la lotta disperata di un individuo per fuggire dal vicolo cieco in cui l’hanno condotto gli obblighi familiari, e la sua liberazione da un’immeritata tortura per l’intervento umano di una città-stato. È la storia di una famiglia i cui membri hanno preso ad uccidere i propri consanguinei, con il risultato che i sopravvissuti si trovano di fronte agli irreconciliabili e categorici doveri che gravano su di loro. Il dio Apollo ordina a Oreste di vendicare la morte del padre, Agamennone, trucidando l’assassina di lui, Clitemnestra, moglie di Agamennone e madre di Oreste – dopo di che, le Erinni perseguitano spietatamente il giovane per aver tolto la vita alla più stretta consanguinea dell’uomo. Le Erinni sono la personificazione mitica del senso di colpa. Preso nel circolo vizioso dei doveri familiari in conflitto fra loro, Oreste non ha via di scampo dall’orribile situazione, per quanto la ragione affermi ch’egli non è uno scellerato, ma una vittima. Chi lo salva è la dea Atena, personificazione mitica della città-stato ateniese. Ella persuade le Erinni ad accettare il verdetto di una giuria ateniese; ed essendo i voti dei giurati equamente divisi fra le due parti in causa, Atena, che presiede la corte, dà il voto decisivo a favore della clemenza e della ragione.

La legislazione della città-stato, ed anche il servizio militare da essa imposto, liberarono l’individuo, a presso di una nuova schiavitù, dalla sua antica soggezione alla famiglia. All’epoca di Eschilo, ad Atene la questione era già stata decisa a favore dell’individuo, ma non era ancora passato tanto tempo da rendere il tema dell’Orestea superato o incomprensibile per il pubblico ateniese del V secolo. Nel Lazio, al limite occidentale dell’espansione ellenica, la famiglia combatté una più ostinata battaglia a difesa dei suoi diritti primordiali. Per tutta la lunga vicenda della legge romana, il pater familias conservò molti dei suoi antichi diritti dispotici sulla moglie e sui figli adulti, e ciò anche nell’ultima codificazione ordinata dall’imperatore Giustiniano nel VI secolo dell’era cristiana, quando la legge di Roma subiva già da sette secoli l’influenza umanitaria della filosofia ellenica, e da due quella moderatrice del cristianesimo. Durante la maggior parte del corso della storia romana, il cittadino maschio adulto rimaneva virtualmente lo schiavo del padre fino al giorno della morte di lui; dalla fondazione dello Stato romano, in un solo posto il figlio-schiavo era un uomo libero: il campo di battaglia. All’atto della mobilitazione, padre e figlio diventavano «uguali», compagni d’arme entrambi al servizio della Repubblica.
Oltre a fornire all’individuo il campo d’azione, la città stato gli forniva uno stimolo ad agire. Pur liberandolo dalla secolare schiavitù alla famiglia, non impoveriva la sua vita col privarlo di quell’intimità che forma il fascino della vita familiare. Le città-stato stesse erano comunità abbastanza piccole da poter funzionare come funziona una famiglia – attraverso i rapporti diretti tra individui. Naturalmente, per quanto limitata possa essere la scala della vita politica, la legge è una cosa impersonale paragonata alle consuetudini familiari, e altrettanto lo è la guerra in confronto alle faide. D’altra parte, se paragonata all’impersonalità delle relazioni umane nell’Impero romano o in uno Stato nazionale dell’Occidente moderno, la città-stato ellenica dell’epoca pre-imperialistica godeva in misura assai più larga della stimolante immediatezza di un ordinamento di tipo familiare. Aristotele prescrive che il corpo dei cittadini non debba essere troppo numeroso, ma tale che un «araldo senza gridare» […] possa farsi udire dall’intera assemblea; e, per la verità storica, poche città-stato elleniche […] ebbero una cittadinanza che sorpassasse i limiti aristotelici. […]
Il grado di nuove possibilità e di stimolo offerto all’individuo dalla città-stato nell’epoca dell’espansione marittima del mondo ellenico (dall’VIII al VI secolo a.C.) è indicato (dimostrato) dalle conquiste individuali realizzate in questo periodo da uomini che s’illustrarono nei campi più svariati. Nella letteratura sorsero poeti come Mimnermo di Colofone, Archiloco di Paro, Alceo e Saffo di Lesbo. Tema delle loro opere erano le esperienze dell’individuo che ha preso coscienza di sé: i piaceri e le pene del sesso e dell’alcool, la fedeltà allo Stato e i rancori politici, ma soprattutto «la grandezza e la miseria» del mortale genere umano. Archiloco aveva uno spirito così totalmente libero, ch’ebbe l’audacia di vantarsi di aver mancato al proprio dovere di cittadino sul campo di battaglia. In un’ingiusta guerra di conquista condotta da Paro contro gli indigeni traci dell’isola di Taso, Archiloco a un certo punto si era salvato la pelle gettando via lo scudo. Invece di nascondere il volto nella vergogna, si gloriava nei suoi versi di questa condotta poco militare, e il fatto che la poesia sia giunta fino a noi, dimostra che il poeta doveva aver trovato dei simpatizzanti fra i suoi contemporanei. Nel campo del pensiero, filosofi fisici specularono attorno alla natura dell’universo. Quale fosse la sostanza primordiale, se l’acqua o una sostanza indeterminata o lo spirito, fu il problema dibattuto fra Talete di Mileto, i suo concittadino Anassimandro e Anassagora di Clazomene. Era l’universo un’unità indifferenziata e immobile? O era molteplicità, varietà, movimento e ritmo? Ed era questo ritmo un alternarsi della mescolanza e della separazione di elementi qualitativamente diversi? O le apparenti caratteristiche e forme di tutte le cose visibili erano il prodotto di una pioggia perpetua di miriadi di atomi uniformi? Furono questi gli argomenti dibattuti fra Zenone di Elea, Empedocle di Agrigento e Leucippo di Mileto.

Altri si illustrarono nel campo della tecnologia, per esempio Ameinia di Corinto, che fu il primo fra gli Elleni a progettare navi spinte da un triplice ordine di rematori, e Teodoro di Samo, il primo Elleno che fuse oggetti in bronzo. […] La matematica, la filosofia, la poesia erano i campi in cui gli Elleni si muovevano a loro agio.
In questi le loro conquiste erano già così notevoli all’epoca dell’espansione marittima, che non fa meraviglia se essi idolatravano l’istituzione politica che aveva dato libertà d’azione al genio individuale. A quel tempo, il culto del potere collettivo dell’uomo, eretto a città-stato, aveva sostituito di fatto, seppure non apertamente né ufficialmente, il culto del pantheon olimpico quale religione suprema del mondo ellenico. Le città-stato erano offerte al culto dei cittadini sotto la veste di divinità tradizionali – olimpiche alcune, altre ancora più antiche – che vennero mobilitate per questa nuova funzione. Raramente, la divinità era un dio maschile. […] La maggior parte delle città-stato era rappresentata da dee tutelari […].
La città-stato era un più degno oggetto di culto che non gli dèi olimpici fatti ad immagine dell’uomo barbarico; e la personalità dell’uomo che si è emancipato decade, se egli non trova fuori del proprio Io un oggetto più o meno degno della sua devozione. Le città-stato intanto meritavano la devozione dei cittadini, in quanto offrivano loro l’ambiente sociale che li stimolava a sviluppare le proprie capacità […].
L’ha ribloggato su Scelti per voie ha commentato:
Sempre interessantissimi gli articoli di questo blog, ma questo mi ha colpito ancora di più per il riferimento alla famiglia come negatrice della realizzazione completa dell’uomo. Dove è scritto “a presso di una nuova schiavitù” credo sia “a prezzo di una nuova schiavitù”.
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Che meraviglia leggere della Grecia e di altre antichità.
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