di D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, pp. 363 sgg.

Gli aspetti salienti del periodo post-tirannico in Sicilia sono la restaurazione democratica, di cui parla Diodoro, XI 68, 5, e che è da intendere alla luce dell’accezione un po’ sbiadita di dēmokratía, come «forma repubblicana», regime politico non soggetto a un monarca o a un tiranno (più che come forma di regime popolare, da paragonare a quello ateniese contemporaneo), e la questione dei mercenari (che in questa fase sono ancora mercenari greci, di Sicilia o del Peloponneso). Questi ultimi sono espulsi da Gela, Agrigento e Imera, ma si insediano, quelli di Gela ad Omphake (= Butera?) e Kakyron, quelli di Agrigento a (Eraclea?) Minoa, quelli cacciati da Imera furono coinvolti nelle vicende di Messina. Quest’ultima aveva condiviso fino al 461/0 le sorti di Reggio, dove, dopo la morte di Anassila (476), un parente del tiranno, Micito, aveva assunto la tutela dei figli minorenni dello scomparso. Micito continuò, anzi accentuò, la politica di dinamismo espansionistico che aveva caratterizzato la tirannide di Anassila, in parallelo con comportamenti analoghi dei tiranni siracusani. Così il reggente colonizzò Pissunte (= Policastro sul Busento), circa il 471/0, ma al tempo stesso, avendo prestato aiuto ai Tarentini contri gli Iapigi, ne condivise una terribile sconfitta ad opera dei barbari[1].
Per i Tarentini il disastro militare fu, come spesso accadde, l’occasione per la ricerca delle responsabilità e per una decisa trasformazione politica (Aristotele parla di passaggio dalla politeía, una costituzione democratico-moderata, alla dēmokratía). A Reggio ne seguirono l’esilio di Micito, rifugiatosi a Tegea d’Arcadia, l’avvento al potere del tiranno Leofrone (?) e però anche la ribellione di Reggio e Messina, che recuperavano, certo in sintonia con gli sviluppi sicelioti, la loro libertà (461/0).

È a questo punto che a Messina (ridiventata temporaneamente Zancle) intervengono i mercenari espulsi da Imera, che si impadroniscono della città. Quanto le città siceliote controllino il territorio sicano risulta dal fatto che una località sicana come Crasto è pomo della discordia e oggetto di contesa fra città greche e solo greche: Imera, aiutata da Gela, da un lato, e dall’altro Agrigento, che, con l’aiuto di Siracusa, riesce almeno a cacciare da Eraclea Minoa i mercenari là rifugiati. Una pace generale consentì finalmente ai mercenari di andarsene a casa; gli esuli furono richiamati nelle città, le terre furono restituite o redistribuite. Camarina, già distrutta da Gelone, fu ricostruita dai Geloi[2].
Con la fine degli anni Sessanta possono dirsi in generale conclusi i sussulti politici interni alle città di Sicilia (fatto salvo il tentativo di un certo Tindarida, subito represso, di rifondare nel 454 la tirannide a Siracusa, questa volta con l’appoggio dei diseredati, come non era stato nel caso dei Dinomenidi)[3]. Si riacutizza invece la questione sicula: non per un improvviso ritorno di fiamma, ma per un ultimo sussulto della realtà indigena della Sicilia centro-orientale, che di fatto non era mai scomparsa come realtà demografica, sociale, militare e anche in larga misura culturale. La tirannide ha in Sicilia la caratteristica di esercitare un più forte dominio sul territorio.

Si confronti la giusta caratterizzazione della politica di Siracusa in Strabone, VI C. 270, forse da Timeo: «i suoi abitanti erano quando erano essi stessi sotto un governo tirannico, e di liberare invece, quando erano liberi, quelli che erano asserviti dai barbari». Il discorso, che probabilmente riflette esperienza dell’epoca di Timoleonte, vale qui per i rapporti fra i Greci, ma si può obiettivamente estendere al rapporto con i barbari. La genesi della rivolta di Ducezio è estremamente istruttiva circa i rapporti tra politica interna e politica territoriale delle città greche, in particolare di Siracusa. Ducezio, capo dei Siculi, nativo di Menai (= Mineo?), riunì in una sola confederazione tutte le città sicule, tranne Ibla (conquistando, tra l’altro, Morgantina); raccolto un esercito notevole, trasferì Menai dalle alture in pianura, fondò Menainon, costruì presso il santuario dei Palici una città che da quelle divinità denominò Palice (Diodoro, XI 88, 6, sotto il 453), distribuì ai suoi le terre tutt’intorno a Morgantina. Ma la fondazione di Palice è successiva all’intervento (461) contro la fondazione di Ierone (Etna-Catania), in cui Ducezio era stato alleato del governo post-tirannico siracusano: in gioco era la terra presa ai Catanesi. Più tardi Ducezio rivolgerà le sue armi contro la stessa Etna-Inessa, occupata dai mercenari e da Dinomene, figlio di Ierone, proprio sul territorio siculo (= Paternò?), secondo Diodoro (XI 91, 1) nel 451 a.C. Ormai Ducezio, che aveva cominciato a inserirsi abilmente nel contenzioso creatosi fra i Greci stessi, può concepire un programma sistematico e organico di conquista delle località interne della Sicilia, anche forse in area sicana (e ancora questo dimostra come i Sicani per parte loro fossero stati domati dai Greci). Battuti gli Agrigentini e i Siracusani in campo aperto, Ducezio si impadronì infatti per qualche tempo di Motyon, fortezza in territorio agrigentino (451?); l’anno successivo, sconfitto dai Siracusani a Nomai (o Noai), abbandonato dai suoi, il capo siculo si rifugiò come supplice presso gli altari dell’agorà di Siracusa; la sua sorte fu decisa dalla parte più benevola della cittadinanza siracusana, che lo relegò a Corinto (dei rapporti tra Siculi e Siracusani, che fanno dei Siculi una realtà “rispettabile” con cui un Siracusano può trattare, è anche chiara indicazione il sospetto di collusione con lo stratego siracusano Bolcone e Ducezio stesso, nella faccenda di Motyon, cfr. Diodoro, XI 91, 2). Ormai Siracusa si riprendeva Morgantina, Inessa e Menai, mentre la parte settentrionale del dominio di Ducezio, proprio per la minore capacità di resistenza della città greca più vicina, Messina, restava libera. Non sorprende quindi il fatto che qualche anno dopo Ducezio, sostenuto dal re della sicula Erbita, Arconida, provasse a fondare una nuova città proprio sulla costa settentrionale, a Calatte; il nuovo intervento in Sicilia sembra contestuale al conflitto scoppiato tra Siracusa e Agrigento, dopo la vittoria su Ducezio, e la tolleranza dimostrata da Siracusa verso il ribelle; ne era seguita nel 448/7 una vittoria di Siracusa su Agrigento al fiume Imera. Molti aspetti della vicenda di Ducezio dimostrano che l’opposizione tra Siracusa e i Siculi non era radicale; e certamente i Siculi dovevano essere alquanto permeati di cultura greca e soprattutto capaci di intessere un rapporto che è in parte di subordinazione, in parte però di collusione e comunque di non totale assoggettamento.

Siracusa poteva contare su una notevole estensione della sua influenza sull’area sicula: anche le circostanze della fondazione di Calatte sono alquanto indicative. Ducezio è autorizzato a partire da Corinto in forza di un oracolo (greco), porta a Calatte (la “bella costa” in greco) alcuni Greci, ma fa partecipare alla fondazione anche dei Siculi; una malattia lo stronca, quando sembrerebbe progettare di nuovo di conquistare il dominio sui Siculi (in una prospettiva però che, probabilmente, è già greco-sicula). Con la fine di Ducezio la volontà di resistenza politica dei Siculi si affievolisce, ma sarebbe errato credere che essa sia scomparsa del tutto. I Siculi diventeranno ormai oggetto di protettorati esterni; e alcune delle linee politiche seguite dai tiranni e dalla successiva democrazia saranno ricalcate e sviluppate da un tiranno, come Dionisio I, più crudamente coerente nel progetto di creazione di un dominio territoriale continuo ed esteso. Ma significativo della vocazione politica delle grosse borgate sicule e del tipo di acculturazione al mondo greco che esse per questo aspetto rivelano è il fatto che nel trattato tra Dionisio e i Cartaginesi del 405 ai Siculi sia garantita l’autonomia, non meno che alle città greche di Leontini e di Messina[4].
[1] Sul tema e il carattere della dēmokratía in Sicilia dopo l’abbattimento delle tirannidi di Agrigento, Imera, Siracusa, cfr. quanto scrivo in «Kokalos» 30/31, 1984/5, pp. 345-347. Per il resto, cfr. Beloch, GG2 II 1, pp. 128-130 (in parte ipotetico).
[2] Aristotele, Politica V 1303 a (su Taranto); per il resto, soprattutto Diodoro, XI 76; Tucidide, VI 5, 3; FGrHist 577 F 1 (Filisto?).
[3] Diodoro, XI 86. Al fallimento del tentativo di Tindarida fa seguito l’istituzione a Siracusa di una procedura simile all’ostracismo ateniese (il cosiddetto petalismós, nel quale i nomi delle persone da bandire si sarebbero scritti su foglie di olivo: un materiale comunque molto più deperibile, e perciò assai meno documentario, di quello degli óstraka dell’accorta democrazia ateniese).
[4] Diodoro, XI 76, 3; 78, 5; 88, 6; 90, 1; 91-92; XII 8; 29.
Bibliografia:
BICKNELL P.J., The Tyranny of Kleinias at Kroton, in «Klearchos» 18, 1976, nn. 69-72, pp. 5 sgg.;
DE SENSI SESTITO G., Contrasti etnici e lotte politiche a Zancle-Messene e Reggio alla caduta della tirannide, in «Athenaeum» 59, 1981, pp. 38 sgg.
LEWIS D.M., The Treaties with Leontini and Rhegion (Meiggs-Lewis 63-64), in «ZPE» 22, 1976, pp. 223 sgg.;