ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)
di G. Dumézil, La religione romana arcaica: Miti, leggende, realtà, a cur. di F. Jesi, Milano 2011, 306-309.
Una volta all’anno, per un giorno, si spezzava l’equilibrio fra il mondo regolato, esplorato, suddiviso, e il mondo selvaggio: Fauno occupava tutto. Ciò accadeva il 15 febbraio, nella seconda parte del mese, durante la quale (ai Feraliadel 21) si stabiliva anche un vincolo necessario e inquietante fra altri due mondi, quello dei vivi e quello dei morti: fine dell’inverno, approssimarsi della primavera e dell’«anno nuovo» secondo l’antica ripartizione in dieci mesi: quei giorni rimettevano in questione ritualmente gli schemi stessi dell’organizzazione sociale e cosmica. Riti di eliminazione e riti di preparazione vi si intrecciavano, attingendo alla loro fonte comune: ciò che si trova al di là dell’esperienza quotidiana.
Andrea Camassei, Festa dei Lupercali. Olio su tela, 1635. Madrid, Museo del Prado.
Al mattino del 15 una confraternita di singolari celebranti prendeva possesso delle falde del Palatino. Erano chiamati Luperci. Questo nome contiene sicuramente il nome del lupo: la sua formazione resta però oscura: forse si tratta di un derivato espressivo del tipo di nou-er-ca (secondo Mommsen, Jordan, Otto)[1], più che di un composto di lupus e di arcere (Preller, Wissowa, Deubner), poiché nulla, nei riti, è rivolto contro i lupi. I Luperciformavano due gruppi, che la leggenda ricollegava a Romolo e a Remo, e che portavano i nomi di due gentes, Luperci Quinctiales e Luperci Fabiani; sembra tuttavia che essi fossero diretti da un unico magister e associati nella loro unica esibizione annuale[2]. Vestiti unicamente di una pelle di capra sulle anche, essi rappresentavano gli spiriti della natura di cui Fauno, dio della festa, era il capofila. Cicerone (Pro Caelio, 26) li definisce come «la sodalità selvaggia, in tutto pastorale e agreste, dei fratelli Luperci, il cui gruppo silvestre fu istituito prima della civiltà umana e delle leggi». Queste parole indubbiamente traducono in termini di storia una struttura concettuale: il giorno dei Lupercalia, l’humanitas e le leges della città svanivano dinanzi al siluestre e all’agreste. Strettamente legata alla collina palatina, la festa certo era nota già ai più antichi Romani.
Un nome ritorna spesso nelle notizie un po’ confuse: quello stesso da cui deriva la denominazione del mese februarius; februum, che Varrone (De lingua Latina, 6, 13) traduce «purgamentum», e il verbo februare «purificare» (Giovanni Lido, De mensibus, 4, 20, in base ai libri pontificali) avevano un uso più vasto dei riti del 15 febbraio, i quali ne costituivano però la maggiore applicazione. Secondo Servio, gli antichi chiamavano in particolare februum la pelle di capro (Eneide, VIII 343), e Varrone (De lingua Latina, 6, 34) spiega Februarius a die februato (cfr. Plutarco, Vita di Romolo, 21, 3; Ovidio, Fasti, II 31-32), «poiché è in quel periodo che il popolo februatur, cioè che l’antico monte Palatino, con grande affluenza di popolo, è purificato, lustratur, dai Luperci nudi».
Statua del Fauno Barberini (o Satiro ubriaco). Marmo, II sec. copia romana da originale greco. München, Glyptothek.
Alcuni riti erano purificatori, altri fecondatori, senza che sia sempre possibile distinguere i due scopi. Certi riti restano enigmatici: per esempio il seguente, che solo Plutarco menziona (Vita di Romolo, 21, 4): «Essi (senza dubbio i Luperci) sacrificano delle capre; poi vengono loro condotti due giovani nobili; a questi ultimi, gli uni toccano la fronte con il coltello ancora sanguinante, gli altri asciugano la fronte sporcata di sangue con un bioccolo di lana bagnata nel latte; bisogna inoltre che i due giovani ridano dopo essere stati asciugati». Dal testo non risulta che i due giovani appartengano anch’essi alla sodalità. È inoltre menzionato il sacrificio di un cane (Plutarco, Vita di Romolo, 21, 5; Quaestiones Romanae, 290d), il che si spiega senza difficoltà se i Luperci «sono» dei lupi, ma con più difficoltà se essi sono «coloro che allontanano i lupi». L’essenziale del rito è comunque chiaro, e molti autori l’hanno descritto in termini concordanti. Dopo il sacrificio delle capre (non conosciamo il numero degli animali), i Luperci si cingevano delle pelli strappate dalle vittime (Giustino, Storie Filippiche, XLIII 1, 7); veniva poi consumato un buon pasto, ben innaffiato di vini (Valerio Massimo, Factorumet dictorum memorabilium, II 2, 9, nella leggenda di fondazione), e successivamente aveva inizio la corsa purificatrice, intorno al Palatino; il Lupercale era il punto di partenza e di arrivo. Correndo, i Luperci brandivano corregge tagliate in pelli di capro e colpivano con esse quanti incontravano, in particolare le donne, alle quali era così assicurata la fecondità (Plutarco, Vita di Romolo, 21 5); Plutarco (Vita di Cesare, 61, 2) e Giovenale (Satire, II 142) attenuano il rigore della flagellazione: le dame romane tendevano solo le mani ai colpi dei sacerdoti; ma, come osserva Frazer (Ovid’s Fasti, II p. 388): «for the purpose of impregnation it can have made very little difference whether the stripes were administered to the hand or to the back»[3].
Per giustificare questa pratica, Ovidio racconta una storia che non sembra di sua invenzione e che ricolloca la pratica stessa nella teologia di Faunus-Inuus (Fasti, II 425-452). Dopo il ratto delle Sabine – egli dice – gli dèi inflissero una sterilità quasi totale alle spose prese con la forza. Romolo si irritò al vedere il suo disegno contrariato: «A che mi è servito questo ratto – grida –, se non mi procura nuove forze bensì la guerra?».
Uomini e donne, allora, si recarono a pregare in un bosco consacrato a Giunone, la quale fece udire la sua voce attraverso gli alberi:
«Italidas matres, inquit, sacer hircus inito!».
«Un sacro caprone penetri le donne d’Italia!». Nuova perplessità dinanzi a quest’ordine mostruoso: come potranno accettare le donne romane di essere «penetrate» (cfr. Inuus) da un capro – posto che la buona lezione sia sacer hircus e non caperhirtus? Un indovino etrusco risolse l’enigma: egli immolò un capro, ricavò dalla pelle delle corregge e ordinò alle giovani di offrire il dorso ai suoi colpi, – nove mesi più tardi Lucina non sapeva più dove sbattere la testa.
Capua. Semiuncia, 216-211 a.C. Æ 6, 48 gr. Recto: Busto diademato di Giunone, voltato a destra.
Questo è il valore che risulta dai riti. Sembra però che i Luperci, originariamente, intervenissero in modo non meno brutale in un altro ordine di realtà sociali: in codeste settimane, durante le quali tutto deve ricevere conferma, il potere regale era oggetto di riti. Altrimenti non si comprenderebbe perché Cesare, sviluppando il piano che doveva condurlo al regnum, abbia aggiunto ai due gruppi tradizionali un terzo gruppo, composto di uomini a lui devoti, i Luperci Iulii, primo abbozzo di culto imperiale (Svetonio, Vita di Cesare, 76; Cassio Dione, Storia romana, XLIV 6, 2; XLV 30, 2); né perché l’esperimento che egli organizzò con Antonio al fine di sapere come avrebbe reagito il popolo alla sua incoronazione regale, sia stato compiuto proprio in occasione dei Lupercalia, durante la corsa (Plutarco, Vita di Cesare, 61, 2–3). Cosa significherebbe la strana scena del console-Luperco, interamente nudo, che esce dal gruppo di corridori e balza alla tribuna per incoronare Cesare, se non fosse la ricostruzione di una scena antica, tale da colpire l’immaginazione del popolo ed avere il sopravvento sulla mistica repubblicana? E d’altronde, se non fosse stato così, gli spettatori avrebbero subito compreso l’intenzione politica del gesto? Le nostre informazioni, però, risalgono a un’epoca nella quale non possiamo sperare di trovare un’immagine completa e sistematica di riti che non corrispondevano più all’attualità religiosa e sociale.
Lupercale. Altare votivo in onore di Marte e Venere. Bassorilievo, marmo, metà II sec. d.C. da Ostia. Museo Nazionale Romano di P.zzo Massimo alle Terme.
Il gruppo delle divinità selvagge comprendeva, anticamente, anche un elemento femminile? Fauna è poco più di un nome, il quale prende consistenza solo nelle leggende, in cui essa, moglie, figlia o sorella di Fauno, passò nel romanzo, e nel romanzo ellenizzante. Sotto la denominazione di Bona dea, essa riceve a dicembre il culto di Stato, e tuttavia segreto – rigorosamente limitato alle donne –, vistoso, ma greco: non è altro che una Damia, importata certamente da Taranto, e forse per un controsenso, quando la città fu conquistata nel 272. Quanto a donne Luperche, non sappiamo come intendere la Valeria Luperca di Falerii, di cui il XXXV libro dei Parallela Minora parla «in base ad Aristide, nel XXIX libro della sua Storia d’Italia». La prima parte dell’aneddoto è pura fantasia, ma la fine potrebbe corrispondere a un rito locale. Mentre un’epidemia infieriva nella città, Valeria Luperca, designata dalla sorte per essere sacrificata, poi salvata miracolosamente come talvolta lo sono le fanciulle delle leggende greche, prese un martello altrettanto miracolosamente venuto dal cielo, andò in casa, colpì leggermente con il martello i malati e disse a tutti che erano guariti; l’autore aggiunge che questo «mistero» si celebra ancora al suo tempo. Si tratterebbe dunque di una lustratio, orientata però in modo diverso che a Roma.
Mosaico pavimentale dal sito di El Jem (Tunisia). Il mese di febbraio, particolare. III secolo d.C. Musée archéologique de Sousse.
[1]E. Benveniste, Origines de la formation des noms en indo-européen, I, 1935, p. 29, suddivide diversamente in *nou-er+ca- (cfr. gr. νεαρός, arm. nor, «giovane»). K. Kerényi, Wolf und Ziege am Fest der Lupercalia, Mél. Marouzeau 1948, pp. 309-317, pensava che i Luperci, ambigui, raffigurassero al tempo stesso i lupi (forma originaria, venuta dal nord) e i capri (influenza del sud).
[2] I testi di Livio (Ab Urbe condita, V 46, 2; 52, 3) non provano affatto che i Fabiani fossero una «confraternita del Quirinale» opposta e congiunta a una «confraternita del Palatino», e ciò è reso molto improbabile dal fatto che i riti sono strettamente legati al solo Palatino, ove si trova anche il luogo detto Lupercale. Si trattava di un sacrificio che i Fabii dovevano compiere tradizionalmente sul Quirinale: si vorrebbe anche «provare» che i Quinctiales fossero una «confraternita del Vaticano», basandosi sui prata Quinctia di tale colle, ove uno dei Quinctii più celebri, Cincinnato, fu creato dittatore mentre guidava l’aratro (Livio, Ab Urbe condita, III 26, 8; Plinio, Naturalis Historia, 18, 20).
[3] Raffigura sicuramente questa scena, ma in forma aggravata anziché attenuata, il soggetto del mese di febbraio in un calendario a mosaico trovato in Tunisia (prima metà del III secolo d.C.); vd. H. Stern, Un calendrier illustré de Thysdrus, Acc. Naz. dei Lincei, 1968, 105, p. 181 e tav. III fig. 2 : «Il rito è qui rappresentato con assoluto realismo: i due aiutanti [del Luperco] hanno preso la giovane sotto le ascelle e per le gambe, per sollevarla; la parte inferiore del corpo è denudata e il Luperco leva la frusta per colpire». L’abbigliamento del Luperco è uguale a quello raffigurato su una stele del Vaticano (epoca di Adriano), pubblicata da P. Veyne, REA 62, 1960.
di G. Dumézil, La religione romana arcaica: Miti, leggende, realtà, a cur. di F. Jesi, Milano 2011, 189-223.
In tutte le epoche della storia che ci sono accessibili, il sentimento comune dei Romani considerava la guerra ambito di Māuors – Mars. Alcuni studiosi moderni hanno aperto controversie bizantine: bisogna dire «dio della guerra» o «dio dei guerrieri», o «dio guerriero»? Ma esistono davvero nell’antichità dei puri «dèi della guerra», degli «dèi guerrieri», i quali non siano altro che ciò? I cavilli di vocabolario lasciano intatta l’impressione che scaturisce da una documentazione immensa. Dal giorno in cui, circa un secolo fa, le rigorose indagini di Wilhelm Mannhardt sul folklore europeo aprirono la via ad una assai meno rigorosa mitologia agraria e ad una sorta di aggressivo «panagrarismo» da parte degli stessi discepoli del maestro, discussioni molto più importanti sono state suscitate su Marte: in origine, Marte era forse stata un grande dio onnivalente, tanto agrario quanto guerriero, o addirittura più agrario che guerriero? I latinisti si sono divisi in due partiti: cinquant’anni fa Georg Wissowa sosteneva con energia il Marte guerriero contro Wilhelm Roscher, Hermann Usener, e soprattutto Alfred von Domaszewski; fa piacere oggi vedere Kurt Latte rifiutare dal medesimo punto di vista la più recenti ipotesi di Herbert J. Rose che, per maggior complicazione, hanno inserito anche la caccia fra gli elementi del problema. Queste controversie sono state assai utili. Proprio sull’argomento del «Marte agrario», i moderni metodi di studio della religione romana danno forse la miglior prova della loro forza o della loro debolezza.
Marte. Testa, marmo, inizi III sec. d.C. New York, Metropolitan Museum of Art.
Il calendario e la topografia sacra, la letteratura e le iscrizioni, la leggenda per i primi secoli e la storia per gli ultimi, forniscono copiosissime prove del rapporto essenziale fra Marte e la guerra.
Giovane donna che offre libagioni a un guerriero. Statua, bronzo, IV-III sec. a.C. Marzabotto, Museo Nazionale Etrusco.
Il ciclo delle feste del dio si divide in due gruppi, di cui l’uno apre (mese di marzo, con alcuni prolungamenti) e l’altro chiude (mese di ottobre) la stagione guerresca: in primavera, gli Ecurria (Equirria), celebrati con le corse nel Campo Marzio (27 febbraio e 14 marzo), la lustrazione delle armi ai Quinquatrus (19 marzo) e quella delle trombe al Tubilustrium (23 marzo, 23 maggio); in ottobre, il rito del Cavallo d’Ottobre alle Idi e la lustrazione delle armi il 19, ai quali bisogna certamente aggiungere, per le Calende, il rito del tigillum sororium, spiegato dalla leggenda del giovane Orazio, prototipo del guerriero sottoposto a una purificazione dopo le violenze necessarie o superflue della guerra.
Jacques-Louis David, Il giuramento degli Orazi. Olio su tela, 1784. Paris, Musée du Louvre.
Fino al tempo delle fondazioni di Augusto in favore di Marte Ultore, vendicatore di Cesare e delle insegne prese dai Parti, i santuari di Marte furono sottoposti a una regola, esplicitamente formulata: come una sorta di sentinella, il dio ebbe la sua sede non all’interno della città, in cui doveva regnare la pace ed era precluso l’accesso alle truppe armate, ma fuori della cinta, sul limitare della Wildnis che non era, sebbene sia stato detto il contrario, il suo ambito, bensì la provenienza dei pericoli e innanzitutto del nemico in armi. Sul campus che portava il nome del dio sorgeva un antichissimo altare, ara Martis in campo, completato tardivamente, nel 138, da un tempio per voto di D. Giunio Bruto Callaico. Esisteva inoltre il celebre templum Martis extra portam Capenam, presso al quale si concentravano le armate destinate a intervenire nella regione a sud di Roma (Livio, VII 23, 3) e dal quale partiva la grande parata religiosa della cavalleria, transuectio equitum che meravigliò con il suo splendore Dionigi di Alicarnasso (VI 13, 4). Il tempio della porta Capena è uno dei santuari romani che godettero di maggiore longevità: dedicato al principio del IV secolo a.C. dal duumviro T. Quinzio, in seguito a un voto pronunciato durante il dramma gallico, il santuario durò più di ottocento anni; lo distrusse certamente l’imperatore Onorio quando fece riparare il muro di Aureliano a spese degli edifici vicini, e si pensa che i blocchi di marmo inseriti nella ricostruzione della porta Appia provengano da quell’antico testimone della grandezza romana… Il sacrarium Martis della Regia, in Roma, non contraddice la regola: si tratta, infatti, soltanto di un deposito di oggetti sacri relativi alla guerra, che erano in relazione con alcuni riti; d’altronde era necessario che anche la funzione guerresca fosse presente nella «casa del re», sintesi di tutte le funzioni.
Gli oggetti sacri della Regia, così come i servigi che i Romani si aspettavano da essi, erano esclusivamente guerreschi: degli scudi, e la lancia o le lance di Marte (senza dubbio, nel periodo più antico, la lancia che simboleggiava Marte, la «lancia chiamata Marte»), che il comandante in capo veniva a toccare, dicendo «Mars uigila», prima di assumere le sue funzioni.
Marte di Todi. Statua, bronzo, V sec. a.C. ca. Roma, Museo Gregoriano Etrusco.
Le invocazioni dei pontefici aggiungevano a molte divinità maschili delle entità femminili, astrazioni personificate, che in una mitologia più pittoresca sarebbero state certamente delle spose e che, in qualche caso, riuscirono infine ad essere considerate davvero tali. Nella lista citata da Gellio (Noctes Atticae, XIII 23, 2) si trovano così associate a Marte una Nerioe delle Moles. Le Moles, confermate dall’epigrafia, si riferiscono senza dubbio alle «masse» dinamiche (moles) agitate possentemente (moliri) dalla guerra. A parte l’aggettivo di glossario nerosus, il nome di Nerio è l’unica sopravvivenza in latino del termine *ner- che, a giudicare dall’uso indo-iranico e anche all’uso umbro, si contrapponeva in indoeuropeo a *uīro-, come l’uomo considerato nella sua dimensione morale eroica si contrappone all’uomo – produttore, generatore, generato, schiavo – considerato quale elemento demografico o economico; questo nome arcaico, che in latino classico andrebbe tradotto approssimativamente con uirtus, poiché uir assume gli antichi significati del *ner- scomparso, ricorda il vedico nárya, diverso da vīryà. Esso dunque colloca Marte nell’ambito che, presso gli Indoiranici, fornì il nome stesso del dio omologo, Indra(*ǝnro-), «l’eroico». L’analisi delle condizioni e delle componenti della vittoria in combattimento, manifesta nelle Moles e in Nerio, si ritrova nella mitologia scandinava che attribuisce come figli a Þórr, dio omologo di Indra e di Marte, due derivati maschili da astrazioni, Magni e Móði: megin è propriamente la forza fisica (la cintura magica che conferisce a Þórr e il suo straordinario vigore è detta, al plurale, megin gjarðar) e móðr è il «furore guerresco» (in tedesco Wut più che Mut) che caratterizza in particolare Þórr e i suoi consueti avversari, i giganti (cfr. jötunmóðr, «furore del gigante»).
Marte è il principale dio – l’unico, nel periodo più antico – posto in relazione con l’antica pratica italica del uer sacrum, la quale prolungava, ormai in condizioni d’insediamento stabile, la pratica di occupazione progressiva del suolo che aveva condotto gli Indoeuropei assai lontano dal punto di partenza. In una situazione difficile, un gruppo umano prendeva la decisione sacra di allontanare, di far uscire dal territorio, la generazione che stava nascendo, non appena fosse divenuta adulta. Giunto il momento, Marte prendeva sotto la sua tutela i giovani espulsi, che formavano solo una banda, e li proteggeva finché non avessero fondato una nuova comunità sedentaria espellendo o sottomettendo altri occupanti; accadeva talvolta che gli animali consacrati a Marte guidassero i sacrani e divenissero loro eponimi: un lupo (hirpus) aveva guidato gli Irpini, un picchio (picus) i Piceni, mentre i Mamertini derivavano il loro nome direttamente da quello del dio. Delle due varianti tradizionali sulle origini di Roma, l’una sembra riferirsi a un uer sacrum, l’altra ne parla esplicitamente. Quest’ultima narra che dei sacrani venuti da Reate cacciarono gli indigeni liguri e siculi da quello che più tardi sarebbe divenuto il Septimontium (Festo p. 414 L2); ed è noto che, secondo la versione divenuta canonica, Roma fu fondata dai figli di Marte, allattati da una lupa, volontariamente partiti da Alba.
Il Guerriero di Capestrano. Pietra e marmo, VI secolo a.C. da Aufinum. Chieti, Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo.
Nella guerra, Marte ha rapporti soltanto con il combattimento. Tutto ciò che precede giuridicamente le ostilità fino all’indictio belli non lo riguarda: i feziali si collegano a Giove, non a lui. Egli non è neppure nominato nella constatazione di ingiustizia con cui il feziale incomincia la sua procedura, chiamando a testimoni gli altri due dèi della triade primitiva, Giove e Quirino. Se però la lancia è simbolo di Marte, bisogna notare che il dio, ed egli soltanto, entra in gioco al termine della procedura; quando il feziale senza alcuna invocazione apre le ostilità lanciando sul territorio nemicohastam ferratam aut sanguineam praeustam (Liv. I 32, 12). Raggiunta la vittoria, Marte è uno degli dèi quibus spolia hostium dicare ius fasque est (Liv. XLV 33, 2); ma anche su questo punto il generale vincitore conserva molta libertà: divinità specifiche della distruzione, come Vulcano e Lua, si offrono alla sua scelta. Questi dati non sono contraddetti dal fatto che, durante il combattimento, il generale formuli spesso il voto di un’offerta, di un tempio o di un culto in caso di vittoria, a un dio diverso da Marte – che, anzi, tali voti siano ben di rado rivolti a Marte. Combattimento e vittoria non sono la stessa cosa, sebbene la buona direzione e la buona esecuzione del primo condizionino la seconda. Marte fa combattere, si scatena, saevit, nelle braccia e nelle armi dei combattenti; egli è per Roma Mars pater, certo, ma anche Mars caecus. Si comprende, quindi, che per orientare la sua forza nel momento decisivo della mischia, in ipso discrimine, il generale interessi alla riuscita ancora dubbia della battaglia una divinità meno impegnata nell’ebbrezza dell’azione. Naturalmente però la differenza tra combattimento e vittoria non significa opposizione, e Marte può cessare d’essere cieco per condurre a termine da solo la vendetta dei Romani.
Marte presenta questo aspetto. E bisogna dire che il suo tipo divino ricorda più l’Ares greco cui lo assimilavano i teologi che gli dèi combattenti degli Indoiranici o dei Germani. Già abbiamo notato una differenza: mentre i suoi omologhi Indra e Þórr possiedono la folgore, in Roma il dio folgoratore non è lui, Marte, bensì Giove. Parallelamente, Marte non ha aspetto naturalistico; la sua sede, luogo dei suoi segni, non è l’atmosfera, passata anch’essa a Giove; i suoi animali sono terricoli, tranne il picchio, che per altro vola basso; egli si trova nel suo regno sulla terra, e sulla terra i Romani lo cercano o lo trovano, lui o i suoi simboli; in tempo di pace, il suo ambito è il «campo» di Marte; in tempo di guerra, egli è con l’esercito.
L’esercito romano, tuttavia, nel periodo in cui lo conosciamo, appare pur esso notevolmente diverso da quelle che erano state le bande di guerrieri indoeuropei. Le armi sono mutate e non dura nemmeno più il ricordo del combattimento sul carro, relegato quest’ultimo unicamente nelle corse. La legione è l’erede della sapiente falange, in essa la disciplina conta più del furor cui erano dovute le antiche vittorie. I combattimenti individuali sono un’eccezione. Pur restando più selvaggio degli uomini che animava, Marte dovette seguire l’evoluzione. Nel 282 il dio intervenne in battagli contro i Bruttii e i Lucani (Val. Max. I 8, 6): su quelle terre segnate dall’influenza greca, egli procedette al modo dei Dioscuri, in incognito. Le legioni di Gaio Fabrizio Luscino, dapprima esitanti, furono trascinate all’assalto e alla vittoria da un giovane soldato di eccezionale statura, apparso all’improvviso. Dopo la battaglia cercarono il soldato per conferirgli la corona vallare, ma non lo trovarono. «Si scoprì allora – dice Valerio Massimo – e subito si credette, che in quella circostanza Mars pater avesse aiutato il suo popolo. Fra altri segni certi del suo intervento, venne citato il casco dal duplice pennacchio che ornava il capo del dio». Marte si era trasformato in legionario modello e, finito il combattimento, era scomparso.
Uno ius iurandum per sancire il trattato fra Romani e Sanniti (III sec. a.C.). Illustrazione di R. Hook.
Roma perse fin il ricordo delle schiere di guerrieri che si consideravano più che umani e, grazie a un’iniziazione magico-militare, depositari di poteri soprannaturali: schiere di cui sopravvisse l’immagine, molto più tardi, nei Bersekirscandinavi e nei Fiannairlandesi. Altri Italici, affrontando i Romani, riponevano le loro speranze in alcuni «sacrati milites». Più volte Livio ne fa menzione a proposito delle guerre sannitiche; in IX 40, 9, egli mostra i Sanniti in atto di rivestire di bianco e di armare con scudi d’argento una parte delle truppe, sacratos more Samnitium milites; poi, in X 38, per la battaglia decisiva, la legio linteata di quel popolo energico si costituisce sotto i nostri occhi, lungamente, secondo una procedura e un rituale arcaici, resuscitati per l’occasione da un vecchissimo sacerdote che affermava se id sacrum petere ex uetusta Samnitium religione: sacrifici cruenti in un recinto segreto, giuramenti terribili imposti ai nobili ed ai guerrieri illustri, cooptazione, armi splendide, abito bianco; è veramente, secondo l’espressione dello storico, una sacrata nobilitas che trascina l’esercito al combattimento.
Guerriero sannita. Illustrazione di P. Connolly.
A Roma gli ultimi rappresentanti di queste truppe eroiche e magiche forse esistono, ma non combattono: potrebbero essere i gruppi di sacerdoti Salii[…]. Le loro danze in armi fanno ricordare che, nell’India più antica, Indra e i suoi compagni, la schiera dei giovani guerrieri Marut tutti ornati di placche d’oro, sono dei «danzatori», nṛtú.
Il rinnovamento della situazione militare è accompagnato da un rinnovamento del lessico corrispondente; tanto più sorprende, quindi, che un numero considerevole di termini della «prima funzione» siano stati invece conservati. Il latino non ha nulla che corrisponda al nome tecnico indoiranico della funzione guerriera e del potere fondato sulla forza, vedico kṣatrá, avest. χšaϑra, scit. Ξατρα-, Ξαρτα- (mentre i nomi delle altre due funzioni, bráhman e vīś, si ritrovano rispettivamente in flāmen e uīcus); sono scomparsi i nomi dell’«eroe forte», vedico śūra, avest. Sūra (conservato nel celtico, irl. caur «eroe», gall. Cawr «gigante»), del «giovane incontrollato», vedico márya, avest. Mairya (il rapporto con marītus è incerto, e non conserverebbe nulla di guerresco); i nomi indoiranici dell’esercito, della vittoria, del combattimento (iubere non si collega direttamente a yudh «combattimento», yúdhyati «il combattimento», che sussiste in celtico: iud- in nomi propri britannici) non si ritrovano in latino […]; un verbo essenziale della funzione guerriera, «uccidere» (vedico han- ecc.) sopravvive in latino solo addomesticato in offendo, defendo, infensus; la qualità fondamentale del guerriero vedico, iṣirá, iṣmín, furiosus, sopravvive solo svalutata nel nome della collera, īra (*eisā-); l’ójas vedico, l’aojah avestico, «forza fisica», termine caratteristico della seconda funzione, è stato promosso nella prima, applicato a un diverso ordine di forze e purificato nelle forme augur, augurium. In compenso, tutte le nozioni al livello della seconda funzione hanno ricevuto a Roma nomi nuovi, indigeni (miles, exercitus, legio, for(c)tis, impetus, certamen, praelium, pugna, hostis, infestus, caedere, occidere, ecc.) oppure importati (triumphus, forse classis, dimicare).
Guerriero in atto di danzare seguito da un Úlfheðinn. Lamina, bronzo, VI-VII sec. da Torslunda, Öland. Stockholm, Statens Historiska Museum.
Questa costante divergenza, non compensata dalla figura di Nerio, rende fin da principio poco probabile un’etimologia del nome stesso di Marte, che più volte fu proposta. Tranne il Marmar (Marmor), strano e forse sabino, del carmen degli Arvali, e l’osco Mamers che può essere la riduzione di una forma analoga (*Mar-mar-s, *Mā-mert-s), tutte le varianti italiche si ricollegano a Māuort-, al quale è stato ben presto avvicinato, sulla base di un’alternanza nota (anche in latino, quatuor e quadru-), il nome dei compagni guerrieri di Indra, del mitico «Männerbund» degli inni vedici (documento anche del pantheon cassita), Marút-; alcuni (Grassmann, 1867) pensarono perfino di ritrovare in una delle enigmatiche entità «marziali» del rituale umbro di Iguvium, Čerfus Martius, l’espressione tecnica vedica śárdhoMárutam, la «schiera guerriera dei Marut». La quantità delle vocali è però diversa, a è lunga in latino, breve in vedico (Máruta-, che abbiamo appena citato, è un aggettivo derivato da Marút per regolare allungamento della sillaba iniziale), e Marút sembra essere stato ricavato dal radicale di márya (cfr. greco μεῖραξ, μειράκιον), con l’aggiunta del suffisso –ut; tale suffisso è altrimenti documentato in vedico, ma non può essere riferito all’epoca indoeuropea. […]
I più recenti sostenitori del Marte agrario sembrano aver abbandonato le posizioni estremistiche di chi tendeva a fare del dio uno «Jahresgott» (Usener) o una divinità «des Sonnelebens der Natur» (Domeszewski). Essi non traggono più un argomento di conferma della posizione del mese di marzo nell’anno e neppure dalla distribuzione delle principali feste del dio in marzo e in ottobre, in primavera e in autunno: dati, questi, che possono benissimo essere giustificati, alla luce del carattere guerresco di Marte, dalle necessità consuete dell’attività bellica degli antichi Italici. Domaszewski s’era avventurato molto innanzi per questa strada. Dopo aver menzionato i Lupercaliadi febbraio, egli scriveva: «Questa singolare corsa dei lupacchiotti ha luogo il giorno in cui nasce la vita estiva della natura che, grazie a una crescita meravigliosamente rapida, il giorno della nascita di Marte, 1° marzo, si manifesta nel dio […] Due settimane: ecco quanto dura la crescita non meno meravigliosa del dio, che il 17 marzo, giorno dei Liberaliae dell’agonium martiale, è già un uomo…». I Salii, secondo l’immaginoso autore, proteggono Marte neonato così come i Cureti del mito cretese danzavano e battevano rumorosamente le armi per proteggere Zeus bambino dalle potenze ostili; i Salii danzano «per tenere lungi dal bambino i demoni ostili dell’inverno». Quanto alle feste di ottobre: in esse ogni rito «si riferisce alla resurrezione di Marte che avrà luogo l’anno seguente…». Non un solo testo autorizza queste entusiastiche ipotesi.
Un altro elemento ormai quasi completamente abbandonato dai difensori del Marte agrario è il rituale popolare di Mamurio Veturio; il 14 o 15 marzo la folla portava in processione un uomo coperto di pelli e lo colpiva con lunghe bacchette bianche, chiamandolo Mamurio (Lyd. Mens., IV 49). Quest’uomo era – dicevamo – il fabbro che aveva riprodotto in undici esemplari indistinguibili l’ancile caduto dal cielo al tempo di Numa; i Romano avevano poi identificato in quell’operazione, sorta di oltraggio all’unicità del segno ricevuto, la causa di alcune sciagure e, fattone responsabile l’artista, lo avevano espulso dalla città, colpendolo con le bacchette; di uno che riceveva una bastonatura si diceva volgarmente che «faceva il Mamurio». Come già vide H. Usener, si trattava chiaramente della forma romana di un rituale primaverile illustrato con molti esempi da Mannhardt: l’espulsione del vecchio anno, in questo caso del «vecchio marzo» o del «vecchio di marzo»: la data, alla metà del mese, sembra armonizzare con quest’immagine, poiché probabilmente la prima quindicina era la vecchia, unita ancora all’anno precedente, e la seconda era la giovane, in apertura del nuovo anno. L’interpretazione però non può andar oltre: comunque si voglia intendere la leggenda di Mamurio, il suo nome in quel rito si riferisce al mese a non al dio, né esiste un’automatica solidarietà fra un mese ed il suo eponimo; il primo mese dell’anno, una volta preso nome da Marte per particolari ragioni, visse poi la sua vita folklorica autonoma: i riti del cambiamento dell’anno presero nome dall’appellativo del mese, personificato in una forma osca, Mamurio. Il medesimo processo si ripeté più tardi per febbraio, divenuto il «consul Februarius», malvagio rivale di Camillo; impostore, egli era stato espulso dalla città a colpi di verghe; i Romani, inoltre, avevano amputato di due giorni il mese che portava il suo nome; così era risolto il problema postosi da numerose tradizioni folkloriche: «Perché febbraio ha solo ventotto giorni?». È chiaro che l’espulsione del «console febbraio» non insegna nulla sui februa, le purificazioni che stanno in realtà all’origine del nome del mese; analogamente, l’espulsione del «vecchio marzo» non contribuisce in maggior misura a far luce sul dio che dà nome al mese.
Probabile rappresentazione dei Mamuralia, la festività che si teneva tra il 14 e il 15 marzo. Mosaico, III sec. d.C. da El Djem (Tunisia). Sousse, Musée Archeologique.
Eliminati questi grossi abbagli, la documentazione del Marte agrario così come l’ha presentata il suo più recente sostenitore, H.J. Rose, contiene quattro elementi di prova: il rito del Cavallo d’Ottobre, due cerimonie rurali descritte da Catone, e le parole del carmen degli Arvali. Il primo è particolarmente importante; il lettore non dovrà stupire dell’ampiezza che la descrizione sta per assumere.
I testi che parlano del Cavallo d’Ottobre non sono numerosi. Eccoli:
1) Polibio, XII 4: «…E, sempre nel libro sulle guerre contro Pirro, egli [=Timeo] dice che i Romani ancora oggi commemorano la rovina di Troia: un certo giorno viene abbattuto a colpi di giavellotto un cavallo da guerra dinanzi alla città, su quello che si chiama il Campus (Campo di Marte)». Più oltre, Polibio giustamente rifiuta la spiegazione riferita al cavallo di Troia e ricorda che il cavallo è l’animale sacrificato da quasi tutti i popoli prima dell’inizio di una guerra o nell’imminenza di un’impresa collettiva: dal modo in cui il cavallo cade si traggono presagi.
2) Plutarco, Quaest. Rom. 97: «Perché, alle Idi di dicembre (errore per: ottobre), dopo una corsa di cavalli, il cavallo di destra del carro vincente viene consacrato e sacrificato a Marte, e perché qualcuno taglia all’animale la coda, la porta nella cosiddetta Regia e con essa insanguina l’altare, mentre altri uomini, scendendo gli uni dalla cosiddetta via Sacra e gli altri dalla Suburra, lottano fra loro per la testa del cavallo?». Plutarco accenna a tre spiegazioni: commemorazione del cavallo di Troia; affinità tra Marte e il cavallo («Ciò accade forse perché il cavallo è un animale impetuoso, bellicoso, quindi marziale, e agli dèi si sacrificano appunto le cose che essi amano, che hanno un rapporto con loro?»); punizione simbolica di coloro che si servono della propria agilità per fuggire. Infine, la vittima è un cavallo «vincente», «forse perché Marte è il dio peculiare della vittoria o della forza?».
3) Paolo, p.197 L2: «Veniva immolato un cavallo a Marte…». Due spiegazioni: o per commemorare il cavallo di Troia, o perché, secondo l’opinione comune, quel tipo di animale era particolarmente gradito a Marte.
4) Festo, con un riassunto di Paolo, pp.295-296 L2: «Si chiama October Equus il cavallo immolato ogni anno durante il mese di ottobre sul campo di Marte. Il cavallo è quello di destra della biga vincente. Per la testa del cavallo aveva luogo una vera battaglia fra la gente della Suburra e quella della via Sacra; gli uni avrebbero voluto affliggerla al muro della Regia, gli altri alla torre Mamilia. La coda dell’animale viene portata alla Regia con la massima celerità, in modo che ne possano ancora cadere delle gocce di sangue sul focolare, per farlo partecipe del sacrificio. Si dice che il cavallo fosse immolato a Marte quale dio della guerra, e non, come molti credono, perché i Romani, originari di Ilio, vogliano vendicare sull’animale la conquista di Troia, compiuta dai nemici grazie a un cavallo di legno».
5) Paolo, p.326 L2: «La testa del cavallo immolato alle Idi di ottobre sul Campo di Marte veniva ornata di panni, poiché il sacrificio era compiuto ob frugum euentum; si sacrificava proprio un cavallo anziché un bue, poiché il cavallo è atto alla guerra, mentre il bue è atto ai lavori agricoli».
Cavallo. Mosaico, III-IV sec. d.C. Piazza Armerina, Villa del Casale.
Ecco ora il testo, estratto da una lezione Elitrem tenuta a Oslo nel 1955 e pubblicata nel 1958, in cui H.J. Rose ha condensato molto chiaramente gli argomenti dell’interpretazione agraria:
Il gruppo stesso di feste che più armonizza con le qualità guerriere di Marte, ne contiene una che difficilmente può essere spiegata solo come parte del culto di un dio della guerra. Intendo parlare dell’Equos October. È un rito che non trova paralleli né a Roma né altrove. Il 15 ottobre aveva luogo una corsa di carri, indubbiamente nel Campus Martius. Quando la corsa era terminata, il cavallo vincente che si trovava aggiogato verso l’esterno veniva sacrificato a Marte. All’animale tagliavano la testa e la coda. Gli abitanti della via Sacra e della Suburra lottavano per il possesso della testa, che i vincitori affliggevano a un edificio importante del proprio quartiere. La coda veniva portata da un corridore alla Regia, e là se ne faceva gocciolare il sangue sul focolare. Poiché Ovidio afferma che il sangue del cavallo era uno degli ingredienti utilizzati per una purificazione durante i Parilia e che veniva fornito dalle Vestali, si ammette generalmente che il sangue usato per la purificazione fosse appunto quello del Cavallo d’Ottobre, forse consegnato dal Rex delle Vestali. In ogni caso, se così non fosse sarebbe difficile capire perché Properzio dichiari che le purificazioni curto nouantur equo, siccome un animale è detto curtus quando gli è stata tagliata la coda. La testa era coronata di pani e sappiamo, in base alla testimonianza di Verrio Flacco, che si faceva così ob frugum euentum. Tale testimonianza non può essere posta da canto, come alcuni fecero, poiché contraddice questa o quella teoria su Marte. Se vogliamo comprendere il dio, e in generale ogni elemento di una materia complessa come la religione, dobbiamo tenere conto di tutti i dati e non solo di una scelta; abbiamo il diritto di non omettere nulla, se non le spiegazioni avanzate da questo o da quell’autore, antico o moderno.
Che in ottobre si facesse qualcosa per garantire un raccolto abbondante l’anno successivo, è perfettamente comprensibile, dal momento che il grano, il cereale principale, in Italia viene seminato fra ottobre e gennaio, a seconda delle località. E il cavallo era evidentemente una creatura dotata di numen o di mana, a seconda che si preferisca dirla in latino o in polinesiano, giacché una minuscola particella del suo sangue secco – la quantità attribuibile a ciascun proprietario individuale di bestiame – bastava a purificare le stalle, se usata opportunamente, insieme con due o tre altre sostanze. Di conseguenza, mettere la parte più importante del cavallo a contatto di pani fatti probabilmente con il grano dell’anno, significava accrescere considerevolmente la virtù di tutto il raccolto presente e futuro.
T. Veturio. Denario, Roma 137 a.C. AR 3,93 gr. Recto: Ti(tus) V(eturius). Testa di Marte elmata, barbata, voltata a destra.
Esaminiamo ora nei particolari tutta la singolare cerimonia. Innanzitutto, il cavallo viene scelto dopo che ha dato prova di essere pieno di vigore; non soltanto il suo carro ha vinto la corsa, ma esso stesso ha retto alla fatica maggiore: le antiche corse venivano compiute in direzione opposta a quella delle lancette dell’orologio, quindi, nelle curve, il cavallo aggiogato verso l’esterno, e non quello aggiogato verso l’interno doveva sopportare il massimo sforzo.
In ogni caso, le corse sono un elemento comune ai rituali di tutto il mondo, così come i duelli e (almeno a mio parere) per la stessa ragione: perché implicano, cioè, il massimo d’azione.
Secondariamente, l’animale è sacrificato, o per lo meno ucciso, poiché non si tratta di un sacrificio consueto, non vi sono né la mola salsa né la consueta sparizione delle carni della vittima. Per una ragione o per l’altra, forse soltanto perché sono le due estremità e quindi rappresentano l’intero, grazie a un’equivalenza usuale nella magia, la testa e la coda sono i due pezzi più importanti. Non sappiamo che cosa avvenisse del resto della carcassa, e neppure chi fosse il sacerdote sacrificante, sebbene paia naturale pensare che fosse il flamen Martialis, operante al servizio del suo dio. Le due parti importanti – la testa e la coda – determinano un ulteriore accrescimento di forza: la prima suscitava un combattimento, la seconda una corsa; difficilmente la concentrazione di mana sarebbe potuta essere maggiore. Come abbiamo visto, conosciamo almeno due usi della testa e della coda del cavallo: l’uno destinato a favorire la crescita delle messi dell’anno successivo, l’altro a purificare le stalle in primavera. Incidentalmente, possiamo notare che il rito evita il luogo del più antico insediamento romano: il sacrificio aveva luogo nel Campus Martius, e i due gruppi rivali provenivano l’uno dalla via Sacra, cioè da quella che era una valle paludosa al tempo della prima occupazione del Palatino, l’altro da una zona ancor più lontana, dalla Suburra, fra l’Esquilino e il Viminale. La coda non andava più lungi del Foro, e le persone che dovevano farne uso appartenevano a quel quartiere: probabilmente il Rex, certamente le Vestali.
In questa situazione, dunque, non c’è nulla che ci orienti verso il culto di un dio della guerra, o comunque di una divinità particolarmente bellicosa. Al contrario, un certo numero di fatti indicano un rapporto con gli animali: un cavallo viene ucciso, un’utilizzazione del suo sangue è a vantaggio del bestiame. Tra parentesi, nessuno ha spiegato perché il sangue debba gocciolare sul focolare della Regia. Possiamo supporre che la magia del cavallo, o il mana del cavallo, avesse importanza per il re, regnante o nominale; ma non sappiamo quale uso egli dovesse farne. H.J. Rose ha perfettamente ragione di dire che, in quest’ambito come in ogni altro, bisogna tener conto di tutti gli elementi e non fare «a mere selection» in base a preferenze soggettive. Ma allora perché passare sotto silenzio un elemento precisato dal documento più antico (Timeo, in Polibio), cioè che il cavallo sacrificato è un cavallo da guerra, ἵππον πολεμιστήν, e che il modo del sacrificio, del quale Rose si limita a dire, negativamente, che non è consueto, consiste nell’uccidere l’animale con un colpo (o a colpi) di giavellotto, κατακοντίζειν?
I due elementi agrari che Rose pone in evidenza suscitano le seguenti considerazioni. Ob frugum euentum è inteso, senza discussione, come «in vista del buon raccolto futuro», mentre, grammaticamente, può significare altrettanto bene: «in pagamento, in riconoscenza, per la buona riuscita della mietitura passata»; varie ragioni suggeriscono questo secondo significato: il rito fa parte di un complesso che conclude la stagione trascorsa, che è rivolto al passato anziché all’avvenire; sulla testa del cavallo sacrificato non sono posti dei sacchi di semi o delle spighe, ma il termine conclusivo non dell’evoluzione naturale, biologica, del grano, ma dell’utilizzazione del grano da parte dell’uomo, e quindi è più soddisfacente l’ipotesi che l’offerta di pani confezionati con l’ultimo grano raccolto si riferisca al risultato acquisito di un servizio passato, non alla speranza di un servizio futuro; questo era sicuramente l’orientamento che Verrio Flacco attribuiva al rito, a giudicare dal commento riassunto da Paolo; inoltre tale commento, che non abbiamo alcuna ragione di rifiutare e che si collega alle indicazioni di Polibio e della sola parte ragionevole della questione romana, fornisce una spiegazione molto soddisfacente, conforme alla duplice qualità che si richiedeva al cavallo: cavallo da guerra, cavallo vincitore. Quale spiegazione?
Cavaliere (dettaglio). Rilievo, marmo, II sec. d.C. ca. dal pannello del Sarcofago di Sidamara, da Ambararasi (Konya). Istanbul, Museo Archeologico.
La guerra romana non fu uno sport disinteressato. Nei tempi più antichi, prima che gli obiettivi fossero la sovranità sul Lazio, poi sull’Italia, infine sul mondo, la guerra garantiva annualmente la protezione dell’ager Romanus contro razzie nemiche, dunque l’alimentazione di Roma; grazie alla campagna militare che trova conclusione religiosa nelle feste marziali di ottobre, le messi sono potute giungere a compimento, euenire, e i Romani hanno incominciato a impastare il pane con quel grano. Di conseguenza, durante il sacrificio delle Idi, ob frugum euentum, offerto in ringraziamento al dio patrono dell’attacco o delle difesa o anche soltanto della vigile presenza dell’esercito, la testa del cavallo vincente è incoronata di pani, cioè del prodotto trasformato e già in uso delle messi regolarmente immagazzinate. L’ultimo autore che riassume Verrio Flacco precisa con esattezza questo tipo di beneficio dal risultato economico, ma dal precedente guerresco. In poche parole egli dice: se si fosse trattato di un sacrificio offerto a una divinità della fecondità in ringraziamento della germinazione e della crescita fisiologica (pariendis) delle messi, sarebbe stato immolato un bovino, simbolo del lavoro agricolo; poiché invece si tratta di mostrare riconoscenza per un’attività guerresca (bello) che tenne lontani dai campi i nemici o i ladri, senza contare gli Spiriti ostili, morbos uisos inuisosque, come dice un altro rituale, viene sacrificato un cavallo, simbolo della guerra, il cavallo πολεμιστής di Polibio. Questa è la semplice spiegazione che i Romani davano al rito. I discepoli di Mannhardt non hanno il diritto di sostituire a questo cavallo ben caratterizzato il cavallo fantomatico in cui i contadini moderni riconoscono talvolta «lo spirito del grano». E i primitivisti non hanno il diritto di sfocare la condizione prestabilita per la scelta del cavallo – essere vincente – nella confusa nozione di sforzo, sforzo massimo, ben presto tradotta in termini di mana o anzi, ahimè, di numen.
Il secondo argomento, che H.J. Rose formula come se fosse ovvio e adopera come cosa dimostrata, ha una storia e una storia singolare. Nessuno dei testi precedentemente citati sull’Equus October dice o suggerisce che il sangue della coda di tale cavallo sia conservato per venire utilizzato sei mesi dopo, il 21 aprile, nella composizione del suffimen purificatore dei Parilia; inoltre, nessuno dei testi che trattano dei Parilia e del suffimen dice alcunché di quell’origine; nessuno degli antichi antiquari fornisce informazioni in questo senso. Sono i commentatori moderni di Properzio che hanno stabilito un rapporto tra le due feste, dapprima non senza resistenze, poi con sicurezza crescente. Due testi offrono alcuni dati sulla «fumigazione» lustrale della festa di Pales, cioè sulla mietitura che, gettata sopra la paglia ardente, purifica il bestiame e gli allevatori. Innanzitutto un passo dei Fasti di Ovidio (4, 731-734):
Va’, o popolo, va’ a cercare la fumigazione sull’altare di Vesta: Vesta te la concederà, per dono di Vesta ti purificherai. La fumigazione sarà composta di sangue di cavallo (sanguis equi), di cenere di vitello (uitulique fauilla) e, quale terzo elemento, degli steli secchi della dura fava (durae culmen inane fabae).
In secondo luogo, un passo della I Elegia Romana (IV 1, 19-20), in cui Properzio, contrapponendo nelle feste la semplicità antica al lusso della Roma di Augusto, scrive un distico grammaticalmente ardito, il cui significato sembra:
…e per celebrare ogni anno i Parilia, allora ci si accontentava di bruciare del fieno, mentre oggi si compie la purificazione con un cavallo mutilato.
Da questi due brevi testi si è concluso che il «cavallo mutilato» fosse il «cavallo d’ottobre», del quale non è detta parola, e che il «sangue di cavallo» utilizzato il 21 aprile fosse il sangue della coda tagliata il 15 ottobre. Perché si giungesse a queste conclusioni sono state necessarie generose supposizioni; l’unico e ultimo uso della coda che noi conosciamo è infatti il seguente: un uomo la porta dal Campo di Marte fino alla Regia, correndo abbastanza in fretta perché il sangue non coaguli del tutto e possa bagnare il focolare della Regia. Ma l’aedes Vestae non è forse vicinissima alla domus Regia e alcune teorie non riconoscono nell’aedes l’antico focolare della domus? Dunque, si è stabilito uno schema di operazioni che è divenuto una sorta di vulgata e che compare ovunque, anche nei manuali di Wissowa e di Latte. I commentatori di Properzio precisano quello schema con la massima audacia. Scrive F.A. Paley: «Il cavallo [il curtus equus dei Parilia] era ucciso per questo scopo [il rito dei Parilia] sei mesi prima, e la coda veniva tagliata in modo che il sangue potesse gocciolare sull’altare di Vesta (sic), dal quale era poi preso in forma coagulata (sic) per servire come fumigazione, insieme ad altri ingredienti elencati da Ovidio Fasti, IV 733»; e M. Rothstein: «Dalla Regia che apparteneva alla zona sacra di Vesta, o forse dall’aedes Vestae stesso, in cui il suffimen può essere stato portato dalla Regia…». Altrettanto fanno i commentatori di Ovidio. J.G. Frazer: «Il Rex raccoglieva questo sangue [= il sangue dell’Equus October] in un recipiente e lo conservava, oppure lo consegnava alle Vestali, la cui abitazione era contigua alla sua…». F. Bömer: «La coda dell’Equos October sacrificato il 15 ottobre presso l’ara Martis in Campo era portata in tutta fretta fino alla Regia; là il sangue veniva fatto gocciolare sul focolare, la coda era bruciata e le ceneri conservate nel penus Vestae fino ai Parilia (Festo 131; 171; 180 s.; 221 M.; 117; 190 s.; 246 L.; Plutarco, Quaestiones Romanae, 97 p. 287 A.; vgl. Polibio, Storie, XII 4b, 11 s.; Properzio, IV 1, 20)». Questa abbondanza di referenze non impedisce che i fatti siano i fatti: cercheremmo vanamente in Festo, in Plutarco, in Polibio, una menzione della coda bruciata, delle ceneri trasportate nel penus Vestae e conservate per sei mesi.
Joseph-Benoît Suvée, Festa di Pales (o L’estate). Olio su tela, 1783. Musée des beaux-arts de Rouen.
Nonostante la grande fortuna di cui gode, questa costruzione è estremamente fragile. Essa poggia sul semplicistico postulato che, poiché in un punto si parla del sangue gocciolante della coda tagliata di un cavallo e in un altro punto del sangue di un curtus equus, debba necessariamente trattarsi del medesimo sangue e del medesimo cavallo. Questo postulato non soltanto non s’impone, ma incontra gravi difficoltà; eccone le principali:
a) Se il sangue della coda del Cavallo d’Ottobre fosse stato destinato a quell’uso, in ciò sarebbe costituito l’essenziale del rito, e quindi sarebbe sorprendente che gli autori – in particolare Festo, pp. 295-296 L2, la cui descrizione è minuziosa e ben costruita – non vi abbiano fatto riferimento; se si leggono i testi senza preconcetto, si ha l’impressione che la distillatio sul focolare della Regia fosse davvero il termine, l’obiettivo unico e sufficiente del rapido trasporto della coda, e che tutto fosse finito, negli atti e nelle intenzioni, quando al coda aveva raggiunto (nel migliore dei casi) la testa nella casa del re.
b) Ricollocati nel contesto, i due versi di Properzio lasciano intendere che, nel pensiero del poeta, l’utilizzazione del sangue di cavallo per i Parilia è un’innovazione relativamente recente: quasi tutti i distici precedenti e seguenti contrappongono, infatti, una situazione antica, primitiva, semplice e rozza, a una situazione moderna sontuosa. Ora, è difficile pensare che Properzio, rivelatosi in questa elegia poeta erudito, archeologo, abbia potuto considerare l’Equus October come un rito recente, posteriore al periodo monarchico, in contrasto con l’importanza che ha in esso la «casa del re». E neppure può aver voluto dire che l’innovazione sontuosa consisteva nel collegare fra loro due riti egualmente antichi: un po’ di sangue coagulato del sacrificio di ottobre, praticato da tempo immemorabile, sarebbe stato tardivamente (nunc…) associato alla purificazione di aprile; non si riesce a capire come questa innovazione minore avrebbe contribuito all’aspetto lussuoso, costoso, dei Parilia. Sembra quindi che Properzio abbia pensato ad un altro cavallo, mutilato appositamente per i Parilia.
c) H.J. Rose, per sostenere l’identità del curtus equus del 21 aprile e dell’Equus October, scrive: «If it was not so, it is hard to see why Propertius declares that the purifications curto nouantur equo, for a beast is curtus if its tail is docked». Questo significato esiste, ma non è il solo, neppure nel linguaggio tecnico dei chirurghi, e quindi a maggior ragione in poesia: Celso usa curtus per designare mutilazioni dell’orecchio, del naso, delle labbra, e la sua espressione lascia intendere un tale uso non limitativo: curta igitur in his tribus, si qua parua sunt, curare possunt (7, 9). Le parole di Properzio permettono quindi di comprendere che il sanguis equi di cui parla Ovidio è prelevato dall’animale mediante una mutilazione non mortale di un organo sporgente, come le orecchie, i testicoli, o la coda. Certo, esistono le licenze poetiche: ma il significato ovvio di curtus equus è «cavallo vivo, di cui è stato tagliato qualche organo», anziché «sangue proveniente da un organo tagliato di un cavallo morto» – cioè la sola cosa che verrebbe usata durante i Parilia, secondo l’ipotesi del Rose.
d) Cosa sarebbe rimasto, dopo sei mesi, delle rare gocce di sangue (successive a quelle assorbite dal focolare della Regia) raccolte in extremis in un vaso e trasportate al penus Vestae? Né per l’integrità della materia, né per il volume, questo terzo ingrediente, sanguis equi, sarebbe stato comparabile ai due altri, gli steli di fave apparentemente freschi, la cenere incorruttibile dei trenta embrioni di vitello bruciati sei giorni prima, durante i Fordicidia del 15 aprile. Franz Bömer risolve la difficoltà sostituendo al sangue le «ceneri della coda», conservabili indefinitamente, ma le espressioni di Properzio e di Ovidio – quest’ultimo contrappone sanguis equi e uituli fauilla – non consentono tale artificio: ai Parilia era necessario del sangue vero e proprio.
e) Infine, bisogna anche prevedere il caso in cui il sangue della coda del cavallo non fosse sgocciolato sul focolare della Regia: sia perché si fosse coagulato troppo in fretta, sia perché il corridore non avesse raggiunto la uelocitas necessaria, si fosse ferito cadendo ecc., e di conseguenza la sua missione fosse fallita, come può fallire, nella contentio per la testa, lo sforzo dei Sacravienses della «squadra della Regia».
Per tutte queste ragioni, e nonostante le molte autorità in causa «die philologische Kritik des Materials» non permette di collegare il rito dei Parilia, come prolungamento primaverile, al Cavallo d’Ottobre. E così svanisce, dopo l’argomento dell’intenzione ob frugum euentum, anche quello del suffimen dei Parilia – i due punti d’appoggio dell’interpretazione di H.J. Rose. Il rito delle Idi d’Ottobre è autosufficiente: i mezzi per interpretarlo vanno cercati nei suoi elementi che ci sono noti, non in un equivoco e un’invenzione dei moderni.
Gli elementi noti, pur essendo naturalmente solo una parte di questo complesso rituale, permettono una constatazione: l’Equus October presenta una stretta omologia con il sacrificio vedico del cavallo, l’aśvamedha.
Scena dell’Aśvamedha (‘un cavallo come oblazione’), dal Mahabharata (XIX sec.).
Si trattava di un sacrificio di kṣatriya, della classe dei guerrieri: i testi rituali insistono in molte occasioni su tale affinità. Sebbene, nella forma descritta dai Brāhamaṇa, il sacrificio sia offerto a Prajāpati, quei medesimi libri sanno ancora che i grandi aśvamedha dei tempi più antichi erano offerti, da principi di cui vengono menzionati i nomi, al dio kṣatriya per eccellenza, Indra. Inoltre, il sacrificante e beneficiario non è uno kṣatriya qualsiasi: è un kṣatriya che ha ricevuto la consacrazione regale, un re (rājan), un uomo dotato di potere regale (rāṣtrin), e per di più un re vincitore che aspira ad una sorta di promozione fra i re.
La vittima prescelta è un cavallo di destra del carro vincente. Il re è beneficiario del sacrificio, ma il beneficio è condizionato da un rischio: una volta scelto, il cavallo dev’essere lasciato vagare liberamente, per un anno, seguito solo da una scorta di soldati del re che hanno il compito di difenderlo dagli eventuali attacchi dei popoli o dei sovrani dei territori che attraversa: se questi ultimi avversari hanno il sopravvento, s’impadroniscono del cavallo e il re non può più sperare nella maggiore dignità che attendeva.
Al suo ritorno, il cavallo viene sacrificato secondo un rituale estremamente minuzioso che implica un ricchissimo simbolismo: il cavallo è infatti identificato a tutto ciò che possono augurarsi il re e, attraverso il re, i sudditi. Poco prima dell’immolazione, il corpo vivo del cavallo è diviso in tre settori, anteriore, mediano, posteriore; su di essi, tre mogli del re (la regina, la favorita, e una donna detta «respinta») compiono rispettivamente delle unzioni poste sotto la tutela degli dèi Vasu, Rudra e Aditya e destinate a procurare al re l’energia spirituale (tejas; settore anteriore), la forza fisica (indriya; settore mediano), il bestiame (paśu; settore posteriore); questi tre benefici, ripartiti secondo le tre funzioni, si riassumono in un quarto termine, la prosperità o la buona sorte (śrī). Successivamente, le medesime regine attaccano delle perle d’oro, badando bene che non cadano, ai peli della testa e della criniera o ai due lati della criniera (per la zona anteriore) e ai peli della coda (per la zona posteriore), pronunciando i nomi mistici della Terra, dell’Atmosfera e del Cielo. Questa topografia onnivalente del corpo del cavallo è ulteriormente palesata, con maggior minuzia, nel rito che segue: delle vittime secondarie (paryaṅgya), dedicate ciascuna ad un dio, sono materialmente legate alle diverse parti del corpo; gli elenchi delle parti del corpo interessante differiscono un poco, a seconda delle varianti del rituale, ma la fronte e la coda paiono privilegiate; in tutte le varianti studiate da Paul Emile Dumont la vittima o una delle vittime attaccate alla fronte è destinata ad Agni, il dio del fuoco, e la vittima attaccata alla coda è generalmente destinata a Sūrya, il dio Sole; inoltre, però, una delle vittime a una delle estremità è sempre dedicata a Indra.
Queste regole evidentemente fanno luce sui frammenti noti del sacrificio delle Idi di Ottobre, che appare come un vero e proprio aśvamedha romano. Divengono comprensibili così i due aspetti del rito: il sacrificio è offerto a Marte, sul Campo di Marte, e ne è beneficiario il rex, poiché, nel caso più favorevole, le due parti più importanti del corpo del cavallo si trovano riunite nella Regia.
Il re tuttavia corre un rischio, dinanzi al quale è personalmente passivo giacché affida ai suoi soldati il compito di assicurargli il possesso, quindi anche la virtù, della vittima. Questo rischio è diverso dal rischio indiano nella forma e nel momento, ma possiede il medesimo significato: la lotta – non leuis contentio, dice Festo – tra un «gruppo regio» (la gente della via Sacra, il cui edificio centrale è la Regia) e un gruppo esterno (la gente della Suburra, il cui edificio centrale è la Turris Mamilia, per altro sconosciuta) non ha luogo prima del sacrificio, o per il possesso dell’animale ancora vivo, ma dopo il sacrificio, per il possesso della testa tagliata. Il rischio esiste anche – seppure in termini diversi – per quanto riguarda la coda: colui che la porta può non correre abbastanza in fretta da far sgocciolare il sangue sul focolare della Regia: la frustrazione della Regia, in tal caso, è totale, come quella del re indiano se il cavallo viene catturato.
Stessa differenza di forma e di momento, ma stessa identità di significato, per ciò che riguarda la divisione del corpo del cavallo: la ripartizione del corpo non ha luogo durante il sacrificio e prima dell’uccisione, ma dopo, e non è fittizia, ma reale; come in India, però, la suddivisione è in tre parti (non conosciamo soltanto la sorte riservata al tronco, cioè alla parte mediana), e la testa e la coda vengono privilegiate, non certo perché – come dice H.J. Rose – esse riassumano il corpo, ma piuttosto perché sono depositarie dei simbolismi più ricchi.
Nel caso meno favorevole, la coda, e, nel più favorevole, la coda e la testa arrivano alla casa del re; le gocce del sangue della coda sono sparse sul focolare del re, partecipandae rei diuinae gratia, per metterlo in rapporto con la virtù del sacrificio: l’India attribuisce questa funzione alla testa che, posta in rapporto con Agni mediante il paryaṅgya, assicura al re – dice un commento – «il primo fuoco» – comunque si debba intendere questo simbolismo.
Ex voto a Marte, con rappresentazione stilizzata della statua del dio, iscritta entro un edificio – forse un tempio ?. Placca, argento. Iscrizione: D(eo) Marti Alatori dum […] Censorinus Gemelli f(ilius) v(otum) s(olvit) l(ibens) m(erito), RIB 1, 218 – London, British Museum.
Un solo particolare della documentazione lacunosa dell’October Equus non concorda con la pratica o con la teoria indiane: il modo in cui il cavallo viene messo a morte. L’animale è ucciso con un colpo (o più colpi) di giavellotto, nel quadro di una mimica guerresca, mentre il cavallo dell’aśvamedha viene soffocato. Può darsi che su questo punto il rituale romano sia stato meno alterato, corrisponda più fedelmente allo spirito del rituale preistorico comune che, in India, pur continuando ad essere riservato ai kṣatriya ed espressamente vietato ai brahmani e ai vaiśya in quanto «sacrificanti» e beneficiari, fu affidato come tutti i rituali ai brahmani in quanto «officianti». In ogni caso, questa divergenza minore, che mostra Roma procedere più oltre dell’India nella direzione dell’India stessa, non contraddice l’accordo constatato su tutti gli altri punti.
È evidente – e qui sta l’essenziale della presente analisi – che questo rito di Marte è conforme, nei gesti e nello spirito in essi rivelato dal confronto con l’India, al tipo generale divino di Marte, patrono della funzione guerriera. Esso rivela inoltre, nel momento preciso del ritorno dalle guerre, importanti rapporti fra il regnum e quella funzione: una sorta di capitalizzazione regale della vittoria.
Per ciò che riguarda il metodo, è opportuno notare che la comparazione ha posto in luce l’articolazione dei particolari conosciuti del rituale romano, ma che essa stessa è stata suscitata dalla critica interna dei dati: seguendo il consiglio che H.J. Rose dà e non mette in pratica, abbiamo tenuto conto di tutti i fatti attestati e solo di essi, rifiutando solo uno pseudo-fatto supplementare inventato nel XVII secolo e da allora ripetuto tanto spesso da imporsi e squilibrare il quadro; abbiamo inoltre ricollocato al suo posto e incorporato nel quadro riequilibrato l’elemento regale che Rose citava solo al termine della trattazione, «incidentally», dichiarandolo inesplicato.
Due altre circostanze menzionate a sostegno del Marte agrario collocano effettivamente l’intervento di Marte in un ambiente rurale, in rapporto sia con l’agricoltura, sia con l’allevamento. Ma, come già abbiamo ricordato, un dio è definito meno dall’ambiente in cui compare che dalla parte che rappresenta, dalle intenzioni e dai mezzi dell’intervento a lui attribuito; in ciascun caso bisogna quindi precisare quelle intenzioni, quei mezzi. «Divinità agraria», non dimentichiamolo, è un’espressione confusa, poiché non esiste parentela tra divinità che, per esempio, presiedono come i Semones alla vita dei semina, e una divinità «selvaggia» il cui unico servigio verso i seminati consiste nel risparmiarli; e neppure tra una divinità fecondante che forma le spighe e una divinità vigilante che monta la guardia ai limiti del campo. Ora, è facile verificare che Marte, nelle invocazioni rivoltegli dai fratelli Arvali, è al tempo stesso la divinità selvaggia e la divinità vigilante; nella lustrazione del campo descritta da Catone, è unicamente la divinità vigilante; ma nessuna espressione mostra di coinvolgerlo nei processi misteriosi che perpetuano la vita vegetale.
Il carattere ambiguo di Marte quando si scatena sui campi di battaglia gli vale l’epiteto di caecus, attribuitogli dai poeti: a un certo punto di furor, il dio si abbandona al suo arbitrio e massacra l’amico quanto il nemico, così come il giovane Orazio, ancora ebbro di sangue, uccide la propria sorella dopo aver ucciso i Curiazi. Nondimeno Marte, come l’Orazio, proprio pe il suo furor e per la sua durezza, è la più salda difesa di Roma contro ogni aggressore. Negli Ambarualia, circumambulazione lungo il perimetro degli arua, cioè delle terre coltivabili di Roma, appaiono collocati in evidenza l’uno e l’altro aspetto del dio. Da un lato, poiché la stagione appropriata alla guerra è anche decisiva per l’euentus delle messi, bisogna che le battaglie abbiano luogo all’esterno della «soglia» rappresentata da quel perimetro. D’altro canto, le messi possono essere minacciate da nemici più temibili dell’hostis umano poiché invisibili e demoniaci: contro di essi è necessaria una sentinella al loro stesso livello soprannaturale. Appunto questo chiedono le tre frasi (ciascuna ripetuta più volte) del carmen Aruale in cui è nominato Marte:
enos Lases iuuate enos Lases iuuate enos Lases iuuate neue lue rue Marmar sins incurrere in pleores neue lue rue Marmar sins incurrere in pleores neue lue rue Marmar sins incurrere in pleores satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber semunis alternei advocapit conctos semunis alternei advocapit conctos semunis alternei advocapit conctos enos Marmor iuuato enos Marmor iuuato enos Marmor iuuato triumpe triumpe triumpe triumpe triumpe
Il terzo frammento non orienta in alcuna direzione «l’aiuto» richiesto a Marte; ma il primo frammento si può tradurre: «Non permettere a Flagello, a Distruzione di fare incursione in – ? –»; e il secondo frammento: «Sii sazio, selvaggio Marte, salta la soglia (??), fermati – ? –». A rigore, è possibile che le preghiere del secondo frammento vadano intese, come sostiene H.J. Rose: «Sii sazio (non di violenza, ma per le nostre offerte), salta sul limitare del campo e monta la guardia». In questo caso il frammento sarebbe soltanto una replica del primo, o più esattamente chiederebbe al dio di montare la guardia per lo scopo precisato nel primo. Tuttavia l’epiteto fere (se la parola va così isolata dal contesto e letta) può essere difficilmente ridotto, nonostante il parere di Rose, al significato anodino di «non addomesticato, appartenente al mondo esterno, alla macchia», caratteristiche, d’altronde, che Marte non possiede.
Pecora sacrificale. Rilievo, marmo, II sec. d.C. da un pluteo di Traiano. Roma, Curia del Foro Romano.
I due termini consonanti della formula luem ruem (sempre posto che sia questa l’esatta lettura) sono certamente personificati, poiché incurrere descrive un’azione concreta e deliberata, «fare incursione»; è difficile però precisare quali siano i pericoli rappresentati qui come persone. Probabilmente non si tratta delle razzie da parte di nemici umani; il significato classico di lues, almeno, orienta piuttosto verso le malattie che possono distruggere grandi estensioni di colture. La demonologia romana è poco conosciuta: sembra comunque naturale che anche i Romani, come moltissimi altri popoli, attribuissero a spiriti cattivi tutte la malattie o parte delle malattie che assalgono gli esseri viventi. Contro quegli spiriti Roma, per bocca degli Arvali, mobilitava il dio combattente.
Gli Ambarualia appartengono a una categoria di lustrazioni che presenta numerosi altri esempi: la grande lustrazione quinquennale del popolo (lustrum conditum), e l’amburbium, sono praticati anch’essi mediante circumambulazione di animali sacrificali, ed è naturale che questa marcia «sulla frontiera», purificatrice e difensiva al tempo stesso, stia sotto il segno del dio combattente, capace di proteggere da ogni sorpresa il perimetro e il suo contenuto. Tali cerimonie erigono intorno all’ager, all’urbs ecc., una barriera invisibile, invalicabile – posto che sia custodita – non solo dai nemici umani, contro i quali sono già pronte le mura e le truppe, ma dalle potenze malefiche, pur esse invisibili, e innanzitutto da quelle che provocano malattie. In molti casi le vittime formano il gruppo dei suoueterurilia, che studieremo più oltre, e che è caratteristico di Marte: un maiale, un montone, un toro. Tutti questi diversi riti, però, così come gli Ambarualia, non indicano in Marte altro che una divinità specifica della «protezione mediante la forza»; tutta la funzione del dio consiste nella difesa del perimetro che la processione rende visibile; di qualunque cosa egli stia a guardia, il dio è la sentinella, l’avamposto sulla soglia, come dice probabilmente il carmen Aruale, che ferma il nemico, permettendo eventualmente a divinità specifiche – negli stessi Ambarualia, seguendo il carmen, i Lari, dèi del suolo, e le entità designate dalla parola Semones, forma animata dell’inanimato semina; Cerere, seguendo Georgiche I 338 – di compiere un lavoro tecnico, creativo, mutevole a seconda delle circostanze. Non a caso il carmen si chiude con il grido ripetuto di triumpe, che E. Norden giustamente commenta: «Der Erfolg des Gebets, die Rettung aus Not und Gefahr ist gesichert».
Scena di sacrificio. Illustrazione di G. Rava.
Occupandoci del dio sovrano abbiamo visto il contadino di Catone replicare per suo uso privato, con il rito di Giove Dapalis, il festino che i magistrati offrono a Giove Epulo nel suo tempio sul Campidoglio. I grandi dèi della triade arcaica dominano la vita pubblica, ma rappresentano delle funzioni, rispondono a bisogni, determinanti anche nella vita di ogni sottogruppo, di ogni famiglia, di ogni individuo. È naturale, quindi, che essi siano sollecitati da priuati. In tali casi l’intenzione dei riti è limitata a un ristretto interesse – non più popolo, ma familia; non più ager Romanus, ma fundus; non più urbs, ma uilla – e le offerte sono meno sontuose: la daps rustica di Giove si riduce a un arrosto e a una brocca di vino. Altrettanto vale per il rito di Marte descritto nel capitolo 141 del medesimo trattato di Catone: la sua lustratioagri è una replica minore dei grandi rituali di circumambulazione, e i suoi suouetaurilia sono lactentia, cioè aggruppano un porcellino, un agnello e un vitello. Il testo deve però essere citato per intero, affinché possano essere spiegate alla luce di tutto il brano alcune espressioni che i sostenitori del Marte agrario isolano volentieri, traendone conseguenze ingiustificate. Dopo un’offerta preliminare di vino a Giano e a Giove, ecco la formula di preghiera che Catone propone di far recitare al uillicus:
Marte pater, ti prego e ti chiedo d’esser benevolo e propizio verso di me, verso la nostra casa e la nostra famiglia. A tal fine ho ordinato di condurre i suouetaurilia intorno ai miei campi, alla mia terra, alle mie proprietà: per prima cosa, affinché tu fermi, respinga ed espella le malattie visibili e invisibili, la carestia e la desolazione, le calamità e le intemperie (ut tu morbos uisos inuisosque uiduertatem uastitudinemque calamitates intemperiasque prohibessis defendas auerruncesque); e affinché tu permetta ai prodotti, grano, viti, germogli, di crescere e di giungere a buon fine (utique tu fruges frumenta uineta uirgultaque grandire beneque euenire siris); affinché tu conservi sicuri i pastori e il bestiame ed elargisca sicurezza e buona salute a me, alla nostra casa e alla nostra famiglia (pastores pecuaque salua seruassis duisque bonam salutem ualetudinemque mihi domo familiaeque nostrae). A tali fini, per purificare i miei campi, la mia terra e le mie proprietà, e per compiere la purificazione, come ho detto, sii onorato mediante il sacrificio di questi suouetaurilia lactentia…
L’analisi dei servizi resi da Marte è qui distribuita in due quadri, primo e secondo. Il primo designa i nemici da combattere e le forme di combattimento; il secondo designa i beneficiari e gli effetti benefici del combattimento.
Il primo presenta Marte nella sua funzione e nel suo atteggiamento consueti: rito dinanzi ai nemici, vigile o combattente. Come luem ruem nel carmen Aruale, i nemici sono personificazioni di flagelli e di disastri configurati come assalitori. L’azione del dio è espressa da verbi di cui i primi due sono tecnicamente militari (prohibere «tenere a distanza, impedire di avvicinarsi»; defendere «respingere in combattimento»: i due casi sono ben distinti, per esempio, in Cesare, De bello Gallico, I 11, 2; 4) e il terzo, propriamente religioso, è spiegato da Auerruncus, probabilmente «colui che allontana scopando», definito da Gellio (Noctes Atticae, V 12), come uno dei piccoli dèi che bisogna propiziare uti mala a nobis uel frugibus natis amoliantur.
Suovetaurilia. Bassorilievo, marmo, I sec. d.C. Musée du Louvre.
Dopo questo quadro non c’è più posto per la menzione di servizi nuovi, di azioni diverse del dio: l’allontanamento delle malattie e dei flagelli dell’agricoltura è la condizione non solo necessaria, ma sufficiente, per la crescita normale delle piante dopo la semina (crescita affidata ai Lari e ai Semoni, a Tellus e a Cerere), per la salute degli animali e degli uomini dopo la nascita. Per allungare la preghiera non si poteva, quindi, far altro che enumerare i risultati dell’azione divina già esaurientemente descritta. La formulazione esatta, il rapporto esatto, dei due quadri dovrebbe essere:
Il contadino, però, pregando Marte e cercando di interessarlo, si sforza di amplificare il più possibile l’intervento che sollecita e l’azione del dio. Di conseguenza, nel suo discorso, Marte è il soggetto di tutti i verbi, e tutti i verbi – nel primo e nel secondo quadro – sono transitivi. Coordinando i due ut, di cui il secondo sarebbe logicamente subordinato al primo, l’orante sembra raddoppiare il numero delle azioni del dio […].
L’ultimo argomento citato da H.J. Rose a sostegno di un Marte di terza funzione, è tratto da un altro rito rustico descritto da Catone, nel capitolo 83. Ecco la traduzione del brano:
Votum per i buoi. – Si faccia così un uotum per i buoi, uti valeant. A mezzo del giorno, nel bosco, si faccia un voto a Marte (e) a Silvano, consistente, per goni testa di bue, in tre libbre di farina di frumento, quattro libbre e mezza di lardo, quattro libbre e mezza di carne magra e tre sestieri di vino. Sia permesso di mettere queste sostanze (solide) in un solo recipiente e, allo stesso modo, il vino in un solo recipiente. Sarà permesso che questa cerimonia venga compiuta sia da uno schiavo, sia da un uomo libero. Terminata la cerimonia, consumate (il cibo) subito, sul posto. Nessuna donna assista alla cerimonia né veda come essa è compiuta. Sarà permesso, se vuoi, di ripetere questo uotum di anno in anno.
La descrizione non è del tutto chiara, ma può essere interpretata. Un uotum è la promessa di un’offerta, per l’avvenire, condizionata dall’aver ottenuto nel frattempo un determinato favore divino: ottenuto il favore, chi l’ha ricevuto è uoti reus e deve liberarsi, uotum soluere. Per armonizzare il testo a questa definizione bisogna pensare che la prima parte riguardi la promessa e la seconda l’esecuzione: sia, trascorso un anno, l’esecuzione della promessa, sia, al momento stesso di una nuova promessa, l’esecuzione della promessa dell’anno precedente. La frase finale suggerisce questa seconda interpretazione.
Altare votivo decorato con un bassorilievo del dio Silvano. Marmo. Musei Capitolini.
Delle due divinità sollecitate – poiché, sebbene talvolta si sia commesso il controsenso di crederlo, i due nomi divino non sono confusi, bensì giustapposti, e non si tratta di un «Marte Silvano» –, l’una, Silvano, è chiamata in causa in qualità di patrono della siluatica pastio, il pascolo estivo sulla montagna boscosa che era consueto nell’antichità: là dunque, in silua, hanno luogo la promessa e l’esecuzione del voto, nonché la consumazione delle offerte. Il divieto di lasciar assistere le donne alla res diuina si riferisce anch’esso a una prerogativa conosciuta da Silvano.
Se non si trattasse che di assicurare il processo nutritizio che conferisce ai buoi forza e salute, basterebbe Silvano, disposto ad aprire il suo regno. La silua però ha i suoi pericoli, che non solo la circondano – come nel caso del terreno reso domestico del fundus –, ma la penetrano e sono ovunque in essa. Contro tali pericoli è necessario Marte. Il dio deve montare la guardia non più sul limitare, che in questo caso non esiste, ma in ogni punto del terreno in cui si troverà ciascun animale. Mentre nella lustratio degli arua Marte agisce «intorno» e gli dèi agrari, Semoni e Cerere, «all’interno», qui il settore di Marte coincide con quello di Silvano: donde lo stretto vincolo tra le due divinità, sottolineato dal consiglio di mettere tutte le offerte solide in uno stesso recipiente e tutto il vino in uno stesso vaso. Anche qui, dunque, nonostante i mutamenti nella strategia e nel rituale determinati da una missione e da un ambiente diversi, Marte continua ad essere ciò che è sempre ed ovunque: il combattente effettivo o potenziale, la sentinella pronta ad allontanare o a sconfiggere il nemico.
Semoni-Marte, Silvano-Marte: la collaborazione delle divinità specifiche e del dio combattente, nell’agricoltura e nell’allevamento, riesce istruttiva. Come i pani disposti intorno al collo del bellator equus delle Idi di Ottobre, essa ricorda, se fosse necessario, che le «tre funzioni», destinate ad aiutarsi e a completarsi a vicenda, si precisano ben unicamente nelle loro interrelazioni. A proposito della terza, di cui qui si tratta, questa verità può venir espressa in altri termini. Il successo dell’agricoltore o dell’allevatore dipende sempre da due tipi di fattori: gli uni positivi, concreti, specifici per ciascun caso, come i buoni semi, la buona terra, la pioggia e il sole opportuni, un maschio generoso, delle femmine ricche di latte; gli altri negativi e generali: che nulla venga a contrariare il gioco degli elementi positivi, che nessun flagello – guerra, malattia, catastrofe, gelo, lupi ecc. – annulli i benefici pazientemente adunati dall’uomo. Dal punto di vista teologico, questa distinzione definisce due ordini di servizi e si riferisce a due tipi di divinità, il secondo dei quali è limitato a Marte. Un vincolo dalla diversa motivazione è, come abbiamo visto, quello fra la prima e la seconda funzione: la guerra è di Marte per il combattimento, per i mezzi violenti di vittoria; ma la preparazione giuridico-religiosa, gli auspici e tutto il retroscena provvidenziale della vittoria sono di Giove, il quale rimane sovrano nella situazione bellica, così come Marte resta combattente quando monta la guardia per il contadino contro i flagelli dei campi.
Più volte abbiamo menzionato il gruppo di vittime, adulte o lactentia, che costituiscono i suouetaurilia, caratteristici di Marte. In particolare, nella teoria degli spolia opima in cui i tre dèi della triade arcaica ricevono rispettivamente i prima, secunda e tertia spolia, la consacrazione comporta un bos mas quanto si tratta di Giove, dei «solitaurilia» (= suouetaurilia?) quando si tratta di Marte, un agnello quando si tratta di Quirino. La pratica è molto antica. Di là dalle τριττύες greche, che erano generalmente composte dai medesimi animali del sacrificio romano, ma presentavano, come ogni cosa in Grecia, varianti e oscillazioni nella teoria e nella prassi, l’India vedica conosceva un rituale parallelo, dalle intenzioni e dal destinatario omologhi a quelli dei suouetaurilia: è il sacrificio di tre animali detto sautrāmanī, cioè offerto a Indra Sutrāman, «buon protettore». In India, però, e anche fra gli Iranici, la lista canonica degli animali sacrificabili si compone, in ordine decrescente di dignità, dopo l’uomo e il cavallo, del bue, del montone e del capro, con l’esclusione del porco, mentre a Roma le vittime normali sono, a parte il cavallo (e posto che l’uomo sembra escluso dal rituale nazionale), il bue, il montone e il porco: solo alcuni riti particolari comportano il capro. A Indra vengono quindi sacrificati gli ultimi tre paśu ammessi: capro, montone, toro […].
Statuetta di Silvano. Bronzo, da Nocera, I-III secolo. London British Museum.
Oltre all’uso regolare e periodico nel culto pubblico, oltre alla forma privata e occasionale della lustratio agri, i suouetaurilia sono anche celebrati come espiazione di errori religiosi fortuiti: per rimediare, per esempio, ad un grave accidente, a una grave violazione del diritto religioso, verificatisi in seguito alla deuotio; sappiamo che il generale romano, per pronunciare la formula destinata a consegnare lui stesso e l’esercito nemico a Tellus e agli dèi Mani, sta in piedi su un giavellotto posato a terra; tale giavellotto non deve cadere nelle mani del nemico; se il nemico se ne impadronisce, bisogna offrire dei suouetaurilia: sipotiantur, Marti suouetaurilibus fieri (Livio, Ab Urbe condita, VIII 10, 14). Un altro esempio: al tempio di Vespasiano, prima della ricostruzione del Campidoglio incendiato (le macerie dell’antico tempio erano state gettate nelle paludi, per istruzione degli aruspici) il terreno fu purificato suouetaurilibus, e solo successivamente, dopo che le interiora furono posate sull’erba, il pretore che guidava la cerimonia invocò gli dèi capitolini Jovem Junonem Mineruam (Tacito, Historiae, IV 53). Una sola volta è precisato che dei suouetaurilia s’affiancano alla lustratio di un esercito: si tratta della partenza per una spedizione destinata a insidiare un nuovo re partico robore legionum sociorumque al posto di un re fuggiasco (Tacito, Annales, VI 37). Senza necessità d’altro commento, è palese che sia per i liturgisti di Roma, sia per quelli dell’India, le tre vittime inferiori della consueta lista, sacrificate insieme al dio guerriero, rappresentano un possente farmaco, atto a prevenire quanto a porre rimedio. […]
L’unità fondamentale della funzione del Marte romano è stabilità: non vi è alcuna ragione di collocare alle origini un valore agrario che non trova conferma nelle presunte tracce in epoca classica. Nel periodo repubblicano il dio continuò ad essere notevolmente stabile, anche se il suo fondamento sociale si estese oltre i limiti del patriziato e, a causa delle trasformazioni dell’organizzazione militare, il materiale umano della sua attività, milites, venne a comprendere tutto il complesso dei cittadini. L’identificazione con il greco Ares non influenzò, né arricchì sensibilmente il tipo del dio, tranne che nella letteratura e nell’arte. Bisognerà che sopravvengano la particolare devozione di Giulio Cesare per Marte e poi la fondazione di un suo culto sotto l’epiteto di Vendicatore, perché si verifichino le trasformazioni di cui sarà segno visibile l’istituzione di santuari sul Campidoglio e nel Foro di Augusto. Infine, l’intimità di Marte con Venere, che ispirò a Lucrezio i celebri versi del prologo del suo poema e che era precisamente l’intimità di Ares con Afrodite, non acquistò importanza – nonostante il lectisternio del 217 – che sotto gli Iulii, discendenti di Venere […].
Oplita (forse Laran = Mars). Statuetta, bronzo, IV sec. a.C. dall’Etruria. Rijksmuseum Leiden.
Al termine di questo studio del Marte romano saranno utili alcune considerazioni sugli altri Marte d’Italia, poiché i sostenitori del Marte agrario, allontanati dalla metropoli, hanno talvolta cercato rifugio e rinforzi nell’area italica. Ciò che sappiamo dei culti provinciali di Marte si riduce a brevi iscrizioni, a monumenti figurati, a rapide menzioni nella letteratura; quindi il procedimento interpretativo, così facile a commettere errori quando non si trovi sotto il controllo di una vasta documentazione discorsiva, ha avuto libero corso. Poi, dimenticando che la gran maggioranza dei documenti è posteriore alla conquista e segnata dall’impronta dei conquistatori, alcuni studiosi hanno voluto ricostruire in base a quelle interpretazioni un tipo italico di Marte più antico del tipo romano, che sarebbe «alterato». In realtà, invece, analizzati da vicino, gli scarsi insegnamenti forniti da alcune immagini e da un centinaio di iscrizioni redatte sia in latino, sia in altre lingue indoeuropee della penisola, sia in etrusco – iscrizioni, la maggior parte delle quali non serve altro che a testimoniare l’esistenza qua e là di un culto di Marte e la presenza di sacerdoti del dio (flamen ad Ariccia, Salii in varie città latine, sodales a Tuder in Umbria, tra i Fretani sanniti) – quegli insegnamenti, dunque, sono assai conformi all’immagine e al culto romano del dio. Ecco l’essenziale. Livio narra che a Falerii, al tempo di Annibale, «le sorti rimpicciolirono e una di esse cadde, mostrando l’iscrizione: Marte gioca il suo colpo» (XXII 1, 11); comunque si debbano intendere queste sortes, il telum di Marte ricorda – come abbiamo visto – le hastae Martis della Regia, la cui vibrazione era un presagio minaccioso. Durante quegli stessi anni terribili le cronache dei prodigi registrarono che in molte città del Lazio Lanuuii hastam se commouisse (XXI 62, 4, lancia di Giunone guerriera), hastam Martis Praeneste sua sponte promotam (XXIV 10, 10).
A Tuscolo (Lazio) un ufficiale dice, su un’iscrizione (CIL I2 2, 49): M(arcus) Fourio(s) C(ai) f(ilius) tribunos / militare de praidad Maurte dedet: Furio dà a Marte una parte del bottino, probabilmente perché il dio contribuì alla vittoria. A Telesia (Sannio), una breve dedica (CIL IX, 2198) è rivolta Marti / inuicto, dall’orgoglioso epiteto guerresco, e ad Interamnia (Piceno) un’altra (CIL IX 5060) è rivolta [M]arti Pacife[ro]: pacifer non significa certamente «pacifico».
Alcune monete dell’Italia meridionale mostrano su una faccia una testa di Marte, barbata o imberbe, e sull’altra una Bellona (Lucania), o una Nike coronata, oppure in atto di incoronare un trofeo (Bruttium), o un cavallo al galoppo o una testa di cavallo (Campania). L’evidente identificazione con il greco Ares prova per lo meno che in tutti quei luoghi il dio era considerato guerriero. All’oracolo di Marte mediante il picchio, senza determinazioni né limitazioni di competenza, segnalato da Dionigi di Alicarnasso a Tiora Matiene in terra sabina, è stata giustamente collegata una gemma che raffigura un picchio appollaiato su una colonna cui si attorce un serpente: dinanzi alla colonna sta un guerriero e vicino a lui un montone inginocchiato attende il sacrificio.
Didracma d’argento, Roma 230 a.C. ca. Dritto – Testa elmata di Marte verso destra, clava a sinistra. Verso – Cavallo inalberato a destra sulla linea di esergo. In alto a sinistra una clava e a destra l’iscrizione Roma.
Uno dei documenti più interessanti si trova su una cista scoperta nel 1871 a Palestrina – Praeneste, città latina aperta ben presto all’influenza etrusca. In mezzo a divinità spettatrici, denominate in grafia provinciale Juno, Jouos, Mercuris, Hercle, Apolo, Leiber, Victoria, Diana e Fortuna, una scena centrale mostra Menerua e Mars impegnati in un’operazione enigmatica. Interamente nudo ma con il casco sul capo, lo scudo al braccio sinistro e una piccola lancia nella mano destra levata, Marte è inginocchiato sopra un grande otre, che ha la bocca più ampia delle cosce allargate del dio e sembra pieno di un liquido ribollente. Menerua, inclinata, con la sinistra sorregge il fondo della schiena di Marte e con la destra porta alla bocca del dio una specie di bastoncino. Dietro alla dea, il suo scudo e il casco dal lungo pennacchio stanno su un mucchio di pietre; una piccola Vittoria alata giunge volando sopra la nuca di lei. Infine, domina la scena interrompendo il fregio la figura seduta di un animale, cane o lupo, con tre teste.
A questa cista è stato ravvicinato un gruppetto di specchi etruschi sui quali sono raffigurate parecchie scene e compare, variamente denominato, Maris, cioè il Marte derivato agli Etruschi dagli Italici. Su uno di tali specchio si vede innanzitutto un giovane, designato dalla parola Leinϑ, seduto, nudo, armato di lancia, il quale tiene sulle ginocchia un bambino chiamato Mariśhalna; vi sono poi Menrua in atto di immergere in un’anfora un giovane chiamato Mariśisminϑians; poi Merua in armi, che s’appoggia con il braccio destro sulla lancia e trae da un’anfora il giovane Mariśhusrnana; infine un personaggio chiamato Amatutun che porta Mariśhalna; Hercle, con la clava, sta sotto la scena centrale. Altri specchi sembrano indicare che Marte, o i tre giovani Marte, sono figli di Hercle (Mars-hercles). G. Hermansen, che ha utilmente collegato fra loro questi documenti, ha pure ingegnosamente ricordato un testo della Storia varia di Eliano, IX 16: in quel brano si legge che Mares, avo degli Ausoni d’Italia, visse centoventitré anni (totale spiegabile alla luce delle speculazioni etrusche sui numeri: Censorino, XVII 5) ed ebbe il privilegio di resuscitare tre volte e di vivere tre vite, somigliando in ciò al re Erulo (Herulus) che Evandro dovette abbattere tre volte poiché Feronia, sua madre, gli aveva dato tre anime (Virgilio, Eneide, VIII 563).
Tomba di Nola. Il ritorno dei guerrieri sanniti dalla battaglia. Affresco, IV secolo a.C. ca. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Questa tradizione sembra effettivamente apparentata alle scene degli specchi; è possibile servirsene, con prudenza, per interpretarle, ma bisogna soprattutto porre in evidenza che nelle scene degli specchi è costante l’elemento guerriero. Le armi che Menrua porta nella figurazione di uno specchio e che sono poggiate dietro di lei nella figurazione della cista, non sono significative, poiché gli Etruschi mostravano facilmente la dea con gli attributi della sua interpretatio graeca Atena. In compenso, il Marte genuinamente italico della cista è pur esso in armi, e nell’ultima scena degli specchi compaiono dei giovani nudi, appoggiati alla lancia. Senza dubbio si tratta di scene d’iniziazione, ma d’iniziazione guerriera e non soltanto «degli adolescenti» come suggerisce Hermansen; l’animale triplo che sta sullo sfondo, il bano nel grande otre o nell’anfora, mi hanno suggerito un’interpretazione in questo senso […]. In ogni caso, non si vede quale elemento di queste figurazioni possa alimentare la tesi di un Marte in rapporto con la fecondità.
E neppure nella lustratio di Iguvium, unico rituale conosciuto nei particolari al di fuori dell’ambito romano. Sappiamo che Mart- è, in esso, il secondo della triade degli dèi Grabouii; molte divinità del suo gruppo sono caratterizzate dall’epiteto Martio-, e il gruppo stesso è, per così dire, a due piani: nel primo si trova Çerfo-Martio-, nel secondo – e per il tramite di questo Çerfo – Tursa Çerfia Çerfer Martier e Prestota Çerfia ÇerfierMartier, cioè «T.Ç (e P.Ç) di Ç.M.». Prestota e Tursa hanno un significato probabile: la seconda è un «Terror» femminile, e la prima è una «Praestes», termine abbastanza generico di per sé, che però la titolatura divina dei Romani riserva a Giove, in rapporto con Hercules Victor (quale presunto fondatore del culto: C.I.L. XIV, 3555) e con una varietà di Lari, i Lari Praestites, custodi che, secondo il commento eccessivamente etimologico di Ovidio (Fasti, V 136-137), vegliano sulle mura della città. La preghiera rivolta a tutto il gruppo chiede di atterrire e di far tremare (tursitu tremitu), di distruggere, di legare, ecc., i nemici; in particolare, alla sola Prestota Çerfia Çerfer Martier si chiede di trasferire ogni male dalla comunità di Iguvium alla comunità nemica; infine, a un’altra Tursa che è Jouvia, si chiede – così come a tutto il gruppo «marziale», e in conformità con il nome Tursa – di atterrire, di far tremare ecc., il nemico. Tutto ciò mantiene Marte, eponimo del gruppo, nel suo elemento guerriero; la dualità della Tursa, dei «Terrori» al femminile, l’una di Marte e l’altra di Giove, allude senza dubbio alle due possibili fonti del terrore: conseguenza logica, naturale, dei colpi di un nemico più forte, oppure effetto di un miracolo, di una caduta del morale dell’esercito, già vittorioso, dinanzi a un improvviso e inesplicabile mutamento della situazione (cfr. Giove Statore nella leggenda romulea). Date queste condizioni, ci vuole una fede mannhardtiana veramente a tutta prova per cercare in Çerfus Martius, di cui Tursa e Prestota sono le più strette collaboratrici, un corrispettivo maschile della Ceres Romana, e per fondare su questo puro gioco di parole un’interpretazione agraria di Marte e di tutto il gruppo di Marte, contraddetta dal contesto: gli specialisti di etimologia non possiedono tali diritti, e d’altronde l’umbro -rf- può essere derivato da un gruppo diverso *-rs-.
Riassumendo: da qualunque punto di vista si configuri il problema, a Roma così come ad Iguvium e in Etruria, un rigoroso controllo degli argomenti conserva a Marte la sua definizione tradizionale di dio combattente e dio dei combattenti.
Non avrei mai voluto vivere con la quinta stirpe
degli uomini: fossi morto già prima, oppure nato dopo.
Ora, infatti, la stirpe è di ferro; mai le genti
cesseranno di tormentarsi per le fatiche e gli affanni,
né di giorno né di notte; e gli dèi manderanno loro aspre pene:
anche per costoro i mali si mischieranno con i beni.
Ma Zeus distruggerà anche questa stirpe di uomini mortali,
quando gli uomini nasceranno già con le tempie bianche;
allora il padre non sarà simile ai figli, né i figli al padre;
l’ospite non sarà caro più caro all’ospite,
né l’amico all’amico e nemmeno il fratello;
i genitori, una volta invecchiati, subiranno ingiurie
e verranno rimproverati con male parole;
gli sciagurati, senza alcun timore degli dèi,
non daranno di che nutrirsi agli anziani genitori;
il diritto starà nella forza ed essi si distruggeranno a vicenda;
il giuramento non sarà rispettato, né lo sarà chi è giusto
o buono; piuttosto, verranno rispettati il malvagio
e l’uomo violento; la giustizia si baserà sulla forza, non vi sarà
coscienza; il cattivo offenderà l’uomo buono
con parole perfide e spergiuri;
l’invidia dal volto impudente, amara di lingua e felice del male
si accompagnerà a tutti i miseri uomini.
Sarà allora che Vergogna e Nemesi,
in candidi veli, nascondendo il bel corpo,
lasceranno i mortali e dalla terra con le sue ampie strade
si muoveranno verso l’Olimpo, dagli immortali;
gli affanni luttuosi resteranno ma non ci sarà difesa contro il male.
di C. Mossé, Pericle. L’inventore della democrazia, trad. di B. Gregori, Roma-Bari 2006, 195 ss.
La Vita di Pericle di Plutarco è un testo particolarmente interessante per chi cerchi di ricostruire la personalità dell’uomo che agli occhi dei posteri avrebbe incarnato la grandezza di Atene. Plutarco, infatti, raccolse tutto un complesso di tradizioni e aneddoti, attingendo sia dai contemporanei di Pericle, i poeti comici in particolare, sia da autori le cui opere non ci sono pervenute ma ai quali egli fa specifico riferimento: tra questi ultimi ricordiamo il poeta Ione di Chio, che trascorse gran parte delle sua vita ad Atene nel V secolo; Stesimbroto di Taso, autore, negli ultimi anni del secolo, di un’opera su Temistocle, Tucidide e Pericle; Teofrasto, che fu il successore di Aristotele alla guida del Liceo e della cui opera ci è pervenuta solo una piccola parte; il suo allievo Duride di Samo; Idomeneo di Lampsaco, contemporaneo di Epicuro (fine del IV-inizi del III secolo a.C.), autore di un Perì dēmagogōn. I primi due avevano conosciuto l’Atene della Guerra del Peloponneso. Gli altri appartenevano a quegli ambienti intellettuali degli ultimi decenni del IV secolo – ricordiamo particolarmente la scuola peripatetica – che s’interrogavano sull’esperienza politica ateniese in un’epoca in cui la città, sconfitta dopo un ultimo sussulto all’annuncio della morte di Alessandro, aveva rinunciato a ricoprire un ruolo di primo piano negli affari greci.
Pericle con elmo corinzio. Busto, marmo, copia romana da originale greco. Roma, Museo Chiaramonti, Musei Vaticani.
Nella prefazione alla Vita di Alessandro, Plutarco precisa in che cosa la biografia si distingua dalla storia: non si tratta di raccontare i grandi eventi o le imprese belliche, cosa che è competenza dello storico, ma di cercare di mettere in luce, indipendentemente da quelle imprese, il carattere (éthos) dei suoi eroi:
Io non scrivo un’opera di storia, ma delle vite; ora, noi ritroviamo una manifestazione delle virtù e dei vizi degli uomini non soltanto nelle loro azioni più appariscenti; spesso un breve fatto, una frase, uno scherzo, rivelano il carattere di un individuo più di quanto non facciano battaglie ove caddero diecimila morti, i più grandi schieramenti di eserciti e assedi. Insomma, come i pittori colgono la somiglianza di un soggetto nel volto e nell’espressione degli occhi, poiché lì si manifesta il suo carattere, e si preoccupano meno delle altre parti del corpo; così anche a me deve essere concesso di addentrarmi maggiormente in quei fatti o in quegli aspetti di ognuno, ove si rivela il suo animo, e attraverso di essi rappresentarne la vita, lasciando ad altri di raccontare le grandi lotte (Plut. Alex. 1, 2-3).
Plutarco (Plut. Per. 3, 1) applica questi principi anche alla sua biografia di Pericle. Fin dall’inizio del racconto, per giustificare il parallelo con il romano Fabio Massimo, egli indica le qualità dominanti della personalità di Pericle: la dolcezza (praótēs) e il senso della giustizia (dikaiosýnē). Queste qualità derivavano anzitutto dalle sue origini. Per parte di madre, egli discendeva da quel Clistene «che con tanta abilità cacciò da Atene i Pisistratidi, abbatté la tirannide, stabilì nuove leggi e diede alla città una costituzione ottimamente equilibrata per garantire concordia e sicurezza». Equilibrio e concordia completavano in modo evidente la dolcezza e il senso della giustizia.
Ma la loro presenza nel carattere di Pericle era anche il risultato dell’educazione, e in particolare dell’insegnamento di Anassagora di Clazomene: «Chi visse in maggior con contatto con Pericle e contribuì a drappeggiarlo in un contegno solenne, a dotarlo di una mentalità più nobile di quella dei comuni capi-popolo, chi, in una parola, sollevò a pure altezze la maestà del suo carattere, fu Anassagora di Clazomene» (Plut. Per. 4, 4). Plutarco precisa quindi:
Pericle apprese da quest’uomo, che ammirava straordinariamente, la scienza delle cose celesti e le speculazioni più alte; acquistò non soltanto, a quanto sembra, una forma di pensiero elevato e un modo di esprimersi sublime e immune da scurrilità bassa e plebea, ma pure la fermezza dei lineamenti, mai allenati al sorriso, la grazia del portamento, un modo di panneggiare la veste che non si scomponeva, per quanto potesse commuoversi parlando, una tonalità di voce inalterabile e altri simili atteggiamenti, che riempivano di stupore chiunque lo avvicinava (Plut. Per. 5, 1).
Quel senso della misura, quella moderazione, contrappongono implicitamente Pericle ai politici che erano venuti dopo di lui, sia il volgare Cleone sia il troppo seducente Alcibiade.
Jean-Charles Nicaise Perrin, L’amicizia fra Pericle e Anassagora.
Le varie manifestazioni del comportamento di Pericle derivavano dall’educazione ricevuta. Discepolo di Anassagora, egli dava prova di quello spirito «scientifico», che si sarebbe manifestato più tardi quando, alla vigilia della partenza di una spedizione, un’eclisse di sole sconvolse il pilota della sua nave:
Pericle, al vedere il suo pilota atterrito e incerto sul da farsi, gli tese davanti agli occhi il mantello fino a coprirli; quindi gli chiese se lo riteneva un fatto pericoloso o un segno di pericolo. Il pilota rispose di no. «Ebbene, che differenza c’è tra il mio gesto e l’eclisse, se non che l’oggetto che ha provocato l’oscuramento è più grande del mantello?» (Plut. Per. 35, 2).
Sempre dall’insegnamento impartitogli dal suo maestro derivava la scelta di uno stile di vita esemplare. Infatti, dopo la morte di Aristide e l’esilio di Temistocle, avendo deciso di prendere le parti del dēmos, cioè di quelli che erano al tempo stesso i più numerosi e i più poveri, egli rinunciò all’abitudine che più di ogni altra caratterizzava lo stile di vita dell’aristocrazia, le riunioni del sympósion, vale a dire i banchetti: «Non lo si vide più in girò per la città, se non lungo la strada che conduceva all’Agorà e al bouleutḗrion; declinò inviti a banchetti, si ritirò interamente dalla vita di società» (Plut. Per. 7, 4).
Evitando di mettersi troppo in mostra e lasciando agire più spesso i suoi amici, seppe anche «ottenere uno stile oratorio, che, come uno strumento musicale, s’armonizzasse con l’impostazione data alla sua vita e alla grandezza del suo sentire. In ciò si valse dell’aiuto di Anassagora, colorando, quasi, la propria retorica della scienza fisica del filosofo» (Plut. Per. 8, 1).
Questa eloquenza misurata riuscì a renderlo ben accetto al popolo. Dopo l’ostracismo di Tucidide di Alopece, la città era ridivenuta armoniosa e unita. Pericle trasformò allora la democrazia «in un regime aristocratico e monarchico, che esercitò con dirittura, senza deviazioni sulla strada del progresso, guidando il popolo che quasi in tutto lo seguì volentieri, con la persuasione e l’ammonizione. Se qualche volta recalcitrò un poco, egli lo costrinse, con un tratto di redini, a proseguire verso la meta del suo stesso interesse» (Plut. Per. 15, 2).
Ma Pericle non doveva la sua autorità sul popolo soltanto alla potenza della parola, al suo dominio dell’arte della persuasione, ovvero delle sue qualità di retore. La doveva anche «alla stima che si aveva per la sua vita, e alla fiducia che personalmente ispirava, poiché era notoriamente incorruttibile e superiore al denaro» (Plut. Per. 15, 3). Plutarco precisa che Pericle non aumentò di una sola dracma la fortuna ereditata dal padre. Di questa incorruttibilità il biografo fornisce numerosi esempi, ritornando su di essa in continuazione, fino all’ultimo. Egli insiste, in particolare, sul modo in cui Pericle gestì la sua fortuna:
Al patrimonio legalmente suo, trasmessogli dagli avi, diede l’assetto economico che ritenne più semplice e sicuro affinché non si volatilizzasse, se trascurato, ma che pure non gli procurasse fastidi e perdite di tempo in mezzo a tante altre preoccupazioni. Cioè vendeva annualmente tutti insieme i prodotti dei suoi campi, e poi comprava di mano in mano dal mercato quanto gli occorreva per vivere (Plut. Per. 16, 3-4).
Ciò gli avrebbe suscitato il malcontento dei figli e delle donne della sua casa:
Si lamentavano di quel modo di vivere alla giornata e delle spese ridotte all’osso, sì che in una casa grande come quella e dove le risorse certo non mancavano, nulla mai avanzava, ed ogni uscita, come ogni entrata, avveniva attraverso minuziosi conteggi (Plut. Per. 16, 4-5).
Plutarco, come si è già detto, attribuisce una grande importanza al carattere incorruttibile e disinteressato di Pericle. Per esempio, al momento dell’affare di Samo, egli rifiutò il denaro offertogli dai notabili sami da lui presi in ostaggio. Erano cinquanta, e ciascuno di essi aveva offerto un talento per riscattare la propria libertà. Allo stesso modo, rifiutò i diecimila stateri d’oro che gli aveva inviato il satrapo di Sardi, Pissutne, per indurlo a cedere ai Sami (Plut. Per. 25, 2-3). Infine, un esempio ancora più eloquente di questa incorruttibilità: la dichiarazione pubblica fatta da Pericle, nel momento in cui il re spartano Archidamo si apprestava a invadere l’Attica, che se i suoi beni fossero stati risparmiati in virtù dei legami di ospitalità che lo univano agli Spartani, egli li avrebbe regalati alla città (Plut. Per. 33, 3). Nel confronto finale con Fabio Massimo, Plutarco (Compar. Per. Fab. 3, 6) ritorna ancora su questa incorruttibilità e sul «nobile disprezzo delle ricchezze», tipico di Pericle: «Non è facile dire quante occasioni il potere gli offerse di arricchire e di farsi corteggiare da confederati e da re; ciononostante si serbò incorrotto e puro quanto nessun altro uomo di governo».
Lawrence Alma-Tadema, Fidia mostra i fregi del Partenone agli amici. Olio su tela, 1868. Birmingham Museum and Art Gallery.
Il motivo dell’insistenza di Plutarco su questo aspetto della personalità di Pericle è chiarissimo: il suo personaggio è il capo del partito popolare, l’oratore che ha il sostegno del dēmos. Parlare invece dell’incorruttibilità di un Cimone, capo dell’aristocrazia, non è necessario. Plutarco contrappone il comportamento di Pericle all’immagine, veicolata dalla tradizione, del demagogo quale oratore popolare, facilmente corruttibile. Ma questa probità s’inserisce armonicamente nel ritratto, proposto fin dall’inizio del racconto, di un uomo che si rivelò superiore per senso della giustizia e moderazione.
Ritroviamo queste virtù anche dove meno ce le aspetteremmo: nelle relazioni di Pericle con gli uomini che egli fu chiamato a comandare in quanto stratego rieletto quindici volte consecutive. Plutarco (Per. 18, 1) ritorna a più riprese su quest’aspetto. «Come stratego godeva di buona reputazione, specialmente perché era prudente. Di sua iniziativa non attaccò mai battaglia, se si presentava molto incerta e rischiosa». Pericle cercava di frenare l’ardore di coloro che erano pronti a coinvolgere Atene in spedizioni pericolose, e preferiva consolidare i vantaggi acquisiti, distinguendosi in ciò dai leader che sarebbero venuti dopo di lui e che avrebbero trascinato Atene nella catastrofe siciliana. «Preferì – scrive ancora Plutarco (Per. 27, 1) – vincere e conquistare la città [Samo] col tempo e col denaro, piuttosto che esponendo i suoi concittadini a ferite e pericoli». Più avanti (33, 5), il biografo si compiace nel riferire una frase di Pericle al momento dell’invasione dell’Attica, quando alcuni premevano per ingaggiare battaglia contro i Lacedemoni sulla terraferma: «Quando si tagliano e si abbattono gli alberi – diceva loro –, essi crescono in fretta. Ma gli uomini, una volta uccisi, non si può rimpiazzarli facilmente». Non meno significative le ultime parole attribuite al suo protagonista: «Nessun Ateniese, per colpa mia, indossò un mantello nero» (Plut. Per. 38, 4). Era un’estrema testimonianza di quella moderazione e di quella dolcezza che Plutarco considerava le qualità più importanti del suo eroe, di cui egli aveva dato prova nei confronti degli alleati di Atene come dei suoi nemici. Non sorprende, dunque, che la conclusione della biografia cominci con questa affermazione:
Insomma, Pericle fu un uomo ammirevole non soltanto per la dolcezza e l’affabilità che conservò sempre, anche in mezzo a situazioni difficili e odi profondi, ma pure per l’altezza dello spirito, se delle sue glorie stimò più fulgida quella di non aver mai ceduto d’un palmo, anche quando si trovò all’apice del potere, né all’avidità né alle passioni, e di non aver mai considerato insanabile nessuna discordia (Plut. Per. 39, 1).
Tuttavia Plutarco, più di una volta, cede alla tentazione di dar voce alle critiche che gettavano ombre su quell’immagine luminosa del «primo degli Ateniesi». Fin dall’inizio del racconto, parlando dell’istruzione ricevuta da Pericle, il biografo ricorda i nomi di due uomini che, a differenza di Anassagora, avevano una cattiva reputazione. Il primo era Damone, il maestro di musica, che in realtà era un sofista. Con il pretesto di insegnare la musica, afferma Plutarco, egli operava per il ripristino della tirannide. Per questa ragione sarebbe stato ostracizzato, come sembra confermare un óstrakon che reca il suo nome. Si ritiene generalmente che Damone sia lo stesso personaggio altrove chiamato Damonide (Plut. Per. 9, 2), colui che avrebbe suggerito a Pericle la creazione della misthophoría per rivaleggiare con Cimone. Plutarco (Per. 17, 3.) trovò questa informazione nella Costituzione degli Ateniesi attribuita ad Aristotele, dove è appunto citato questo Damonide. Ebbene, sull’óstrakonDamone è detto figlio di Damonide, il che può spiegare la confusione dei due nomi. Comunque stiano le cose, Damone o Damonide, sofista, fautore della tirannide, iniziatore della misthophoría, che avrebbe avuto conseguenze nefaste sul comportamento del dēmos, è evidentemente agli occhi di Plutarco un cattivo maestro. Ed è un cattivo maestro anche Zenone di Elea, altro temibile sofista, al quale un poeta del III secolo affibbierà il soprannome di «lingua doppia» (amphoteróglōssos): […] egli era considerato l’inventore della dialettica. Ma se Plutarco cita questo giudizio di Timone di Fliunte su Zenone, lo fa perché vuole insistere sul pericolo rappresentato dalla padronanza di quel doppio linguaggio, particolarmente utile a chi volesse percorrere una carriera politica. Pericle ambiva a quella carriera politica ma temeva, se avesse preso troppo ardentemente le parti del popolo, di passare per un aspirante alla tirannide. Era un timore fondato, perché egli assomigliava stranamente a Pisistrato: «Gli Ateniesi più anziani, davanti alla dolcezza della sua voce, la facilità e la rapidità della sua parola nella discussione, erano colpiti da quella somiglianza» (Plut. Per. 7, 1). Così, il pronipote di Clistene, di colui che aveva contribuito alla caduta dei Pisistratidi, poteva apparire come la reincarnazione di Pisistrato! C’è di che sorprendersi. Ma Plutarco non appare imbarazzato da una simile contraddizione, tanto più che essa sembrava trovare fondamento in una doppia realtà: da una parte, la paura, ancora molto viva, di una restaurazione della tirannide, attestata dai numerosi ostracismi del periodo precedente all’ingresso in politica di Pericle, tra i quali quello di suo padre Santippo; dall’altra, l’appartenenza a una grande famiglia dove era normale nutrire ambizioni del genere.
Dunque, la scelta di Pericle di trovare appoggio tra i più numerosi (hoi polloí), vale a dire i più poveri (hoi penétēs), poteva apparire anche come un modo di procedere tipico di un aspirante alla tirannide. Plutarco, non bisogna dimenticarlo, è un filosofo influenzato profondamente dall’insegnamento platonico, e Platone, nella Repubblica, lega l’avvento del tiranno alla lotta che divide la città democratica tra poveri e ricchi, con il tiranno che scegli di ergersi a difensore dei poveri.
Cresila, Busto di Pericle. Marmo, copia romana da un originale greco del 430 a.C. ca. Roma, Musei Vaticani.
C’era, infine, un altro comportamento, che non deponeva a favore del giovane Pericle ai suoi esordi nella vita politica:
Pericle, ad evitare di stuccare il popolo standogli continuamente innanzi, si presentava a lui ad intervalli, non parlava su ogni argomento, né partecipava ad ogni adunanza, ma si teneva di riserva… per le grandi necessità, e provvedeva alle altre tramite alcuni amici e oratori diversi. Uno di questi dicono fosse Efialte (Plut. Per. 7, 7-8).
Così, l’autore della riforma ritenuta la più importante della prima metà del V secolo, cioè l’abrogazione di gran parte dei poteri dell’Areopago, viene ridotto a un ruolo secondario, quasi di semplice portavoce di Pericle. Ciò evita a Pericle di essere accusato dagli avversari della riforma. Plutarco (Per. 9, 5) aggiunge un argomento supplementare a favore di questa interpretazione quando presenta la riduzione dei poteri dell’Areopago come la conseguenza del rammarico di Pericle per non avervi mai preso parte, dal momento che il sorteggio non l’aveva mai designato come arconte: «Come si sentì forte dell’appoggio popolare, Pericle si oppose al Consiglio. Ottenne, grazie a Efialte, che esso fosse privato della maggior parte dei suoi poteri». Efialte compare un’ultima volta nel racconto di Plutarco a proposito dell’accusa, formulata da Idomeneo di Lampsaco nei confronti di Pericle, di aver fatto assassinare Efialte. Plutarco (10, 7) reagisce con indignazione, ma sottolinea che Pericle «forse non fu irresponsabile in tutte le sue azioni». Non è un caso che questa allusione all’assassinio di Efialte cada dopo un’esposizione dei rapporti tra Cimone e Pericle. Plutarco non nasconde le sue preferenze per il figlio di Milziade, e nella contrapposizione fra i due uomini mette in risalto gli aspetti negativi del comportamento di Pericle. Si tratta in primo luogo della conseguenza più nefasta di quella rivalità, cioè l’istituzione dei misthoí, i salari pubblici: «Fu grazie a Pericle che il popolo ebbe diritto per la prima volta alle cleruchie, alle indennità per le rappresentazioni teatrali e a differenti retribuzioni, contraendo così abitudini perniciose: mentre in passato era stato saggio e industrioso, con queste misure divenne spendaccione e indisciplinato» (Plut. Per. 9, 1).
La spiegazione della creazione della misthophoría in chiave di rivalità fra Cimone e Pericle era già nella Costituzione degli Ateniesi, ma quest’ultima si riferiva essenzialmente alla retribuzione dei giudici. Plutarco, invece, inserisce nello stesso argomento anche l’indennità degli spettacoli (theōrikón) e la fondazione delle cleruchie, le colonie militari istituite sul territorio di alcune città alleate che si erano ribellate. Ma le conseguenze restavano sempre quelle già deplorate dagli scrittori del IV secolo: le cattive abitudini acquisite dal dēmos.
Κίμων Μιλτιάδο[υ] (“Cimone, figlio di Milziade”). Ostrakon, 486-461 a.C. ca. dalla Stoà di Attalo. Atene, Museo dell’Antica Agorà.
L’attenzione di Plutarco si concentra ancor più sulla responsabilità di Pericle nell’ostracismo di Cimone e del suo allontanamento dalla città. L’ostracismo di Cimone ebbe luogo nel 461, quando gli Spartani fecero allontanare il corpo di spedizione ateniese giunto in loro aiuto per sedare la rivolta degli iloti: gli Spartani avevano implicitamente accusato gli opliti ateniesi di fraternizzare con i rivoltosi (cfr. Thuc. I 34). Il comando della spedizione era stato affidato a Cimone, ed è verosimile che l’amarezza degli Ateniesi in seguito a quell’allontanamento, che segnò l’inizio della rottura tra le due città, sia stata all’origine del suo ostracismo. Plutarco insiste soprattutto sul rifiuto frapposto dagli amici di Pericle, che agivano evidentemente in accordo con lui, di permettere a Cimone di tornare a combattere a fianco dei suoi concittadini, quando i Lacedemoni scatenarono le ostilità. Non soltanto gli fu negato questo, ma Plutarco (Per. 10, 3) aggiunge: «Tutti gli amici di Cimone, che Pericle aveva accusato di sostenere Sparta, furono tutti tolti di mezzo indiscriminatamente». A questo punto, il biografo fa riferimento alla battaglia di Tanagra del 457, quattro anni dopo l’ostracismo di Cimone, nel corso della quale avvenne, secondo Tucidide (I 108, 1), «una grande carneficina da entrambe le parti». Gli Ateniesi furono sconfitti, ma poco dopo riportarono una vittoria sui Beoti, alleati degli Spartani, a Enofita. Non si sa esattamente quando ebbe termine l’esilio di Cimone. Plutarco menziona un decreto di cui Pericle sarebbe stato l’autore, che egli ebbe forse l’occasione di leggere direttamente. Comunque, dopo la conclusione di una pace quinquennale con gli Spartani, quando gli Ateniesi decisero di inviare una spedizione a Cipro, fu Cimone a guidarla, e fu proprio nel corso di questa spedizione che egli trovò la morte (Plut., Per. 10, 8; Thuc. I 112, 2-4). Secondo Plutarco (10, 5), sia il decreto di richiamo sia il comando affidato a Cimone furono l’esito di colloqui segreti fra i due uomini, avvenuti grazie alla mediazione di Elpinice, sorella di Cimone, che avrebbero portato a una sorta di spartizione del potere, in cui Pericle avrebbe avuto il comando in città, mentre Cimone lo avrebbe esercitato sul mare. È una spiegazione poco credibile, anche se Pericle, in questo modo, avrebbe effettivamente potuto allontanare Cimone dai luoghi in cui si decideva la politica ateniese. Quanto al modo poco cavalleresco con cui egli avrebbe trattato Elpinice, ricordandole in maniera inelegante che era troppo vecchia per ambire a immischiarsi negli affari della città, esso illustra bene l’immagine a luci e ombre che Plutarco offre di Pericle.
Del resto, già all’inizio del suo racconto Plutarco (Per. 5, 3) aveva riferito la testimonianza del poeta Ione di Chio, secondo il quale «le maniere di Pericle erano altezzose e orgogliose, e che a quelle grandi arie si univano molta boria e disprezzo per gli altri»; emergeva così il contrasto con le buone maniere di Cimone, apprezzato per tatto e delicatezza.
Stele funeraria degli opliti Chairedemos e Lykeas. Marmo pario, 420 a.C. ca. da Salamina. Pireo, Museo Archeologico Nazionale.
Sbarazzatosi di Cimone, Pericle dovette fronteggiare Tucidide di Alopece, meno dotato di Cimone per la guerra, ma «più abile di lui nell’agorà e nei dibattiti politici». Fu allora che Pericle «lasciò andare completamente le briglie sul collo del popolo e assunse delle misure volte a ottenerne il favore». In questa nuova prospettiva della sua politica Pericle non è più l’allievo virtuoso, influenzato dall’insegnamento di Anassagora, ma il demagogo preoccupato di procacciarsi i suffragi popolari. Tra queste nuove misure ci fu la moltiplicazione delle feste religiose, che erano un’occasione per offrire al dēmos indennità e banchetti pubblici; furono anche moltiplicate le cleruchie e fondata la colonia di Turi: «In tal modo alleggerì Atene di una turba oziosa, e, a causa dell’ozio, facinorosa; pose rimedio alle difficoltà economiche del popolo e stabilì nei fianchi degli alleati delle terribili guarnigioni, che toglievano loro la voglia di ribellarsi» (Plut. Per. 11, 1-6).
Furono inoltre intrapresi, come sappiamo bene, grandi lavori. […] L’interpretazione plutarchea dello scopo di questa politica è la seguente: dare lavoro agli artigiani e assicurare così la loro sussistenza, come del resto accadeva già con i marinai della flotta e con gli opliti, che ricevevano tutti un salario dalla città. Una simile motivazione, come si è visto, era estranea alle preoccupazioni degli Ateniesi del V secolo. Questo aspetto della politica periclea non è affatto giudicato negativamente, poiché, agli occhi dei contemporanei di Plutarco, esso testimoniava anzi «l’antico splendore della Grecia». Ma la giustificazione fornita da Pericle sull’impiego del tributo versato dagli alleati per finanziare il grande programma di edilizia pubblica permette a Plutarco (Per. 12, 2) di ricordare le accuse formulate dai suoi avversari, che ritenevano la Grecia «vittima di una terribile ingiustizia e di una tirannide evidente». L’accusa di tirannide non riguardava soltanto il dominio esercitato da Atene sugli alleati, ma anche il potere esercitato da Pericle sulla città, in particolare dopo l’ostracismo di Tucidide di Alopece, quando ormai egli non aveva più rivali. Certo, Plutarco (Per. 15, 1) constata che le divisioni cessarono e che la città conobbe un’«armonia» degna di ammirazione; ma constata anche che allora Pericle ebbe «il controllo totale di Atene e di tutto ciò che dipendeva dagli Ateniesi». Pericle finì per esercitare un potere superiore a quello di tanti re e tiranni. E se Plutarco rinvia al giudizio di Tucidide sul carattere «regale» di questa autorità, non manca tuttavia di menzionare il sarcasmo che essa suscitava nei poeti comici (16, 1): «Chiamano “dei nuovi Pisistratidi” la sua hetaireía, o lo sollecitano a giurare che non fonderà una tirannide, quasi che la sua preminenza fosse eccessiva e troppo gravosa per una città democratica».
Il cantiere del Partenone. Illustrazione di Y. Lee.
Proprio questa autorità esclusiva lo avrebbe condotto a coinvolgere Atene in una guerra che le sarebbe stata fatale. Ebbene, su questo punto, e senza peraltro negare, come si è visto, le qualità di Pericle come stratego e uomo di guerra, Plutarco non esita a dare eco alle maldicenze che spiegavano certi aspetti della sua politica con le esigenze della sua vita privata. Su questo piano, infatti, l’immagine di Pericle offerta da Plutarco (Plut. Per. 13, 15-16) presenta il maggior numero di ombre e di connotazioni negative, legate essenzialmente alla sua sessualità e al suo bisogno eccessivo di donne. Così, Fidia è sospettato di procurargli delle «donne libere» che Pericle incontrava in casa dello scultore. A queste donne egli offriva forse i pavoni allevati dall’uccellatore Pirilampo, uno dei suoi hetaîroi, i compagni appartenenti a quelle associazioni aristocratiche (hetairíai) che, qualche anno dopo, avrebbero organizzato il rovesciamento della democrazia. Lo si sospettava anche di avere come amante la moglie di un certo Menippo, «che era suo amico e comandava ai suoi ordini». Peggio ancora, a detta di Stesimbroto di Taso, egli avrebbe avuto rapporti peccaminosi con la moglie di suo figlio Santippo, il quale a sua volta avrebbe messo in giro questa voce per meglio screditare l’immagine del padre (cfr. Plut. Per. 36, 6). E poi, ovviamente, c’era Aspasia. La donna compare nel racconto di Plutarco (Per. 24, 2) a proposito dell’affare di Samo, con riferimento al vero motivo della decisione di Pericle di sostenere le pretese dei Milesi contro i Sami: «Siccome è opinione comune ch’egli abbia affrontato l’impresa di Samo per far piacere ad Aspasia, questo potrebbe essere il luogo più adatto per sollevare l’imbarazzante discussione della grande arte e del potere con cui questa donna dominò gli uomini politici più eminenti del suo tempo e offrì ai filosofi materia per elevate ed ampie discussioni».
Aspasia era originaria di Mileto e figlia di un certo Assioco. Ignoriamo per quale motivo e in che modo Assioco si fosse trasferito ad Atene. Forse si trattava di un meteco. Plutarco (Per. 24, 3-5) non si sofferma su questo punto e fa subito di Aspasia l’emula di una certa Targelia, anche lei di origine ionica e celebre cortigiana alla corte del Gran Re, che avrebbe sfruttato questa posizione per guadagnare alla causa dei Persiani numerosi Greci influenti e altolocati. Allo stesso modo, Aspasia amava intrattenersi con gli uomini più importanti e Plutarco precisa che il suo mestiere consisteva nel «formare piccole etere». Successivamente, i poeti comici accusarono Pericle di aver fatto votare il famoso decreto di Megara perché i Megaresi avevano rapito due cortigiane appartenenti ad Aspasia (cfr. Plut. Per. 30, 4; Aristoph. Acarn. 524-527). Aspasia era una cortigiana, una donna libera che riceveva a casa sua le visite di Socrate e dei suoi discepoli, e di uomini influenti che vi conducevano le proprie mogli «per far loro ascoltare la sua conversazione». Pericle, dunque, sarebbe stato soprattutto uno di coloro che subivano il fascino della sua intelligenza e del suo senso politico. A sostegno delle sue affermazioni, sorprendenti già a priori, Plutarco (Per. 24, 7) cita il Menesseno di Platone: «Seppure la prima parte del dialogo sia scritta con l’intonazione del divertimento, si trova perlomeno un’informazione storica: si riteneva che molti Ateniesi frequentassero Aspasia per imparare da lei la retorica». L’ingenuità del biografo fa sorridere, poiché il Menesseno è, dalla prima all’ultima parola, una parodia. Restano comunque innegabili i legami di Aspasia con Socrate e con i suoi allievi: infatti due di loro, Antistene ed Eschine Socratico, le dedicarono un dialogo ciascuno.
Eugène Delacroix, Aspasia. Olio su tela, 1824.
Una donna eccezionale, dunque, ma la cui relazione con Pericle fu diversa dai rapporti che legavano abitualmente una cortigiana agli uomini che frequentavano la sua casa. In effetti, «l’attaccamento di Pericle per Aspasia era, evidentemente, determinato dall’amore». Prova ne era il fatto che Pericle, per vivere con lei, ripudiò la moglie, madre dei suoi figli, e, agendo come un «tutore» (kýrios), la diede in sposa a uno dei suoi amici. Introdusse dunque Aspasia a casa propria, e l’amò con una tenerezza eccezionale: «Ogni giorno, a quanto dicono, uscendo di casa e rientrandovi venendo dall’agorà, la prendeva fra le braccia coprendola di baci» (Plut. Per. 24, 8-9). Il biografo ricorda anche il figlio che la donna ebbe da Pericle, ovviamente un nóthos (bastardo), perché la madre era una straniera e i genitori non erano uniti da un matrimonio legittimo. Tuttavia, Pericle lo riconobbe dopo la morte dei suoi figli legittimi. Pericle il Giovane intraprese la carriera politica, fu stratego nella battaglia delle Arginuse del 406 e il suo nome compariva che furono illegalmente condannati a morte dall’Assemblea (Plut. Per. 37, 5-6; Xen. Hel. I 7). Plutarco non manca di citare, a proposito di questo figlio bastardo, il sarcasmo di Cratino e di Eupoli. Poi, verso la fine della biografia, l’autore ritorna su Aspasia, a proposito del processo per empietà che le avrebbe intentato il poeta comico Ermippo. Il processo si collocherebbe in un momento in cui gli avversari di Pericle si scatenarono contro di lui e contro alcune delle persone a lui più vicine, tra le quali Fidia e Anassagora. Aspasia sarebbe stata prosciolta grazie all’intervento del suo amante, che «ottenne la sua grazia a forza di versar lacrime per lei e supplicando i giudici per tutta la durata del processo» (Plut. Per. 32, 5).
In tutte queste vicende ritorna l’immagine ambigua di Pericle. L’aristocratico, progenie di due grandi famiglie ateniesi, non esita a ripudiare la sposa legittima, madre dei suoi due figli, per introdurre in casa una donna che secondo l’opinione comune ateniese era una cortigiana. Ma quella donna era, al tempo stesso, un’amica dei filosofi, dotata di un’intelligenza eccezionale, e anche se influenzò in modo riprovevole alcune decisioni del suo amante (affare di Samo, decreto di Megara), l’influenza da lei esercitata risultò felice per l’uomo politico. La relazione sessuale, inoltre, non era tutto perché Pericle l’amava profondamente. Fu questo amore a spingerlo a intervenire in un processo versando lacrime, e a violare la legge, da lui stesso fatta approvare, per riconoscere il figlio illegittimo, al fine di assicurarsi una discendenza dopo la morte dei suoi due figli. Anche i rapporti di Pericle con questi due figli sono ambigui. Abbiamo già ricordato le dicerie che circolavano sui rapporti di Pericle con la moglie di Santippo. Nell’ultima parte della biografia Plutarco (36, 3-4) ritorna nuovamente sulle discordie esistenti in famiglia, e a proposito dello stesso Santippo ricorda una vicenda alquanto sordida:
Il maggiore dei suoi figli legittimi, Santippo, che era uno spendaccione per natura e aveva una giovane moglie cui piaceva il lusso, figlia di Tisandro figlio di Epilico, mal sopportava l’oculata amministrazione di suo padre, che gli passava magre entrate e gliele distribuiva in piccole quantità. Si rivolse dunque a un amico di Pericle che gli diede del denaro, credendo che fosse suo padre a chiederlo. Quando quest’uomo lo richiese indietro, Pericle gli intentò un processo. Allora il giovane Santippo, indignato da questo comportamento, si mise a diffamare suo padre.
Lo accusava, in particolare, di discutere con i sofisti di argomenti ridicoli, come quello di sapere se il responsabile della morte di un certo Epitimo di Farsalo era stato il giavellotto o colui che l’aveva lanciato. Sarebbe stato inoltre lo stesso Santippo, come si è già accennato, a diffondere la voce secondo la quale Pericle aveva una relazione con la sua giovane moglie. La lite tra padre e figlio non si concluse che con la morte di quest’ultimo, vittima della peste. In compenso, i rapporti di Pericle con il secondo figlio sembrano molto diversi, e quando quest’ultimo fu a sua volta vittima dell’epidemia, Pericle, che fino ad allora aveva sopportato con coraggio la morte dei suoi cari, fu vinto dalla sofferenza e si sciolse in lacrime sul cadavere del figlio.
Scena assembleare. Illustrazione di H.M. Herget.
Al termine della narrazione Plutarco ricorda come Pericle, ritornato a capo della città dopo esserne stato allontanato, non esitasse a violare una legge da lui stesso voluta per permettere al figlio avuto da Aspasia di essere iscritto nella sua fratria e di portare il suo nome. Plutarco menziona al riguardo le ragioni per le quali gli Ateniesi si lasciarono convincere e accettarono di contravvenire alla legge: furono sensibili alle disgrazie che avevano colpito la casa di Pericle con la morte di entrambi i figli. Ma al tempo stesso, sottolinea Plutarco (Per. 37, 5) non senza una certa perfidia, quelle disgrazie erano, secondo loro, «il castigo per il suo orgoglio e la sua arroganza». Passiamo a un’altra malignità. Plutarco (Per. 38, 2) attribuisce a Teofrasto un esempio del modo in cui le sofferenze del corpo possono alterare il carattere e allontanarlo dalla virtù: «Egli racconta che, durante la sua malattia, Pericle mostrò a uno dei suoi amici venuto a fargli visita un amuleto che le donne gli avevano appeso al collo. Teofrasto vede in questo il segno che egli doveva stare molto male, se si prestava a simili sciocchezze». Così l’allievo di Anassagora, l’uomo che si lasciava guidare soltanto dalla ragione, nel momento finale si rivelava un essere senza difese, pronto ad accettare le superstizioni femminili, lui che era stato il compagno di una donna eccezionale e amica dei filosofi. Tuttavia, […] la biografia di Pericle si conclude con un elogio:
Dunque Pericle fu un uomo ammirevole, non soltanto per la dolcezza e la bontà che conservò sempre, anche tra vicende diverse e odi profondi, ma pure per l’altezza dello spirito, se delle glorie stimò più fulgida quella di aver mai ceduto d’un palmo, anche quand’era potentissimo, né all’invidia né alla passione, e di non avere mai considerato insanabile nessuna inimicizia (Plut. Per. 39, 1).
Plutarco (Per. 39, 3-4) ricorda inoltre i sentimenti degli Ateniesi di fronte agli avvenimenti che seguirono la sua morte e la mediocrità di coloro che presero il suo posto alla guida della città:
Riconobbero che non esisteva un carattere più di lui umile nella grandezza e augusto nell’affabilità. Quella sua forza tanto odiata e chiamata, un tempo, monarchia e tirannide, ora si rivelò un baluardo che aveva salvato la città.
È questa l’immagine trasmessa ai posteri.
Pittore Duride. L’assegnazione delle armi di Achille presieduta da Atena. Pittura vascolare da una kylix attica a figure rosse, 500-450 a.C. ca. da Cerveteri. Berlin, Antikensammlung.
La tavola bronzea di Banasa, realizzata tra il 180 ed il 181 d.C. e ancora esposta in pubblico dopo il 185[1], fu rinvenuta, nel giugno[2] 1957, abbattuta al suolo in un settore non scavato, nelle vicinanze delle terme, nel foro della colonia della Mauretania Tingitana, in prossimità di un edificio ad abside, che non è certo sia stato la sede della curia cittadina.
Mappa dell’Africa Tingitana (Mauretania).
Fu esposta forse in pubblico, non ufficialmente, in un monumento in onore dell’imperatore Marco Aurelio[3], in ringraziamento delle concessioni individuali di cittadinanza, come frequentemente accadeva[4].
Si esibivano infatti in ogni località per ostentazione i provvedimenti imperiali, in questo caso in favore di alcuni maggiorenti della gens degli Zegrensi (l. 32: gentis; l. 16: gentium), stanziata sulle pendici centromeridionali del Rif; benefici che, pur non intaccando gli oneri tributari dei singoli verso l’amministrazione romana (ll. 37/38: sine diminutione tributorum et vectigalium populi et fisci), non esimevano dagli obblighi nei confronti della propria gente e pare consentissero il mantenimento delle consuetudini locali (ll. 13 e 37: salvo iure gentis), per non rendere i nuovi cittadini immuni dalle responsabilità locali ed emarginati dalle pratiche correntemente utilizzate in provincia, prima dell’ampia concessione da parte di Caracalla. E dunque si è ritenuto che la Tabula possa contribuire a chiarire la lettura delle controverse ll. 7-9 del P. Giess. 40, 1 e la questione dei rapporti tra diritto romano e consuetudini locali prima e dopo la Constitutio Antoniniana de civitate.
Il testo documenta inoltre l’esistenza a Roma (l. 31), da Augusto in poi (ll. 23-29), del registro ufficiale delle concessioni di cittadinanza, finora noto solo in base a cenni in Plinio[5], fornendoci al contempo l’unica copia di originali provenienti da tale considerevole archivio ufficiale[6].
Nel testo epigrafico, inciso sul recto, sono trascritti tre documenti:
Copia di una epistula (ll. 1-13) degli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero a Coiedio Massimo, governatore della Mauretania Tingitana tra il 161 e il 168/9 d.C.[7], in risposta a un libello allegato a una epistula, sollecitante la cittadinanza in favore di Giuliano, lo Zegrense, concessa con la clausola salvo iure gentis, al medesimo, alla moglie Ziddina e ai quattro figli (Giuliano, Massimo, Massimino e Diogeniano), indicati con le rispettive età.
Copia di un’altra epistula (ll. 14-21), collegata alla prima, degli imperatori Marco Aurelio e Commodo a Vallio Massimiano, governatore della medesima provincia nel 177 d.C. in risposta a un libello del figlio del primo Giuliano, anche lui di nome Giuliano, segnalato per i suoi meriti dal precedente governatore, Epidio Quadrato, sollecitante la concessione della cittadinanza per la moglie Faggura e i figli. Anche tale beneficio è concesso con la clausola salvo iure gentis, previa indicazione dell’età di ciascuno per l’inserimento nel registro ufficiale a Roma.
Estratto dal registro ufficiale (ll. 22-53) dei nuovi cittadini romani (descriptum et recognitum ex commentario civitate romana donatorum) con i nomi di dodici autorevoli signatores, funzionari e giuristi componenti del consilium principis, datato il 6 luglio 177 (ll. 30-31), che consente di retrodatare la seconda epistula alla prima metà dell’anno. Nella copia del registro tenuto a Roma da Augusto in poi, rilasciata su richiesta (per libellum) di Aurelio Giuliano, avallata con lettera (suffragante … per epistulam) da Vallio Massimiano, e autenticata il medesimo giorno, nel medesimo luogo, dal funzionario dell’ufficio competente, il liberto Asclepiodoto (ll. 29 e 40)[8], sono menzionati i nomi e le rispettive età della moglie e dei quattro figli (Giuliana, Massima, Giuliano e Diogeniano), precisando con burocratica pignoleria che la concessione è stata effettuata, salvo iure gentis, ma sine diminutione tributorum et vectigalium populi et fisci.
Sul verso furono incise per prova settantasei lettere, senza alcun ordine costante. La Tabula conservata nel Museo delle Antichità di Rabat in Marocco, dunque, non solo consente di seguire passo a passo tutta la procedura utilizzata nel II sec. d.C. per concedere la cittadinanza romana a singoli individui[9], ma offre l’indicazione dell’esatto significato da attribuire alle due clausole di salvaguardia inserite nella concessione per evitare due possibili conseguenze dell’acquisto della cittadinanza che sembrano riecheggiare nelle danneggiate ll. 7-9 del P. Giess. 40, 1[10]: l’assorbimento del ius gentis dell’aspirante civis nel diritto di Roma e la cessazione degli obblighi fiscali in quanto peregrino[11].
In riferimento alla prima (salvo iure gentis), contestando l’identificazione del ius gentis come “diritto della tribù” proposta dagli editori[12] e manifestando la difficoltà di connettere l’idea del ius a entità politiche di riferimento, come i popoli nomadi o semi-nomadi della Mauretania, o di tradurre pedissequamente gens con tribù, è stata pure avanzata l’ipotesi dell’esistenza di un foedus tra Roma e gli Zegrenses, che avrebbe reso costoro di fatto estranei alla giurisdizione del governatore provinciale[13]. L’opinione prevalente comunque non esita a valutare il riferimento come relativo alle consuetudini ancestrali, giustificandone l’insistenza alla luce della peculiare condizione giuridica dei gentiles della Tingitana, privi di uno specifico status civitatis, ma non di un proprio ius gentis[14]. Per non rendere “stranieri nella propria terra” i beneficati che senza la suddetta clausola di salvaguardia avrebbero dovuto utilizzare solo il diritto romano, si consentiva anche l’impiego sussidiario delle consuetudini locali.
In rapporto all’inserzione da parte del burocrate della cancelleria a Roma della seconda clausola di salvaguardia (sine diminutione tributorum et vectigalium populi et fisci), che tutelava questa volta soprattutto gli interessi dell’amministrazione romana e locale, poiché assicurava la persistenza ‘fiscale’ del rapporto tra Roma e l’ex-peregrino, si è osservato che in tal modo si evitava il pericolo del formarsi di una sorta di élite, dotata di immunità rispetto ai vincoli giuridico-politici della comunità locale di appartenenza, che avrebbe potuto incidere negativamente sulla stabilità delle province, necessaria soprattutto nei territori di confine[15].
Ancora una volta veniva assicurata così la “conservazione dell’affidabilità giuridica e della responsabilità nei rapporti tra privati dell’ex-peregrino, dal punto di vista della sua comunità di provenienza e cioè, nel caso della Tabula Banasitana, la tribù degli Zegrenses”[16].
La ricostruzione di tale situazione in Mauretania, pochi anni prima della Constitutio Antoniniana de civitate, non può che riflettersi sulla controversa valutazione della portata di essa, delle sue conseguenze, del dibattuto problema della cd. doppia cittadinanza, quella d’origine e la romana, che J. Mélèze-Modrzejewski per primo ha correttamente valutato, non in termini di un improponibile contrasto, ma di inclusione l’una nell’altra[17].
Alla luce del testo della Tabula Banasitana, si è dunque proposto di integrare la lacunosa espressione della l. 9 del P. Giess. 40, 1 (… χωρ[…] τῶν [..]δειτικίων), non riferendola alla celebre esclusione dei dediticii (… χωρ[ὶς] τῶν [δε]δειτικίων), bensì come (… χωρ[ὶς] τῶν [αδ]-δειτικίων)[18].
L’acuta proposta di Oliver, che non è comunque l’unica possibile[19], potrebbe essere interpretata come riferentesi ai vantaggi fiscali che normalmente si aggiungevano alla concessione della cittadinanza (additicia beneficia), in tutto equivalendo all’espressione “sine diminutione tributorum et vectigalium populi et fisci” della Tabula Banasitana, o potrebbe essere intesa, come propone Marotta, salvaguardante “quei regolamenti addizionali o supplementari che concedevano specifiche esenzioni dai iura (dikaia) ricordati (se accettiamo quest’ipotesi ricostruttiva) alla l. 9” dello stesso P. Giess. 40, 1[20]. In tal modo, nel 212 d.C., nessuno sarebbe stato escluso dalla concessione della cittadinanza, come dichiara lo stesso papiro, ma sarebbero stati mantenuti gli obblighi delle civitates e delle altre comunità dell’Impero (i politeúmata della l. 8), così come sarebbero stati salvaguardati privilegi e immunità concessi, ad esempio, ai veterani e alle loro famiglie[21].
Tabula Banasitana. Bronzo, 180-181 d.C. da Banasa (Marocco), Musée archéologique de Rabat.
Testo:
Exemplum epistulae Imperatorum nostrorum An[toni-]
ni et Veri Augustorum ad Coi((i))edium[22] Maximum:
li((i))bellum Iuliani Zegrensis litteris tuis iunctum legimus, et
quamquam civitas romana non nisi maximis meritis pro-
5 vocata in<dul>gentia principali gentilibus istis dari solita sit,
tamen cum eum adfirmes et de primoribus esse popularium
suorum, et nostris rebus prom<p>to obsequio fidissimum, nec
multas familias arbitraremur aput Zegrenses paria poss((
i))[e] de offic<i>is suis praedicare quamquam plurimos
cupiamus ho-
10 nore a nobis in istam domum conlato ad aemulationem Iuliani
excitari, non cunctamur et ipsi Ziddinae uxori, item
liberis Iuliano, Maximo, Maximino, Diogeniano, civitatem
romanam salvo iure gentis, dare.
Exemplum epistulae Imperatorum Antonini et Commodi
Augg(ustorum)[23]
15 ad Vallium Maximianum:
legimus libellum principis gentium Zegrensium animadvertimusq(
ue) quali favore Epidi Quadrati praedecessoris tui iuvetur; proinde
et illius testimonio et ipsius meritis et exemplis[24] quae
allegat permoti, uxori filiisq(ue) eius civitatem romanam, sal-
20 vo iure gentis, dedimus. Quod in commentarios nostros referri
possit, explora quae cui((i))usq(ue) aeta((ti))s sit, et scribe nobis.
Descriptum et recognitum ex commentario civitate romana
donatorum divi Aug(usti) et Ti(beri) Caesaris Aug(usti), et C(aii)
Caesaris, et divi Claudii,
et Neronis, et Galbae, et divorum Aug(ustorum) Vespasiani et Titi
et Caesaris
25 Domitiani, et divorum Aug(ustorum) Ner<v>ae et Trai((i))ani
Parthici, et Trai((i))ani
Hadriani, et Hadriani Antonini Pii, et Veri Germanici Medici
Parthici Maximi et Imp(eratoris) Caesaris M(arci) Aurelii
Antonini Aug(usti) Germanici
Sarmatici, et Imp(eratoris) Caesaris L(ucii) Aureli Commodi
Aug(usti) Germanici Sarmatici,
quem protulit Asclepiodotus lib(ertus), id quod i(nfra)
s(criptum) est.
30 Imp(eratore) Caesare L(ucio) Aurelio Commodo Aug(usto) et
M(arco) Plautio Quintilio co(n)s(ulibus),
p(ridie) non(as) Iul(ias), Romae.
Faggura uxor Iuliani principis gentis Zegrensium ann(orum) ς[25]
XXII,
Iuliana ann(orum) ς VIII, Maxima ann(orum) ς IV, Iulianus
ann(orum) ς III, Diogenianus
ann(orum) ς II, liberi Iuliani s(upra) s(cripti).
35 Rog(atu) Aureli Iuliani principis Zegrensium per libellum suffragante
Vallio Maximiano per epistulam, his civitatem romanam dedimus,
salvo iure gentis, sine diminutione tributorum et vect <i>galium
populi et fisci.
Actum eodem die, ibi, isdem co(n)s(ulibus)
40 Asclepiodotus lib(ertus), recognovi.
Signaverunt:
M(arcus) Gavius M(arci) f(ilius) Pob(lilia tribu) Squilla Gallicanus[26]
M(arcus) Acilius M(arci) f(ilius) Gal(eria tribu) Glabrio
T(itus) Sextius T(iti) f(ilius) Vot(uria tribu) Lateranus
45 C(aius) Septimius C(aii) f(ilius) Qui(rina tribu) Severus
P(ublius) Iulius C(aii) f(ilius) Ser(gia tribu) Scapula Tertullus[27]
T(itus) Varius T(iti) f(ilius) Cla(udia tribu) Clemens
M(arcus) Bassaeus M(arci) f(ilius) Stel(latina tribu) Rufus
P(ublius) Taruttienus P(ubli) f(ilius) Pob(lilia tribu) Paternus
50 [………. Tigidius …………………………………………. Perennis]
Q(uintus) Cervidius Q(uinti) f(ilius) Arn(ensi tribu) Scaevola
Q(uintus) Larcius Q(uinti) f(ilius) Qui(rina tribu) Euripianus
T(itus) Fl(avius) T(iti) f(ilius) Pal(atina tribu) Piso.
M. Aurelio Commodo Antonino Augusto. Sestertius, Roma 177-192 d.C. Æ 32,08 g. Rovescio: personificazione dell’Africa, stante, verso destra, che porta un’elaborata acconciatura guarnita con una pelle di elefante, e un leone prostrato ai suoi piedi. Impugna un sistro e porge un covone di grano a Ercole (Commodo?) rivolto a sinistra. Sul bordo la legenda: Provid·entiae·Aug(ustae); in exergo: S(enatus)·c(onsulto).
Traduzione (da Migliario, Gentes foederatae, cit., 457 ss.):
Copia della lettera dei nostri imperatori, gli Augusti
Antonino e Vero, a Coedio Massimo:
abbiamo letto la petizione di Giuliano Zagrense allegata alla tua lettera e,
benché non rientri nel costume abituale donare la cittadinanza romana
a tali uomini delle tribù, a meno che dei meriti eccezionali non suscitino
la benevolenza imperiale, tuttavia, dal momento che tu attesti che
il richiedente è uno dei più eminenti del suo popolo, e che, uomo
di assoluta fedeltà, aderisce alla nostra causa senza esitazioni, e giacché
siamo del parere che non molti gruppi famigliari degli Zegrensi possono
vantare meriti comparabili con i suoi – per quanto noi desideriamo che,
visto l’onore concesso alla casata di Giuliano, parecchi siano incitati
a imitarlo – non esitiamo a donare a lui, a sua moglie Ziddina, nonché
ai loro figli Giuliano, Massimo, Massimino e Diogeniano, la cittadinanza
romana, senza che ciò pregiudichi il diritto vigente per il suo popolo.
Copia della lettera degli imperatori Antonino e Commodo Augusti
a Vallio Massimiano: abbiamo letto la petizione del capo della tribù
degli Zegrensi e abbiamo preso atto di quale favore egli goda da parte
del tuo predecessore Epidio Quadrato; pertanto, mossi sia dalle attestazioni
di stima di costui, sia dalle azioni meritevoli di quello, qui
documentate dagli allegati, concediamo a sua moglie e ai suoi figli la
cittadinanza romana, fatto salvo il diritto vigente per il suo popolo,
ma affinché tale provvedimento possa essere inserito nei nostri registri,
informati di quale sia l’età di ciascuno di loro, e scrivicelo.
Estratto, descritto e collazionato dal registro elencante coloro che
hanno ottenuto la cittadinanza romana – dal divino Augusto, da Tiberio
Cesare Augusto, da Gaio Cesare, dal divino Claudio, da Nerone,
da Galba, dai divini Augusti Vespasiano e Tito, da Domiziano Cesare,
dai divini Augusti Nerva, Traiano Partico, Traiano Adriano, Adriano
Antonino Pio e Vero Germanico Medico Partico Massimo, dall’imperatore
Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto Germanico Sarmatico
e dall’imperatore Cesare Lucio Aurelio Commodo Augusto Germanico
Samtatico – che il liberto Asclepiodoto ha prodotto, e che viene trascritto
qui di seguito.
Sotto il consolato dell’imperatore Cesare Lucio Aurelio Commodo
Augusto e di Marco Plauzio Quintillo, alla vigilia delle none di luglio,
a Roma.
Faggura, moglie di Giuliano, capo della tribù degli Zegrensi, di anni
ventidue; Giuliana, di anni otto, Massima, di anni quattro, Giuliano, di
anni tre, Diogeniano, di anni due, figli del suddetto Giuliano.
Dietro richiesta di Aurelio Giuliano, capo degli Zegrensi, avanzata
tramite domanda scritta, con l’appoggio espresso per lettera di Vallio
Massimiano, noi concediamo loro la cittadinanza romana, fatto salvo il
diritto vigente per il loro popolo, e senza sgravio delle tasse e dei tributi
dovuti al popolo romano e al fisco imperiale.
Fatto il giorno medesimo, ivi, sotto gli stessi consoli.
Io, Asclepiodoto liberto, l’ho collazionato.
Hanno sottoscritto:
Marco Gavio Squilla Gallicano, figlio di Marco, della tribù Popillia;
Marco Acilio Glabrio, figlio di Marco, della tribù Galeria;
Tito Sestio Laterano, figlio di Tito, della tribù Voturia;
Gaio Settimio Severo, figlio di Gaio, della tribù Quirina;
Publio Giulio Scapula Tertullo, figlio di Gaio, della tribù Sergia;
Tito Vario Clemente, figlio di Tito, della tribù Claudia;
Marco Basseo Rufo, figlio di Marco, della tribù Stellatina;
Publio Taruttieno Paterno, figlio di Publio, della tribù Publilia;
[Sesto Tigidio Perenne, figlio di ?, della tribù ?];
Quinto Cervidio Scevola, figlio di Quinto, della tribù Amensis;
Quinto Larzio Euripiano, figlio di Quinto, della tribù Quirina;
Tito Flavio Pisone, figlio di Tito, della tribù Palatina.
Tabula Banasitana. Apografo realizzato da Sergio Giannobile.
[3] H. Wolff, Die Constitutio Antoniniana und Papyrus Gissensis 40, 1, I-II, (Diss. 1972), Köln 1976, 87-8.
[4] Come nel caso dell’iscrizione di Ombos, posta l’8 novembre del 212 d.C. da Marco Aurelio Mela, in ringraziamento a Caracalla.
[5]Plinio, Epistole 10, 5-7; 10-11; E. Volterra, La Tabula Banasitana (a proposito di una recente pubblicazione), BIDR, 77, 1974, 414 e s.; E. Migliario, Nota in margine alla Tabula Banasitana, AA.VV., Miscillo Flamine. Studi in onore di C. Rapisarda, Trento 1997, 226 ss.; A.N. Sherwin-White, The Tabula of Banasa and the Constitutio Antoniniana, JRS, 63, 1973, 89 ss.; C. Giachi, La Tabula Banasitana: cittadini e cittadinanza ai confini dell’impero, Atti del Seminario Internazionale “Civis/civitas. Cittadinanza politico – istituzionale e identità socio-culturale da Roma alla prima età moderna”, Siena – Montepulciano (10–13 luglio 2008), 2008, 75.
[6] F. Millar, Epigrafia, Le basi documentarie della storia antica, Bologna 1984, 110-111, il quale sottolinea il fatto che molti interrogativi suscitati dal documento sono al momento senza risposta: l’esatta storia e natura, l’organizzazione e la funzionalità, la collocazione e la mobilità di un archivio di tale importanza e mole.
[7] H. Wolff, Die Constitutio Antoniniana und Papyrus Gissensis40, 1, II, cit., 381 nt. 222.
[8] Diversamente E. Volterra, op. cit., 410 ritiene l’estratto “presentato” da un liberto. Sul significato tecnico dell’espressione “recognovi” cfr. A.N. Sherwin-White, The Tabula of Banasa and the Constitutio Antoniniana, JRS, 63, 1973, 90; N. Palazzolo, Le modalità di trasmissione dei provvedimenti imperiali nelle province (II-III sec. d.C.), Iura, 28, 1977 (pubbl. 1980), 40-94 = Ius e Techne. Scritti Palazzolo, I, Torino 2008, 193 e s.
[9] E. Volterra, op. cit., 412 ss. In realtà, nel dossier epigrafico locale figurano solo le copie delle risposte imperiali e dell’estratto del registro ufficiale, ma non delle richieste e delle relative lettere di accompagnamento con suffragationes dei governatori, che avrebbero potuto completare il dossier ed essere conservate nell’archivio centrale a Roma.
[10] Il “…μένοντος…” potrebbe corrispondere a “…salvo…”, il “…χωρὶς…” a “…sine…”.
[11] C. Giachi, La Tabula Banasitana: cittadini e cittadinanza ai confini dell’impero, Atti del Seminario Internazionale “Civis/civitas. Cittadinanza politico – istituzionale e identità socio-culturale da Roma alla prima età moderna”, Siena – Montepulciano, 10–13 luglio 2008, 2008, 80.
[12] W. Seston, M. Euzennat, Un dossier de la cancellerie romaine, cit., 479 = W. Seston, Scripta varia, cit., 96; diversamente E. Volterra, op. cit., 436 ss.
[13] E. Migliario, Gentes foederatae. Per una riconsiderazione dei rapporti romano-berberi in Mauretania Tingitana, Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, 396, ser. IX, vol. X, fasc. 3, Roma 1999, 450 ss.
[14] V. Marotta, La cittadinanza romana in età imperiale (secoli I-III). Una sintesi, Torino 2009, 73.
[15] C. Giachi, La Tabula Banasitana, cit., 83; V. Marotta, La cittadinanza romana, cit., 92.
[16] C. Giachi, l.c.; V. Marotta, La cittadinanza romana, cit., 112 ss.
[17] J. Mélèze-Modrzejewski, La regle du droit dans l’Égypte romaine, Proceedings of the twelfth Intern. Congress of Papyrology (Ann Arbor, 1968), Toronto 1970, 317 – 377. Cfr. infra la Constitutio Antoniniana de civitate.
[19] Ad es. ghenteilikín, facendo riferimento al problema dei tria nomina dei novi Aurelii (P. Jouguet, La vie municipale l’Égypte romaine, Parigi 1911, 354 ss.) o apoleitikín, escludendo coloro che erano privi di ogni cittadinanza prima della concessione (R. Böhm, Studien zur Civitas Romana II: eine falsche Lesart bei Aelius Aristides, in Roman 65, Aegyptus, 43, 1963, 54 ss.; contra E. Kalbfleisch, v. Heichelheim, JEA 26, 1940, 16 nt. 2). Cfr. V. Marotta, La cittadinanza romana, cit., 113 e 120.
[20] V. Marotta, La cittadinanza romana, cit., 114.
[22] Questa, ed altre caratteristiche ortografiche, come la diplé delle ll. 32-34, si ritiene che rivelino che la Tabula Banasitana è copia di un originale emanato dalla cancelleria imperiale. Cfr. W. Seston, M. Euzennat, Un dossier de la cancellerie romaine, cit., 478 = W. Seston, Scripta varia, Roma 1980, 95; H. Wolff, Die Constitutio Antoniniana und Papyrus Gissensis 40, 1, cit., II, 380 nt. 219.
[23] L’interruzione della linea a tal punto non è registrata nell’editio princeps e la svista è stata seguita da molti, ma non in ILMaroc 94; edizione seguita da E. Migliario, Gentes foederatae, cit., 454 e da V. Marotta, La cittadinanza romana, cit., 80.
[24] Anche in tal punto l’editio princeps registra una interruzione della linea che invece nella Tabula si constata solo dopo la successiva parola “quae”. Dalla ripetizione dell’errore si discosta ILMaroc 94; edizione correttamente seguita da E. Migliario, l.c. e V. Marotta, l.c.
[25] Segno della diplé, indicante una semplice abbreviazione, e non più o meno (circiter); cfr. R. Marichal, De l’usagé de la “diplè” dans les inscriptions et les manuscrits latins, Paleographica diplomatica et archivistica. Studi in onore di G. Battelli, I, Roma 1979, 63-69.
[26] M(arcus) Gau[i]us M(arci) f(ilius) Pob(lilia tribu) Squilla Ga[l]licanus (Seston, Euzennat); M(arcus) Gav[i]us M(arci) f(ilius) Pob(lilia) Squilla Ga[l]licanus (Marotta). Ma, sia la “i” di “Gavius”, che la “l” di “Gallicanus” sono nella Tabula evidenti. Gallicano fu console nel 150 d.C.; Glabrione nel 152; Laterano nel 154; Severo nel 160; Scapula Tertullo nel 160/6; Vario Clemente ex-ab epistulis; Basseo Rufo ex-prefetto del pretorio; Taruttieno Paterno prefetto del pretorio prima del 179, sino al 182; Tigidio Perenne prefetto del pretorio dal 180/1, sino al 185, Q. Cervidio Scevola giurista e prefetto dei vigili nel 175, di Q. Larcio Euripiano non si conosce la carica e Fl. Pisone fu prefetto dell’annona nel 179.
[27] Anche in questo caso la seconda “l” di Tertullus, data per integrata (Tertul[l]us), appare invece chiaramente tracciata nella Tabula.
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