Le grandi eresie

di G.B. CONTE, Da Costantino al sacco di Roma (306-410), in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 1992, pp. 522-524.

 

Il periodo che va dal riconoscimento da parte di Costantino alla decisione di Teodosio di fare del Cristianesimo l’unica religione di Stato segnò per la nuova fede il passaggio dall’età delle persecuzioni subite a quella delle persecuzioni imposte contro i pagani e contro quanti ancora non aderissero al Cristianesimo (o, quantomeno, lo professassero in forme ritenute ereticali). La religione divenne instrumentum regni e, per potersene servire, gli imperatori furono ben disposti a concedere favori e privilegi; questo contribuì, senz’altro, alla stabilità dell’Impero, ma spesso costrinse la corte ad intervenire in dispute fra le diverse sette cristiane.

Battesimo di Cristo, con Giovanni Battista, la personificazione del Giordano e lo Spirito Santo; intorno la teoria di dodici santi. Mosaico, fine V sec. dalla Cupola del Battistero degli Ariani. Ravenna.

La vicenda di maggiore gravità, che rischiò di compromettere la funzione del Cristianesimo come possibile elemento unificatore dello Stato, fu lo scontro tra l’Arianesimo e la dottrina poi risultata vincente, quella dell’omousía. Per Ario, un prete di Alessandria vissuto nella prima metà del secolo, Cristo non poteva essere considerato uguale a Dio Padre senza che si rischiasse di introdurre nel Cristianesimo elementi di politeismo. La Chiesa ufficiale, invece, sosteneva l’identità sostanziale (omousía) fra Dio padre e Cristo. Di qui, una lunga polemica, che vide schierati su posizioni opposte i teologi: Ario riscuoteva molto favore in Oriente, anche se non mancavano decisi oppositori, mentre quasi tutti contro di lui erano gli occidentali, che scrissero numerose opere per confutare le sue tesi. Tra un concilio e l’altro, un intervento imperiale e l’altro, la vicenda si trascinò per tutto il secolo, ed ebbe conseguenze anche nelle età successive, perché cominciò ad introdurre differenze fra la Chiesa orientale e quella occidentale – e soprattutto perché alcuni vescovi ariani esuli evangelizzarono i Germani, sicché i rapporti fra questi popoli e i Romani, dopo le invasioni, furono resi più difficili anche da questa contrapposizione religiosa.

Michael Damaskinos, Ario. Dettaglio dal Primo Concilio di Nicea. Icona bizantina, tempera su tavola, 1591.

 

Di origini più antiche (risale al III secolo), ma assai attiva nel IV secolo, fu anche l’eresia manichea. I manichei (così chiamati da Mani, il loro capo, che fu crocifisso forse nel 276 in Persia) credevano nell’esistenza di due principi contrapposti, il bene e il male, in perenne lotta fra loro; questo dualismo si proponeva di spiegare l’esistenza del male nel mondo, che non poteva essere voluto da Dio e che, perciò, non doveva risalire ad un’autonoma origine. Si finiva, però, col configurare una doppia divinità e col violare, quindi il principio dell’unità divina.

Khocho, Tarim Basin. MIK III (VIII-IX), f. 6368 r. Monaci manichei intenti alla copiatura di testi sacri, con iscrizione in sogdiano.

 

Violenta, anche se non particolarmente pericolosa per l’unità della Chiesa, fu la disputa contro lo scisma dei donatisti, che nacque in Africa all’inizio del IV secolo e che si diffuse notevolmente in quella provincia, dopo la fine delle persecuzioni. Donato e la sua setta sostenevano una linea molto severa e intransigente, che contrapponeva la Chiesa all’Impero e richiedeva ai Cristiani una vita di completa perfezione spirituale. Questo rigorismo, tipico della Chiesa d’Africa (si pensi a Tertulliano), ebbe notevole successo e il Donatismo fu per gli ortodossi un nemico da combattere almeno per tutto il IV secolo.

Di minore durata, ed estesa soltanto alla Spagna, con pochi riflessi sulla Chiesa gallica, fu l’eresia di Priscilliano. Sui suoi contenuti non si è affatto documentati – la fonte principale sopravvissuta al riguardo è costituita dai Chronicorum libri duo di Sulpicio Severo, il quale riserva ampio spazio a Priscilliano e alla sua setta, non senza mostrare una certa simpatia per essa –: sembra che le tesi dei priscillianisti contenessero elementi manichei, a volte con aspetti di esagerato misticismo; quello che è certo è che la disputa teologica si trasformò in una divisione interna al clero spagnolo con reciproche accuse di immoralità ed empietà, fino all’intervento imperiale che decretò la condanna a morte di Priscilliano, nel 385. La setta sopravvisse ancora per alcuni anni, almeno fino al concilio di Toledo del 400, che favorì il riassorbimento del Priscillianesimo nell’ortodossia. La sua presenza, tuttavia, andò rapidamente diminuendo, anche per le nette condanne da parte di molti dei principali esponenti della cultura cristiana.

Più complessa è la vicenda del Pelagianesimo, un’eresia che si sviluppò nella prima metà del V secolo e che, quindi, andrebbe trattata più avanti, ma che è opportuno anticipare qui, sia per unificare la trattazione di questi principali movimenti ereticali sia perché il maggiore avversario di Pelagio fu Agostino, il quale nei suoi ultimi anni contrastò con tutti i mezzi il diffondersi delle sue teorie.

Pelagio era un monaco di origine britannica, attivo a Roma all’inizio del V secolo e legato da rapporti di amicizia con molti scrittori cristiani del tempo – ad esempio, con Paolino di Nola. Di Pelagio si possiedono una Epistula ad Demetriadem seu liber de institutione virginis, un Libellus fidei ad Innocentium papam e un commento alle Lettere di San Paolo. Perduta è, invece, la sua opera fondamentale, il De libero arbitrio in quattro libri, di cui si conservano solo alcuni frammenti. Il punto centrale dell’eresia pelagiana era nell’affermazione che le opere buone, il comportamento onesto e la vita pura possono da soli meritare la salvezza e che, quindi, l’uomo, se evita il peccato e la colpa, può conquistarsi il paradiso. Fu una dottrina che non teneva conto della necessità della grazia divina per la quale Dio avrebbe salvato solo chi avrebbe deciso di salvare nel suo progetto di redenzione; ne risultava, perciò, accresciuto il ruolo dell’essere umano e sminuito quello di Cristo. Il ruolo fondamentale attribuito da Pelagio all’impegno del singolo che lotta con ogni sua forza per la propria salvezza, non fu visto di buon occhio dalla Chiesa ufficiale, di cui non era contemplato il ruolo di mediazione. Ciò spiega, da un lato, la condanna di Pelagio, dall’altro, il successo che egli e la sua dottrina riscossero presso le fasce dell’alta aristocrazia senatoria di Roma, interessata a scegliersi autonomamente i modi in cui praticare l’ascesi. La posizione di Pelagio, d’altronde, non poteva non riscuotere simpatie negli ambienti più impegnati del Cristianesimo, soprattutto quelli che maggiormente praticavano una vita di privazioni e di preghiere, proprio perché, valorizzando questi comportamenti, forniva motivazioni per il monachesimo e l’ascetismo. Per questo, nonostante la condanna dell’eresia pelagiana fosse già ufficiale e definitiva nel secondo decennio del V secolo, sopravvissero a lungo forme di Pelagianesimo più o meno occulto, soprattutto nei più prestigiosi conventi della Gallia meridionale.

Basilica cristiana. Mosaico, IV sec. d.C. ca. da Tabarka. Tunis, Musée du Bardo.

 

Bibliografia:

A. ALFÖLDI, Costantino tra paganesimo e cristianesimo, tr. it., Roma-Bari 1976.

A. MOMIGLIANO, Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Torino 1968.

L’Apologetica

di G.B. CONTE, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 504-511.

 

Oxford, Balliol College Library. Ms. balliol. 79 (O^), Tertulliano, Apologeticum, con marginalia di William of Malmesbury (XV sec.), f. 1r.

Accanto a […] forme di letteratura a volte popolare, ma non per questo meno interessante anche sul piano della resa stilistica, intorno alla fine del II secolo compaiono anche i primi scrittori latini cristiani sui quali si posseggono informazioni sufficienti perché siano presentati con un’immagine più compiuta. La produzione letteraria che si propone la diffusione delle teorie cristiane e la loro difesa dagli attacchi dei pagani va sotto il nome di apologetica, ed apologisti sono comunemente chiamati questi scrittori che operano tra gli ultimi anni del II e i primi del IV secolo. Anche per queste opere c’è da segnalare un più rapido sviluppo nel mondo orientale, ed un relativo ritardo in quello occidentale: le prime Apologie scritte a Roma sono opera di Giustino, martire nel 165, ma sono scritte in greco, e ancora in greco sono varie altre opere di poco più tarde scritte con le medesime intenzioni in diverse parti dell’Impero. I primi a scrivere in latino sono Minucio Felice e Tertulliano, ai quali spetta il titolo di primi autori latini cristiani. Quale dei due sia più antico è problema pressoché insolubile: di Tertulliano conosciamo bene molte vicende, e possiamo ragionevolmente ricostruirne la cronologia; tutto più incerto è invece per Minucio Felice, e gli argomenti su cui ci si basa per considerarlo più o meno recente di Tertulliano sono prevalentemente soggettivi e reversibili, o interpretabili in maniera diversa, a seconda delle tesi sostenute dagli studiosi. È comunque importante osservare che fin dagli inizi si manifesta – nelle diverse posizioni assunte da Minucio e Tertulliano – quella che sarà una costante all’interno della produzione letteraria cristiana: da un lato (con Minucio) una tendenza conciliante, che cerca di non rompere con il passato classico e di recuperare da esso quanto non sia in stridente contrasto con il messaggio cristiano; dall’altro (con Tertulliano) un atteggiamento di rigorosa intransigenza, che postula una decisiva svolta rispetto al mondo pagano ed ai suoi valori, anche se tale svolta si esprime in una lingua letteraria che risente comunque degli insegnamenti retorici della formazione scolastica (che è comune a pagani e cristiani).

Paris, Bibliothèque Nationale de France. Cod. Par. lat. 1622 (Agobardinus, IX sec.), Tertulliano Opera omnia, f. 1v.

Quinto Settimio Fiorente Tertulliano nacque a Cartagine intorno alla metà del II secolo da genitori pagani; studiò retorica e diritto nelle scuole tradizionali, dove apprese anche il greco, esercitò la professione di avvocato in Africa, e per un certo periodo anche a Roma, prima del rientro in patria e della conversione, che avvenne soltanto in età piuttosto avanzata, probabilmente verso il 195. Fu anche prete, e le sue posizioni religiose si dimostrano molto rigorose, tanto che nel 213 finì con l’aderire ad una delle sette ereticali più note per l’intransigenza e il fanatismo, quella dei Montanisti; negli ultimi anni di vita abbandonò anche questo gruppo, e ne fondò uno nuovo, che si chiamò dei Tertullianisti. Morì dopo il 220, anno a cui risalgono le ultime notizie che abbiamo su di lui.

Di Tertulliano ci sono pervenuti oltre trenta scritti, a orientamento teologico e polemico; polemiche contro i pagani e contro i cristiani che non condividevano le sue tesi. Fra i più notevoli, vanno ricordati l’Ad martyras, con l’esortazione ad un gruppo di cristiani incarcerati e in attesa del martirio; l’Ad nationes, l’Apologeticum e il De testimonio animae, composti tutti e tre nel 197, per difendere il Cristianesimo dagli attacchi dei pagani; il De praescriptione haereticorum, del 200 circa, contro i cristiani che contaminano la loro fede con dottrine filosofiche pagane e propugnano interpretazioni troppo libere del testo biblico; il De anima, scritto intorno al 211, forse l’opera più notevole della maturità di Tertulliano, nella quale sono rielaborate ampiamente anche fonti pagane; l’Ad Scapulam, del 212, indirizzato al governatore dell’Africa proconsolare che conduceva una campagna contro i cristiani. Accanto a queste vanno ricordate opere che affrontano problemi morali e di comportamento del cristiano nella vita quotidiana, offrendo pertanto al lettore anche spunti interessanti sulla società africana tra II e III secolo: De spectaculis, contro la partecipazione agli spettacoli del teatro, dell’anfiteatro e del circo; De cultu feminarum, sui vestiti delle donne, che debbono essere particolarmente discreti; De virginibus velandis, sull’opportunità che le donne non escano di casa a volto scoperto; De pudicitia, contro i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio; De corona, contro il servizio militare, dichiarato incompatibile con l’appartenenza alla fede cristiana; De idololatria, contro tutte le attività economiche che siano in qualche modo connesse con i culti pagani. Altre opere riguardanti argomenti di carattere liturgico e teologico e altre infine sono dedicate a violente polemiche contro avversari religiosi (Adversus Marcionem, Adversus Praxean, ecc.).

Sansone e i leoni. Affresco, 350-400 d.C. Roma, Catacombe di Via Latina.

L’esperienza professionale dell’avvocato, lo spirito battagliero e pronto a trasformare in durissimi attacchi agli avversari ogni opera che nasceva da esigenza difensive, il gusto per l’improperio, per la descrizione sgradevole e pesante, per uno stile «barocco» e nutrito di efficacissima strumentazione retorica sono caratteristiche comune a quasi tutti gli scritti di Tertulliano, a qualunque periodo appartengano. Se ne può ricavare l’impressione di un personaggio arrogante, disposto a sostenere le proprie tesi con qualsiasi tipo di argomentazioni, a volte anche con ragionamenti discutibili e prove chiaramente false. Questa immagine complessivamente non positiva è aggravata da alcune posizioni che, fuori dal loro contesto, risultano del tutto inaccettabili, come la pervicace demonizzazione di tutto ciò che è femminile e la convinzione che la donna sia il più pericoloso strumento di Satana. Simili pregiudiziali antipatie devono essere però superate, se si vuole capire il ruolo e la posizione di un personaggio certamente focoso, ma non privo di coraggio, trascinato spesso da una violenta carica di rigore e di moralismo. In ultima analisi Tertulliano appare una figura tragica, che non riesce ad amare l’umanità, che si compiace di immaginare e di descrivere tutte le disgrazie che prima o poi capiteranno ai suoi nemici; un uomo che non sa trovare un momento di pace e di tranquillità, almeno in questa vita.

Ma accanto a questi limiti ci sono anche la grandezza del teorico e l’acume del pensatore: tralasciando le questioni più strettamente dottrinali, che qui hanno un rilievo secondario, si pensi all’importanza che ha nell’Apologeticum la definizione del rapporto giuridico tra religione e Stato, impostato con la chiarezza e la professionalità di un avvocato romano. Sempre nell’Apologeticum, è famosa l’argomentazione dell’anima naturaliter Christiana, che tanto successo ebbe nei secoli seguenti: l’anima stessa, se non addottrinata in senso contrario, dimostrerebbe il primato del monoteismo con le invocazioni ad un unico dio nei momenti di difficoltà. La sua incapacità di mediare, il suo intransigente integralismo mettono Tertulliano contro tutto il mondo: significativo, in particolare, è in questo senso il De idololatria, che vede piene di paganesimo, e perciò inaccettabili per il buon cristiano, quasi tutte le attività quotidiane. È il problema del rapporto che l’oppositore di un regime, di uno stato di fatto, deve avere con la realtà che lo circonda: fino a che punto possono spingersi la contrapposizione e il rifiuto senza divenire fanatica rinuncia ed esasperato isolamento, che in definitiva privano anche della possibilità di intervenire per modificare una situazione che si ritiene ingiusta?

Anche per le sue qualità di scrittore Tertulliano ha diritto ad un posto di rilievo nel quadro, complessivamente piuttosto povero, della sua età. Assai personale è l’impasto di parole tecniche del gergo avvocatizio e di termini dell’indiscussa dignità letteraria, piena la padronanza su un periodo volutamente irregolare, spezzato, con interrogazioni ed esclamazioni che interrompono frequentemente l’andamento del discorso, con brevi battute ad effetto, con metafore spinte all’estremo proprie di una fantasia visionaria e allucinata. Il suo successo nella cultura africana è confermato dalla sopravvivenza dei Tertullianisti ancora all’epoca di Agostino, e dal fatto che molti dei suoi temi preferiti ritornano con insistenza nella letteratura cristiana dei primi secoli; non piccolo merito di Tertulliano è anche quello di aver ampiamente contribuito a creare una nuova lingua cristiana, capace di esprimere a livello letterario i dogmi di fede e la problematica della prassi quotidiana del credente.

Il buon Pastore. Affresco, III-IV sec. d.C. Roma, Catacombe di S. Callisto.

Anche lui avvocato ed africano (era nato probabilmente a Cirta, la patria di Frontone), Marco Minucio Felice esercitava la sua attività a Roma, dove godeva di condizioni di buona agiatezza economica. Contemporaneo di Tertulliano, secondo alcuni scrisse qualche anno prima di lui, sul finire del II secolo, secondo altri invece la sua opera va collocata nei primi decenni del III secolo, fra la produzione di Tertulliano e quella di Cipriano. Oltre al dialogo Octavius, che ci ha lasciato, Minucio avrebbe scritto un De fato che non ci è pervenuto.

Il dialogo Octavius si svolge sul lido di Ostia, fra tre personaggi: il pagano Cecilio, il cristiano Ottavio e Minucio stesso. Ottavio rimprovera Cecilio per un gesto di adorazione a una statua del dio Serapide, e Cecilio propone di esporre le reciproche ragioni e di nominare Minucio giudice della controversia; ma dopo le due orazioni, quella di Cecilio contro il Cristianesimo e quella di Ottavio a suo favore, non c’è bisogno di un giudizio, perché Cecilio ammette di essere stato sconfitto.

Serapide. Testa, calcite, II-III sec. d.C. ca. Baltimora, Walters Art Museum.

Gli argomenti discussi sono quelli che compaiono anche negli altri apologeti, compreso Tertulliano: il monoteismo è preferibile, anche razionalmente, al politeismo; i cristiani non sono colpevoli dei misfatti che vengono loro imputati, anzi spesso sono proprio i loro accusatori ad essere macchiati di tali colpe; se i pagani comprendessero le istanze di pace e di amore del Cristianesimo non lo avverserebbero, anzi si convertirebbero subito. La differenza fra la trattazione impostata da Minucio e quella di Tertulliano, ad esempio nell’Apologeticum, non potrebbe però essere più evidente: Minucio è scrittore fine e delicato, rifugge dalle grossolanità che Tertulliano invece ama; Minucio fonda la sua argomentazione sulla logica e sul ragionamento pacato, mentre Tertulliano cerca di emozionare e di colpire i sentimenti. Minucio si rivolge ai pagani colti, per convertirli, e cita quindi con abbondanza gli scrittori classici, astenendosi dai riferimenti alla Bibbia; Tertulliano si scaglia contro i pagani per consolidare i cristiani nella loro fede, e tutt’al più può pensare di conquistare al Cristianesimo le future generazioni, che non si siano ancora macchiate del peccato di idolatria. In conclusione, se Tertulliano colpisce il lettore per il suo gusto dell’esasperazione, Minucio Felice appare al contrario un modello di equilibrio e di buon senso.

Questa differenza ha spesso comportato per Minucio accuse di debolezza e di incapacità, di incertezza nella fede, di prevalenza degli interessi letterari su quelli religiosi; ma chi abbia sufficiente sensibilità per cogliere le sfumature ed i mezzi toni, e sufficiente buon gusto per apprezzare un’opera che rifiuta programmaticamente ogni scadimento di livello, ogni concessione al patetico, dovrà apprezzare la serenità e la dignità della discussione. Ciò non toglie, certo, che molta attenzione sia anche riservata all’aspetto letterario: Cicerone è un modello sempre presente nella costruzione del periodo. Alcune scene della cornice che inquadra il dialogo sono pezzi di bravura giustamente apprezzati, come la famosa descrizione dei ragazzi che giocano sulla spiaggia facendo rimbalzare sull’acqua sassi piatti, la passeggiata sull’estremo lembo di sabbia bagnato dalle onde, la sosta sulla scogliera, dove i protagonisti si siedono a parlare della fresca mattina d’autunno, la conclusione con i tre amici che si salutano contenti della bella discussione, e felici di aver appianato le divergenze.

Col suo tono sereno e al tempo stesso malinconico, con la sua composta razionalità, l’Octavius segna la fine del mondo classico e il passaggio al Cristianesimo sulla linea della continuità, non della rottura, come auspicava Tertulliano. È il Cristianesimo dei ceti dirigenti, i quali non vogliono che il cambiamento di religione sia accompagnato da sommovimenti sociali, e sono convinti che debbano comunque sopravvivere la finezza e l’equilibrio costruiti da secoli di civiltà greco-latina; nel progetto di Minucio non c’è spazio per le «stranezze» giudaiche e per gli estremismi dei cristiani radicali. Non si può negare che il suo Cristianesimo sia autentico e sincero, ma certamente nulla ha della carica rivoluzionaria che ne aveva facilitato la sua diffusione fra i ceti subalterni, e che per alcuni intellettuali – Tertulliano è uno di loro – costituiva ancora il fascino principale della nuova religione.

SS. Cornelio e Cipriano. Affresco, III sec. d.C. Roma, Catacombe di S. Callisto.

Tascio Cecilio Cipriano nacque intorno al 200 a Cartagine, si formò nelle scuole di quella città, fu rinomato maestro di retorica fino al 246, quando si convertì e donò tutti i suoi beni ai poveri. Eletto vescovo alla fine del 248, dovette affrontare la durissima persecuzione decretata dall’imperatore Decio nel 250, durante la quale dimostrò grande coraggio e seppe evitare alla comunità cristiana lutti ancora più gravi; non sfuggì, invece, alla persecuzione di Valeriano nel 257-258, quando fu processato e condannato all’esilio, poi richiamato per un secondo processo, che si concluse con la condanna a morte e il martirio, il 14 settembre del 258.

Vari gli scritti di carattere apologetico, come l’Ad Donatum, sulla propria conversione (alcuni toni autobiografici hanno fatto vedere in quest’opera un «precedente» alle Confessioni di Agostino), e l’Ad Demetrianum, sulle colpe dei pagani e le punizioni divine, o il Quod idola dii non sint, della cui autenticità alcuni dubitano. Altri trattati affrontano questioni connesse con la guida della diocesi di Cartagine, come il De lapsis, sulla questione dell’atteggiamento da tenere nei riguardi di quei cristiani che avevano rinnegato la fede durante le persecuzioni, ma si erano poi pentiti e volevano rientrare nella comunità ecclesiastica; il De catholicae ecclesiae unitate, ferma presa di posizione contro tutte le eresie e gli scismi, che Cipriano considera una sciagura maggiore delle stesse persecuzioni contro i Cristiani (l’opera fu inviata a Roma e utilizzata come la più compiuta teorizzazione del primato papale, minacciato in quel periodo dallo scisma di Novaziano); il De habitu virginum, sui comportamenti che debbono tenere le donne che abbiano fatto voto di consacrarsi a Dio. Molto importante è anche l’Epistolario, che comprende 81 lettere, 65 di Cipriano e 16 a lui inviate; da esso possiamo dedurre precise informazioni sulle condizioni di vita nell’Africa proconsolare alla metà del III secolo e sui problemi che le persecuzioni creavano alle comunità cristiane.

Cipriano fu un grande estimatore di Tertulliano, che apprezzava per la severità delle dottrine: in varie opere riprese argomenti e perfino titoli che erano già stati impiegati dal suo più anziano conterraneo ma, a differenza di Tertulliano, non si lasciò mai prendere la mano dal gusto dell’estremismo. La sua funzione di vescovo e gli obblighi che tale investitura gli imponeva nei riguardi di tutti i fedeli, un innato, ammirevole equilibrio, una notevole dose di buon senso gli consentirono sempre le scelte più ragionevoli: così, dopo la persecuzione di Decio, decise di riaccogliere nella Chiesa i rinnegati (lapsi) pentiti, nonostante l’opposizione di quanti avevano rischiato il martirio per non abiurare, ma impose severe penitenze per chi voleva meritare di essere riammesso alla comunione. Questo atteggiamento non va confuso col lassismo o il permessivismo: Cipriano dimostrò pochi anni dopo, col suo stesso martirio, di non essere disposto a cedimenti, e un’analoga fermezza seppe dimostrare in occasione di uno scontro con il vescovo di Roma, Stefano.

La questione riguardava il battesimo impartito agli eretici: per gli Africani esso non era valido e, a parer loro, bisognava ribattezzare tutti quanti avessero ricevuto il sacramento da preti che si trovassero fuori dalla Chiesa; per il papa, invece, quel battesimo era valido purché fosse avvenuto secondo le forme previste dal rito, e non poteva essere rinnovato. Nato da un problema di prassi pastorale, il conflitto investiva però la ben più grossa questione dell’autonomia delle singole sedi vescovili rispetto a quella di Roma, che si appellava al cosiddetto «primato di Pietro», in base al quale il papa si arrogava un’autorità superiore a quella di tutti gli altri vescovi. Cipriano seppe tessere con grande abilità una fitta rete di alleanze, che comprendeva molti vescovi orientali, per arginare quella che allora era avvertita come un’illecita invadenza del papa; ma la persecuzione di Valeriano e la morte interruppero questa sua iniziativa.

Scena di battesimo. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro.

Le sue caratteristiche di scrittore si allontanano molto da quelle dell’amato Tertulliano: Cipriano ha un sicuro possesso delle tecniche della prosa classica, nella quale inserisce citazioni bibliche senza alterare l’elegante costruzione della frase e la solennità grandiosa del periodare; lontano dalle provocazioni e dagli eccessi di Tertulliano, ma meno sfumato e labile di Minucio, ha fornito il modello principale ai grandi prosatori cristiani del secolo successivo. Una Vita Cypriani è stata scritta dal diacono Ponzio, che lo conobbe personalmente: è il primo esempio latino di quelle biografie di vescovi e santi che diverranno molto numerose nei secoli successivi.

Tertulliano, Minucio Felice e Cipriano sono i tre principali scrittori di questo secolo, ma accanto ad essi fiorirono molti altri apologisti, a noi più o meno noti, e la polemica fra le diverse sette del Cristianesimo diede vita a una vasta letteratura di argomento teologico e dottrinale, che qui non può essere trattata in maniera esaustiva e neppure accennata con sufficiente ampiezza. Basterà ricordare Novaziano, un prete di Roma, che nella questione dei lapsi si schierò contro Cipriano. Quando, dopo più di un anno di sede vacante, nel 251 fu eletto papa Cornelio, il quale sul problema dei lapsi condivideva le posizioni di Cipriano, Novaziano, postosi a capo del partito rigorista, si lasciò eleggere a sua volta papa dai suoi seguaci, dando vita ad un’eresia che durerà più di un secolo. La sua opera principale è un De Trinitate (un titolo che avrà molta fortuna nella letteratura successiva), oltre ad un De spectaculis e un De bono pudicitiae chiaramente ispirato a Tertulliano.

Vittorino di Poetovium (oggi Ptuj in Slovenia) è un altro ecclesiastico che ci ha lasciato opere in latino; morì martire nel 304, vittima della persecuzione scatenata da Diocleziano. Scrisse molti commenti biblici, sui quali ci informa Girolamo; di essi abbiamo soltanto un commento all’Apocalisse, la più antica opera di esegesi biblica in lingua latina che ci sia giunta.

Le notizie [circa Commodiano] sono talmente incerte che alcuni studiosi lo collocano addirittura nel V secolo, ma sembra più probabile una datazione alla metà del III secolo, quando scoppiarono le persecuzioni di Decio e di Valeriano, alle quali fanno forse riferimento alcuni suoi versi. Da un altro suo passo si ricava che egli era originario di Gaza in Palestina, da dove però doveva essere partito per recarsi in Occidente, probabilmente in Africa, come dimostrerebbero le somiglianze di contenuto con le opere dei contemporanei apologisti africani del III-IV secolo. Ma anche su questi punti gli studiosi sono in disaccordo, e c’è chi esclude la sua origine orientale, e chi pensa che la sua attività si sia svolta nella Gallia meridionale, o anche a Roma.

[La sua opera principale è costituita dalle] Instructiones in due libri, per complessivi 80 componimenti in esametri, di varia lunghezza, da un minimo di 6 ad un massimo di 48 versi. Il primo libro comprende i carmi contro i pagani e quelli contro gli Ebrei; il secondo le composizioni per i Cristiani, rimproverati per i loro peccati ed esortati ad una vita più devota. I carmi sono degli acrostici: le prime lettere dei singoli versi, lette tutte di seguito, formano il titolo del carme stesso, come ad esempio De infantibus, con il primo verso che comincia per d, il secondo per e, il terzo per i, il quarto per n, e così via. [Segue il] Carmen apologeticum, in 1060 esametri, il cui vero titolo era probabilmente Carmen adversos Iudaeos et Graecos, o Carmen de duobus populis: l’opera è tramandata senza indicazione dell’autore, ma l’attribuzione a Commodiano è ormai ritenuta indiscutibile. Argomento del carme è la storia del mondo, quella dell’Antico Testamento e quella di Roma, vista come scontro fra Dio e il diavolo, fino alla distruzione dell’Impero, all’apocalisse e al giudizio universale.

Fra tanti scrittori in prosa il Cristianesimo delle origini produce un solo ma significativo poeta, Commodiano. Egli è per molti aspetti un poeta strano, una voce anomala nel panorama della poesia latina: è interessato alle fasce meno alte della società, e nelle sue opere rappresenta le credenze e le aspirazioni dei diseredati, le loro passioni forti e senza sfumature, avvalendosi di un latino che risente degli sviluppi del parlato e di una metrica priva ormai di continuità con quella dei classici. Anche nel campo della dottrina cristiana le sue conoscenze sono piuttosto approssimative e grossolane, lontane dalle ricche elaborazioni degli apologisti occidentali e dalle raffinate elucubrazioni di quelli orientali: non si spiega bene il ruolo dello Spirito Santo, pensa che gli dèi pagani siano figli degli angeli e di donne mortali, è convinto che la fine del mondo sarà preceduta da un’età felice sulla terra: saranno rovesciati gli Stati che si fondano sull’ingiustizia e sullo sfruttamento dei deboli, e verrà un regno terreno di Dio, in cui i poveri, i derelitti, i maltrattati vedranno esaudite le loro speranze e riconosciuti i loro diritti. Questa speranza, cosiddetta millenaristica, che credeva in un concreto cambiamento delle condizioni di vita sulla terra, prima e più che nelle ricompense celesti del paradiso, era assai diffusa nel Cristianesimo degli ambienti più umili e rispondeva a precise esigenze sociali.

Toro. Mosaico, inizi III sec. d.C. dalle Catacombe di Hermes. Sousse, Musée Archéologique

Se come teorico Commodiano è quantomeno confuso, anche come polemista mostra qualche limite. Ha l’irruenza e la forza di un Tertulliano, e come lui è capace di trovare improperi popolari e pesanti per i pagani e per i Giudei, ma gli manca la fantasia e la capacità retorica dell’avvocato cartaginese: le ripetizioni sono piuttosto frequenti, le volgarità scontate e poco efficaci. I tratti più incisivi sono il rigoroso moralismo, la profonda convinzione di essere dalla parte giusta, lo scontro con le morenti istituzioni classiche. L’ardore con cui sono presentate le visioni apocalittiche, e le speranze rivoluzionarie in esse riposte, fa sì che Commodiano sia stato definito l’ultimo dei profeti; l’unico che si sia espresso in lingua latina. Riconoscere fino a che punto l’autore si faccia convinto portavoce di istanze popolari e quanto invece egli conceda ad un atteggiamento demagogico è cosa senz’altro difficile; e in questo senso, la lettura di Commodiano lascia sempre incerti e sconcertati: ci si domanda se uno scrittore, comunque un uomo di cultura, potesse condividere certi livelli di primitivismo, o se egli non avesse invece fatto proprie certe rivendicazioni a scopo di provocazione letteraria, religiosa e politica.

Il verso di Commodiano colpisce per la sua anomala prosodia, completamente diversa da quella classica. L’esametro non è più una successione regolare di sillabe brevi e sillabe lunghe, ma una riga composta di un certo numero di sillabe (non più diciassette e non meno di dodici); è l’andamento degli accenti tonici delle parole, non l’alternanza quantitativa, a garantire il ritmo nell’insieme. In questo senso Commodiano anticipa l’evoluzione che dalla metrica quantitativa porterà alla poesia accentuativa propria delle lingue romanze.

Damnatio ad bestias. Mosaico, II-III sec. d.C. da Zliten. Tunis, Musée du Bardo

Questa novità si mescola con un lessico elementare e ripetitivo, con una sintassi semplificata ai limiti del possibile, con una logica sommaria e a volte assurda nella sua partigianeria. Ne risulta, come dicevamo, l’immagine di una figura atipica e stimolante: uno scrittore che non ignora completamente i classici e le tradizioni, ma li riprende in forma banalmente scolastiche o estremamente modificate, involgarite, popolareggianti; un poeta che si presenta come portavoce degli emarginati, con tutte le loro spinte irrazionali, violente, ma anche con una sete di giustizia confortata dalla promessa divina; un polemista che alterna le piccole meschinità dell’invettiva personale contro l’avversario a vasti affreschi cosmici sul ritorno del Cristo e il fuoco che brucerà i malvagi, risparmiando i pochi onesti che ci sono a questo mondo.

Arnobio di Sicca

di G.B. CONTE, Da Costantino al Sacco di Roma (306-410), in Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’Impero romano, Milano 2011, pp. 536-537.

 

Arnobio nacque in Africa, a Sicca Veneria, intorno alla metà del III secolo; fu maestro di scuola in quella città e si convertì al Cristianesimo piuttosto tardi, negli ultimi anni del secolo. Morì in età assai avanzata, intorno al 327.

La sua opera principale è l’Adversus nationes, in sette libri: essa fu scritta dopo le persecuzioni di Diocleziano, ricordate nella stessa opera, ma prima dell’editto di Milano, e dunque probabilmente fra il 305 e il 310. I primi due libri espongono la dottrina cristiana e respingono le accuse di chi imputava ad essa le recenti disgrazie dell’Impero; i libri dal III al V trattano le dottrine teologiche del politeismo, che vengono confutate negli ultimi due libri.

L’apologetica di Arnobio risente molto della violenza che caratterizza i primi scrittori cristiani della terra d’Africa: non è un caso che per la propria opera Arnobio abbia scelto un titolo che richiama molto da vicino quello del primo scritto di Tertulliano, l’Ad nationes. Ma Arnobio era anche un neofita, convertito solo in età adulta, se non addirittura alle soglie della vecchiaia, e anche per questo avvertiva più forte l’esigenza di polemizzare contro le cose in cui aveva creduto da giovane. La conversione recente si mostra, però, anche in alcune posizioni teologicamente assai discutibili, in grosse confusioni che vanno ben al di là di qualunque eresia, in una disinformazione che spesso sconfina nella vera e propria ignoranza. Su questi due binari, quello dell’aggressività antipagana e quello delle inesattezze dottrinali, si muove tutta l’opera, alternando pagine di elegante retorica (si ricordi che Arnobio insegnava nelle scuole) e bizzarre costruzioni fantastiche, che mescolano temi del Cristianesimo e teorie di quelle sette filosofiche e religiose che Arnobio voleva combattere.

Paris, Bibliothéque Nationale de Paris. Ms. gr. 139 (940-960 c.), Psalterio di Parigi, f. 435v. Il profeta Isaia mentre prega notte e giorno.

 

Il suo obiettivo principale era quello di mostrare l’errore delle dottrine neoplatoniche. Ma Arnobio doveva essere passato lui stesso attraverso queste esperienze, ed era rimasto condizionato dalle culture misteriche; grazie al suo mestiere, conosceva meglio i classici pagani che la Bibbia, da lui poco usata per quanto riguarda il Nuovo Testamento e addirittura criticata come favola giudaica per il Vecchio Testamento. Per Arnobio l’anima umana non era creata da Dio, ma da una specie di demiurgo, ad esso inferiore e perciò capace solo di creazioni imperfette, che fanno l’anima mortale, mentre l’immortalità è riservata soltanto ai buoni, per un successivo speciale intervento divino. Anche sul Cristo la posizione di Arnobio è assai strana: certamente inferiore al Padre, avrebbe soltanto una funzione di insegnamento. Ma quanto è insicuro sulla teologia cristiana tanto Arnobio è ben informato sul paganesimo, che critica con una carica ironica a volte gustosa, sempre letterariamente felice, e con un realismo da satira o da commedia che ricorda i migliori scrittori dell’età classica.

Con il suo tormentato e irrisolto percorso dal paganesimo al Cristianesimo, Arnobio ci rappresenta l’itinerario di molti uomini di cultura fra il III e il IV secolo, tra dubbi e persecuzioni, adesioni emotive ed ansie di ritorsione. Se è vero – come sembra – che l’Adversus nationes fu scritto da Arnobio per dimostrare la solidità dottrinaria della propria fede ad un vescovo che la metteva in dubbio, la lettura dei sette libri conferma che le preoccupazioni del buon vescovo non erano infondate: ma la circostanza occasionale di composizione che fu alla base dell’Adversus nationes ci ha consentito di disporre di un efficace ritratto delle complicate intersezioni tra vecchia e nuova fede, tra filosofia, misteri e teosofia.

La terza Roma riscopre la prima

di AA.VV., Le grandi avventure dell’archeologia: i misteri delle civiltà scomparse, Roma 1980, pp. 1388 sgg.

L’ingresso dei Bersaglieri a Porta Pia il 20 settembre del 1870 apre, come è noto, l’ultima fase della storia millenaria di Roma, quella che stiamo ancora vivendo. La retorica che corse a fiumi sui destini della «terza Roma» (Roma capitale d’Italia, dopo la prima, – la capitale dell’Impero, – e la seconda, – la capitale del Cristianesimo -) valse allora, almeno in parte, a coprire le storture sociali, economiche e urbanistiche e gli affari poco puliti che caratterizzarono – e caratterizzano – la vita più recente della città. Se questa è storia ormai nota, e più volte scritta, assai meno conosciuto è invece il risvolto archeologico del trasferimento a Roma della capitale del Regno: non esiste infatti ancora una storia degli scavi per questo periodo, e i documenti giacciono sparsi in migliaia di riviste e giornali, quando non sono addirittura del tutto inediti. La conquista di Roma apre dunque una nuova era anche per quanto riguarda la conoscenza dell’antica Roma. E questo non solo – e non tanto – per l’incremento che si volle dare a scavi scientifici e programmati – principali fra tutti quelli del Foro – ma per i grandi lavori edilizi, che liberarono per un momento gran parte della città antica, ma solo per subito ricoprirla, e definitivamente, sotto la spessa coltre dei nuovi quartieri amministrativi o residenziali.

Un triste destino urbanistico e la febbre edilizia.
La creazione del complesso ministeriale del Quirinale, lungo la via XX Settembre (voluta da Quintino Sella) e quella dei grandi quartieri hanno non solo determinato definitivamente il triste destino urbanistico di Roma, ma hanno anche sfigurato il volto della città, risultato di un armonico sviluppo millenario, e contribuito a distruggere una documentazione storica insostituibile della quale solo pochi frammenti, strappati al massacro, si sono conservati fino a noi.

Statua di Hygeia. Copia romana da un originale ellenistico di marmo pentelico del 290 a.C. ca. Dagli Horti Maecenatiani, Musei Capitolini
Statua di Hygeia. Copia romana da un originale ellenistico di marmo pentelico del 290 a.C. ca. Dagli Horti Maecenatiani, Musei Capitolini

La zona più colpita è quella compresa tra nord e est, tra Pincio e Celio: la parte di essa più vicina alla città era stata occupata dai quartieri residenziali della fine della Repubblica e dell’Impero, mentre la fascia più esterna aveva costituito una serie di parchi, creati dall’aristocrazia repubblicana, e passati in seguito nel demanio imperiale: dalla villa di Sallustio, nella zona dell’attuale via Veneto, fino ai giardini di Mecenate (via Merulana), un’unica fascia di meravigliosi giardini aveva costituito il confine tra il centro urbano e la campagna romana. Questa situazione era praticamente rimasta immutata, attraverso l’abbandono del Medioevo e la ripresa economica e demografica del Rinascimento e dell’età barocca: nuove ville, di papi e di principi romani, avevano sostituito quelle primitive, riproducendo la situazione di età romana.
Apparve subito chiaro che la creazione della nuova capitale avrebbe provocato rapidamente un forte incremento demografico e quindi un’intensa attività edilizia. Ancora nel 1883, il piano regolatore prevedeva la conservazione delle ville comprese tra Castro Pretorio e Porta Pinciana. Ma, come tutti i successivi, esso non fu applicato. Una dopo l’altra, le splendide ville scomparvero sotto la marea di case, e anche la più bella di tutte, la villa Ludovisi, che aveva occupato il sito di quella di Sallustio, nel luogo dove è oggi l’insulso quartiere intorno a via Veneto. Scoppiò così la prima febbre edilizia della Roma moderna: in poco tempo sorsero il quartiere «piemontese» intorno a piazza Vittorio, sull’Esquilino; il quartiere Ludovisi, al posto della magnifica villa omonima; e poi, via via, i quartieri di San Giovanni, del Testaccio, di Prati, Nomentano-Salario… A malapena si poté salvare la villa Borghese, e parve un miracolo. La speculazione edilizia fu arrestata solo dalla terribile crisi del 1888, che può essere sintetizzata in due cifre: fra il 1886 e il 1887 venivano costruiti ogni mese 12691 vani; tra il 1888 e il 1889, solo 819.
La febbre edilizia non colse del tutto impreparati gli archeologi. Già nel 1872 viene creata la Commissione Archeologica Comunale, dotata di una rivista, ancora oggi esistente e il cui compito era «l’esercizio dei diritti e dei doveri, che al Comune incombono verso i monumenti della città, e del suo territorio… il Comune, nelle convenzioni stipulate con le varie società edificatrici de’ nuovi quartieri, essendosi riservato ove la assoluta, ove la parziale proprietà degli antichi monumenti, ove la semplice sorveglianza delle scoperte, conveniva provvedere urgentemente al disegno delle icnografie degli edifici; alla loro conservazione, qualora ne fossero giudicati degni; al trasporto ed al collocamento ne’ palazzi capitolini degli antichi oggetti estratti dalle escavazioni; all’ampliamento dei musei; alla fondazione di nuove raccolte ceramiche e numismatiche; procurando sempre di conciliare gli interessi della scienza con quelli dell’edilità».
Il documento, datato 20 novembre 1872, pecca ai nostri occhi di posteri, dotati del senno di poi, per qualche ingenuità ed era da prevedere infatti che «gli interessi della scienza» sarebbero stati travolti da «quelli dell’edilità». Infatti, le forze culturali raccolte intorno alla Commissione dovettero scontrarsi subito con potentissimi interessi costituiti, ed ebbero per lo più la peggio. È una storia che si è ripetuta più volte, anche ai giorni nostri: se la fine dell’800 e il periodo tra le due guerre hanno portato le più grandi distruzioni del centro urbano, gli anni dopo l’ultima guerra mondiale hanno segnato la fine della campagna romana. Il Lanciani si lamentava spesso della scarsa comprensione dimostrata dagli impresari edili del nuovo quartiere Esquilino, come nel caso delle Terme di Nerazio Ceriale, scoperte nel 1873 presso S. Maria Maggiore: «Le condizioni di così importante trovamento furono in singola guisa avverse ai desideri della Commissione – che avrebbe voluto estendere in quel sito le sue ricerche – non solo per l’enorme innalzamento del suolo moderno sull’antico, che in alcuni punti raggiunge ed oltrepassa gli 11 metri; ma per gli ostacoli ancora e le esorbitanti pretese opposte alla Commissione medesima dai costruttori del nuovo fabbricato». Talvolta i membri della Commissione non riuscirono neppure ad accedere ai cantieri.
Nonostante tutto, la Commissione Archeologica Comunale svolse un compito prezioso raccogliendo il materiale mobile, segnalandone la provenienza e documentando almeno graficamente i resti monumentali dei quartieri e delle necropoli dell’antica Roma man mano che venivano riportati alla luce – per poi riscomparire sotto le tristi case umbertine. Il documento più notevole che ce ne è rimasto è la grandiosa pianta al mille, redatta da Rodolfo Lanciani: questi creato, appena ventiseienne, segretario della neonata Commissione, fu il prezioso testimone delle scoperte che segnarono, in rapidissima successione, gli anni finali del secolo, che egli raccolse accuratamente e fissò sulla carta. Senza quest’opera paziente e gigantesca, oggi non sapremmo quasi nulla di interi quartieri dell’antica Roma.

Lo scavo dell’Esquilino.

Felice Luca Cardone, Rappresentazione grafica degli alzati dell'Auditorium di Mecenate.
Felice Luca Cardone, Rappresentazione grafica degli alzati dell’Auditorium di Mecenate.


Lo scavo dell’Esquilino fu senza dubbio il più grandioso e il più ricco di risultati. Edifici di grande importanza, abitazioni e resti di ville patrizie, mercati, strade, terme furono liberati e poi subito risepolti. Tra i rarissimi casi di edifici che, per la loro importanza, non furono demoliti, è il cosiddetto Auditorium di Mecenate (ancora oggi visibile nel largo Leopardi, lungo via Merulana). I primi editori del monumento, descrissero la scoperta nel Bullettino Comunale del 1874: «Tracciandosi le vie che devono racchiudere i nuovi quartieri della seconda zona dell’Esquilino, nel mese di marzo dell’anno corrente, fu scoperta, entro la villa già Caetani, e, precisamente alla sua estremità verso la via Merulana, la sommità di un muro di forma curvilinea, con residui di intonaco vagamente dipinto; il quale muro si sprofondava nel terreno per l’altezza di un metro soltanto, rispetto al piano della villa suddetta. Questa nostra Commissione archeologica, vigilantissima sempre a toglier cura di qualunque avanzo di vecchie costruzioni che ritorni alla luce, ordinò si seguisse colle escavazioni l’andamento di quel muro, e si estrassero le terre che l’avevano coperto, fino a raggiungere il piano primitivo dell’edificio». Venne così liberata una sala semi-sotterranea, di forma rettangolare, terminata su uno dei lati minori da un’abside occupata da sette gradini semicircolari, a mo’ di cavea teatrale. Le pareti interne della sala e le sue nicchie erano ricoperte di pitture appartenenti al cosiddetto 3° stile pompeiano, con rappresentazioni di giardini: tra i più begli esempi di pittura parietale romana della piena età augustea.
La forma dell’edificio fece subito pensare ad una sorta di piccolo teatro coperto, mentre la sua localizzazione permise il collegamento con la villa di Mecenate, che sorgeva proprio in questa zona. La prima ipotesi si è poi rivelata falsa, perché la piccola cavea, sulla quale scorreva l’acqua, in realtà serviva probabilmente per sostenere vasi da fiori, e l’intera sala, semi-sotterranea, non era altro che un ninfeo monumentale.
La seconda ipotesi invece resta estremamente probabile: l’edificio appartiene infatti agli anni in cui Mecenate fece costruire la sua villa, e sorge proprio nel terreno da essa certamente occupato.
Le pitture con giardini furono aggiunte in una seconda fase, quando la villa era divenuta proprietà di Augusto. Sappiamo che il futuro imperatore Tiberio, di ritorno dal suo esilio di Rodi, andò ad abitarci: non è improbabile che allora egli abbia fatto eseguire le pitture, che sono di livello assai elevato, e databili proprio in quegli anni.
Un altro dettaglio sembra confermare questa identificazione. Così lo descrivono i primi editori: «È poi notabile al sommo la circostanza che la fabbrica si trovi incastrata nelle mura serviane, le quali furono a bella posta tagliate obliquamente per darle luogo; in guisa ché l’edificio giace parte dentro e parte fuori del vetusto recinto della città». Ora, noi sappiamo da un carmen di Orazio, il grande poeta amico di Mecenate, che questi, intorno al 30 a.C., aveva ampliato i suoi giardini precedentemente inclusi entro le mura repubblicane (dette Serviane), oltre le mura stesse, includendo un tratto dell’antichissima necropoli che occupava quest’area. Ciò coincide perfettamente con la posizione del cosiddetto Auditorium che si sovrappone all’antico recinto urbano.
Il testo oraziano, e quello dei suoi commentatori, è estremamente interessante per la topografia e la storia di questa parte di Roma, e per le trasformazioni che essa ebbe a subire nel corso dell’età augustea. «Qui era un tempo la fossa comune per la plebe miserabile… Ora è possibile abitare sull’Esquilino ormai reso salubre, e passeggiare sull’agger aperto, dove prima si doveva assistere all’orrendo spettacolo della campagna disseminata di bianche ossa umane»[1].
L’Esquilino, subito fuori dell’agger, cioè la grande fortificazione attribuita tradizionalmente al re Servio Tullio, era quindi destinato, alla fine della Repubblica, a sepolcro comune dei poveri e dei condannati a morte. Anche per questo aspetto gli scavi dell’800 hanno confermato la natura di necropoli nella zona intorno alla Porta Esquilina (Arco di Gallieno, presso la via Carlo Alberto). Ma il carattere “povero” della necropoli dell’Esquilino sembra riguardare piuttosto l’ultima fase della sua utilizzazione. La necropoli comprende tre fasi fondamentali: quella dell’età del ferro, quella medio-repubblicana (IV-III secolo a.C.) e quella tardo-repubblicana: è in quest’ultimo periodo, immediatamente precedente ai lavori di Mecenate, che essa assume il carattere di sepolcreto comune descritto da Orazio. L’aspetto forse più importante della necropoli coincide forse con la sua fase più antica.
Purtroppo, i reperti, anche se raccolti con una certa cura, spesso furono mescolati nei vari trasporti, quando erano ancora in gran parte inediti. È dunque quasi impossibile ricostruire i corredi delle varie tombe, scoperti prima del 1882. Solo con la monumentale opera di G. Pinza, che è del 1905, si poté disporre di una pubblicazione sufficiente, e inoltre della prima sistemazione scientifica del materiale: la divisione in due grandi periodi (prima e seconda età del ferro laziale) allora proposta, precisata e suddivisa in sotto-fasi minori (quattro per la precisione) soprattutto per merito di uno studioso tedesco, il Müller-Karpe, è ancor oggi perfettamente valida. Ora, ciò che colpisce maggiormente nella necropoli dell’Esquilino è in primo luogo la sua data d’origine: al momento del passaggio tra la seconda e la terza fase del Müller-Karpe, e cioè non prima dell’inizio dell’VIII secolo a.C. Non vi si trovano, ad esempio, le tombe ad incinerazione, tipiche della fase più antica, che sono invece numerose nella necropoli del Foro: quest’ultima, infatti, non solo è più antica di quella dell’Esquilino, ma il suo utilizzo sembra bruscamente arrestarsi proprio negli anni in cui ha inizio l’occupazione della seconda. Sembra ovvio dedurne un ampliamento demografico e territoriale delle ristrette comunità originarie, che abitavano soprattutto la zona circostante del Palatino, e alle quali appartiene la necropoli del Foro. Attraverso la documentazione delle tombe dell’Esquilino è possibile seguire il graduale sviluppo verso forme di vita più avanzate, che preludono al passaggio da forme socio-economiche di villaggio, alla creazione di un vero e proprio centro urbano. Nel corso del VII secolo a.C. documentata, in sempre maggiore quantità, la ceramica greca e quella etrusca (il “bucchero”), le prime testimonianze di scrittura, e soprattutto la differenziazione dei livelli sociali, che traspaiono attraverso una netta differenza di ricchezza tra una tomba e l’altra, fino all’apparire delle “tombe a camera”, simili a quelle contemporaneamente in uso in Etruria, e manifestazione evidente dell’ormai avvenuto consolidamento delle aristocrazie gentilizie.

Planimetria della necropoli arcaica dell'Esquilino.
Planimetria della necropoli arcaica dell’Esquilino.

Dopo un vuoto di documentazione, corrispondente alla fase “arcaica” del VI e del V secolo a.C., proprio quella in cui la città può considerarsi ormai formata, l’Esquilino ci offre di nuova una ricca messe di ritrovamenti, relativa al periodo dell’alta e media Repubblica (IV-III secolo a.C.). Troviamo tombe a inumazione entro sarcofago di tufo (le «arche» delle relazioni di scavo ottocentesche), alla «cappuccina» (cioè di tegole disposte a doppia pendenza) e a incinerazione in urna di tufo, che ora divengono prevalenti. Accanto a questi sepolcri «poveri» vengono riportate alla luce le tombe aristocratiche (i cosiddetti «sepolcri singolari» delle relazioni di scavo): si tratta di ambienti rettangolari di dimensioni medie, costruiti interamente in blocchi squadrati di tufo, e ornati esternamente di semplici cornici. I più importanti tra essi fiancheggiavano le antiche strade (Prenestina, Labicana) che uscivano dalla Porta Esquilina, ed erano decorati all’interno di pitture, come i contemporanei ipogei etruschi. Di queste pitture ci sono rimasti solo pochi frammenti, che furono fortunatamente staccati prima che tutta la zona fosse ricoperta dai casoni umbertini del quartiere «piemontese», e trasportati nei Musei Capitolini, dove si possono ancora oggi vedere.
I due sepolcri decorati con pitture si trovavano l’uno in prossimità della Porta Esquilina (il luogo è oggi occupato da un grande edificio, compreso tra via Carlo Alberto, via Napoleone III e piazza Vittorio Emanuele). È molto probabile che l’uso fosse tutt’altro che raro in Roma: la facciata del sepolcro degli Scipioni, presso la via Appia, è anch’essa decorata con vari strati di pitture sovrapposte.
I nostri due sepolcri apparvero quasi contemporaneamente, nel 1875. Purtroppo, solo poche e scarne righe sono state pubblicate alla loro scoperta, così che ignoriamo di essa quasi tutto: il Lanciani afferma addirittura che le pitture di uno dei sepolcri (quello più antico) erano all’esterno del monumento: si tratta chiaramente di una svista, perché in realtà la decorazione era certamente all’interno.
Da questa tomba (la più vicina alla Porta Esquilina) è stato recuperato un solo frammento di affresco, alto appena 87, 5 centimetri, largo 45. Nonostante la sua esiguità, è questo uno dei più importanti documenti della storia e della storia dell’arte di Roma repubblicana. In esso, su quattro registri sovrapposti, sono rappresentate scene relative probabilmente alla seconda guerra sannitica (328-304 a.C.): combattimenti, assedi di città, trattative. Cosa particolarmente importante, i nomi dei personaggi principali sono iscritti accanto alle figure: sappiamo così che il più importante dei Romani si chiama Q. Fabio. È evidente che la tomba appartenga a uno dei membri di questa potente famiglia patrizia, che ha voluto far rappresentare in essa le sue imprese militari. Dovrebbe trattarsi di Q. Fabio Rulliano, uno dei più celebri generali romani, cinque volte console e trionfatore nel corso della seconda guerra sannitica. Si può anche fare un’ipotesi sull’autore delle pitture: l’unico artista a noi noto di questo periodo, e anche l’unico appartenuto a famiglia nobile, è Fabio Pittore, che trasmise il suo cognomen – derivato dalla professione – a un ramo della famiglia. Questi visse proprio negli anni della seconda guerra sannitica, quando decorò con pitture il tempio della Salus sul Quirinale, dedicato nel 303 a.C., proprio da un generale che avrebbe trionfato sui Sanniti. Non è quindi impossibile che Fabio Pittore, certamente parente di Q. Fabio Rulliano, abbia eseguito anche la decorazione dipinta della tomba dell’Esquilino. In ogni caso, il frammento superstite ci restituisce un’idea notevolmente precisa della pittura romana negli anni intorno al 300 a.C.: si tratta, a differenza della contemporanea pittura funeraria etrusca, di un’arte legata alla rappresentazione storica puntuale: una tradizione che risale ai quadri con scene belliche che venivano trasportati nel corso delle cerimonie trionfali, per esaltare la gloria dei generali vittoriosi. E questa tradizione costituisce uno degli elementi essenziali dell’arte romana: il modesto frammento dell’Esquilino è chiaramente un antenato della Colonna Traiana.

Un frammento di affresco con scene storiche relative alla II Guerra sannitica (328-304 a.C.); dalla Tomba di Quinto Fabio. Prima metà del III secolo a.C. Musei Capitolini.
Un frammento di affresco con scene storiche relative alla II Guerra sannitica (328-304 a.C.); dalla Tomba di Quinto Fabio. Prima metà del III secolo a.C. Musei Capitolini.

L’altra tomba dipinta scoperta accanto alla prima (detta Sepolcro Arieti, dal nome del suo scopritore) è assai più tarda della precedente, probabilmente della fine del II secolo a.C. Nonostante la rozzezza delle pitture, si tratta anche in questo caso del sepolcro di un generale romano. Le rappresentazioni superstiti costituiscono un ciclo completo, il cui significato è sufficientemente chiaro: scene di battaglia sulla parete destra, scene di trionfo su quella di fondo, supplizio dei prigionieri su quella d’ingresso. In conclusione, si tratta di nuovo di scene storiche, sia pure più generiche e riassuntive rispetto alla tomba più antica, e quindi forse di riproduzioni di quadri «trionfali», d’occasione (ciò che potrebbe spiegare anche la cattiva qualità). La presenza di un personaggio crocifisso ha fatto pensare che possa trattarsi della rappresentazione di una guerra servile: ora, l’unica guerra definibile come tale, in seguito alla quale sia stato celebrato un trionfo, è quella in Asia Minore contro Aristonico, conclusasi nel 129 a.C. In tal caso non è impossibile che la tomba possa appartenere al vincitore di quella guerra, M. Aquilio, che trionfò nel 126 a.C.: ciò si accorderebbe anche con la datazione tarda della tomba, deducibile sia dallo stile delle pitture, sia dal fatto che essa si sovrappone a un più antico sepolcro del III secolo a.C.
Lo scavo dell’Esquilino non restituì naturalmente solo materiali relativi a sepolcri. Esso portò alla scoperta, tra l’altro, di un ricchissimo complesso di oggetti votivi, soprattutto in terracotta, avvenuta a partire dal maggio 1887 nei pressi di via Merulana, e che si deve attribuire al santuario di Minerva Medica, che era in questa zona. Un’enorme quantità di oggetti votivi dello stesso tipo appariva contemporaneamente (1885-87) in varie zone lungo le rive del Tevere, in particolare presso l’isola Tiberina, dove era l’importantissimo santuario del dio della medicina, Esculapio. Queste scoperte furono dovute alla realizzazione dei «muraglioni» del Tevere, realizzati in seguito alla disastrosa inondazione del 1870, furbescamente interpretata come punizione divina per la presa di Roma da parte delle truppe italiane. Tra i vari progetti di sistemazione del Tevere che furono allora proposti ve ne fu uno di Garibaldi, che prevedeva addirittura l’eliminazione dell’isola Tiberina. Fortunatamente, ci si limitò a demolire il ponte Cestio, tra l’isola stessa e il Trastevere: demolizione che si manifestò in seguito del tutto inutile, se non dannosa.

Un conto archeologico.
Sarebbe troppo lungo fornire anche solo un elenco delle altre numerosissime scoperte degli ultimi anni del XIX secolo, realizzate in seguito a lavori edilizi. Una lista impressionante (limitata alle opere finite in proprietà al Comune dal 1887) è quella di Lanciani, che meglio di ogni altro era in grado di fare questi conti: «705 anfore con importanti iscrizioni; 2360 lucerne in terracotta; 1824 iscrizioni scolpite nel marmo o nella pietra; 77 colonne di marmo rosso; 313 pezzi di colonne; 157 capitelli di marmo; 118 basi; 590 opere d’arte in terracotta; 405 opere d’arte in bronzo; 711 tra gemme, pietre incise e cammei; 18 sarcofagi in marmo; 152 bassorilievi; 192 statue di marmo in buone condizioni; 21 figure di animali in marmo; 266 busti e teste; 54 pitture in mosaico policromo; 47 oggetti d’oro e 39 d’argento; 36679 monete d’oro, d’argento e di bronzo; e una quasi incredibile quantità di piccole reliquie in terracotta, ossa, vetro, smalto, piombo, avorio, bronzo, rame e stucco». Questo enorme materiale, e quello altrettanto imponente scoperto negli anni fra le due guerre, esposto per un certo tempo nell’Antiquarium del Celio, è da decenni chiuso in centinaia di casse, in attesa della ricostruzione dell’Antiquarium, irreparabilmente lesionato dai lavori della metropolitana, e in abbandono dal 1939[2].

Una scoperta di Rodolfo Lanciani.

Fotografia del 1885. Rinvenimento del cosiddetto «Pugilatore».
Fotografia del 1885. Rinvenimento del cosiddetto «Pugilatore».

Tra le tante scoperte di opere d’arte ne descriveremo una sola, non solo per l’obiettiva importanza degli oggetti, ma anche per le circostanze particolarmente curiose in cui essa avvenne, che possono dare un’idea dell’inesauribile ricchezza archeologica del suolo di Roma. Diamo la parola ad un testimone oculare, a Lanciani: «Nella primavera del 1884, una domanda fu fatta al governo nazionale e alla municipalità di Roma per l’istituzione di una “Società Drammatica Nazionale” e per la concessione di un appezzamento di terra su cui potesse essere costruito il teatro della Società. Essendo state accordate entrambe le richieste dalle autorità dello Stato e della città, la Società prese possesso di un bellissimo luogo sul pendio a est della collina del Quirinale, tra i giardini Colonna e il Palazzo Campanari, con la condizione che qualsiasi cosa fosse stata trovata nello sgombero, sarebbe divenuta proprietà dello Stato… Un sabato, il 7 febbraio 1885, verso il tramonto, un operaio occupato nel portar via le macerie che riempivano lo spazio tra la prima e la seconda fondamenta dei muri, scoprì l’avambraccio di una statua di bronzo che giaceva sulla schiena, alla profondità di 5 metri sotto il livello della piattaforma del tempio (del Sole). La notizia fu mantenuta segreta dall’appaltatore dei lavori fino al giorno seguente e quando gli ufficiali governativi si recarono sul luogo, la statua era già stata rimossa dal suo posto nascosto e di conseguenza noi non potemmo studiare e prendere nota delle circostanze della scoperta… questa nobile figura è alta 2 metri e mezzo, larga 66 centimetri di spalle, e rappresenta un atleta nudo o un uomo dal corpo atletico, nel pieno sviluppo della sua forza, le cui fattezze sono evidentemente modellata dalla natura; in altre parole esso è una statua-ritratto… L’eccitamento creato da questa straordinaria scoperta si era appena calmato, quando, circa un mese più tardi, una seconda statua di bronzo fu estratta dal terreno nelle stesse circostanze sopra riferite. La scoperta fu fatta fra il secondo e il terzo muro delle fondamenta, ad una profondità di 6 metri sotto il livello della piattaforma. Appena saputa la notizia, noi ci riunimmo subito sul luogo e fummo presenti quando apparve la testa della figura sopra il terreno e perciò potemmo seguire e studiare i più minuti dettagli della scoperta. Il più importante dato raccolto, mentre ero presente e seguivo la rimozione della terra nella quale il capolavoro giaceva seppellito, è che la statua non era stata gettata là, o seppellita in fretta, ma era stata nascosta e trattata con la massima cura. La figura, trovandosi in posizione seduta, era stata posta su un capitello di pietra dell’ordine dorico, come sopra uno sgabello e il fosso che era stato aperto tra le fondamenta più basse del tempio del Sole, per nascondere la statua era stato riempito con terra setacciata per salvare la superficie del bronzo da ogni possibile offesa.
Sono stato presente, nella mia lunga carriera nell’attivo campo dell’archeologia, a molte scoperte; ho sperimentato una sorpresa dopo l’altra; ho talvolta e per lo più inaspettatamente, incontrato reali capolavori ma non ho mai provato un’impressione straordinaria simile a quella creata dalla vista di questo magnifico esemplare di un atleta semi-barbaro, uscente lentamente dal terreno come se si svegliasse da un lungo sonno dopo i suoi valorosi combattimenti»[3]. Ora queste due statue, il cosiddetto Principe ellenistico e il Pugilatore, costituiscono uno dei principali vanti del Museo delle Terme.

Il cosiddetto «Principe ellenistico»; statua in bronzo fusa a cera persa del III-II sec. a.C. di ascendenza lisippea, raffigurante un giovane in nudità eroica appoggiato ad un'asta. Forse ritrae un principe seleucide, o Attalo II di Pergamo. Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme.
Il cosiddetto «Principe ellenistico»; statua in bronzo fusa a cera persa del III-II sec. a.C. di ascendenza lisippea, raffigurante un giovane in nudità eroica appoggiato ad un’asta. Forse ritrae un principe seleucide, o Attalo II di Pergamo. Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme.

Lo scavo del Foro romano.
Se l’esplorazione dell’Esquilino costituisce l’esempio più importante di uno scavo di recupero, determinato e condizionato dalle impellenti necessità di una frenetica attività edilizia, e quindi casuale, monco, mai esauriente dal punto di vista scientifico (tranne casi eccezionali), lo scavo del Foro costituì, invece, la più ampia realizzazione di carattere scientifico realizzata in Roma dall’archeologia ufficiale. L’area del Foro Romano si adattava singolarmente a una storia simile impresa: oltre alla sua ovvia importanza storica, giocava soprattutto il fatto che la quasi totalità della sua superficie si era conservata sgombra attraverso i secoli, assumendo l’aspetto di una grande area sterrata, destinata al mercato del bestiame: il Campo Vaccino, appunto. Questa condizione, abbastanza miracolosa, se si considera la posizione centrale dell’area, presentava del resto alcuni risvolti negativi: la facilità di accesso aveva facilitato scavi di rapina, soprattutto quelli, particolarmente perniciosi e distruttivi, avvenuti nel corso del Rinascimento. Già all’inizio dell’800, del resto, si erano iniziati i primi saggi di carattere esplorativo: Carlo Fea, nominato Commissario delle antichità nel 1801, aveva scavato intorno all’Arco di Settimio Severo, e questi scavi erano continuati, sotto l’occupazione napoleonica, ai piedi del Tabularium e alla Colonna di Foca. Più tardi, altre esplorazioni sotto la direzione di Fea e di Canina aveva riguardato il Tempio dei Castori, l’angolo occidentale della Basilica Giulia. Ma nel 1853 gli ultimi scavi (quelli immortalati da Giuseppe Gioacchino Belli) cessarono definitivamente. Essi saranno ripresi solo dopo il 1870.

L’opera di Giacomo Boni.
I primi saggi furono opera di Pietro Rosa e Giuseppe Fiorelli (quest’ultimo sarebbe poi divenuto famoso per aver impostato per la prima volta in modo scientifico gli scavi di Pompei). Ma l’evento fondamentale fu la nomina a direttore degli scavi, nel 1898, per opera dell’allora ministro alla Pubblica Istruzione, Guido Baccelli, di una delle più singolari figure dell’archeologia militante che abbia avuto l’Italia: Giacomo Boni. Egli era nato nel 1859 a Venezia, dove aveva avuto un’educazione fondamentalmente tecnica, conclusasi con gli studi di architettura. Il primo scavo fu da lui realizzato ai piedi del Campanile di S. Marco nel 1885. Chiamato a Roma nel 1888 come segretario della Regia Calcografia, e poi come Ispettore Generale ai Monumenti presso la Direzione Generale delle Antichità e delle Belle Arti (allora diretta da Fiorelli), ebbe modo di intervenire più volte per la salvaguardia delle basiliche romaniche di Puglia. Nel 1892 partecipò ai sondaggi archeologici nel Pantheon, e infine, nel 1898, divenne direttore degli scavi del Foro Romano. Ebbe inizio così un’intensissima stagione di scavi, che in pochi anni portò ad una serie di scoperte, tra le più importanti per la storia, specialmente arcaica, di Roma. In queste ricerche, Boni portava le sue notevolissime capacità tecniche: egli fu il primo ad applicare il metodo dello scavo stratigrafico, elaborato in precedenza dagli archeologi orientalisti e preistorici, nell’archeologia classica.
Inoltre, fu un pioniere anche nell’uso della fotografia aerea: celebri le sue fotografie del Foro dall’areostato, che diedero un notevolissimo contributo alla soluzione di vari problemi topografici, e permisero di scoprire, nel 1906, l’iscrizione di L. Nevio Surdino, l’autore del lastricato del Foro di età augustea, incisa sulle lastre stesse della pavimentazione, presso la Colonna di Foca. Il metodo di scavo adottato, più volte descritto dallo stesso Boni, era di una raffinatezza difficilmente raggiunta in seguito, tranne forse negli scavi preistorici. […] I saggi del Comitium, nel 1900, costituiscono il primo caso in Italia di una grande stratigrafia (23 strati, corrispondenti a 8 pavimenti) riprodotta a grandezza originale. Così egli descrive lo scavo nelle Notizie degli scavi del 1900: «Segnai gli strati del Comizio su regoli di legno tenuti in contatto con le pareti verticali delle rispettive trincee… Ognuno di questi strati testimoniava qualche residuo di vita del periodo al quale appartenne… perciò ebbi sempre cura di esaurire, per quanto era materialmente possibile, l’analisi di ogni singolo strato, entro l’area assegnata a ciascuna esplorazione, e di non passare al taglio di uno strato inferiore, senza averne prima diligentemente raschiata e spazzolata la superficie o lavata con una spugna. Di ciascuno strato feci scomparire le zolle e misi da parte i materiali più minuti o caratteristici avvolgendoli in una carta solida e chiudendoli in una speciale cassetta con tutte le indicazioni tipografiche e altimetriche necessarie, ogni serie di queste cassette rappresenta un’opera in più volumi».
In effetti, il lavoro di scavo e di classificazione fu così accurato, che ancor oggi, a distanza di tanti anni, è possibile consultare quest’«opera in più volumi» con piena fiducia, anche se purtroppo Boni non pubblicò gran parte dei suoi scavi. […]
Negli anni successivi, l’attività di Boni si sposta altrove: nel 1906 scavò nel Foro di Traiano, e si realizzò importantissimi saggi alle mura «serviane». Inoltre, si spostò a Venezia per eseguire scavi nella zona della sua prima esperienza archeologica, il Campanile di S. Marco, che era crollato nel 1902. Dal 1907, alla competenza del direttore del Foro fu affidato anche il Palatino: di qui ebbe inizio una seconda stagione di febbrile attività, con la scoperta della Casa dei Grifi, dell’Aula Isiaca, dei cosiddetti Bagni di Tiberio sotto la Domus Flavia.

Planimetria ricostruttiva dell'area del Comitium in età repubblicana. In alto a destra, i monumenti del Comitium in relazione ai livelli 1, 2, 3, 4 che corrispondono al 2°, 3°, 4°, 5° pavimento.
Planimetria ricostruttiva dell’area del Comitium in età repubblicana. In alto a destra, i monumenti del Comitium in relazione ai livelli 1, 2, 3, 4 che corrispondono al 2°, 3°, 4°, 5° pavimento.

Con la prima guerra mondiale l’attività di Boni sembrò arrestarsi definitivamente: responsabili forse la stessa guerra, una grave malattia nel 1916, ma soprattutto l’accentuarsi delle tendenze irrazionalistiche, che erano state sempre caratteristiche della sua cultura, sempre in bilico tra positivismo scientista e torbide tendenze nazionalistiche e addirittura razziste. Da questo punto di vista, anzi, Boni poteva considerarsi, culturalmente, uno dei precursori del fascismo: non a caso, egli fu creato senatore a vita già nel 1923, e il 27 aprile votò la fiducia a Mussolini. La sua attività sembrava ormai limitarsi (fino alla morte che sopravverrà il 10 luglio del 1925) ad una serie di curiosi revivals: come la ricostruzione, per incarico di Federzoni, dell’antico fascio littorio.
Giacomo Boni non può certo considerarsi un provinciale: nutrito fin dalla giovinezza di cultura anglosassone (conosceva a perfezione l’inglese, aveva corrisposto a lungo con Ruskin, e aveva intrattenuto rapporti con il movimento preraffaelita e con quello neogotico), egli è un tipico rappresentante del passaggio dalla cultura positivistica allo spiritualismo decadente che ormai dominava all’inizio del nuovo secolo. Sarà proprio la parte migliore della sua opera, quella di scavatore tecnicamente perfetto, a venir presto dimenticata. L’archeologia militante italiana, in particolare quella romana, sarà ormai caratterizzata dal disprezzo per lo scavo stratigrafico e dalla pratica corrente dello sterro indiscriminato, al servizio diretto dell’ideologia dominante.

Ricerca archeologica e positivismo.
Le speculazioni urbanistiche dell’aristocrazia e del «generone» della Roma Umbertina e le minuziose esplorazioni stratigrafiche di Boni avevano portato alla luce un’impressionante quantità di materiali e, con questi, un problema: le «origini di Roma». Terreno privilegiato di confronto tra archeologia e storia, la ricostruzione del periodo di «fondazione dell’Urbe», come si amava scrivere nei primi quarant’anni del XX secolo, ha interessato generazioni di studiosi.
Gli scavi del primo mezzo secolo di storia unitaria italiana aveva portato alla luce, oltre a minori elementi della Roma d’età regia, le necropoli arcaiche e i siti più antichi e sacri del Foro, più tratti delle mura Serviane, le tombe dell’Esquilino, il basamento del tempio di Giove Capitolino. L’archeologia positivista, impegnata nella meritoria impresa della «Carta Archeologica d’Italia», lavorava intanto, con le notevoli personalità di Angelo Pasqui, Adolfo Cozza e Raniero Mengarelli, alla scoperta delle culture del Lazio primitivo e delle contigue regioni dell’Etruria meridionale, offrendo allo studio comparativo grandi complessi arcaici laziali, etruschi e falisci. L’infaticabile opera di ricerca topografica, di scavo e di documentazione trovava il coronamento nelle straordinarie raccolte di antichità pre-romane del Museo di Villa Giulia, destinato – nell’ottica della terza Roma laica e liberale – a competere e superare le raccolte pontificie della seconda Roma, quelle dei Musei Vaticani e Lateranense.
Le sistemazioni teoriche di quegli anni oggi forse fanno sorridere. S’immaginava l’Italia preistorica percorsa da orde di popoli «palafitticoli», «remedelliani», «villanoviani», «appenninici» che corrispondevano ad altrettante culture archeologicamente definite: migrazioni di popoli incineratori, infiltrazioni di genti inumatrici prendevano corpo, come le «migrazioni barbariche» della tarda antichità e dell’alto Medioevo, sulla carta dell’Italia con i nomi delle antiche tribù della penisola pre-romana: Osci, Ausoni, Umbri, Latini, Etruschi, … Le origini di Roma diventavano così un fatto peninsulare, un problema da risolvere nel più vasto contesto della protostoria italiana. Al di là di alcune grossolanità del metodo e del linguaggio, questa è forse una delle maggiori e più significative conquiste della ricerca archeologica dell’epoca del positivismo. Tuttavia, con gli anni ’20 del XX secolo, lo spegnersi lento e progressivo di queste correnti di pensiero «positivo» ha portato con sé un vistoso regresso negli studi di protostoria in generale e della Roma arcaica in particolare. Prevalevano ora le correnti irrazionaliste strettamente collegate alle involuzioni politiche dei vari fascismi europei; ricordiamo qui di passaggio che, se l’archeologia di Roma imperiale era una delle bandiere del fascismo italiano, il nazismo con i suoi miti razzisti non era certo da meno, dal momento che giunse a sviluppare un «servizio archeologico» delle SS, il cui compito era quello di legittimare, ricercando documenti archeologici, le aspirazioni dell’espansione del III Reich sulla scia di vere o pretese diffusioni in Europa dei gruppi ariani e germanici in particolare.
[…] Il clima culturale tra le due guerre non era certo favorevole ad un razionale e scientifico procedere della ricerca su di un tema così delicato come quello delle origini di Roma. Da un lato proseguivano stancamente le discussioni sui temi «invasionisti» ereditate dalla tradizione precedente: la ricerca archeologica, si sa, dopo la grande fiammata settecentesca che ne aveva fatto la disciplina dell’avanguardia, si è sempre attestata su posizioni, se non retrive, certo di prudentissimo e lento rinnovamento della propria metodologia e della propria tematica scientifica. Dall’altro, le squille del regime fascista suonavano l’adunata attorno ai temi della Roma dell’imperialismo o, al più, del «genio italico». Oltre alle «quadrate legioni dell’Urbe» erano di moda gli Etruschi, gli Italici e in genere le popolazioni pre-romane della penisola, solo come motivo capace di giustificare sia il successivo primato di Roma sia l’oscuro principio – proprio del «precursorismo» fascista – dell’individualità e dell’autonomia delle culture maturate sul suolo italiano.
Le «origini di Roma» erano in certa misura un tema imbarazzante per i tempi. La dipendenza di buona parte della cultura della Roma primitiva dalle più progredite civiltà del Mediterraneo, da quella etrusca e quella greca in particolare, lasciava poco spazio alla propaganda del regime sulla «fatidica genialità della razza» e soprattutto suscitava moderati interessi negli studiosi, attratti da più seducenti temi che la voga intellettuale dell’epoca andava agitando. La stessa modestia – apparente più che reale – dei reperti protostorici romani poteva al più suscitare rievocazioni di un’Arcadia romulea, spesso mutuata dalla retorica dei poeti augustei, l’idea di un’età dell’oro palatina a contrasto con la grandezza imperiale dell’Urbe dei secoli successivi. La stessa critica storica positivista, impersonata dalle grandi figure di Julius Beloch ed Ettore Pais, concludeva in quegli anni la gigantesca opera di demolizione della tradizione antica sulla storia arcaica di Roma: si era gettata via come inverosimile tutta l’età regia, considerata pia leggenda elaborata in età tardo-repubblicana; quindi anche il primo secolo della repubblica aveva subito una profonda revisione, basata sul principio della reduplicazione degli avvenimenti storici e delle interpolazioni dovute all’intervento dei sacerdoti romani incaricati della registrazione delle vicende. In altre parole, le grandi famiglie patrizie della repubblica – secondo la critica positivistica – avevano fino al IV secolo manipolato fatti, date, battaglie, ora raddoppiando o ripetendo gli eventi, ora inserendo a bella posta nomi illustri come protagonisti di vicende gloriose.
Il principio metodologico in sé era giusto e sacrosanto. I Romani hanno scritto la propria storia solo molto tardi, verso la fine del III secolo a.C., e il sacerdozio del pontificato massimo, responsabile delle semplici (e pratiche) registrazioni annuali degli eventi, è rimasto appannaggio di poche, prestigiose famiglie, quasi sempre le stesse che erano state protagoniste della storia arcaica di Roma. Se il sospetto era giustificato in linea di principio, il limite del metodo era costituito dalla sua radicalità, che aveva finito con il cancellare come leggendaria o inventata tutta o quasi la sequenza dei fatti della Roma primitiva e della prima età storica. Non mancavano in quegli anni voci di dissenso, posizioni più pacate e contenute, come quella di Gaetano De Sanctis: ma la linea demolitrice della critica positivista aveva conquistato larghi consensi in Italia e fuori d’Italia, lasciando dietro di sé le ceneri della storia arcaica di Roma.
Gradualmente, però, a partire dalla fine degli anni ’30, l’archeologia e la storia ripresero in considerazione con occhi diversi la realtà della Roma più antica: la «grande Roma dei Tarquini», che la penna sapiente del grande filologo Giorgio Pasquali aveva ridisegnato, tornava a richiamare interessi e ricerche, mentre le stridenti cronologie «alte» della protostoria italiana, pensate dalla paletnologia degli inizi del secolo, e le fantasie invasioniste del positivismo trovavano un attento critico in Massimo Pallottino.
Ma l’ipercritica «positiva», nello stesso torno di tempo, trovava, con l’opera dei grandi archeologi svedesi Aake Aakerstroem ed Einar Gjerstad, una definitiva sistemazione in campo archeologico. Il primo riproponeva nel 1943 una nuova e più bassa cronologia della ceramica geometrica italiana derivata da quella greca, con la diretta conseguenza di una revisione delle datazioni della fase protostorica tra il IX e il VII secolo a.C. Il secondo, che con una monumentale ricerca aveva già negli anni ’30 rivisitato la complessa protostoria dell’isola di Cipro, negli anni ’50 iniziava una riedizione dei materiali archeologici della Roma arcaica, pubblicando vari volumi – l’ultimo è del 1973 – dal titolo Early Rome. […]

La Basilica Aemilia durante gli scavi di G. Boni (1900-1905).
La Basilica Aemilia durante gli scavi di G. Boni (1900-1905).

Distruggere per costruire.
Lo scavo archeologico […] è in sostanza un’opera di distruzione, quasi l’entrare in un archivio per smembrarlo; una volta disfatto quest’ordine di materiali, non è più possibile ricomporlo, per cui la «distruzione» dello scavo va fatta in maniera scientificamente sistematica, non solo raccogliendo la documentazione con minuziosità, ma ponendo delle domande al contesto archeologico in via di smontaggio, che forniscano tutti i possibili dati al problema cui ci si interessa. Lo scavo fatto nel XIX secolo, per quanto «scientifico» ed esatto, era condotto per rispondere alle domande che erano proprie degli interessi correnti a quell’epoca e che dipendevano direttamente dal grado di conoscenze complessive della cultura oggetto dello scavo stesso. In breve, il coccio dell’agger serviano di antica scoperta e di contesto inadeguato, raccolto con criteri inadeguati non è e non può diventare un argomento sufficiente per distruggere il complesso della tradizione tramandataci dagli storici antichi per l’età regia.
Ma lo scienziato svedese, cui va comunque tutta la nostra gratitudine per la gigantesca opera di raccolta dei dati, non si è fermato all’opera di demolizione. Convinto anch’egli che la tradizione non poteva essere rifiutata in blocco, ha compiuto una singolare operazione: stabilito che la fondazione di Roma doveva coincidere con un atto tangibile che socializzasse le esigenze politiche delle varie comunità sparse sui sette colli e fissato quest’atto nella pavimentazione del Foro da lui collocata su basi archeologiche intorno al 575 a.C., ha collocato la serie dei sette re della tradizione a partire da quella data, quasi due secoli più tardi della data tradizionale della fondazione, il 753 a.C. E, per tornare al nostro coccio attico dell’Esquilino, poiché si data al 470 a.C., esso finisce per essere veramente testimonianza dell’attività di Servio Tullio, che nei calcoli dei sette re del Gjerstad verrebbe a collocarsi proprio in quel torno di tempo!
Tutta questa lunga disamina delle teorie del Gjerstad era necessaria, dal momento che questa teoria, soprattutto fra gli storici, ancora in parte sotto il peso dell’immenso lavoro filologico del Beloch e del Pais, hanno trovato se non accoglienza incondizionata, almeno vasto interesse ed attenzione. L’archeologia del periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale è stata in gran parte paralizzata dalla polemica pro e contro le tesi dello studioso svedese […].
La polemica attorno alle idee di Einar Gjerstad fu senz’altro la motivazione principale del fiorire di esplorazioni su Roma e nel Lazio prima del IV secolo a.C. Ma va sottolineato anche che metodologicamente (beninteso, in senso lato) tale fioritura di esplorazioni ricalcava linee seguite nei decenni finali del XIX secolo: poiché Roma, come è stato detto, con il suo millenario sviluppo urbano, ha proverbialmente mangiato se stessa, è stato necessario ricercare nelle zone circostanti, nell’antico Lazio, nell’Etruria vicino a Roma, utili termini di paragone e situazioni teoricamente e praticamente analoghe a quelle che sarebbe vano sperare di trovare nel suolo di Roma. Le scoperte sono state insperabilmente ricche di dati e di importanti novità scientifiche, che hanno trovato consacrazione nella grande mostra di Roma del 1976 dal titolo Civiltà del Lazio primitivo. Questa esposizione, che agli occhi dei visitatori esibiva antiche, favolose scoperte, come le tombe principesche di Palestrina, accanto a sconvolgenti novità, come le grandi necropoli di Castel di Decima, ha indubbiamente rappresentato una svolta nelle ricerche sulle «origini di Roma» e ha consentito una riflessione in termini nuovi su questo problema storico di enorme portata. […]


[1] Orazio, Satire, I 8, 10-16: «hoc miserae plebi stabat commune sepulcrum/ … nunc licet Esquiliis habitare salubribus atque/ aggere in aprico spatiari, quo modo tristes /albis informem spectabant ossibus agrum».
[2] N.d.t.
[3] R. LANCIANI, L’antica Roma, Roma 1970, pp. 319-326.

Roma e la Grecia

di F. GUALDONI, in Arte classica, Milano 2007, pp. 125 sgg.

«Gli antichi Romani non si curavano della bellezza, tutti presi da cose più grandi e più necessarie». In questo passo di Strabone è sintetizzato il rapporto complesso che la cultura romana dei primi secoli intrattiene con l’ellenistica, così come con quelle italiche più evolute – in specie l’etrusca – sino alla seconda metà del II secolo a.C.
La sofisticatezza dei modelli greci, l’apprezzamento puramente estetico del bello, il fasto decorativo non solo non appartengono alla cultura romana ma vengono avvertiti come ostili, come elementi tali da erodere un senso di appartenenza fondato su valori altrimenti concreti e funzionali di civitas.
L’origine e i costumi delle genti romane sono rurali, e a fronte del vitalissimo espansionismo militare ed economico che contraddistingue i primi secoli il modo di vita fa valore della semplicità, della frugalità, dell’utilità. Rispetto al mondo greco la cultura urbana matura in modo affatto differente: Roma è già di per se stessa la città, non una città, e il suo potere per lungo tempo non ha bisogno di ratifiche e manifestazioni sul piano simbolico. Il suo confine e perimetro è una linea sacra non difensiva, il pomerium – la città verrà dotata di mura munite solo dopo l’invasione gallica del 390 a.C. – secondo un concetto che permarrà anche in età imperiale, e il suo interno è concepito come una macchina funzionale, in cui è prevalente la risposta alle esigenze pratiche di vita di un agglomerato complesso di abitanti. La copertura della Cloaca Massima, l’antica condotta fognaria, i due acquedotti costruiti nel 312 e nel 272 a.C., l’avvio di una pratica rete viaria lastricata, sono nei primi secoli di vita della città opere di utilità pubblica avvertite come prioritarie rispetto alla stessa edificazione di templi, le cui proporzioni rimarranno, sino all’età imperiale, modeste.
Del resto la stessa struttura della società presenta, sul piano simbolico per eccellenza, quello religioso, forti tipicità. La comunità è strutturata sulla coesione di forti nuclei familiari, i quali rappresentano il primo inderogabile fattore di identità. Il ruolo centrale è attribuito al pater familias, il patriarca, responsabile a un tempo del partecipare della famiglia alla vita collettiva e della religione privata, non secondaria rispetto alla pubblica, in cui gran luogo hanno i sacrifici alle icone dei Lari e dei Penati, divinità protettrici private della terra e della dispensa, e ai Mani, gli antenati la cui presenza era garantita e al tempo stesso esorcizzata da immagini all’interno della casa, che contrassegnavano la continuità della stirpe e il complesso dei suoi valori sociali e morali. La pietas, amore verso i genitori, è lo stesso sentimento con cui ci si rivolge agli dèi.
Il passaggio da questa religiosità privata, che fa dell’interno della casa un luogo a sua volta sacrato, tipica del retaggio rurale e con evidenti residui animistici, a una religione comunitaria di tipo uranico, in cui progressivamente si opera il sincretismo con gli dèi olimpici greci avviato con l’identificazione della triade celeste Giove, Giunone, Minerva (gli etruschi Tinia, Uni, Menrva) con Zeus, Hera e Atena, e delle divinità ctonie Cerere e Proserpina con Demetra e Persefone, non intacca il ruolo della religiosità domestica, e contribuisce a spiegare la non particolare rilevanza, a quel tempo, degli edifici pubblici di culto.

Triade Capitolina. Marmo lunense, II sec. d.C. ca., da Guidonia. Montecelio, Museo Archeologico.

Altro elemento di forte tipicità è il prevalere dei riti sui dogmi. La religiosità romana pone al centro l’uomo e le sue azioni, cui il rituale mira a rendere favorevoli, quasi contrattualmente (tale è il senso del votum) le forze soprannaturali, e non le divinità stesse, le quali peraltro non agiscono di propria iniziativa nella vita degli uomini: l’assenza di una cultura mitica, così sviluppata invece nel mondo greco, ne è testimonianza evidente.
Da ciò discende un elemento cruciale riguardante la cultura artistica, l’assenza di una vera discontinuità concettuale tra immagine del divino e immagine umana, tra figura sacrata e figura individuale, entrambe appartenendo a un sistema unico di onori che la società e i suoi nuclei fondanti attribuiscono a chi incarni i valori condivisi cui far riferimento.
Plinio testimonia, peraltro, l’uso antico della terracotta per le statue delle divinità (in uno strato ancor più arcaico esse erano lignee), e il bronzo per quelle degli uomini; marmo, oro, avorio essendo materiali lussuosi non appartenenti alla tradizione. Quando, nel 396 a.C., Camillo saccheggia Veio, ne riporta le statue sacre in quanto sacre, così come accadde alla statua di Giove condotta a Roma da Preneste nel 380 a.C., e a quella di Giano quadrifronte presa a Falerii nel 241 a.C., secondo la ben conosciuta tendenza ad appropriarsi dell’altro impossessandosi dei suoi segni identitari di culto.

Glicone di Atene, Ercole Farnese. Statua, copia in marmo di III sec. da un originale ellenistica di Lisippo del IV sec. a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

Quando, nel 212 a.C., dalle vinte Capua e Siracusa vengono a Roma come bottino statue marmoree e bronzee, ori, argenti, decori lussuosi, e poi nel 210 a.C. da Taranto altre ricchezze tra cui l’Eracle di Lisippo, e in seguito centinaia di quadri e statue dalle prime vittorie greche dopo quella nel 194 a.C. su Filippo V di Macedonia, l’atteggiamento è palesemente mutato. Quelle statue, quei quadri, non valgono in quanto signa delle altrui religioni, ma in quanto opera d’arte, indicatori d’una tutta umana qualità della vita contrassegnata da simboli ormai squisitamente culturali. È ben vero, d’altronde, che sino al II secolo a.C. anche l’attività edilizia e architettonica, la più tipica romana, non mostra ambizioni qualitative particolari. Il tempio Capitolino dedicato a Giove, Giunone e Minerva nel 509 a.C., così come quello eretto in onore della triade «plebea» e tutta ctonia Cerere, Libero e Libera nel 493 a.C., vedono all’opera nel primo caso maestranze etrusche, come testimonia il nome tramandateci dalle fonti del veiente Vulca, e nell’altro magno-greche. Le decorazioni fittili, vivamente dipinte, adornavano edifici di concezione originale, debitrice dell’architettura templare etrusca, dalla quale derivavano i concetti strutturali fondamentali.

Ricostruzione del Tempio di Giove Capitolino, a Roma.

L’edificio, di non grandi dimensioni, si ergeva su un alto podio ed era accessibile grazie a una gradinata che saliva verso l’unica facciata, colonnata, oltre la quale si schiudeva la cella tripartita, dedicata alla triade divina, chiusa dalla parete posteriore del tempio.
Dal III secolo a.C. è documentato con sicurezza l’uso di materiali litici come tufo, travertino, peperino, e soprattutto della tecnica dell’opus caementicium, un conglomerato fluido di calce e sabbia mescolato a ghiaia o a frammenti di tufo il quale, asciugandosi, acquisisce una straordinaria solidità e consente di legare stabilmente tra loro altri materiali costruttivi, schiudendo soluzioni assai diverse dall’elementare sistema trilitico in uso nel mondo greco, limitato dal modesto rapporto tra peso intrinseco e capacità statica degli elementi impiegati.
Nel II secolo a.C. fanno la loro apparizione altri tipi architettonici. Gli archi commemorativi e onorari, sovrastati da statue, celebrativi di campagne militari vittoriose, sfruttano la tecnica nuova dell’opus caementicium per creare ampie strutture a fornice di valore monumentale; analogamente, la struttura ad arco consente realizzazioni complesse come i corsi degli acquedotti e i ponti in muratura sul Tevere, e nei secoli successivi darà vita a costruzioni grandiose, come teatri e anfiteatri.
Le basiliche, strutture coperte a pianta rettangolare e sviluppo longitudinale divise in tre navate, destinate a scopi civili, sono tra gli edifici che qualificano il foro, spazio aperto di commercio e vita pubblica sul quale affacciano gli edifici pubblici. In esse è testimoniato l’uso dei mattoni d’argilla corti (opus latericium), di largo impiego in tutta l’edilizia imperiale per la flessibilità d’uso.
È con la stagione del potere di Silla, colui che nell’86 a.C. saccheggia Atene e che dopo aver vinto Mario esercita la dittatura, ovvero il potere supremo e non condizionato tipico delle situazioni di emergenza, tra l’82 e il 79 a.C., che ha inizio il processo di rinnovamento architettonico di Roma in senso monumentale. Esso prosegue con Giulio Cesare per trovare compimento in età augustea, allo scorcio dell’età repubblicana e all’avvio di quella imperiale.
L’influenza della cultura ellenistica, si avverte nell’introduzione del modello della tholos nei tempietti a pianta circolare, nell’adozione del marmo e delle sue policromie come elemento decorativo, nell’impiego degli ordini greci. Essi, tuttavia, vengono in certo senso sovrapposti al concetto costruttivo romano, la cui tecnica consente ben altri ardimenti, testimoniati ad esempio dal terrazzamento del tempio di Giove a Terracina, per cui vengono ridotti a semplici partiture decorative, con predominio del corinzio, in un gioco di pieni e vuoti in cui colonne e semi-colonne dialogano con la nuova cadenza visiva degli archi. Ciò accade nella scena architettonica e nell’architettura stessa dei teatri, che contraddicendo l’antica morigeratezza di costumi, che stabiliva che fossero solo strutture provvisorie in legno, si fanno in quest’epoca stabili: il Teatro di Marcello in Roma, avviato da Cesare e compiuto sotto Augusto, mostra la possibilità di reggere la grande cavea senza sfruttare un pendio naturale, ma con un sistema di ampie arcate, ritmate pittoricamente negli ordini sovrapposti dalle semi-colonne tuscaniche, ioniche e corinzie. Allo stesso principio risale la concezione degli anfiteatri, edifici circolari nei quali si svolgevano ludi gladiatori e circensi.

Teatro di Marcello, Roma. Particolare della facciata con i due ordini di arcate. I resti sono inglobati nel palazzo dei Savelli (XVI secolo).

Proprio l’accezione decorativa e ostentatoria dell’arte greca tutta fa sì che essa trovi spazio, nel ricco ed ellenizzante I secolo a.C., soprattutto nel consumo privato, declinandosi in spazi come ville e giardini dalle articolazioni complesse ed esuberanti, in cui le statue – originali, copie, reinvenzioni – perdono ogni altra accezione che non sia l’estetica, e in cui persino tipi architettonici cultuali come il ninfeo, nel mondo greco semi-sotterraneo e dedicato al culto delle Ninfe, divengono puro accidente scenografico: è tuttavia dalla forma absidata del ninfeo, unita all’assialità longitudinale a tre navate della basilica, che deriverà di lì a qualche secolo il modello basilicale cristiano.
Degli ornamenti della vita privata nelle ville patrizie, e del grado di penetrazione della voga ellenistica, è testimonianza il tesoro di Boscoreale, corredo di vasellame da tavola in argento trovato in una villa dell’area pompeiana nel 1895 insieme ad altri oggetti aurei meno interessanti sul piano artistico, ma denotanti l’immensa ricchezza del proprietario. I decori esterni delle coppe, che presentano talora rilievi anche all’interno, sono a motivi vegetali alternati con pittoresche immagini allegoriche, e indicano il grado di enfasi fastosa con cui il gusto ellenistico viene declinato e fruito in ambiente romano nel I secolo a.C. Analoga qualità decorativa traspare dal coevo tesoro di Hildesheim, scoperto nel 1868, in cui a decorazioni complesse si alternano raffigurazioni divine di gusto sofisticatissimo.
Il caso della scultura è assai più complesso. Una destinazione pubblica della statuaria si radica nell’uso di collocare nella città effigi bronzee celebrative e commemorative dei cittadini illustri, in molti casi secondo la tipologia originale della statua posta su una colonna. Sono ritratti spesso eseguiti dopo la morte del personaggio, quindi tipizzati, come avviene nella Grecia del IV secolo a.C., ma dotati di una caratterizzazione realistica che appartiene al portato originale dell’arte etrusca prima e poi romana, in cui hanno un gran peso la ritrattistica funeraria e il culto degli antenati: ne è tipico il modello delle imagines clipeatae, ritratti realizzati a rilievo di individui collocati al centro di uno scudo o medaglione circolare. Già nei canopi e nei sarcofagi etruschi è evidente l’intento ritrattistico che presiede alla realizzazione dei volti, dei quali è concettualmente e culturalmente fondamentale l’identificazione. Tale tradizione, fondandosi su una pratica concepita peraltro come artigianale, quindi senza particolari implicazioni colte, trasferisce all’arte romana dei primi secoli un linguaggio immediatamente verista, crudo e diretto, lontano dall’idea stessa di stile e di elaborazione ideale. Essa permane anche quando, tra il III e il II secolo a.C., i rapporti con l’arte ellenistica si fanno più stretti, e la ritrattistica ideale greca consente a tale atteggiamento di evolversi dal punto di vista tecnico e formale, pur senza tradire la propria natura originaria.
Popolaresco e tendenzialmente ignaro sul piano stilistico, tale strato artigianale permane a lungo come humus dell’ambiente artistico romano. Se la cultura tradizionalista legata alla virtus romana concepisce la scultura meramente in funzione civica e religiosa, dunque utilitaria e scevra da implicazioni estetiche, non riconoscendo ai suoi artefici altro statuto che l’artigianale, quella affascinata dalla luxuria ellenistica è xenofila e snobistica, apprezza e onora i maestri stranieri (ecletticamente neoattici oppure baroccamente ellenistici, da Pasitele a Arcesilao, da Stephanos a Cleomene, largamente omaggiati dalle fonti) ma in quanto stranieri, verso i quali esercitare un mecenatismo a sua volta imitativo, perpetrando un sostanziale disconoscimento della figura dell’artista come intellettualmente degna e autorevole in seno alla comunità.

Il cosiddetto «Togato Barberini». Statua, marmo, fine I secolo a.C. con testa non pertinente. Roma, Musei Capitolini

Il ritratto verista, di stringata sintesi fisionomica, e un’arte del rilievo fatta di diretta, fresca descrittività e narratività, attenta all’evidenza iconografica quanto schietta sul piano esecutivo, sono dunque caratteristiche che transitano dal III-II secolo a.C. sino all’età imperiale, riemergendo come nutrimento primario dell’arte imperiale stessa da Traiano in poi. Esemplare è da questo punto di vista, naturalmente, proprio la ritrattistica funebre. Una statua di personaggio togato che regge nelle mani i busti del padre e del nonno è perfettamente esplicativa di questo filone. Il personaggio, ben connotato, fa delle fisionomie degli antenati i signa stessi della propria gens. Tale fedeltà descrittiva è robusta e sintetica, ed è riscontrabile in una serie di busti e di rilievi funerari che dal I secolo a.C. si inoltrano alla prima età imperiale, indicando differenti livelli di fattura, da un maturo realismo che supera i limiti del semplice verismo a espressioni di ingenuo piglio popolare.
Dal III-II secolo a.C. sino all’età cesariana si dipana una serie di testi e busti ritrattistici che ben indicano l’intrecciarsi della vigorosa sintesi etrusco-italica con elementi più popolareschi e con accentuazioni veristiche di sapore addirittura espressionista; ma anche con il fertile influsso della ritrattistica greca del IV secolo a.C., che agisce nella tensione vitale e nell’intensità psicologica, oltre che nell’equilibrio formale, di alcune di queste opere. La testa del Bruto Capitolino, scandita su piani netti con il fitto lavorio di capigliatura e barba, seccamente chiaroscurati, a evidenziare gli elementi identificativi maggiori, le labbra sottili, il forte naso e le orbite che ombreggiano lo sguardo intensificandone il protagonismo, è sicuramente uno dei raggiungimenti più alti del periodo più antico. Alla stessa epoca, III-II secolo a.C., appartiene una testa di fanciullo la cui stereometria è addolcita dal luminismo dolce delle superfici, non lontano dalle coeve teste fittili etrusche.
Anche la ritrattistica del I secolo a.C., dalla quale ci si attenderebbe una eroizzazione del personaggio all’uso greco, che ne amplifichi l’eccezionalità rispetto all’uomo comune, presenta piuttosto un’attenzione alla misura spirituale dell’individuo che ne definisce la sostanza psichica, non una retorica grandeur. Ritratti di personaggi illustri come Cicerone, dai lineamenti maturi e intensi, e Cesare, effigiato con sobrio realismo e modi di austera semplicità, ne indicano il concreto valore individuale, senza spinte eroizzanti o divinizzanti. È quanto emerge anche da una delle opere maggiori a noi giunte, il cosiddetto Arringatore. Al maturo realismo del volto si affianca, qui, anche una descrittività sobria e diretta che riguarda il corpo tutto, non risentendo di alcun modello sculturale ideale che faccia da paradigma.
Dei rari rilievi dell’epoca sopravvissuti, l’Ara di Domizio Enobarbo, diversamente datata dagli studiosi tra la fine del II secolo e gli ultimi decenni del I a.C., mostra un caso di convivenza complessa tra elementi ellenistici, prevalenti nella scena mitologica raffigurante le nozze tra Nettuno e Anfitrite, con Tritoni e Nereidi, e autoctoni, tipici della scena di sacrificio rituale per la purificazione dell’esercito. Le sensuose movenze curvilinee, il luminismo chiaroscurale della scena mitologica, di chiara ispirazione pergamena, sono in evidente contrasto con la sobrietà della scena storica, scandita come una theoria classica ed eseguita con pesantezza accademica non priva di abbreviazioni popolareggianti.
Una prima sintesi tra cultura romana e modelli greci si attua sotto il principato di Ottaviano, il vincitore nel 31 a.C. della battaglia di Azio contro Cleopatra e Marco Antonio, al quale nel 27 a.C. vengono riconosciuti dal Senato il titolo di Augusto e l’imperium militare, e che concentrando progressivamente su di sé tutti i poteri repubblicani, sino alla carica di pontefice massimo, la più alta autorità religiosa conferitagli nel 12 a.C., avvia la gestione monocratica dello Stato.
Dall’ellenismo Augusto deriva in primo luogo la consapevolezza dell’importanza della cultura come valore di appartenenza, come reagente e collante in grado di agire nella formazione di un’identità romana precisata e autorevole. L’azione letteraria di Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio, favorita e orientata dal principe, mira ad accreditare la rinascita di un’età aurea pacificata e florida, in cui la virtus romana rifulga come modello per il mondo tutto, nonché a vestire di mito la figura di Augusto, discendente, per il tramite di Enea, da Venere.
Il programma di trasformazione monumentale di Roma, già concepito e avviato da Silla e da Cesare, è parte integrante della strategia culturale di Augusto, che ricerca forme e modi che assommino il potere romano, la sua sagace concretezza, e il carisma colto dell’antica Atene: in questo ambito alla scultura viene attribuito parimenti il ruolo di fissare e diffondere un’iconografia insieme nobile e propagandisticamente persuasiva.
Documento per eccellenza di questo programma è l’Ara Pacis, inaugurata nel 9 a.C., un altare decorato a rilievi poggiante su un podio con gradinata e circondato da un recinto marmoreo. Accessibile da due porte che si aprivano – nella collocazione originale – sulla via Flaminia e sul Campo Marzio, il recinto è decorato all’esterno da uno straordinario complesso di rilievi su due ordini separati da un meandro continuo. L’ordine inferiore è decorato da volute correnti di acanto, il superiore da scene figurate rispondenti a un preciso programma iconografico. All’interno, la fascia alta è scandita da una serie di festoni vegetali retti da bucrani. Il fregio vegetale esterno ha un valore insieme decorativo e allegorico. L’acanto, dal cui cespo si diparte la serie fastosa di motivi curvilinei, simboleggia la forza prorompente della natura che genera e si rigenera: tra le sue volute si colloca una varietà infinita e minuziosa di motivi come palmette, fiori, viticci, foglie d’edera e di vite, abitata da piccoli animali, dalla lucertola alla rana allo scorpione. Di estrema eleganza, nascente dal gioco sottile delle linee curve e del ritmo scandito tra ripetizioni e varianti, il fregio è, nel suo trionfo del naturale, il pendant concettuale dell’ordine superiore: là è l’effetto storico della pax deorum guadagnata da Augusto, qui è la manifestazione nella natura, fiorente e rigenerata: l’ordine cosmico, l’armonia tra divino e umano e naturale, è pienamente ristabilito. I due pannelli superiori che affiancano la porta occidentale, la principale, aperta su Campo Marzio, raffigurano l’uno Enea, in veste sacerdotale, sacrificante ai Penati, l’altro, di cui restano pochi frammenti, Marte con Faustolo che guardano Romolo e Remo allattati dalla Lupa.

Dettaglio dal fregio dell’Ara Pacis: Enea che sacrifica ai Penati. 9 a.C. ca. Roma, Museo dell’Ara Pacis.

Enea, dunque la discendenza da Venere proveniente da Troia, nell’atto di compiere un rito tipico del pontefice massimo; Romolo e Remo, dunque la discendenza autoctona da Marte, accolti e cresciuti dal pastore Faustolo, esponente delle popolazioni italiche precedenti Roma: il programma iconografico è esplicito. Simmetrici, sul lato opposto sono i due pannelli raffiguranti Roma vincitrice e pacificatrice, del quale quasi nulla ci è pervenuto, e la Tellus, la Terra madre, tra piante e animali, ambiguamente ritratta un po’ come Venere un po’ come Cerere, che regge sulle ginocchia due fanciulli ed è affiancata da due figure femminili sedute rispettivamente su un cigno e su un drago marino, raffiguranti gli spiriti fecondatori della terra e dell’acqua. I lati nord e sud del recinto esterno raffigurano una processione sacra cui prende parte lo stesso Augusto con littori, sacerdoti, la famiglia imperiale, in una vera e propria teoria nella quale l’evocazione classica greca si salda con un preciso intento ritrattistico. Il fregio dell’ara vera e propria, ridotto a pochi frammenti, non consente ipotesi iconografiche solide. Dal punto di vista stilistico il gioco delle pose e dei panneggi, svolti con abile effetto chiaroscurale tra cadenze verticali e fluenze diagonali, determina netti rapporti narrativi ed emotivi tra figura e figura, ricorrendo anche all’incrociarsi degli sguardi reciproci, che intensificano l’esplicito valore ideologico dell’immagine dovuto alla riconoscibilità dei personaggi. Il clima ellenistico, trasparente dalla spettacolarità dell’insieme, del suo senso fastosamente decorativo e naturalistico, si stempera in una deliberata ripresa del classico che già può essere detto, a queste date, classicismo: il richiamo alla grande arte attica della seconda metà del V secolo a.C. non è, qui, pura questione di gusto, ma scelta da leggere nel quadro del programma politico-culturale di Augusto.
Un peso fondamentale, e per certi versi nuovo, assume in questo momento la ritrattistica. Il ritratto ufficiale del princeps diviene l’elemento iconografico che anche nei domini più lontani impone il carisma del monarca: esso dunque deve possedere una sorta di riconoscibilità “ufficiale”, un misto tra realismo e idealizzazione, in grado di eroizzare il personaggio attraverso l’interpretazione psicologica più che attraverso la tipizzazione divinizzante.
La varietà di teste giunte a noi, scalate negli anni dalla presa e dell’esercizio di potere di Augusto, mostra una certa oscillazione tra l’ispirazione più esplicitamente realistica e quella idealizzante, per far posto in seguito a un’iconografia ufficiale e ripetuta.
Le opere più rappresentative di questa fase sono la statua eroica proveniente dalla villa di Livia, moglie di Augusto e madre di Tiberio, a Prima Porta, e quella in veste di pontefice massimo da via Labicana. La prima rappresenta il principe in armi, secondo uno schema iconografico ispirato al Doriforo di Policleto ma aperta a un ritmo più mosso grazie al braccio destro teso, bilanciato dal panneggio sul sinistro. Il volto è reso con accuratezza fisionomica, ma è privo delle crudezze italiche, sintetizzato in un’espressione intensa che conferisce al personaggio un’aura di umanità e intelligenza, dunque di eroismo esercitato responsabilmente nel mondo, non al di sopra di esso in virtù di un potere autocratico. A tale definizione della sua autorità Augusto è programmaticamente attento. Egli si presenta come il restauratore della centralità dell’idea di Roma e della sua storia repubblicana, non come colui che l’ha dissolta: il suo potere non è personale, ma esercitato con dignità in nome di Roma. Sulla corazza, scolpita a rilievo alto, scene allegoriche si alternano a figure storiche in cui un generale romano, forse Tiberio, è circondato da figure di vinti. La statua velata si sottrae a maggior ragione a ogni suggestione eroica per fare di Augusto una sorta di pater, di capo spirituale, come fosse il pater familias di Roma tutta, nel segno di più compiuta appartenenza all’identità civica.
Impressionante è l’attività architettonica che dall’età augustea caratterizza tutto il periodo della dinastia giulio-claudia (Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone) e flavia (Vespasiano, Tito, Domiziano), cioè il I secolo d.C.
Svetonio attribuisce ad Augusto il merito di aver trovato una città di mattoni e di averne lasciata una di marmo. In realtà, è proprio nel I secolo d.C. che l’uso dei laterizi cotti si diffonde e consente, a Roma come nelle province, imprese imponenti di cui il Pont du Gard, presso Nimes, e la Porta Palatina di Torino, accesso munito alla città fondata nel 28 a.C., sono testimonianze eloquenti. È peraltro vero che un impiego diffuso del marmo e delle sue possibilità decorative risale a questo momento, realizzandosi in un’amplissima diffusione dello stile corinzio, come testimoniano esemplarmente il comportamento del Teatro di Marcello, dedicato nell’11 a.C. e ispiratore dell’Anfiteatro Flavio (noto più tardi come Colosseo) eretto da Vespasiano, e il tempio augusteo detto la Maison Carrée di Nimes.

Iscrizione epigrafica di M. Vipsanio Agrippa sulla facciata del Pantheon (27-25 a.C.), fatta riposizionare da P. Elio Adriano durante la sua ricostruzione dell’edificio nel decennio 118-128 d.C.

Più complesso è il caso del capolavoro dell’architettura augustea, il Pantheon, tempio di tutti gli dèi. Dedicato nel 27 a.C. da Marco Agrippa, generale e genero di Augusto, era a pianta rettangolare, rivestito di marmo, con capitelli bronzei, Cariatidi e frontone figurato. Il suo aspetto si deve alla ricostruzione di età adrianea, nel terzo decennio del II secolo d.C., con il grande pronao a colonne corinzie che si apre su una cella a pianta circolare, con esedre e colonne corinzie, coperta da una cupola semisferica, la cui concezione è stata per secoli oggetto di studio e ammirazione, e sarà modello per l’architettura rinascimentale. Delle originali decorazioni bronzee nulla è sopravvissuto.
Nel I secolo d.C. si diffonde anche l’uso di rendere monumentali le porte urbane a fornice con semicolonne corinzie, frontoni e rilievi, trasformandole sempre più in veri e propri archi commemorativi, che assumono ben presto fisionomia autonoma. Tale processo giunge a compimento nell’arco di Tito, eretto da Domiziano per celebrare le vittorie giudaiche del predecessore nel 70 d.C. Le semicolonne corinzie con elementi ionici su alto zoccolo, l’estradosso dell’arco e il fregio decorati, un attico con iscrizioni, perfezionato il fronte. All’interno dell’arco, l’intradosso è decorato a cassettoni e l’interno dei piloni di sostegno con rilievi figurati, che inaugurano l’uso di celebrare i fasti militari dell’impero con vere e proprie narrazioni. Sull’attico si trovava una quadriga con l’imperatore sul carro, in bronzo dorato.
Del tutto innovativa è la concezione scultorea che presiede ai rilievi narrativi. Scavate nella pietra senza levigature superficiali, e lasciando in vista ai bordi la superficie originale in modo da dar conto della profondità, le figure trascorrono dal limite del tutto tondo a rilievo pressoché disegnativo sullo sfondo. Esse, tuttavia, non sono scalate su piani paralleli convenzionali, ma variamente articolate secondo una profondità continua, che senza soluzioni trascorre dal primo piano allo sfondo. Tale caratteristica è accentuata dal raggruppamento e dalle sovrapposizioni diverse tra figure, e dall’effetto chiaroscurale dovuto all’incidenza diretta della luce naturale, che produce effetti pittorici non artificiosi. Ulteriore elemento di innovazione, certo derivato da modelli pittorici ellenistici, è la scelta di risparmiare nella parte alta una fascia dello sfondo, corrispondente al cielo sapientemente solcato dalle lance, anziché spingere l’altezza delle figure sino al bordo superiore, come avviene nel rilievo classico. L’allegorismo e il cauto classicismo del tempo di Augusto sono ormai alle spalle, e la sintesi matura tra realismo narrativo romano e illusionismo ellenistico comincia ad avvicinarsi: essa troverà pieno compimento in età traianea.

Enea e Didone. Affresco, 10 a.C.-45 d.C., dalla Casa del Citarista (I, 4, 5). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

È al periodo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. che si attribuisce la quasi totalità delle pitture romane giunte a noi. Esse in gran parte provengono dall’area vesuviana – dove la data dell’eruzione del vulcano, 79 d.C., offre un sicuro termine cronologico – ma anche da Roma. Si tratta esclusivamente di decorazioni murali destinate all’ornamentazione di edifici privati, dunque esemplari della luxuria romana e del suo gusto ostentatorio, propenso all’enfasi e alla sovrabbondanza.
Un’arte della pittura su tavola era in realtà diffusa sin dall’età repubblicana. Essa era legata alla narrazione, tra sintetica e allegorica, dei fatti memorabili durante le celebrazioni dei trionfi, oppure collocata per ragioni affini in edifici pubblici: si trattava, con ogni probabilità, di figurazioni essenziali e di impronta stilisticamente non evoluta, di valore per lo più illustrativo. Artisti greci immigrati e locali, in genere schiavi e liberti vista la scarsa considerazione sociale attribuita alla figura dell’artista, operavano affiancati in questo come in altri campi prediletti dal mondo romano: la ritrattistica, di viventi e dei maiores defunti, le pitture votive, le raffigurazioni popolaresche di ludi. Dalla Grecia, poi, fioriva l’importazione di pinakes, di tema sia storico che decorativo, oggetto di un vero e proprio collezionismo maniacale, tipico status symbol ellenizzante.
La pittura murale ha soprattutto carattere decorativo, e sotto molti punti di vista risente dell’influenza ellenistica, in modo particolare di quella alessandrina, alla quale si devono il prevalere di elementi paesistici suggestivi e la tecnica della compendiaria, ovvero una pittura fatta di tocchi rapidi e corsivi, di sapore impressionistico, in cui peso quasi nullo ha la tradizione greca della nitida linea di contorno e protagonista è il colore, dai toni fastosi e ricchi, dall’ocra d’oro alla porpora al blu d’Armenia, il cui pregio era tale che, testimonia Vitruvio, il loro acquisto era a carico del committente.
L’abbondanza delle pitture da Pompei e da Ercolano ha consentito nel 1882 ad August Mau, nella fondamentale pubblicazione Geschichte der dekorativen Wandmalerei in Pompeij (Storia della decorazione parietale a Pompei), di suddividere le tipologie di decorazioni pittoriche in quattro stili, corrispondenti con le debite cautele a quattro fasi cronologiche scalate dal I secolo a.C. al 79 d.C. Pur precisata in molti punti e assai più articolata sulla base degli studi successivi, tale classificazione è tuttora in uso. Il primo stile, derivante da esempi ellenistici del II secolo a.C., prevede uno zoccolo sopra il quale la parete è ripartita in blocchi imitanti marmi variegati, alabastro, porfido, con coloriture intense in cui dominano nero, rosso, giallo. Semplici elementi architettonici, come porte chiuse, pilastri, metope, fregi, scandiscono e compartiscono questo tipo di pitture. Nel secondo stile la quadratura architettonica evolve sino a trasformarsi in un illusionistico chiostro colonnato, nei cui riquadri appaiono panorami urbani e architetture illusionistiche di tipo prospettico, oltre a vedute paesistiche, di sapore e ispirazione certo teatrali. In questa fase compaiono anche festoni vegetali e fregi continui ricchi di figurette dipinte in modo veloce e impressionistico, quasi bozzettistico, con freschi effetti narrativi e artifici come colpi di luce e sapidi chiaroscuri.
Alcune opere eminenti, attribuibili a esecutori di qualità superiore, appartengono a questa fase. La pompeiana Villa dei Misteri presenta partizioni architettoniche semplici che delimitano ampi riquadri a fondo rosso in cui gruppi di figure rappresentano scene d’iniziazione misterica.

Satiro danzante. Affresco, I sec. d.C. dalla Villa dei Misteri a Pompei.

La villa di Livia a Prima Porta, in Roma, scavata nel 1869, si caratterizza per l’abbondanza di festoni vegetali e per la vasta descrizione ravvicinata di un giardino, motivo tipico di questa stagione del gusto, con minuzie naturalistiche e delicati accenni bucolici, in una concezione comunque eminentemente decorativa. Il miniaturismo idilliaco della pittura ellenistica si nutre qui, nelle mani di un artefice consapevole, del gusto descrittivo e diretto della tradizione romana, con un risultato di sintesi di notevole livello, confrontabile per certi versi – precisione nel differenziare le specie vegetali, attenzione descrittiva negli animali – al decorativismo naturalistico del fregio vegetale dell’Ara Pacis.
Caratteristica del terzo stile è l’abolizione della scenografia architettonica in favore di decorazioni esili e calligrafiche come candelabri culminanti in figurette, tralci, corone, e di illusioni di tessuti tesi con figurazioni centrali, emulanti le ricche decorazioni in tessuto delle case, dei quali nulla ovviamente ci è giunto, con inserzione di illusionistici pinakes. Talora, anziché essere raffigurati direttamente sulla parete, i pinakes erano eseguiti su stucco o marmo e incastonati nella parete stessa. È tra secondo e terzo stile che si diffonde la moda delle nature morte, il cui sviluppo e la cui proliferazione presuppongono un fitto e continuo scambio tra produzione di quadri veri e propri e raffigurazione degli stessi quadri nei contesti decorativi della pittura parietale.
Il quarto stile torna, dopo la finezza grafica delle grottesche del terzo, a un’accelerazione degli elementi scenografici e della sovrabbondanza decorativa. Ricco di tipologie diverse, rende protagonisti gli illusionismi architettonici collocandovi figure e scene vere e proprie, oppure larghe vedute paesistiche, dove la pittura compendiaria raggiunge effetti di autentica suggestione impressionistica, senza più la preoccupazione naturalistica tipica del secondo stile.
Rispetto ai modelli ellenistici, è proprio la tendenza a semplificare e rendere schietto il clima visivo l’elemento di innovazione che si può riferire alla cultura romana. Poco, tuttavia, si può dire in merito alla qualità specifica di queste pitture, di concezione e fattura ascrivibili all’alto artigianato, in assenza di una vera e propria cerchia di maestri riconosciuti. È nei riquadri figurati, ispirati spesso a temi ellenistici spinti verso un clima definitivamente idilliaco, che la pittura pompeiana raggiunge talora esiti di straordinaria fragranza.
Anche l’arte dei pavimenti a mosaico si diffonde secondo esempi ellenistici, sostituendo progressivamente i più semplici pavimenti in cocciopesto con incrostazioni marmoree, e quelli con decorazioni geometriche continue, incornicianti piccoli elementi figurativi riquadrati, tipici della casa romana. Se gli esempi più direttamente impliciti nell’arte ellenistica, in genere copie di pinakes, sono a tessere piccole in pasta colorata, le traduzioni romane impiegano più larghe tessere in marmo e pietre dure, e talora paste vitree colorate, con effetti più corsivamente decorativi.
Della pittura ritrattistica romana nulla è sopravvissuto. Tuttavia, la ritrattistica di età imperiale è evocata dalla produzione tipica di un’area specifica dell’Egitto, il Fayum, isola sul Basso Nilo, da cui provengono circa seicento ritratti funerari databili dall’età neroniana al IV secolo. Sono ritratti dipinti su tavolette di legno che venivano fissate sull’involucro delle mummie secondo l’uso egizio, e che, nell’evolvere da un più schietto realismo a forme di idealizzazione del tipo frontale con gli occhi fissi, mostrano un rapporto continuo e diretto con l’arte romana di madrepatria.