di G. Dumézil, La religione romana arcaica: Miti, leggende, realtà, a cur. di F. Jesi, Milano 2011, 189-223.
In tutte le epoche della storia che ci sono accessibili, il sentimento comune dei Romani considerava la guerra ambito di Māuors – Mars. Alcuni studiosi moderni hanno aperto controversie bizantine: bisogna dire «dio della guerra» o «dio dei guerrieri», o «dio guerriero»? Ma esistono davvero nell’antichità dei puri «dèi della guerra», degli «dèi guerrieri», i quali non siano altro che ciò? I cavilli di vocabolario lasciano intatta l’impressione che scaturisce da una documentazione immensa. Dal giorno in cui, circa un secolo fa, le rigorose indagini di Wilhelm Mannhardt sul folklore europeo aprirono la via ad una assai meno rigorosa mitologia agraria e ad una sorta di aggressivo «panagrarismo» da parte degli stessi discepoli del maestro, discussioni molto più importanti sono state suscitate su Marte: in origine, Marte era forse stata un grande dio onnivalente, tanto agrario quanto guerriero, o addirittura più agrario che guerriero? I latinisti si sono divisi in due partiti: cinquant’anni fa Georg Wissowa sosteneva con energia il Marte guerriero contro Wilhelm Roscher, Hermann Usener, e soprattutto Alfred von Domaszewski; fa piacere oggi vedere Kurt Latte rifiutare dal medesimo punto di vista la più recenti ipotesi di Herbert J. Rose che, per maggior complicazione, hanno inserito anche la caccia fra gli elementi del problema. Queste controversie sono state assai utili. Proprio sull’argomento del «Marte agrario», i moderni metodi di studio della religione romana danno forse la miglior prova della loro forza o della loro debolezza.

Il calendario e la topografia sacra, la letteratura e le iscrizioni, la leggenda per i primi secoli e la storia per gli ultimi, forniscono copiosissime prove del rapporto essenziale fra Marte e la guerra.

Il ciclo delle feste del dio si divide in due gruppi, di cui l’uno apre (mese di marzo, con alcuni prolungamenti) e l’altro chiude (mese di ottobre) la stagione guerresca: in primavera, gli Ecurria (Equirria), celebrati con le corse nel Campo Marzio (27 febbraio e 14 marzo), la lustrazione delle armi ai Quinquatrus (19 marzo) e quella delle trombe al Tubilustrium (23 marzo, 23 maggio); in ottobre, il rito del Cavallo d’Ottobre alle Idi e la lustrazione delle armi il 19, ai quali bisogna certamente aggiungere, per le Calende, il rito del tigillum sororium, spiegato dalla leggenda del giovane Orazio, prototipo del guerriero sottoposto a una purificazione dopo le violenze necessarie o superflue della guerra.

Fino al tempo delle fondazioni di Augusto in favore di Marte Ultore, vendicatore di Cesare e delle insegne prese dai Parti, i santuari di Marte furono sottoposti a una regola, esplicitamente formulata: come una sorta di sentinella, il dio ebbe la sua sede non all’interno della città, in cui doveva regnare la pace ed era precluso l’accesso alle truppe armate, ma fuori della cinta, sul limitare della Wildnis che non era, sebbene sia stato detto il contrario, il suo ambito, bensì la provenienza dei pericoli e innanzitutto del nemico in armi. Sul campus che portava il nome del dio sorgeva un antichissimo altare, ara Martis in campo, completato tardivamente, nel 138, da un tempio per voto di D. Giunio Bruto Callaico. Esisteva inoltre il celebre templum Martis extra portam Capenam, presso al quale si concentravano le armate destinate a intervenire nella regione a sud di Roma (Livio, VII 23, 3) e dal quale partiva la grande parata religiosa della cavalleria, transuectio equitum che meravigliò con il suo splendore Dionigi di Alicarnasso (VI 13, 4). Il tempio della porta Capena è uno dei santuari romani che godettero di maggiore longevità: dedicato al principio del IV secolo a.C. dal duumviro T. Quinzio, in seguito a un voto pronunciato durante il dramma gallico, il santuario durò più di ottocento anni; lo distrusse certamente l’imperatore Onorio quando fece riparare il muro di Aureliano a spese degli edifici vicini, e si pensa che i blocchi di marmo inseriti nella ricostruzione della porta Appia provengano da quell’antico testimone della grandezza romana… Il sacrarium Martis della Regia, in Roma, non contraddice la regola: si tratta, infatti, soltanto di un deposito di oggetti sacri relativi alla guerra, che erano in relazione con alcuni riti; d’altronde era necessario che anche la funzione guerresca fosse presente nella «casa del re», sintesi di tutte le funzioni.
Gli oggetti sacri della Regia, così come i servigi che i Romani si aspettavano da essi, erano esclusivamente guerreschi: degli scudi, e la lancia o le lance di Marte (senza dubbio, nel periodo più antico, la lancia che simboleggiava Marte, la «lancia chiamata Marte»), che il comandante in capo veniva a toccare, dicendo «Mars uigila», prima di assumere le sue funzioni.

Le invocazioni dei pontefici aggiungevano a molte divinità maschili delle entità femminili, astrazioni personificate, che in una mitologia più pittoresca sarebbero state certamente delle spose e che, in qualche caso, riuscirono infine ad essere considerate davvero tali. Nella lista citata da Gellio (Noctes Atticae, XIII 23, 2) si trovano così associate a Marte una Nerio e delle Moles. Le Moles, confermate dall’epigrafia, si riferiscono senza dubbio alle «masse» dinamiche (moles) agitate possentemente (moliri) dalla guerra. A parte l’aggettivo di glossario nerosus, il nome di Nerio è l’unica sopravvivenza in latino del termine *ner- che, a giudicare dall’uso indo-iranico e anche all’uso umbro, si contrapponeva in indoeuropeo a *uīro-, come l’uomo considerato nella sua dimensione morale eroica si contrappone all’uomo – produttore, generatore, generato, schiavo – considerato quale elemento demografico o economico; questo nome arcaico, che in latino classico andrebbe tradotto approssimativamente con uirtus, poiché uir assume gli antichi significati del *ner- scomparso, ricorda il vedico nárya, diverso da vīryà. Esso dunque colloca Marte nell’ambito che, presso gli Indoiranici, fornì il nome stesso del dio omologo, Indra (*ǝnro-), «l’eroico». L’analisi delle condizioni e delle componenti della vittoria in combattimento, manifesta nelle Moles e in Nerio, si ritrova nella mitologia scandinava che attribuisce come figli a Þórr, dio omologo di Indra e di Marte, due derivati maschili da astrazioni, Magni e Móði: megin è propriamente la forza fisica (la cintura magica che conferisce a Þórr e il suo straordinario vigore è detta, al plurale, megin gjarðar) e móðr è il «furore guerresco» (in tedesco Wut più che Mut) che caratterizza in particolare Þórr e i suoi consueti avversari, i giganti (cfr. jötunmóðr, «furore del gigante»).
Marte è il principale dio – l’unico, nel periodo più antico – posto in relazione con l’antica pratica italica del uer sacrum, la quale prolungava, ormai in condizioni d’insediamento stabile, la pratica di occupazione progressiva del suolo che aveva condotto gli Indoeuropei assai lontano dal punto di partenza. In una situazione difficile, un gruppo umano prendeva la decisione sacra di allontanare, di far uscire dal territorio, la generazione che stava nascendo, non appena fosse divenuta adulta. Giunto il momento, Marte prendeva sotto la sua tutela i giovani espulsi, che formavano solo una banda, e li proteggeva finché non avessero fondato una nuova comunità sedentaria espellendo o sottomettendo altri occupanti; accadeva talvolta che gli animali consacrati a Marte guidassero i sacrani e divenissero loro eponimi: un lupo (hirpus) aveva guidato gli Irpini, un picchio (picus) i Piceni, mentre i Mamertini derivavano il loro nome direttamente da quello del dio. Delle due varianti tradizionali sulle origini di Roma, l’una sembra riferirsi a un uer sacrum, l’altra ne parla esplicitamente. Quest’ultima narra che dei sacrani venuti da Reate cacciarono gli indigeni liguri e siculi da quello che più tardi sarebbe divenuto il Septimontium (Festo p. 414 L2); ed è noto che, secondo la versione divenuta canonica, Roma fu fondata dai figli di Marte, allattati da una lupa, volontariamente partiti da Alba.

Nella guerra, Marte ha rapporti soltanto con il combattimento. Tutto ciò che precede giuridicamente le ostilità fino all’indictio belli non lo riguarda: i feziali si collegano a Giove, non a lui. Egli non è neppure nominato nella constatazione di ingiustizia con cui il feziale incomincia la sua procedura, chiamando a testimoni gli altri due dèi della triade primitiva, Giove e Quirino. Se però la lancia è simbolo di Marte, bisogna notare che il dio, ed egli soltanto, entra in gioco al termine della procedura; quando il feziale senza alcuna invocazione apre le ostilità lanciando sul territorio nemico hastam ferratam aut sanguineam praeustam (Liv. I 32, 12). Raggiunta la vittoria, Marte è uno degli dèi quibus spolia hostium dicare ius fasque est (Liv. XLV 33, 2); ma anche su questo punto il generale vincitore conserva molta libertà: divinità specifiche della distruzione, come Vulcano e Lua, si offrono alla sua scelta. Questi dati non sono contraddetti dal fatto che, durante il combattimento, il generale formuli spesso il voto di un’offerta, di un tempio o di un culto in caso di vittoria, a un dio diverso da Marte – che, anzi, tali voti siano ben di rado rivolti a Marte. Combattimento e vittoria non sono la stessa cosa, sebbene la buona direzione e la buona esecuzione del primo condizionino la seconda. Marte fa combattere, si scatena, saevit, nelle braccia e nelle armi dei combattenti; egli è per Roma Mars pater, certo, ma anche Mars caecus. Si comprende, quindi, che per orientare la sua forza nel momento decisivo della mischia, in ipso discrimine, il generale interessi alla riuscita ancora dubbia della battaglia una divinità meno impegnata nell’ebbrezza dell’azione. Naturalmente però la differenza tra combattimento e vittoria non significa opposizione, e Marte può cessare d’essere cieco per condurre a termine da solo la vendetta dei Romani.
Marte presenta questo aspetto. E bisogna dire che il suo tipo divino ricorda più l’Ares greco cui lo assimilavano i teologi che gli dèi combattenti degli Indoiranici o dei Germani. Già abbiamo notato una differenza: mentre i suoi omologhi Indra e Þórr possiedono la folgore, in Roma il dio folgoratore non è lui, Marte, bensì Giove. Parallelamente, Marte non ha aspetto naturalistico; la sua sede, luogo dei suoi segni, non è l’atmosfera, passata anch’essa a Giove; i suoi animali sono terricoli, tranne il picchio, che per altro vola basso; egli si trova nel suo regno sulla terra, e sulla terra i Romani lo cercano o lo trovano, lui o i suoi simboli; in tempo di pace, il suo ambito è il «campo» di Marte; in tempo di guerra, egli è con l’esercito.
L’esercito romano, tuttavia, nel periodo in cui lo conosciamo, appare pur esso notevolmente diverso da quelle che erano state le bande di guerrieri indoeuropei. Le armi sono mutate e non dura nemmeno più il ricordo del combattimento sul carro, relegato quest’ultimo unicamente nelle corse. La legione è l’erede della sapiente falange, in essa la disciplina conta più del furor cui erano dovute le antiche vittorie. I combattimenti individuali sono un’eccezione. Pur restando più selvaggio degli uomini che animava, Marte dovette seguire l’evoluzione. Nel 282 il dio intervenne in battagli contro i Bruttii e i Lucani (Val. Max. I 8, 6): su quelle terre segnate dall’influenza greca, egli procedette al modo dei Dioscuri, in incognito. Le legioni di Gaio Fabrizio Luscino, dapprima esitanti, furono trascinate all’assalto e alla vittoria da un giovane soldato di eccezionale statura, apparso all’improvviso. Dopo la battaglia cercarono il soldato per conferirgli la corona vallare, ma non lo trovarono. «Si scoprì allora – dice Valerio Massimo – e subito si credette, che in quella circostanza Mars pater avesse aiutato il suo popolo. Fra altri segni certi del suo intervento, venne citato il casco dal duplice pennacchio che ornava il capo del dio». Marte si era trasformato in legionario modello e, finito il combattimento, era scomparso.

Roma perse fin il ricordo delle schiere di guerrieri che si consideravano più che umani e, grazie a un’iniziazione magico-militare, depositari di poteri soprannaturali: schiere di cui sopravvisse l’immagine, molto più tardi, nei Bersekir scandinavi e nei Fianna irlandesi. Altri Italici, affrontando i Romani, riponevano le loro speranze in alcuni «sacrati milites». Più volte Livio ne fa menzione a proposito delle guerre sannitiche; in IX 40, 9, egli mostra i Sanniti in atto di rivestire di bianco e di armare con scudi d’argento una parte delle truppe, sacratos more Samnitium milites; poi, in X 38, per la battaglia decisiva, la legio linteata di quel popolo energico si costituisce sotto i nostri occhi, lungamente, secondo una procedura e un rituale arcaici, resuscitati per l’occasione da un vecchissimo sacerdote che affermava se id sacrum petere ex uetusta Samnitium religione: sacrifici cruenti in un recinto segreto, giuramenti terribili imposti ai nobili ed ai guerrieri illustri, cooptazione, armi splendide, abito bianco; è veramente, secondo l’espressione dello storico, una sacrata nobilitas che trascina l’esercito al combattimento.

A Roma gli ultimi rappresentanti di queste truppe eroiche e magiche forse esistono, ma non combattono: potrebbero essere i gruppi di sacerdoti Salii […]. Le loro danze in armi fanno ricordare che, nell’India più antica, Indra e i suoi compagni, la schiera dei giovani guerrieri Marut tutti ornati di placche d’oro, sono dei «danzatori», nṛtú.
Il rinnovamento della situazione militare è accompagnato da un rinnovamento del lessico corrispondente; tanto più sorprende, quindi, che un numero considerevole di termini della «prima funzione» siano stati invece conservati. Il latino non ha nulla che corrisponda al nome tecnico indoiranico della funzione guerriera e del potere fondato sulla forza, vedico kṣatrá, avest. χšaϑra, scit. Ξατρα-, Ξαρτα- (mentre i nomi delle altre due funzioni, bráhman e vīś, si ritrovano rispettivamente in flāmen e uīcus); sono scomparsi i nomi dell’«eroe forte», vedico śūra, avest. Sūra (conservato nel celtico, irl. caur «eroe», gall. Cawr «gigante»), del «giovane incontrollato», vedico márya, avest. Mairya (il rapporto con marītus è incerto, e non conserverebbe nulla di guerresco); i nomi indoiranici dell’esercito, della vittoria, del combattimento (iubere non si collega direttamente a yudh «combattimento», yúdhyati «il combattimento», che sussiste in celtico: iud- in nomi propri britannici) non si ritrovano in latino […]; un verbo essenziale della funzione guerriera, «uccidere» (vedico han- ecc.) sopravvive in latino solo addomesticato in offendo, defendo, infensus; la qualità fondamentale del guerriero vedico, iṣirá, iṣmín, furiosus, sopravvive solo svalutata nel nome della collera, īra (*eisā-); l’ójas vedico, l’aojah avestico, «forza fisica», termine caratteristico della seconda funzione, è stato promosso nella prima, applicato a un diverso ordine di forze e purificato nelle forme augur, augurium. In compenso, tutte le nozioni al livello della seconda funzione hanno ricevuto a Roma nomi nuovi, indigeni (miles, exercitus, legio, for(c)tis, impetus, certamen, praelium, pugna, hostis, infestus, caedere, occidere, ecc.) oppure importati (triumphus, forse classis, dimicare).

Questa costante divergenza, non compensata dalla figura di Nerio, rende fin da principio poco probabile un’etimologia del nome stesso di Marte, che più volte fu proposta. Tranne il Marmar (Marmor), strano e forse sabino, del carmen degli Arvali, e l’osco Mamers che può essere la riduzione di una forma analoga (*Mar-mar-s, *Mā-mert-s), tutte le varianti italiche si ricollegano a Māuort-, al quale è stato ben presto avvicinato, sulla base di un’alternanza nota (anche in latino, quatuor e quadru-), il nome dei compagni guerrieri di Indra, del mitico «Männerbund» degli inni vedici (documento anche del pantheon cassita), Marút-; alcuni (Grassmann, 1867) pensarono perfino di ritrovare in una delle enigmatiche entità «marziali» del rituale umbro di Iguvium, Čerfus Martius, l’espressione tecnica vedica śárdho Márutam, la «schiera guerriera dei Marut». La quantità delle vocali è però diversa, a è lunga in latino, breve in vedico (Máruta-, che abbiamo appena citato, è un aggettivo derivato da Marút per regolare allungamento della sillaba iniziale), e Marút sembra essere stato ricavato dal radicale di márya (cfr. greco μεῖραξ, μειράκιον), con l’aggiunta del suffisso –ut; tale suffisso è altrimenti documentato in vedico, ma non può essere riferito all’epoca indoeuropea. […]
I più recenti sostenitori del Marte agrario sembrano aver abbandonato le posizioni estremistiche di chi tendeva a fare del dio uno «Jahresgott» (Usener) o una divinità «des Sonnelebens der Natur» (Domeszewski). Essi non traggono più un argomento di conferma della posizione del mese di marzo nell’anno e neppure dalla distribuzione delle principali feste del dio in marzo e in ottobre, in primavera e in autunno: dati, questi, che possono benissimo essere giustificati, alla luce del carattere guerresco di Marte, dalle necessità consuete dell’attività bellica degli antichi Italici. Domaszewski s’era avventurato molto innanzi per questa strada. Dopo aver menzionato i Lupercalia di febbraio, egli scriveva: «Questa singolare corsa dei lupacchiotti ha luogo il giorno in cui nasce la vita estiva della natura che, grazie a una crescita meravigliosamente rapida, il giorno della nascita di Marte, 1° marzo, si manifesta nel dio […] Due settimane: ecco quanto dura la crescita non meno meravigliosa del dio, che il 17 marzo, giorno dei Liberalia e dell’agonium martiale, è già un uomo…». I Salii, secondo l’immaginoso autore, proteggono Marte neonato così come i Cureti del mito cretese danzavano e battevano rumorosamente le armi per proteggere Zeus bambino dalle potenze ostili; i Salii danzano «per tenere lungi dal bambino i demoni ostili dell’inverno». Quanto alle feste di ottobre: in esse ogni rito «si riferisce alla resurrezione di Marte che avrà luogo l’anno seguente…». Non un solo testo autorizza queste entusiastiche ipotesi.
Un altro elemento ormai quasi completamente abbandonato dai difensori del Marte agrario è il rituale popolare di Mamurio Veturio; il 14 o 15 marzo la folla portava in processione un uomo coperto di pelli e lo colpiva con lunghe bacchette bianche, chiamandolo Mamurio (Lyd. Mens., IV 49). Quest’uomo era – dicevamo – il fabbro che aveva riprodotto in undici esemplari indistinguibili l’ancile caduto dal cielo al tempo di Numa; i Romano avevano poi identificato in quell’operazione, sorta di oltraggio all’unicità del segno ricevuto, la causa di alcune sciagure e, fattone responsabile l’artista, lo avevano espulso dalla città, colpendolo con le bacchette; di uno che riceveva una bastonatura si diceva volgarmente che «faceva il Mamurio». Come già vide H. Usener, si trattava chiaramente della forma romana di un rituale primaverile illustrato con molti esempi da Mannhardt: l’espulsione del vecchio anno, in questo caso del «vecchio marzo» o del «vecchio di marzo»: la data, alla metà del mese, sembra armonizzare con quest’immagine, poiché probabilmente la prima quindicina era la vecchia, unita ancora all’anno precedente, e la seconda era la giovane, in apertura del nuovo anno. L’interpretazione però non può andar oltre: comunque si voglia intendere la leggenda di Mamurio, il suo nome in quel rito si riferisce al mese a non al dio, né esiste un’automatica solidarietà fra un mese ed il suo eponimo; il primo mese dell’anno, una volta preso nome da Marte per particolari ragioni, visse poi la sua vita folklorica autonoma: i riti del cambiamento dell’anno presero nome dall’appellativo del mese, personificato in una forma osca, Mamurio. Il medesimo processo si ripeté più tardi per febbraio, divenuto il «consul Februarius», malvagio rivale di Camillo; impostore, egli era stato espulso dalla città a colpi di verghe; i Romani, inoltre, avevano amputato di due giorni il mese che portava il suo nome; così era risolto il problema postosi da numerose tradizioni folkloriche: «Perché febbraio ha solo ventotto giorni?». È chiaro che l’espulsione del «console febbraio» non insegna nulla sui februa, le purificazioni che stanno in realtà all’origine del nome del mese; analogamente, l’espulsione del «vecchio marzo» non contribuisce in maggior misura a far luce sul dio che dà nome al mese.

Eliminati questi grossi abbagli, la documentazione del Marte agrario così come l’ha presentata il suo più recente sostenitore, H.J. Rose, contiene quattro elementi di prova: il rito del Cavallo d’Ottobre, due cerimonie rurali descritte da Catone, e le parole del carmen degli Arvali. Il primo è particolarmente importante; il lettore non dovrà stupire dell’ampiezza che la descrizione sta per assumere.
I testi che parlano del Cavallo d’Ottobre non sono numerosi. Eccoli:
1) Polibio, XII 4: «…E, sempre nel libro sulle guerre contro Pirro, egli [=Timeo] dice che i Romani ancora oggi commemorano la rovina di Troia: un certo giorno viene abbattuto a colpi di giavellotto un cavallo da guerra dinanzi alla città, su quello che si chiama il Campus (Campo di Marte)». Più oltre, Polibio giustamente rifiuta la spiegazione riferita al cavallo di Troia e ricorda che il cavallo è l’animale sacrificato da quasi tutti i popoli prima dell’inizio di una guerra o nell’imminenza di un’impresa collettiva: dal modo in cui il cavallo cade si traggono presagi.
2) Plutarco, Quaest. Rom. 97: «Perché, alle Idi di dicembre (errore per: ottobre), dopo una corsa di cavalli, il cavallo di destra del carro vincente viene consacrato e sacrificato a Marte, e perché qualcuno taglia all’animale la coda, la porta nella cosiddetta Regia e con essa insanguina l’altare, mentre altri uomini, scendendo gli uni dalla cosiddetta via Sacra e gli altri dalla Suburra, lottano fra loro per la testa del cavallo?». Plutarco accenna a tre spiegazioni: commemorazione del cavallo di Troia; affinità tra Marte e il cavallo («Ciò accade forse perché il cavallo è un animale impetuoso, bellicoso, quindi marziale, e agli dèi si sacrificano appunto le cose che essi amano, che hanno un rapporto con loro?»); punizione simbolica di coloro che si servono della propria agilità per fuggire. Infine, la vittima è un cavallo «vincente», «forse perché Marte è il dio peculiare della vittoria o della forza?».
3) Paolo, p.197 L2: «Veniva immolato un cavallo a Marte…». Due spiegazioni: o per commemorare il cavallo di Troia, o perché, secondo l’opinione comune, quel tipo di animale era particolarmente gradito a Marte.
4) Festo, con un riassunto di Paolo, pp.295-296 L2: «Si chiama October Equus il cavallo immolato ogni anno durante il mese di ottobre sul campo di Marte. Il cavallo è quello di destra della biga vincente. Per la testa del cavallo aveva luogo una vera battaglia fra la gente della Suburra e quella della via Sacra; gli uni avrebbero voluto affliggerla al muro della Regia, gli altri alla torre Mamilia. La coda dell’animale viene portata alla Regia con la massima celerità, in modo che ne possano ancora cadere delle gocce di sangue sul focolare, per farlo partecipe del sacrificio. Si dice che il cavallo fosse immolato a Marte quale dio della guerra, e non, come molti credono, perché i Romani, originari di Ilio, vogliano vendicare sull’animale la conquista di Troia, compiuta dai nemici grazie a un cavallo di legno».
5) Paolo, p.326 L2: «La testa del cavallo immolato alle Idi di ottobre sul Campo di Marte veniva ornata di panni, poiché il sacrificio era compiuto ob frugum euentum; si sacrificava proprio un cavallo anziché un bue, poiché il cavallo è atto alla guerra, mentre il bue è atto ai lavori agricoli».

Ecco ora il testo, estratto da una lezione Elitrem tenuta a Oslo nel 1955 e pubblicata nel 1958, in cui H.J. Rose ha condensato molto chiaramente gli argomenti dell’interpretazione agraria:
Il gruppo stesso di feste che più armonizza con le qualità guerriere di Marte, ne contiene una che difficilmente può essere spiegata solo come parte del culto di un dio della guerra. Intendo parlare dell’Equos October. È un rito che non trova paralleli né a Roma né altrove. Il 15 ottobre aveva luogo una corsa di carri, indubbiamente nel Campus Martius. Quando la corsa era terminata, il cavallo vincente che si trovava aggiogato verso l’esterno veniva sacrificato a Marte. All’animale tagliavano la testa e la coda. Gli abitanti della via Sacra e della Suburra lottavano per il possesso della testa, che i vincitori affliggevano a un edificio importante del proprio quartiere. La coda veniva portata da un corridore alla Regia, e là se ne faceva gocciolare il sangue sul focolare. Poiché Ovidio afferma che il sangue del cavallo era uno degli ingredienti utilizzati per una purificazione durante i Parilia e che veniva fornito dalle Vestali, si ammette generalmente che il sangue usato per la purificazione fosse appunto quello del Cavallo d’Ottobre, forse consegnato dal Rex delle Vestali. In ogni caso, se così non fosse sarebbe difficile capire perché Properzio dichiari che le purificazioni curto nouantur equo, siccome un animale è detto curtus quando gli è stata tagliata la coda. La testa era coronata di pani e sappiamo, in base alla testimonianza di Verrio Flacco, che si faceva così ob frugum euentum. Tale testimonianza non può essere posta da canto, come alcuni fecero, poiché contraddice questa o quella teoria su Marte. Se vogliamo comprendere il dio, e in generale ogni elemento di una materia complessa come la religione, dobbiamo tenere conto di tutti i dati e non solo di una scelta; abbiamo il diritto di non omettere nulla, se non le spiegazioni avanzate da questo o da quell’autore, antico o moderno.
Che in ottobre si facesse qualcosa per garantire un raccolto abbondante l’anno successivo, è perfettamente comprensibile, dal momento che il grano, il cereale principale, in Italia viene seminato fra ottobre e gennaio, a seconda delle località. E il cavallo era evidentemente una creatura dotata di numen o di mana, a seconda che si preferisca dirla in latino o in polinesiano, giacché una minuscola particella del suo sangue secco – la quantità attribuibile a ciascun proprietario individuale di bestiame – bastava a purificare le stalle, se usata opportunamente, insieme con due o tre altre sostanze. Di conseguenza, mettere la parte più importante del cavallo a contatto di pani fatti probabilmente con il grano dell’anno, significava accrescere considerevolmente la virtù di tutto il raccolto presente e futuro.

Esaminiamo ora nei particolari tutta la singolare cerimonia. Innanzitutto, il cavallo viene scelto dopo che ha dato prova di essere pieno di vigore; non soltanto il suo carro ha vinto la corsa, ma esso stesso ha retto alla fatica maggiore: le antiche corse venivano compiute in direzione opposta a quella delle lancette dell’orologio, quindi, nelle curve, il cavallo aggiogato verso l’esterno, e non quello aggiogato verso l’interno doveva sopportare il massimo sforzo.
In ogni caso, le corse sono un elemento comune ai rituali di tutto il mondo, così come i duelli e (almeno a mio parere) per la stessa ragione: perché implicano, cioè, il massimo d’azione.
Secondariamente, l’animale è sacrificato, o per lo meno ucciso, poiché non si tratta di un sacrificio consueto, non vi sono né la mola salsa né la consueta sparizione delle carni della vittima. Per una ragione o per l’altra, forse soltanto perché sono le due estremità e quindi rappresentano l’intero, grazie a un’equivalenza usuale nella magia, la testa e la coda sono i due pezzi più importanti. Non sappiamo che cosa avvenisse del resto della carcassa, e neppure chi fosse il sacerdote sacrificante, sebbene paia naturale pensare che fosse il flamen Martialis, operante al servizio del suo dio. Le due parti importanti – la testa e la coda – determinano un ulteriore accrescimento di forza: la prima suscitava un combattimento, la seconda una corsa; difficilmente la concentrazione di mana sarebbe potuta essere maggiore. Come abbiamo visto, conosciamo almeno due usi della testa e della coda del cavallo: l’uno destinato a favorire la crescita delle messi dell’anno successivo, l’altro a purificare le stalle in primavera. Incidentalmente, possiamo notare che il rito evita il luogo del più antico insediamento romano: il sacrificio aveva luogo nel Campus Martius, e i due gruppi rivali provenivano l’uno dalla via Sacra, cioè da quella che era una valle paludosa al tempo della prima occupazione del Palatino, l’altro da una zona ancor più lontana, dalla Suburra, fra l’Esquilino e il Viminale. La coda non andava più lungi del Foro, e le persone che dovevano farne uso appartenevano a quel quartiere: probabilmente il Rex, certamente le Vestali.
In questa situazione, dunque, non c’è nulla che ci orienti verso il culto di un dio della guerra, o comunque di una divinità particolarmente bellicosa. Al contrario, un certo numero di fatti indicano un rapporto con gli animali: un cavallo viene ucciso, un’utilizzazione del suo sangue è a vantaggio del bestiame. Tra parentesi, nessuno ha spiegato perché il sangue debba gocciolare sul focolare della Regia. Possiamo supporre che la magia del cavallo, o il mana del cavallo, avesse importanza per il re, regnante o nominale; ma non sappiamo quale uso egli dovesse farne.
H.J. Rose ha perfettamente ragione di dire che, in quest’ambito come in ogni altro, bisogna tener conto di tutti gli elementi e non fare «a mere selection» in base a preferenze soggettive. Ma allora perché passare sotto silenzio un elemento precisato dal documento più antico (Timeo, in Polibio), cioè che il cavallo sacrificato è un cavallo da guerra, ἵππον πολεμιστήν, e che il modo del sacrificio, del quale Rose si limita a dire, negativamente, che non è consueto, consiste nell’uccidere l’animale con un colpo (o a colpi) di giavellotto, κατακοντίζειν?
I due elementi agrari che Rose pone in evidenza suscitano le seguenti considerazioni. Ob frugum euentum è inteso, senza discussione, come «in vista del buon raccolto futuro», mentre, grammaticamente, può significare altrettanto bene: «in pagamento, in riconoscenza, per la buona riuscita della mietitura passata»; varie ragioni suggeriscono questo secondo significato: il rito fa parte di un complesso che conclude la stagione trascorsa, che è rivolto al passato anziché all’avvenire; sulla testa del cavallo sacrificato non sono posti dei sacchi di semi o delle spighe, ma il termine conclusivo non dell’evoluzione naturale, biologica, del grano, ma dell’utilizzazione del grano da parte dell’uomo, e quindi è più soddisfacente l’ipotesi che l’offerta di pani confezionati con l’ultimo grano raccolto si riferisca al risultato acquisito di un servizio passato, non alla speranza di un servizio futuro; questo era sicuramente l’orientamento che Verrio Flacco attribuiva al rito, a giudicare dal commento riassunto da Paolo; inoltre tale commento, che non abbiamo alcuna ragione di rifiutare e che si collega alle indicazioni di Polibio e della sola parte ragionevole della questione romana, fornisce una spiegazione molto soddisfacente, conforme alla duplice qualità che si richiedeva al cavallo: cavallo da guerra, cavallo vincitore. Quale spiegazione?

La guerra romana non fu uno sport disinteressato. Nei tempi più antichi, prima che gli obiettivi fossero la sovranità sul Lazio, poi sull’Italia, infine sul mondo, la guerra garantiva annualmente la protezione dell’ager Romanus contro razzie nemiche, dunque l’alimentazione di Roma; grazie alla campagna militare che trova conclusione religiosa nelle feste marziali di ottobre, le messi sono potute giungere a compimento, euenire, e i Romani hanno incominciato a impastare il pane con quel grano. Di conseguenza, durante il sacrificio delle Idi, ob frugum euentum, offerto in ringraziamento al dio patrono dell’attacco o delle difesa o anche soltanto della vigile presenza dell’esercito, la testa del cavallo vincente è incoronata di pani, cioè del prodotto trasformato e già in uso delle messi regolarmente immagazzinate. L’ultimo autore che riassume Verrio Flacco precisa con esattezza questo tipo di beneficio dal risultato economico, ma dal precedente guerresco. In poche parole egli dice: se si fosse trattato di un sacrificio offerto a una divinità della fecondità in ringraziamento della germinazione e della crescita fisiologica (pariendis) delle messi, sarebbe stato immolato un bovino, simbolo del lavoro agricolo; poiché invece si tratta di mostrare riconoscenza per un’attività guerresca (bello) che tenne lontani dai campi i nemici o i ladri, senza contare gli Spiriti ostili, morbos uisos inuisosque, come dice un altro rituale, viene sacrificato un cavallo, simbolo della guerra, il cavallo πολεμιστής di Polibio. Questa è la semplice spiegazione che i Romani davano al rito. I discepoli di Mannhardt non hanno il diritto di sostituire a questo cavallo ben caratterizzato il cavallo fantomatico in cui i contadini moderni riconoscono talvolta «lo spirito del grano». E i primitivisti non hanno il diritto di sfocare la condizione prestabilita per la scelta del cavallo – essere vincente – nella confusa nozione di sforzo, sforzo massimo, ben presto tradotta in termini di mana o anzi, ahimè, di numen.
Il secondo argomento, che H.J. Rose formula come se fosse ovvio e adopera come cosa dimostrata, ha una storia e una storia singolare. Nessuno dei testi precedentemente citati sull’Equus October dice o suggerisce che il sangue della coda di tale cavallo sia conservato per venire utilizzato sei mesi dopo, il 21 aprile, nella composizione del suffimen purificatore dei Parilia; inoltre, nessuno dei testi che trattano dei Parilia e del suffimen dice alcunché di quell’origine; nessuno degli antichi antiquari fornisce informazioni in questo senso. Sono i commentatori moderni di Properzio che hanno stabilito un rapporto tra le due feste, dapprima non senza resistenze, poi con sicurezza crescente. Due testi offrono alcuni dati sulla «fumigazione» lustrale della festa di Pales, cioè sulla mietitura che, gettata sopra la paglia ardente, purifica il bestiame e gli allevatori. Innanzitutto un passo dei Fasti di Ovidio (4, 731-734):
Va’, o popolo, va’ a cercare la fumigazione sull’altare di Vesta: Vesta te la concederà, per dono di Vesta ti purificherai. La fumigazione sarà composta di sangue di cavallo (sanguis equi), di cenere di vitello (uitulique fauilla) e, quale terzo elemento, degli steli secchi della dura fava (durae culmen inane fabae).
In secondo luogo, un passo della I Elegia Romana (IV 1, 19-20), in cui Properzio, contrapponendo nelle feste la semplicità antica al lusso della Roma di Augusto, scrive un distico grammaticalmente ardito, il cui significato sembra:
…e per celebrare ogni anno i Parilia, allora ci si accontentava di bruciare del fieno, mentre oggi si compie la purificazione con un cavallo mutilato.
Da questi due brevi testi si è concluso che il «cavallo mutilato» fosse il «cavallo d’ottobre», del quale non è detta parola, e che il «sangue di cavallo» utilizzato il 21 aprile fosse il sangue della coda tagliata il 15 ottobre. Perché si giungesse a queste conclusioni sono state necessarie generose supposizioni; l’unico e ultimo uso della coda che noi conosciamo è infatti il seguente: un uomo la porta dal Campo di Marte fino alla Regia, correndo abbastanza in fretta perché il sangue non coaguli del tutto e possa bagnare il focolare della Regia. Ma l’aedes Vestae non è forse vicinissima alla domus Regia e alcune teorie non riconoscono nell’aedes l’antico focolare della domus? Dunque, si è stabilito uno schema di operazioni che è divenuto una sorta di vulgata e che compare ovunque, anche nei manuali di Wissowa e di Latte. I commentatori di Properzio precisano quello schema con la massima audacia. Scrive F.A. Paley: «Il cavallo [il curtus equus dei Parilia] era ucciso per questo scopo [il rito dei Parilia] sei mesi prima, e la coda veniva tagliata in modo che il sangue potesse gocciolare sull’altare di Vesta (sic), dal quale era poi preso in forma coagulata (sic) per servire come fumigazione, insieme ad altri ingredienti elencati da Ovidio Fasti, IV 733»; e M. Rothstein: «Dalla Regia che apparteneva alla zona sacra di Vesta, o forse dall’aedes Vestae stesso, in cui il suffimen può essere stato portato dalla Regia…». Altrettanto fanno i commentatori di Ovidio. J.G. Frazer: «Il Rex raccoglieva questo sangue [= il sangue dell’Equus October] in un recipiente e lo conservava, oppure lo consegnava alle Vestali, la cui abitazione era contigua alla sua…». F. Bömer: «La coda dell’Equos October sacrificato il 15 ottobre presso l’ara Martis in Campo era portata in tutta fretta fino alla Regia; là il sangue veniva fatto gocciolare sul focolare, la coda era bruciata e le ceneri conservate nel penus Vestae fino ai Parilia (Festo 131; 171; 180 s.; 221 M.; 117; 190 s.; 246 L.; Plutarco, Quaestiones Romanae, 97 p. 287 A.; vgl. Polibio, Storie, XII 4b, 11 s.; Properzio, IV 1, 20)». Questa abbondanza di referenze non impedisce che i fatti siano i fatti: cercheremmo vanamente in Festo, in Plutarco, in Polibio, una menzione della coda bruciata, delle ceneri trasportate nel penus Vestae e conservate per sei mesi.

Nonostante la grande fortuna di cui gode, questa costruzione è estremamente fragile. Essa poggia sul semplicistico postulato che, poiché in un punto si parla del sangue gocciolante della coda tagliata di un cavallo e in un altro punto del sangue di un curtus equus, debba necessariamente trattarsi del medesimo sangue e del medesimo cavallo. Questo postulato non soltanto non s’impone, ma incontra gravi difficoltà; eccone le principali:
a) Se il sangue della coda del Cavallo d’Ottobre fosse stato destinato a quell’uso, in ciò sarebbe costituito l’essenziale del rito, e quindi sarebbe sorprendente che gli autori – in particolare Festo, pp. 295-296 L2, la cui descrizione è minuziosa e ben costruita – non vi abbiano fatto riferimento; se si leggono i testi senza preconcetto, si ha l’impressione che la distillatio sul focolare della Regia fosse davvero il termine, l’obiettivo unico e sufficiente del rapido trasporto della coda, e che tutto fosse finito, negli atti e nelle intenzioni, quando al coda aveva raggiunto (nel migliore dei casi) la testa nella casa del re.
b) Ricollocati nel contesto, i due versi di Properzio lasciano intendere che, nel pensiero del poeta, l’utilizzazione del sangue di cavallo per i Parilia è un’innovazione relativamente recente: quasi tutti i distici precedenti e seguenti contrappongono, infatti, una situazione antica, primitiva, semplice e rozza, a una situazione moderna sontuosa. Ora, è difficile pensare che Properzio, rivelatosi in questa elegia poeta erudito, archeologo, abbia potuto considerare l’Equus October come un rito recente, posteriore al periodo monarchico, in contrasto con l’importanza che ha in esso la «casa del re». E neppure può aver voluto dire che l’innovazione sontuosa consisteva nel collegare fra loro due riti egualmente antichi: un po’ di sangue coagulato del sacrificio di ottobre, praticato da tempo immemorabile, sarebbe stato tardivamente (nunc…) associato alla purificazione di aprile; non si riesce a capire come questa innovazione minore avrebbe contribuito all’aspetto lussuoso, costoso, dei Parilia. Sembra quindi che Properzio abbia pensato ad un altro cavallo, mutilato appositamente per i Parilia.
c) H.J. Rose, per sostenere l’identità del curtus equus del 21 aprile e dell’Equus October, scrive: «If it was not so, it is hard to see why Propertius declares that the purifications curto nouantur equo, for a beast is curtus if its tail is docked». Questo significato esiste, ma non è il solo, neppure nel linguaggio tecnico dei chirurghi, e quindi a maggior ragione in poesia: Celso usa curtus per designare mutilazioni dell’orecchio, del naso, delle labbra, e la sua espressione lascia intendere un tale uso non limitativo: curta igitur in his tribus, si qua parua sunt, curare possunt (7, 9). Le parole di Properzio permettono quindi di comprendere che il sanguis equi di cui parla Ovidio è prelevato dall’animale mediante una mutilazione non mortale di un organo sporgente, come le orecchie, i testicoli, o la coda. Certo, esistono le licenze poetiche: ma il significato ovvio di curtus equus è «cavallo vivo, di cui è stato tagliato qualche organo», anziché «sangue proveniente da un organo tagliato di un cavallo morto» – cioè la sola cosa che verrebbe usata durante i Parilia, secondo l’ipotesi del Rose.
d) Cosa sarebbe rimasto, dopo sei mesi, delle rare gocce di sangue (successive a quelle assorbite dal focolare della Regia) raccolte in extremis in un vaso e trasportate al penus Vestae? Né per l’integrità della materia, né per il volume, questo terzo ingrediente, sanguis equi, sarebbe stato comparabile ai due altri, gli steli di fave apparentemente freschi, la cenere incorruttibile dei trenta embrioni di vitello bruciati sei giorni prima, durante i Fordicidia del 15 aprile. Franz Bömer risolve la difficoltà sostituendo al sangue le «ceneri della coda», conservabili indefinitamente, ma le espressioni di Properzio e di Ovidio – quest’ultimo contrappone sanguis equi e uituli fauilla – non consentono tale artificio: ai Parilia era necessario del sangue vero e proprio.
e) Infine, bisogna anche prevedere il caso in cui il sangue della coda del cavallo non fosse sgocciolato sul focolare della Regia: sia perché si fosse coagulato troppo in fretta, sia perché il corridore non avesse raggiunto la uelocitas necessaria, si fosse ferito cadendo ecc., e di conseguenza la sua missione fosse fallita, come può fallire, nella contentio per la testa, lo sforzo dei Sacravienses della «squadra della Regia».
Per tutte queste ragioni, e nonostante le molte autorità in causa «die philologische Kritik des Materials» non permette di collegare il rito dei Parilia, come prolungamento primaverile, al Cavallo d’Ottobre. E così svanisce, dopo l’argomento dell’intenzione ob frugum euentum, anche quello del suffimen dei Parilia – i due punti d’appoggio dell’interpretazione di H.J. Rose. Il rito delle Idi d’Ottobre è autosufficiente: i mezzi per interpretarlo vanno cercati nei suoi elementi che ci sono noti, non in un equivoco e un’invenzione dei moderni.
Gli elementi noti, pur essendo naturalmente solo una parte di questo complesso rituale, permettono una constatazione: l’Equus October presenta una stretta omologia con il sacrificio vedico del cavallo, l’aśvamedha.

Si trattava di un sacrificio di kṣatriya, della classe dei guerrieri: i testi rituali insistono in molte occasioni su tale affinità. Sebbene, nella forma descritta dai Brāhamaṇa, il sacrificio sia offerto a Prajāpati, quei medesimi libri sanno ancora che i grandi aśvamedha dei tempi più antichi erano offerti, da principi di cui vengono menzionati i nomi, al dio kṣatriya per eccellenza, Indra. Inoltre, il sacrificante e beneficiario non è uno kṣatriya qualsiasi: è un kṣatriya che ha ricevuto la consacrazione regale, un re (rājan), un uomo dotato di potere regale (rāṣtrin), e per di più un re vincitore che aspira ad una sorta di promozione fra i re.
La vittima prescelta è un cavallo di destra del carro vincente. Il re è beneficiario del sacrificio, ma il beneficio è condizionato da un rischio: una volta scelto, il cavallo dev’essere lasciato vagare liberamente, per un anno, seguito solo da una scorta di soldati del re che hanno il compito di difenderlo dagli eventuali attacchi dei popoli o dei sovrani dei territori che attraversa: se questi ultimi avversari hanno il sopravvento, s’impadroniscono del cavallo e il re non può più sperare nella maggiore dignità che attendeva.
Al suo ritorno, il cavallo viene sacrificato secondo un rituale estremamente minuzioso che implica un ricchissimo simbolismo: il cavallo è infatti identificato a tutto ciò che possono augurarsi il re e, attraverso il re, i sudditi. Poco prima dell’immolazione, il corpo vivo del cavallo è diviso in tre settori, anteriore, mediano, posteriore; su di essi, tre mogli del re (la regina, la favorita, e una donna detta «respinta») compiono rispettivamente delle unzioni poste sotto la tutela degli dèi Vasu, Rudra e Aditya e destinate a procurare al re l’energia spirituale (tejas; settore anteriore), la forza fisica (indriya; settore mediano), il bestiame (paśu; settore posteriore); questi tre benefici, ripartiti secondo le tre funzioni, si riassumono in un quarto termine, la prosperità o la buona sorte (śrī). Successivamente, le medesime regine attaccano delle perle d’oro, badando bene che non cadano, ai peli della testa e della criniera o ai due lati della criniera (per la zona anteriore) e ai peli della coda (per la zona posteriore), pronunciando i nomi mistici della Terra, dell’Atmosfera e del Cielo. Questa topografia onnivalente del corpo del cavallo è ulteriormente palesata, con maggior minuzia, nel rito che segue: delle vittime secondarie (paryaṅgya), dedicate ciascuna ad un dio, sono materialmente legate alle diverse parti del corpo; gli elenchi delle parti del corpo interessante differiscono un poco, a seconda delle varianti del rituale, ma la fronte e la coda paiono privilegiate; in tutte le varianti studiate da Paul Emile Dumont la vittima o una delle vittime attaccate alla fronte è destinata ad Agni, il dio del fuoco, e la vittima attaccata alla coda è generalmente destinata a Sūrya, il dio Sole; inoltre, però, una delle vittime a una delle estremità è sempre dedicata a Indra.
Queste regole evidentemente fanno luce sui frammenti noti del sacrificio delle Idi di Ottobre, che appare come un vero e proprio aśvamedha romano. Divengono comprensibili così i due aspetti del rito: il sacrificio è offerto a Marte, sul Campo di Marte, e ne è beneficiario il rex, poiché, nel caso più favorevole, le due parti più importanti del corpo del cavallo si trovano riunite nella Regia.
Il re tuttavia corre un rischio, dinanzi al quale è personalmente passivo giacché affida ai suoi soldati il compito di assicurargli il possesso, quindi anche la virtù, della vittima. Questo rischio è diverso dal rischio indiano nella forma e nel momento, ma possiede il medesimo significato: la lotta – non leuis contentio, dice Festo – tra un «gruppo regio» (la gente della via Sacra, il cui edificio centrale è la Regia) e un gruppo esterno (la gente della Suburra, il cui edificio centrale è la Turris Mamilia, per altro sconosciuta) non ha luogo prima del sacrificio, o per il possesso dell’animale ancora vivo, ma dopo il sacrificio, per il possesso della testa tagliata. Il rischio esiste anche – seppure in termini diversi – per quanto riguarda la coda: colui che la porta può non correre abbastanza in fretta da far sgocciolare il sangue sul focolare della Regia: la frustrazione della Regia, in tal caso, è totale, come quella del re indiano se il cavallo viene catturato.
Stessa differenza di forma e di momento, ma stessa identità di significato, per ciò che riguarda la divisione del corpo del cavallo: la ripartizione del corpo non ha luogo durante il sacrificio e prima dell’uccisione, ma dopo, e non è fittizia, ma reale; come in India, però, la suddivisione è in tre parti (non conosciamo soltanto la sorte riservata al tronco, cioè alla parte mediana), e la testa e la coda vengono privilegiate, non certo perché – come dice H.J. Rose – esse riassumano il corpo, ma piuttosto perché sono depositarie dei simbolismi più ricchi.
Nel caso meno favorevole, la coda, e, nel più favorevole, la coda e la testa arrivano alla casa del re; le gocce del sangue della coda sono sparse sul focolare del re, partecipandae rei diuinae gratia, per metterlo in rapporto con la virtù del sacrificio: l’India attribuisce questa funzione alla testa che, posta in rapporto con Agni mediante il paryaṅgya, assicura al re – dice un commento – «il primo fuoco» – comunque si debba intendere questo simbolismo.

Un solo particolare della documentazione lacunosa dell’October Equus non concorda con la pratica o con la teoria indiane: il modo in cui il cavallo viene messo a morte. L’animale è ucciso con un colpo (o più colpi) di giavellotto, nel quadro di una mimica guerresca, mentre il cavallo dell’aśvamedha viene soffocato. Può darsi che su questo punto il rituale romano sia stato meno alterato, corrisponda più fedelmente allo spirito del rituale preistorico comune che, in India, pur continuando ad essere riservato ai kṣatriya ed espressamente vietato ai brahmani e ai vaiśya in quanto «sacrificanti» e beneficiari, fu affidato come tutti i rituali ai brahmani in quanto «officianti». In ogni caso, questa divergenza minore, che mostra Roma procedere più oltre dell’India nella direzione dell’India stessa, non contraddice l’accordo constatato su tutti gli altri punti.
È evidente – e qui sta l’essenziale della presente analisi – che questo rito di Marte è conforme, nei gesti e nello spirito in essi rivelato dal confronto con l’India, al tipo generale divino di Marte, patrono della funzione guerriera. Esso rivela inoltre, nel momento preciso del ritorno dalle guerre, importanti rapporti fra il regnum e quella funzione: una sorta di capitalizzazione regale della vittoria.
Per ciò che riguarda il metodo, è opportuno notare che la comparazione ha posto in luce l’articolazione dei particolari conosciuti del rituale romano, ma che essa stessa è stata suscitata dalla critica interna dei dati: seguendo il consiglio che H.J. Rose dà e non mette in pratica, abbiamo tenuto conto di tutti i fatti attestati e solo di essi, rifiutando solo uno pseudo-fatto supplementare inventato nel XVII secolo e da allora ripetuto tanto spesso da imporsi e squilibrare il quadro; abbiamo inoltre ricollocato al suo posto e incorporato nel quadro riequilibrato l’elemento regale che Rose citava solo al termine della trattazione, «incidentally», dichiarandolo inesplicato.
Due altre circostanze menzionate a sostegno del Marte agrario collocano effettivamente l’intervento di Marte in un ambiente rurale, in rapporto sia con l’agricoltura, sia con l’allevamento. Ma, come già abbiamo ricordato, un dio è definito meno dall’ambiente in cui compare che dalla parte che rappresenta, dalle intenzioni e dai mezzi dell’intervento a lui attribuito; in ciascun caso bisogna quindi precisare quelle intenzioni, quei mezzi. «Divinità agraria», non dimentichiamolo, è un’espressione confusa, poiché non esiste parentela tra divinità che, per esempio, presiedono come i Semones alla vita dei semina, e una divinità «selvaggia» il cui unico servigio verso i seminati consiste nel risparmiarli; e neppure tra una divinità fecondante che forma le spighe e una divinità vigilante che monta la guardia ai limiti del campo. Ora, è facile verificare che Marte, nelle invocazioni rivoltegli dai fratelli Arvali, è al tempo stesso la divinità selvaggia e la divinità vigilante; nella lustrazione del campo descritta da Catone, è unicamente la divinità vigilante; ma nessuna espressione mostra di coinvolgerlo nei processi misteriosi che perpetuano la vita vegetale.
Il carattere ambiguo di Marte quando si scatena sui campi di battaglia gli vale l’epiteto di caecus, attribuitogli dai poeti: a un certo punto di furor, il dio si abbandona al suo arbitrio e massacra l’amico quanto il nemico, così come il giovane Orazio, ancora ebbro di sangue, uccide la propria sorella dopo aver ucciso i Curiazi. Nondimeno Marte, come l’Orazio, proprio pe il suo furor e per la sua durezza, è la più salda difesa di Roma contro ogni aggressore. Negli Ambarualia, circumambulazione lungo il perimetro degli arua, cioè delle terre coltivabili di Roma, appaiono collocati in evidenza l’uno e l’altro aspetto del dio. Da un lato, poiché la stagione appropriata alla guerra è anche decisiva per l’euentus delle messi, bisogna che le battaglie abbiano luogo all’esterno della «soglia» rappresentata da quel perimetro. D’altro canto, le messi possono essere minacciate da nemici più temibili dell’hostis umano poiché invisibili e demoniaci: contro di essi è necessaria una sentinella al loro stesso livello soprannaturale. Appunto questo chiedono le tre frasi (ciascuna ripetuta più volte) del carmen Aruale in cui è nominato Marte:
enos Lases iuuate
enos Lases iuuate
enos Lases iuuate
neue lue rue Marmar sins incurrere in pleores
neue lue rue Marmar sins incurrere in pleores
neue lue rue Marmar sins incurrere in pleores
satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber
satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber
satur fu, fere Mars, limen sali, sta berber
semunis alternei advocapit conctos
semunis alternei advocapit conctos
semunis alternei advocapit conctos
enos Marmor iuuato
enos Marmor iuuato
enos Marmor iuuato
triumpe triumpe triumpe triumpe triumpe
Il terzo frammento non orienta in alcuna direzione «l’aiuto» richiesto a Marte; ma il primo frammento si può tradurre: «Non permettere a Flagello, a Distruzione di fare incursione in – ? –»; e il secondo frammento: «Sii sazio, selvaggio Marte, salta la soglia (??), fermati – ? –». A rigore, è possibile che le preghiere del secondo frammento vadano intese, come sostiene H.J. Rose: «Sii sazio (non di violenza, ma per le nostre offerte), salta sul limitare del campo e monta la guardia». In questo caso il frammento sarebbe soltanto una replica del primo, o più esattamente chiederebbe al dio di montare la guardia per lo scopo precisato nel primo. Tuttavia l’epiteto fere (se la parola va così isolata dal contesto e letta) può essere difficilmente ridotto, nonostante il parere di Rose, al significato anodino di «non addomesticato, appartenente al mondo esterno, alla macchia», caratteristiche, d’altronde, che Marte non possiede.

I due termini consonanti della formula luem ruem (sempre posto che sia questa l’esatta lettura) sono certamente personificati, poiché incurrere descrive un’azione concreta e deliberata, «fare incursione»; è difficile però precisare quali siano i pericoli rappresentati qui come persone. Probabilmente non si tratta delle razzie da parte di nemici umani; il significato classico di lues, almeno, orienta piuttosto verso le malattie che possono distruggere grandi estensioni di colture. La demonologia romana è poco conosciuta: sembra comunque naturale che anche i Romani, come moltissimi altri popoli, attribuissero a spiriti cattivi tutte la malattie o parte delle malattie che assalgono gli esseri viventi. Contro quegli spiriti Roma, per bocca degli Arvali, mobilitava il dio combattente.
Gli Ambarualia appartengono a una categoria di lustrazioni che presenta numerosi altri esempi: la grande lustrazione quinquennale del popolo (lustrum conditum), e l’amburbium, sono praticati anch’essi mediante circumambulazione di animali sacrificali, ed è naturale che questa marcia «sulla frontiera», purificatrice e difensiva al tempo stesso, stia sotto il segno del dio combattente, capace di proteggere da ogni sorpresa il perimetro e il suo contenuto. Tali cerimonie erigono intorno all’ager, all’urbs ecc., una barriera invisibile, invalicabile – posto che sia custodita – non solo dai nemici umani, contro i quali sono già pronte le mura e le truppe, ma dalle potenze malefiche, pur esse invisibili, e innanzitutto da quelle che provocano malattie. In molti casi le vittime formano il gruppo dei suoueterurilia, che studieremo più oltre, e che è caratteristico di Marte: un maiale, un montone, un toro. Tutti questi diversi riti, però, così come gli Ambarualia, non indicano in Marte altro che una divinità specifica della «protezione mediante la forza»; tutta la funzione del dio consiste nella difesa del perimetro che la processione rende visibile; di qualunque cosa egli stia a guardia, il dio è la sentinella, l’avamposto sulla soglia, come dice probabilmente il carmen Aruale, che ferma il nemico, permettendo eventualmente a divinità specifiche – negli stessi Ambarualia, seguendo il carmen, i Lari, dèi del suolo, e le entità designate dalla parola Semones, forma animata dell’inanimato semina; Cerere, seguendo Georgiche I 338 – di compiere un lavoro tecnico, creativo, mutevole a seconda delle circostanze. Non a caso il carmen si chiude con il grido ripetuto di triumpe, che E. Norden giustamente commenta: «Der Erfolg des Gebets, die Rettung aus Not und Gefahr ist gesichert».

Occupandoci del dio sovrano abbiamo visto il contadino di Catone replicare per suo uso privato, con il rito di Giove Dapalis, il festino che i magistrati offrono a Giove Epulo nel suo tempio sul Campidoglio. I grandi dèi della triade arcaica dominano la vita pubblica, ma rappresentano delle funzioni, rispondono a bisogni, determinanti anche nella vita di ogni sottogruppo, di ogni famiglia, di ogni individuo. È naturale, quindi, che essi siano sollecitati da priuati. In tali casi l’intenzione dei riti è limitata a un ristretto interesse – non più popolo, ma familia; non più ager Romanus, ma fundus; non più urbs, ma uilla – e le offerte sono meno sontuose: la daps rustica di Giove si riduce a un arrosto e a una brocca di vino. Altrettanto vale per il rito di Marte descritto nel capitolo 141 del medesimo trattato di Catone: la sua lustratioagri è una replica minore dei grandi rituali di circumambulazione, e i suoi suouetaurilia sono lactentia, cioè aggruppano un porcellino, un agnello e un vitello. Il testo deve però essere citato per intero, affinché possano essere spiegate alla luce di tutto il brano alcune espressioni che i sostenitori del Marte agrario isolano volentieri, traendone conseguenze ingiustificate. Dopo un’offerta preliminare di vino a Giano e a Giove, ecco la formula di preghiera che Catone propone di far recitare al uillicus:
Marte pater, ti prego e ti chiedo d’esser benevolo e propizio verso di me, verso la nostra casa e la nostra famiglia. A tal fine ho ordinato di condurre i suouetaurilia intorno ai miei campi, alla mia terra, alle mie proprietà: per prima cosa, affinché tu fermi, respinga ed espella le malattie visibili e invisibili, la carestia e la desolazione, le calamità e le intemperie (ut tu morbos uisos inuisosque uiduertatem uastitudinemque calamitates intemperiasque prohibessis defendas auerruncesque); e affinché tu permetta ai prodotti, grano, viti, germogli, di crescere e di giungere a buon fine (utique tu fruges frumenta uineta uirgultaque grandire beneque euenire siris); affinché tu conservi sicuri i pastori e il bestiame ed elargisca sicurezza e buona salute a me, alla nostra casa e alla nostra famiglia (pastores pecuaque salua seruassis duisque bonam salutem ualetudinemque mihi domo familiaeque nostrae). A tali fini, per purificare i miei campi, la mia terra e le mie proprietà, e per compiere la purificazione, come ho detto, sii onorato mediante il sacrificio di questi suouetaurilia lactentia…
L’analisi dei servizi resi da Marte è qui distribuita in due quadri, primo e secondo. Il primo designa i nemici da combattere e le forme di combattimento; il secondo designa i beneficiari e gli effetti benefici del combattimento.
Il primo presenta Marte nella sua funzione e nel suo atteggiamento consueti: rito dinanzi ai nemici, vigile o combattente. Come luem ruem nel carmen Aruale, i nemici sono personificazioni di flagelli e di disastri configurati come assalitori. L’azione del dio è espressa da verbi di cui i primi due sono tecnicamente militari (prohibere «tenere a distanza, impedire di avvicinarsi»; defendere «respingere in combattimento»: i due casi sono ben distinti, per esempio, in Cesare, De bello Gallico, I 11, 2; 4) e il terzo, propriamente religioso, è spiegato da Auerruncus, probabilmente «colui che allontana scopando», definito da Gellio (Noctes Atticae, V 12), come uno dei piccoli dèi che bisogna propiziare uti mala a nobis uel frugibus natis amoliantur.

Dopo questo quadro non c’è più posto per la menzione di servizi nuovi, di azioni diverse del dio: l’allontanamento delle malattie e dei flagelli dell’agricoltura è la condizione non solo necessaria, ma sufficiente, per la crescita normale delle piante dopo la semina (crescita affidata ai Lari e ai Semoni, a Tellus e a Cerere), per la salute degli animali e degli uomini dopo la nascita. Per allungare la preghiera non si poteva, quindi, far altro che enumerare i risultati dell’azione divina già esaurientemente descritta. La formulazione esatta, il rapporto esatto, dei due quadri dovrebbe essere:
Nemici da combattere | Forme di combattimento | Beneficiari ed effetti benefici | |
morbos uisos inuisosqueuiduertatem uastitudinemque calamitates intemperiasque | prohibessis defendas auerruncesque | fruges frumentauineta uirgultaque
pastores pecuaque bonam salutem ualetudinemque |
gradiant benequeeueniant
salua sint mihi domo familiaeque nostrae |
Il contadino, però, pregando Marte e cercando di interessarlo, si sforza di amplificare il più possibile l’intervento che sollecita e l’azione del dio. Di conseguenza, nel suo discorso, Marte è il soggetto di tutti i verbi, e tutti i verbi – nel primo e nel secondo quadro – sono transitivi. Coordinando i due ut, di cui il secondo sarebbe logicamente subordinato al primo, l’orante sembra raddoppiare il numero delle azioni del dio […].
L’ultimo argomento citato da H.J. Rose a sostegno di un Marte di terza funzione, è tratto da un altro rito rustico descritto da Catone, nel capitolo 83. Ecco la traduzione del brano:
Votum per i buoi. – Si faccia così un uotum per i buoi, uti valeant. A mezzo del giorno, nel bosco, si faccia un voto a Marte (e) a Silvano, consistente, per goni testa di bue, in tre libbre di farina di frumento, quattro libbre e mezza di lardo, quattro libbre e mezza di carne magra e tre sestieri di vino. Sia permesso di mettere queste sostanze (solide) in un solo recipiente e, allo stesso modo, il vino in un solo recipiente. Sarà permesso che questa cerimonia venga compiuta sia da uno schiavo, sia da un uomo libero. Terminata la cerimonia, consumate (il cibo) subito, sul posto. Nessuna donna assista alla cerimonia né veda come essa è compiuta. Sarà permesso, se vuoi, di ripetere questo uotum di anno in anno.
La descrizione non è del tutto chiara, ma può essere interpretata. Un uotum è la promessa di un’offerta, per l’avvenire, condizionata dall’aver ottenuto nel frattempo un determinato favore divino: ottenuto il favore, chi l’ha ricevuto è uoti reus e deve liberarsi, uotum soluere. Per armonizzare il testo a questa definizione bisogna pensare che la prima parte riguardi la promessa e la seconda l’esecuzione: sia, trascorso un anno, l’esecuzione della promessa, sia, al momento stesso di una nuova promessa, l’esecuzione della promessa dell’anno precedente. La frase finale suggerisce questa seconda interpretazione.

Delle due divinità sollecitate – poiché, sebbene talvolta si sia commesso il controsenso di crederlo, i due nomi divino non sono confusi, bensì giustapposti, e non si tratta di un «Marte Silvano» –, l’una, Silvano, è chiamata in causa in qualità di patrono della siluatica pastio, il pascolo estivo sulla montagna boscosa che era consueto nell’antichità: là dunque, in silua, hanno luogo la promessa e l’esecuzione del voto, nonché la consumazione delle offerte. Il divieto di lasciar assistere le donne alla res diuina si riferisce anch’esso a una prerogativa conosciuta da Silvano.
Se non si trattasse che di assicurare il processo nutritizio che conferisce ai buoi forza e salute, basterebbe Silvano, disposto ad aprire il suo regno. La silua però ha i suoi pericoli, che non solo la circondano – come nel caso del terreno reso domestico del fundus –, ma la penetrano e sono ovunque in essa. Contro tali pericoli è necessario Marte. Il dio deve montare la guardia non più sul limitare, che in questo caso non esiste, ma in ogni punto del terreno in cui si troverà ciascun animale. Mentre nella lustratio degli arua Marte agisce «intorno» e gli dèi agrari, Semoni e Cerere, «all’interno», qui il settore di Marte coincide con quello di Silvano: donde lo stretto vincolo tra le due divinità, sottolineato dal consiglio di mettere tutte le offerte solide in uno stesso recipiente e tutto il vino in uno stesso vaso. Anche qui, dunque, nonostante i mutamenti nella strategia e nel rituale determinati da una missione e da un ambiente diversi, Marte continua ad essere ciò che è sempre ed ovunque: il combattente effettivo o potenziale, la sentinella pronta ad allontanare o a sconfiggere il nemico.
Semoni-Marte, Silvano-Marte: la collaborazione delle divinità specifiche e del dio combattente, nell’agricoltura e nell’allevamento, riesce istruttiva. Come i pani disposti intorno al collo del bellator equus delle Idi di Ottobre, essa ricorda, se fosse necessario, che le «tre funzioni», destinate ad aiutarsi e a completarsi a vicenda, si precisano ben unicamente nelle loro interrelazioni. A proposito della terza, di cui qui si tratta, questa verità può venir espressa in altri termini. Il successo dell’agricoltore o dell’allevatore dipende sempre da due tipi di fattori: gli uni positivi, concreti, specifici per ciascun caso, come i buoni semi, la buona terra, la pioggia e il sole opportuni, un maschio generoso, delle femmine ricche di latte; gli altri negativi e generali: che nulla venga a contrariare il gioco degli elementi positivi, che nessun flagello – guerra, malattia, catastrofe, gelo, lupi ecc. – annulli i benefici pazientemente adunati dall’uomo. Dal punto di vista teologico, questa distinzione definisce due ordini di servizi e si riferisce a due tipi di divinità, il secondo dei quali è limitato a Marte. Un vincolo dalla diversa motivazione è, come abbiamo visto, quello fra la prima e la seconda funzione: la guerra è di Marte per il combattimento, per i mezzi violenti di vittoria; ma la preparazione giuridico-religiosa, gli auspici e tutto il retroscena provvidenziale della vittoria sono di Giove, il quale rimane sovrano nella situazione bellica, così come Marte resta combattente quando monta la guardia per il contadino contro i flagelli dei campi.
Più volte abbiamo menzionato il gruppo di vittime, adulte o lactentia, che costituiscono i suouetaurilia, caratteristici di Marte. In particolare, nella teoria degli spolia opima in cui i tre dèi della triade arcaica ricevono rispettivamente i prima, secunda e tertia spolia, la consacrazione comporta un bos mas quanto si tratta di Giove, dei «solitaurilia» (= suouetaurilia?) quando si tratta di Marte, un agnello quando si tratta di Quirino. La pratica è molto antica. Di là dalle τριττύες greche, che erano generalmente composte dai medesimi animali del sacrificio romano, ma presentavano, come ogni cosa in Grecia, varianti e oscillazioni nella teoria e nella prassi, l’India vedica conosceva un rituale parallelo, dalle intenzioni e dal destinatario omologhi a quelli dei suouetaurilia: è il sacrificio di tre animali detto sautrāmanī, cioè offerto a Indra Sutrāman, «buon protettore». In India, però, e anche fra gli Iranici, la lista canonica degli animali sacrificabili si compone, in ordine decrescente di dignità, dopo l’uomo e il cavallo, del bue, del montone e del capro, con l’esclusione del porco, mentre a Roma le vittime normali sono, a parte il cavallo (e posto che l’uomo sembra escluso dal rituale nazionale), il bue, il montone e il porco: solo alcuni riti particolari comportano il capro. A Indra vengono quindi sacrificati gli ultimi tre paśu ammessi: capro, montone, toro […].

Oltre all’uso regolare e periodico nel culto pubblico, oltre alla forma privata e occasionale della lustratio agri, i suouetaurilia sono anche celebrati come espiazione di errori religiosi fortuiti: per rimediare, per esempio, ad un grave accidente, a una grave violazione del diritto religioso, verificatisi in seguito alla deuotio; sappiamo che il generale romano, per pronunciare la formula destinata a consegnare lui stesso e l’esercito nemico a Tellus e agli dèi Mani, sta in piedi su un giavellotto posato a terra; tale giavellotto non deve cadere nelle mani del nemico; se il nemico se ne impadronisce, bisogna offrire dei suouetaurilia: si potiantur, Marti suouetaurilibus fieri (Livio, Ab Urbe condita, VIII 10, 14). Un altro esempio: al tempio di Vespasiano, prima della ricostruzione del Campidoglio incendiato (le macerie dell’antico tempio erano state gettate nelle paludi, per istruzione degli aruspici) il terreno fu purificato suouetaurilibus, e solo successivamente, dopo che le interiora furono posate sull’erba, il pretore che guidava la cerimonia invocò gli dèi capitolini Jovem Junonem Mineruam (Tacito, Historiae, IV 53). Una sola volta è precisato che dei suouetaurilia s’affiancano alla lustratio di un esercito: si tratta della partenza per una spedizione destinata a insidiare un nuovo re partico robore legionum sociorumque al posto di un re fuggiasco (Tacito, Annales, VI 37). Senza necessità d’altro commento, è palese che sia per i liturgisti di Roma, sia per quelli dell’India, le tre vittime inferiori della consueta lista, sacrificate insieme al dio guerriero, rappresentano un possente farmaco, atto a prevenire quanto a porre rimedio. […]
L’unità fondamentale della funzione del Marte romano è stabilità: non vi è alcuna ragione di collocare alle origini un valore agrario che non trova conferma nelle presunte tracce in epoca classica. Nel periodo repubblicano il dio continuò ad essere notevolmente stabile, anche se il suo fondamento sociale si estese oltre i limiti del patriziato e, a causa delle trasformazioni dell’organizzazione militare, il materiale umano della sua attività, milites, venne a comprendere tutto il complesso dei cittadini. L’identificazione con il greco Ares non influenzò, né arricchì sensibilmente il tipo del dio, tranne che nella letteratura e nell’arte. Bisognerà che sopravvengano la particolare devozione di Giulio Cesare per Marte e poi la fondazione di un suo culto sotto l’epiteto di Vendicatore, perché si verifichino le trasformazioni di cui sarà segno visibile l’istituzione di santuari sul Campidoglio e nel Foro di Augusto. Infine, l’intimità di Marte con Venere, che ispirò a Lucrezio i celebri versi del prologo del suo poema e che era precisamente l’intimità di Ares con Afrodite, non acquistò importanza – nonostante il lectisternio del 217 – che sotto gli Iulii, discendenti di Venere […].

Al termine di questo studio del Marte romano saranno utili alcune considerazioni sugli altri Marte d’Italia, poiché i sostenitori del Marte agrario, allontanati dalla metropoli, hanno talvolta cercato rifugio e rinforzi nell’area italica. Ciò che sappiamo dei culti provinciali di Marte si riduce a brevi iscrizioni, a monumenti figurati, a rapide menzioni nella letteratura; quindi il procedimento interpretativo, così facile a commettere errori quando non si trovi sotto il controllo di una vasta documentazione discorsiva, ha avuto libero corso. Poi, dimenticando che la gran maggioranza dei documenti è posteriore alla conquista e segnata dall’impronta dei conquistatori, alcuni studiosi hanno voluto ricostruire in base a quelle interpretazioni un tipo italico di Marte più antico del tipo romano, che sarebbe «alterato». In realtà, invece, analizzati da vicino, gli scarsi insegnamenti forniti da alcune immagini e da un centinaio di iscrizioni redatte sia in latino, sia in altre lingue indoeuropee della penisola, sia in etrusco – iscrizioni, la maggior parte delle quali non serve altro che a testimoniare l’esistenza qua e là di un culto di Marte e la presenza di sacerdoti del dio (flamen ad Ariccia, Salii in varie città latine, sodales a Tuder in Umbria, tra i Fretani sanniti) – quegli insegnamenti, dunque, sono assai conformi all’immagine e al culto romano del dio. Ecco l’essenziale. Livio narra che a Falerii, al tempo di Annibale, «le sorti rimpicciolirono e una di esse cadde, mostrando l’iscrizione: Marte gioca il suo colpo» (XXII 1, 11); comunque si debbano intendere queste sortes, il telum di Marte ricorda – come abbiamo visto – le hastae Martis della Regia, la cui vibrazione era un presagio minaccioso. Durante quegli stessi anni terribili le cronache dei prodigi registrarono che in molte città del Lazio Lanuuii hastam se commouisse (XXI 62, 4, lancia di Giunone guerriera), hastam Martis Praeneste sua sponte promotam (XXIV 10, 10).
A Tuscolo (Lazio) un ufficiale dice, su un’iscrizione (CIL I2 2, 49): M(arcus) Fourio(s) C(ai) f(ilius) tribunos / militare de praidad Maurte dedet: Furio dà a Marte una parte del bottino, probabilmente perché il dio contribuì alla vittoria. A Telesia (Sannio), una breve dedica (CIL IX, 2198) è rivolta Marti / inuicto, dall’orgoglioso epiteto guerresco, e ad Interamnia (Piceno) un’altra (CIL IX 5060) è rivolta [M]arti Pacife[ro]: pacifer non significa certamente «pacifico».
Alcune monete dell’Italia meridionale mostrano su una faccia una testa di Marte, barbata o imberbe, e sull’altra una Bellona (Lucania), o una Nike coronata, oppure in atto di incoronare un trofeo (Bruttium), o un cavallo al galoppo o una testa di cavallo (Campania). L’evidente identificazione con il greco Ares prova per lo meno che in tutti quei luoghi il dio era considerato guerriero. All’oracolo di Marte mediante il picchio, senza determinazioni né limitazioni di competenza, segnalato da Dionigi di Alicarnasso a Tiora Matiene in terra sabina, è stata giustamente collegata una gemma che raffigura un picchio appollaiato su una colonna cui si attorce un serpente: dinanzi alla colonna sta un guerriero e vicino a lui un montone inginocchiato attende il sacrificio.

Uno dei documenti più interessanti si trova su una cista scoperta nel 1871 a Palestrina – Praeneste, città latina aperta ben presto all’influenza etrusca. In mezzo a divinità spettatrici, denominate in grafia provinciale Juno, Jouos, Mercuris, Hercle, Apolo, Leiber, Victoria, Diana e Fortuna, una scena centrale mostra Menerua e Mars impegnati in un’operazione enigmatica. Interamente nudo ma con il casco sul capo, lo scudo al braccio sinistro e una piccola lancia nella mano destra levata, Marte è inginocchiato sopra un grande otre, che ha la bocca più ampia delle cosce allargate del dio e sembra pieno di un liquido ribollente. Menerua, inclinata, con la sinistra sorregge il fondo della schiena di Marte e con la destra porta alla bocca del dio una specie di bastoncino. Dietro alla dea, il suo scudo e il casco dal lungo pennacchio stanno su un mucchio di pietre; una piccola Vittoria alata giunge volando sopra la nuca di lei. Infine, domina la scena interrompendo il fregio la figura seduta di un animale, cane o lupo, con tre teste.
A questa cista è stato ravvicinato un gruppetto di specchi etruschi sui quali sono raffigurate parecchie scene e compare, variamente denominato, Maris, cioè il Marte derivato agli Etruschi dagli Italici. Su uno di tali specchio si vede innanzitutto un giovane, designato dalla parola Leinϑ, seduto, nudo, armato di lancia, il quale tiene sulle ginocchia un bambino chiamato Mariśhalna; vi sono poi Menrua in atto di immergere in un’anfora un giovane chiamato Mariśisminϑians; poi Merua in armi, che s’appoggia con il braccio destro sulla lancia e trae da un’anfora il giovane Mariśhusrnana; infine un personaggio chiamato Amatutun che porta Mariśhalna; Hercle, con la clava, sta sotto la scena centrale. Altri specchi sembrano indicare che Marte, o i tre giovani Marte, sono figli di Hercle (Mars-hercles). G. Hermansen, che ha utilmente collegato fra loro questi documenti, ha pure ingegnosamente ricordato un testo della Storia varia di Eliano, IX 16: in quel brano si legge che Mares, avo degli Ausoni d’Italia, visse centoventitré anni (totale spiegabile alla luce delle speculazioni etrusche sui numeri: Censorino, XVII 5) ed ebbe il privilegio di resuscitare tre volte e di vivere tre vite, somigliando in ciò al re Erulo (Herulus) che Evandro dovette abbattere tre volte poiché Feronia, sua madre, gli aveva dato tre anime (Virgilio, Eneide, VIII 563).

Questa tradizione sembra effettivamente apparentata alle scene degli specchi; è possibile servirsene, con prudenza, per interpretarle, ma bisogna soprattutto porre in evidenza che nelle scene degli specchi è costante l’elemento guerriero. Le armi che Menrua porta nella figurazione di uno specchio e che sono poggiate dietro di lei nella figurazione della cista, non sono significative, poiché gli Etruschi mostravano facilmente la dea con gli attributi della sua interpretatio graeca Atena. In compenso, il Marte genuinamente italico della cista è pur esso in armi, e nell’ultima scena degli specchi compaiono dei giovani nudi, appoggiati alla lancia. Senza dubbio si tratta di scene d’iniziazione, ma d’iniziazione guerriera e non soltanto «degli adolescenti» come suggerisce Hermansen; l’animale triplo che sta sullo sfondo, il bano nel grande otre o nell’anfora, mi hanno suggerito un’interpretazione in questo senso […]. In ogni caso, non si vede quale elemento di queste figurazioni possa alimentare la tesi di un Marte in rapporto con la fecondità.
E neppure nella lustratio di Iguvium, unico rituale conosciuto nei particolari al di fuori dell’ambito romano. Sappiamo che Mart- è, in esso, il secondo della triade degli dèi Grabouii; molte divinità del suo gruppo sono caratterizzate dall’epiteto Martio-, e il gruppo stesso è, per così dire, a due piani: nel primo si trova Çerfo-Martio-, nel secondo – e per il tramite di questo Çerfo – Tursa Çerfia Çerfer Martier e Prestota Çerfia Çerfier Martier, cioè «T.Ç (e P.Ç) di Ç.M.». Prestota e Tursa hanno un significato probabile: la seconda è un «Terror» femminile, e la prima è una «Praestes», termine abbastanza generico di per sé, che però la titolatura divina dei Romani riserva a Giove, in rapporto con Hercules Victor (quale presunto fondatore del culto: C.I.L. XIV, 3555) e con una varietà di Lari, i Lari Praestites, custodi che, secondo il commento eccessivamente etimologico di Ovidio (Fasti, V 136-137), vegliano sulle mura della città. La preghiera rivolta a tutto il gruppo chiede di atterrire e di far tremare (tursitu tremitu), di distruggere, di legare, ecc., i nemici; in particolare, alla sola Prestota Çerfia Çerfer Martier si chiede di trasferire ogni male dalla comunità di Iguvium alla comunità nemica; infine, a un’altra Tursa che è Jouvia, si chiede – così come a tutto il gruppo «marziale», e in conformità con il nome Tursa – di atterrire, di far tremare ecc., il nemico. Tutto ciò mantiene Marte, eponimo del gruppo, nel suo elemento guerriero; la dualità della Tursa, dei «Terrori» al femminile, l’una di Marte e l’altra di Giove, allude senza dubbio alle due possibili fonti del terrore: conseguenza logica, naturale, dei colpi di un nemico più forte, oppure effetto di un miracolo, di una caduta del morale dell’esercito, già vittorioso, dinanzi a un improvviso e inesplicabile mutamento della situazione (cfr. Giove Statore nella leggenda romulea). Date queste condizioni, ci vuole una fede mannhardtiana veramente a tutta prova per cercare in Çerfus Martius, di cui Tursa e Prestota sono le più strette collaboratrici, un corrispettivo maschile della Ceres Romana, e per fondare su questo puro gioco di parole un’interpretazione agraria di Marte e di tutto il gruppo di Marte, contraddetta dal contesto: gli specialisti di etimologia non possiedono tali diritti, e d’altronde l’umbro -rf- può essere derivato da un gruppo diverso *-rs-.
Riassumendo: da qualunque punto di vista si configuri il problema, a Roma così come ad Iguvium e in Etruria, un rigoroso controllo degli argomenti conserva a Marte la sua definizione tradizionale di dio combattente e dio dei combattenti.
[…] di G. Dumézil, in La religione romana arcaica: Miti, leggende, realtà, Milano 2001, pp. 189 sgg. In tutte le epoche della storia che ci sono accessibili, il sentimento comune dei Romani considerava… […]
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[…] Romani riconnesso per etimologia a salire («saltare»). Si trattava di dodici sacerdoti del dio Marte, che ogni anno, nel mese di marzo, recavano in processione i dodici scudi sacri, gli ancilia; uno […]
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