Fondamenti della teocrazia imperiale

in A.P. Di Cosmo, Regalia Signa. Iconografia e simbologia della potestà imperiale, ΠΟΡΦΥΡΑ Suppl. 10 (2009), 3-12 passim [].

L’autocrazia del “despota dei Romani” trova fondamento in un articolatissimo, seppur raffinatissimo, sistema simbolico e in una catena di infiniti rimandi tra particolare e universale, che si esprime in un protocollo aulico (λειτουργία) capace di rivaleggiare e superare in eleganza – tra inchini, canti e cerimonie di trionfo – i più rinomati protocolli europei. Ravegnani puntualizza che queste istanze sono compendiabili nel concetto di τάξις, termine che significa “ordine”, nonché “etichetta” «finalizzata alla glorificazione perpetua (…) del sovrano»; essa «consisteva nella determinazione dei posti in ordine di importanza, secondo il grado rivestito, negli atteggiamenti da tenere di fronte al sovrano, nei gesti e nelle formule»[1]. Infrangendo l’etichetta si incorreva in un sacrilegio (Cod. Iust. XII 8, 1, a. 384), poiché si violavano le divine disposizioni[2]: ogni ruolo era tale perché fissato dalla divinità o piuttosto (come sottolineato dallo stesso Ravegnani) dalla volontà del sovrano, che è “legge animata” (Nov. CV 2, 4; Cod. Iust. I 4, 1; 14, 4; 14, 13; 17, 1; 17, 8; II 71, 5; Inst. II 17, 87; VI 23, 3) che in terra «per me regnat»[3].

L’Impero è tutto teso a realizzare la τάξις affinché «possa il potere imperiale, esercitandosi con ordine e regolarità, riprodurre il movimento armonioso che il Creatore dà a tutto l’universo e l’Impero apparire ai nostri sudditi più maestoso e perciò più gradito e ammirabile»[4].

Croce gemmata con il volto di Cristo. Mosaico, VI sec. d.C. Ravenna, Basilica di S. Apollinare in Classe.

Nel tardo Impero, il problema di trovare un fondamento alle origini del potere, per dare stabilità al seggio, venne risolto con un vecchio escamotage: l’archetipo divino della potestà regale. Commentando l’ideologia tetrarchica, Libanio (Or. IV 61, 5) parla appunto di «far governare il mondo dagli dèi»: l’imperatore romano, dimentico dell’antico mos maiorum e alla maniera del faraone, si proclama “dio”, con definitivo superamento della qualifica di “genio dell’imperatore” (a ogni modo, la divinità dell’imperatore era già stata teorizzata da Diocleziano e Aureliano). L’assimilazione delle somme cariche dello Stato con Giove ed Ercole non si limita, quindi, alla mera teoria, ma si concretizza nell’uso dei cognomina Iovius ed Herculius, quale compartecipazione alle virtù della divinità. Nel fare propri i numina degli dèi, gli imperatori del tardo Impero sottolineano di essere predestinati fin dalla nascita al trono[5]: così Giuliano narra che il genio di Giove (il suo genio!) più volte l’aveva pregato di accettare la porpora e l’aveva minacciato di abbandonarlo, qualora avesse nuovamente rifiutato la nomina a imperatore, poiché egli stesso aveva ispirato i soldati (Amm. Marc. XX 4, 17-18; 5, 10)[6].

Nella cosmogonia bizantina, al contrario, «l’idea di un imperatore-dio viene (…) sostituita, per influsso del Cristianesimo, da quella più sfumata di “eletto da Dio”, una sorta di tredicesimo apostolo a capo dell’ecumene romana»[7]. Questo archetipo venne ideato dallo stesso Costantino, che, facendosi seppellire nella Chiesa dei dodici Apostoli, aggiunse una tredicesima arca a quelle già esistenti, assumendo le qualità di ἰσαπόστολος (“uguale agli apostoli”, titolo con cui viene venerato dalle Chiese orientali)[8]. Addirittura c’è chi lo indica come un alter Christus, poiché la posizione centrale tra gli Apostoli, distribuiti in numero di sei da una parte e dall’altra della sua tomba, lo assimila a Cristo capo del collegio apostolico; tema che verrà poi ripreso dagli imperatori nei secoli successivi[9].

Flavio Valerio Costantino. Follis, Londinium 310 d.C. Æ 4,32 g. Obverso: Soli invicto comiti. Sole stante verso sinistra con destra alzata e globo nella sinistra.

Con le parole di Ostrogorsky, «l’imperatore non è solo il supremo comandante dell’esercito, il sommo giudice e l’unico legislatore, egli è anche il protettore della Chiesa e della vera fede, e in quanto tale non è solo il signore e capo, ma anche l’immagine vivente dell’Impero cristiano affidatogli da Dio. Egli è in diretto rapporto con Dio, viene considerato come fuori dalla sfera del terreno e dell’umano ed è oggetto di un particolare culto politico religioso»[10]. Tale era la sua natura da essere chiamato «di divina sorte» (Nov. Iust. 9, a. 535; Petr. Patr. De scient. polit. 91 Reiske).

Sull’elezione divina concordavano anche i principi degli Apostoli. Pietro (1P 2, 13-17) dice: «siate soggetti per amore al βασιλεύς, come a Colui che eccelle su tutti»; Paolo (Rom XIII 1, 1) scongiura: «ogni anima sia sottomessa alle potestà superiori (…), quelle che ci sono, sono state ordinate da Dio»[11]. Già il libro dei Proverbi (Prov. 8, 15-16) afferma che è Dio a consegnare i regni della terra ai re: la vocazione divina diventa quindi inequivocabile.

La derivazione teocratica della potestà regale ut supra rappresentata e quale si evince dagli studi di Pertusi (1991: 16-31) ha radici antichissime ed epistemicamente viene giustificata dallo stesso Platone in più opere, trova echi in Plotino, con essa concordano gli stoici ed è avvallata pure da Cicerone: il sovrano è descritto come re e filosofo (interessantissimo in questo senso è l’encomio di Niceforo Gregora per Andronico II, visto come un novello Platone), eminente tra gli uomini aurei e piena espressione degli ἄριστοι; egli si distingue per il nous regale e per la possibilità di contemplare più pienamente la divinità, poiché è più capace di rifletterne il sommo fulgore e funge da intermediario[12]. La concezione ellenistica si innestò sull’immaginario giudaico del potere, a determinare l’ideologia cristiana che vuole il sovrano creato a immagine e somiglianza di Dio, dotato di poteri ritenuti diretta emanazione del Logos-Sophia e pertanto tali da renderlo giusto e ornato di una conoscenza umana e divina[13]. È questo il retroterra concettuale della dottrina della “imitazione di Dio”: «L’Impero terrestre, infatti, doveva imitare nelle forme quello celeste (…) e chi in terra deteneva l’autorità era tenuto a sua volta ad imitare Dio. Imitare per essere imitato dai sudditi e portarli così verso la perfezione»[14].

Parallelamente, anche l’imperatore cinese ha, secondo la tradizione, la possibilità di migliorare con il proprio comportamento le qualità morali del popolo ed è in grado di aumentare i fasti del regno, perché egli è il terzo potere; solo mantenendo «l’immutabilità nel mezzo si manifesta la virtù del cielo»[15].

Cristo docente, assiso su un seggio. Statuetta, marmo, IV secolo d.C. da Lanuvium (Civita Lavinia). Roma, Museo Nazionale Romano.

L’imitatio Dei ha il suo fondamentale teorico in Eusebio di Cesarea (Euseb. Laud. Const. 3; Vita Const. IV 52, 1). Questi ritiene che la potestà imperiale emani direttamente dal Logos «fonte di ogni virtù», che ha creato il sovrano come «animale regale» per ricevere la carica imperiale, comunicandogli perciò virtù innate tra le quali spicca l’εὐσέβεια, che è più importante dello stesso ius imperii[16]. Eusebio non fa altro che enfatizzare nel βασιλεύς la virtù principale del mitico progenitore di Roma, Enea; quella stessa virtù che valse l’epiteto di pius all’imperatore Antonino. Ma non solo: il βασιλεύς è plasmato a immagine (εἰκών) di Dio, con il suo regno ripete l’ordine del mondo supero ed è epifania della realtà celeste. Al βασιλεύς Dio dona una conoscenza speciale, gli rivela le cose sacre e quelle occulte (Euseb. Vita. Const. 1, 3-4; 6; 9). Eusebio (ibid. I 44; IV 24) definisce Costantino addirittura «vescovo universale», garante della futura religione di Stato, rielaborando la figura del pontifex maximus (Piras)[17]; non sbaglia il Palazzolo a definirlo «il primo sovrano assoluto della romanità»[18].

In virtù di questa speciale partecipazione al mistero divino, nel suo epistolario Leone III potrà scrivere a Gregorio II: «Io sono sacerdote e re»[19], innalzandosi al rango di ministro di Dio, simile a una sorta di vescovo per coloro che non hanno accesso al νᾶος (Euseb. Laud. Const. 5, 21-22)[20]; ancora più esplicativa è l’espressione con cui si autodefinisce Giustiniano: ἀρχιπρεσβύτερος[21]. Come sottolinea Pertusi, questo particolare ministero è pienamente giustificato (Dig. I 1, 1), poiché far trionfare la fede cristiana è uno degli scopi dell’Impero e obbligo dell’imperatore, cristallizzato sotto forma di legge (Nov. 6 praef.), era difendere i dogmi di Dio[22]. Con le parole del De Francisci: «L’Impero diventava il rappresentante dell’idea universale del Cristianesimo, e si attribuiva il compito di sostenerne il riconoscimento e la diffusione, di convertire ed abbattere i pagani e gli eretici, di allargare il più possibile il terreno sul quale doveva spargersi il buon seme, di attuare l’unità religiosa. (…) Là dove si estende il diritto romano deve giungere la regola della Chiesa universale»[23].

Secondo Demetrio Comateno (CSHB 38, 119; 949b-c), l’imperatore non è vincolato neanche dalle leggi ecclesiastiche e ha i poteri di ratifica dei concili: «Egli è il nostro Cristo» e di conseguenza conserva i poteri di pontefice. Per Teodoro Belsamone (Commento ai canoni del Concilio di Ancira, 138, 93b; 74d, 1017d), il βασιλεύς erige metropoli, nomina vescovi (emblematico il caso di nomina del vescovo Sipontino Lorenzo da parte di Zenone) e ridisegna i confini delle diocesi. La sua giurisdizione non si estende ai soli corpi ma ricomprende anche la cura animarum; egli «riconduce all’ovile di Dio le pecorelle smarrite e quelle che nell’ovile di Dio non erano mai entrate»[24]. Tutto ciò si inserisce pienamente nella tradizione romana, ove i poteri regali comprendevano anche quelli sacerdotali. Secondo Servio (ad Aen. III 268), «fu consuetudine dei nostri antenati che il re fosse pontefice e sacerdote»  e non a caso Augusto assunse per sé il titolo di pontifex maximus, carica rivestita dagli imperatori fino alla rinuncia di Graziano (Zos. IV 35-36); Aristotele (Polit. III 9; VI 5) stesso afferma che i re sono tali perché essi hanno ricevuto l’incarico del culto comune.

Per Psello (Chron. V 5, 1 Renauld) «l’ascesa al trono è definita come τὸ τῆς βασιλείας μυστήριον (iniziazione all’Impero). Quasi contenesse un qualcosa di magico»[25], configurandosi come il supremo dei misteri da disvelare; è facile giocare con le assonanze dei termini greci τεθρονισμένος (“colui che sta sul

Trono”) e τετελεσμένος (“l’iniziato”). Egli è imperatore a guisa di ragione, perché come uno specchio[26] riflette la divinità imitando «la sua benignità per quanto può comprendere la mente umana»[27] e, per Ravegnani, «imitarlo significa attuare tutte le virtù proprie di Dio (…), bontà, saggezza, potenza, giustizia, (…) al fine di giungere alla perfezione morale»[28]; inoltre, «il βασιλεύς deve esercitare la benevolenza, l’atteggiamento che un padre ha verso i figli e che consiste essenzialmente nel saper perdonare»[29]. Questa concezione è ben compendiabile nell’iscrizione di un cofanetto eburneo: «La tua anima, o autocrate, è una teca di doni sublimi e una nave di ricchezze divine»[30].

Le virtù imperiali trovano piena esplicazione nell’epiteto felix. La Giustizia e la Misericordia vengono raffigurante presso il trono dell’imperatore come espressione delle sue virtù o nell’atto di consigliare Cristo mentre incorona gli Augusti[31]. […] Il rapporto dell’imperatore romano-orientale con la divinità è definito in termini di ὁμοίωσις Θεοῦ (“emulazione di Dio”) o, meglio, di Χριστοῦ μίμησις (“imitazione di Cristo”)[32]: ne è esempio la monetazione di Costantino VII, ove il volto dell’imperatore compare in un ovale posto sull’incontro delle braccia della croce, alla stessa maniera in cui nel catino absidale di S. Apollinare in Classe al centro della croce è effigiato il volto di Cristo. Tale iconografia è ripresa da

Niceforo II, rappresentato in un più elegante quadrilobo applicato al centro della croce, e da Giovanni I Zimisce, che nelle sue monete si raffigura al centro di un cerchio apposto su una croce[33]. Il βασιλεύς riceve infatti il regno per benevolenza divina e viene scelto direttamente da Cristo. Tale costrutto, stabilito con forza di legge nel Codex (Cod. Iust. I 17, 1-2, 18; I 27, 2; I 29, 5; 7, 37), è avvallato da un’abbondante iconografia dove i vari βασιλεῖς vengono incoronati da Cristo, dalla Vergine o ancora, in più rari casi, dai Santi. Eusebio (Vita Const. II 28) attribuisce a Costantino quest’espressione: «Dio stesso ha ricercato e giudicato adatto ai suoi fini il mio servigio (…) in modo che il genere umano recuperasse il rispetto per l’augustissima legge, (…) perché la beata fede potesse accrescersi sotto la guida diretta di Dio».

Leone I il Trace. Busto, marmo e alabastro, c. 470. Paris, Musée du Louvre.

Marciano, all’apertura del concilio di Calcedonia del 451, ribadirà la propria elezione divina: Divino iudicio ad imperium sumus electi[34]. Nella novella di Leone I De bonis vacantibus (468) agli imperatori totius mundi regimen commisit suprema provvisio si cristallizzava il presupposto teologico della regalità proclamato dallo stesso sovrano in occasione delle sua creazione («l’onnipotente Iddio e la vostra scelta, o prodi commilitoni, mi hanno eletto imperatore dell’Impero romano»), cui i soldati, consci della sacra elezione, risponderanno: «Colui che ti ha scelto ti proteggerà, Dio difenderà il suo eletto»[35]. La medesima concezione si ritrova nel discorso pronunciato da Anastasio I al momento dell’incoronazione: «L’elezione del gloriosissimo Senato e degli illustrissimi dignitari, il consenso dei potenti eserciti e del devoto popolo, previa la clemenza della S. Trinità, hanno scelto me per reggere l’Impero dei Romani, sebbene non volessi ed esitassi. […] è chiaro che la potenza umana dipende dal cenno della gloria suprema»[36]. Di conseguenza, il regno poggia sul previo consenso della Trinità, idea penetrata nell’inconscio collettivo tanto che il popolo rivolgeva all’imperatore queste acclamazioni: «Dio ti ha dato, Dio ti conserverà»[37]. Giustino I, durante la sua incoronazione, disse: «Per decisione di Dio onnipotente e per la vostra comune scelta avendo ottenuto l’Impero, invochiamo la divina provvidenza (…); e il popolo: “Sovrano Celeste, salva quello terrestre! (…) Tu lo hai scelto, Tu abbi pietà di lui!”»[38].

Il canto apelatico (Const. Porph. Cerem. 2, 102), rivolto all’imperatore nell’anniversario della sua incoronazione, ricorda che Cristo stesso inizia all’Impero, e intona: «Dio ti ha confermato sovrano assoluto; e sceso dal cielo, il Grande Duce degli eserciti, davanti al tuo volto ha aperto le porte dell’Impero; (…) te, infatti, desiderava avere come pio imperatore, sovrano, pastore, (…) autocrate»[39].

Questa concezione della regalità attraversa immutata i secoli. La troviamo, per esempio, in un panegirico dedicato a Michele VIII Paleologo: «Conservasti pura in te l’immagine divina e (…) noi crediamo che il tuo potere sia a te derivato da Dio e dall’eccellenza delle tue virtù» (Georg. Cypr. 142, 346-381)[40] […].

Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano I. Solidus, Costantinopoli 538-545. AV 4,4 g. Recto: D(ominus) N(oster) Iustinianus P(ater) P(atriae) Aug(ustus). Busto affrontato, drappeggiato, corazzato dell’imperatore, con globo crocigero e scudo.

I vari βασιλεῖς coltivavano la religione col fervore della ragion di stato, col fine di perdurare sul trono e di non inimicarsi l’Onnipotente. Giustiniano passava molte ore nelle cappelle di palazzo e conversava di tematiche teologiche fino a tarda ora, dormendo pochissimo; era anche un apostolo ardente poiché inviava molti monaci nelle regioni non cristiane al fine di convertire quei popoli (Proc. BGoth III 32, 9). Egli è anche noto come autore di componimenti religiosi, il più celebre dei quali è un’orazione inserita nel canone della Divina liturgia di S. Giovanni Crisostomo, che intona:

Figlio unico e Verbo di Dio, pur essendo

immortale, per la nostra salvezza volesti prendere

carne dalla santa Madre di Dio e sempre Vergine Maria;

senza mutarti ti sei fatto uomo e fosti crocifisso,

o Cristo Dio, calpestando la morte con la morte;

tu, che sei una delle Persone della Trinità, glorificato

insieme col Padre e lo Spirito Santo, salvaci.

Autore di opere teologiche fu Leone VI il Saggio. Il suo inno: «Venite, o popoli, adoriamo la Trinità in tre persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo» si recita nell’ufficiatura dei vespri di Pentecoste. Quest’ufficio detto “della genuflessione”, secondo il Gavrilovic è da collegare al mosaico nel nartece di S. Sofia, in cui l’imperatore si prostra innanzi a Cristo παμβασιλεύς per ottenere la sapienza necessaria a governare l’Impero[41]. Lo stesso βασιλεύς (Or. 13; De Spir. Sanct. 107, 157) compose una preghiera sapienziale allo Spirito Santo finalizzata al buon governo: «O mente, o sapienza, o Spirito Santo, natura unica, regno indivisibile concedi la forza della mente in proporzione alla mole delle cose e governa con noi coloro dei quali ci hai affidato la cura, affinché il popolo tuo da noi guidato, eviti le avversità che quaggiù accadono e giunga alla felicità celeste che tutti noi auspichiamo di ottenere dalla tua grazia e bontà, per poter lassù colmare di lodi in eterno la tua eccelsa divinità».

Ma se per divino consenso si acquista il trono, per volontà divina lo si perde, come sanzione per la mancanza di pietas dell’imperatore. Illuminante a riguardo è il passo attribuito alla mano di Costantino in una sua epistola al governatore d’Africa, in cui lo sollecita a risolvere i problemi dell’eresia donatista: «Potrebbe avvenire che Dio agisca contro di me, alla cui cura egli ha affidato per decreto celeste la direzione di tutti gli affari umani, disponendo in modo diverso da come ha fatto finora»[42].

Flavio Valerio Costantino. Follis, Costantinopoli 337. Æ 2,97 g. Obverso: Spes public-a. Labaro con tre punti, sormontato da un Chrismon (X-P), infilzato su un serpente. Cons. in exergo come segno di zecca.

Onorio, in una lettera al fratello Arcadio, si mostrava preoccupato di poter perdere il trono per l’ira divina, suscitata dal disordine religioso che attraversava il regno: Auctor nostri imperii et rei publicae, quam nobis credidit, gubernator (Epist. Imp. 38, 4 Avellana). Così, alla fine dell’Impero, sarà la sentenza divina a scandire la capitolazione della βασιλεία. Ne Il pianto di Costantinopoli, un componimento poetico sul genere delle lamentazioni, l’anonimo autore si duole dalla caduta della città imperiale e ne dà una giustificazione di natura teologica: «Apprendi la storia (…) dei Romei senza testa: (…) tutti erano malvagi, (…) l’uno l’altro sgozzava sovente, (…) senza il volere di Dio acquistavano il trono, (…) senza timore di Dio aborriti da tutti, nemici dei cristiani di ogni monastero per questo ebbero lo sdegno del Signore e perdettero il regno per la loro trascuratezza».

Dio punisce gli errori del suo eletto detronizzandolo come «nel caso di un imperatore pio» quale era Maurizio «che verrà sostituito dal sanguinario Niceforo Foca»[43]. I Santi Padri, sulla scia della Lettera ai Romani, 13, 5, di S. Paolo, sottolineano che è lecito resistergli nel caso in cui il sovrano ordini empietà[44]; in tale maniera il βασιλεύς perdeva non solo il consenso divino, ma rischiava pure la rivolta popolare. Ogni imperatore, infatti, sapeva di sedere su un seggio sempre vacillante e di poter essere sottoposto se non alla morte, alla tonsura, alla castrazione, all’accecamento o, comunque, alla mutilazione: l’invalidità constava infatti la perdita del trono[45]. L’uccisione del βασιλεύς era pur sempre un atto sacrilego: se neanche lo stesso Davide levò la mano contro Saul, non era lecito dare la morte all’unto del Signore (2Sam. 26, 9).

Il rito di incoronazione prevedeva che l’imperatore scegliesse il marmo del proprio sepolcro (in previsione di eventuali accidenti) e baciasse tre volte, in segno di umiltà, l’ἀκακία, un sacchetto purpureo contenente terra di tombe[46]. A parere del Toynbee, inoltre, l’imperatore basava il proprio potere e la possibilità della sua conservazione sulla corte, il che implicava «accettare e diventare prigioniero dell’oppressivo ciclo annuale delle cerimonie infatti non l’imperatore regnante ma la corte aveva l’ultima parola. Lo status di πορϕυρογένητος (erede legittimo, poiché nato mentre il padre era regnante) era il massimo di legittimazione possibile»[47].

Leone VI si prostra dinanzi a Cristo παμβασιλεύς. Mosaico, c. IX secolo. Istanbul, Santa Sofia.

Il principe nasceva nella Porphyra (Πορφύρα), una stanza coperta di marmi di porfido nel Palazzo di Dafne, ove tutta la corte era presente e lo accoglieva (era questa la prima cerimonia che inglobava il futuro βασιλεύς nel complesso meccanismo di etichetta ove la corte regnava sovrana); seguiva un rito che ricordava la visita dei Magi, durante il quale l’imperatrice riceveva i doni e le felicitazioni delle nobildonne della corte, che si inchinavano davanti alla culla in atto di adorazione e omaggio[48].

Per Ravegnani il potere del βασιλεύς «era spesso esposto all’influenza predominante di forze che agivano dietro il trono, in parecchi casi gli eunuchi di corte, depositari di una smisurata potenza che aumentava naturalmente in maniera inversamente proporzionale alle capacità del sovrano stesso»[49]. Michele III pagò a caro prezzo il comportamento indecoroso e il mancato rispetto dell’etichetta di corte e dei suoi ritmi[50]; per converso, la corte aveva il potere di favorire l’ascesa al trono, come nel caso dell’incoronazione di Giustino I: gli eunuchi facenti parte dei δομέστικοι non vollero consegnare le insegne imperiali, barricandosi in un palazzo finché non fosse stato eletto legittimamente un imperatore. A porre Giustino II sul trono fu il potentissimo eunuco Calinico, che diceva di aver ricevuto da Giustiniano, come testamento, l’ordine di fargli succedere il nipote Giustino[51].

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Note con riferimenti bibliografici:

[1] G. Ravegnani (ed.), Antologia di fonti sulla corte di Bisanzio, Venezia 2000 []; cfr. A. Grabar, Pseudo-Codes et les cérémonies de la cour byzantine au XVI siècle. Art et société à Byzance sous les Paléologues, Venise 1971, 205-206.

[2] G. Ravegnani, La corte di Giustiniano, Roma 1989, 15-16.

[3] A. Carile, M. Saltarelli, La sacralità rituale dei basileis bizantini, in F. Cardini, M. Saltarelli (eds.), Per me reges regnant. La regalità sacra nell’Europa medievale, Rimini-Siena 2002, 53-96.

[4] M. Panascià (ed.), Costantino Porfirogenito, Libro delle cerimonie, Palermo 2003, 2; 19-21; 47; cfr. A. Carile, Eutaxia, l’ordine divino nel cosmo e nell’Impero, in P. Catalano, P. Siniscalco (eds.), IV Seminario da Roma alla terza Roma (1984), Roma 1998, 131-136; Id., Ricchezza e povertà negli “specula principis” bizantini dal IV al X secolo, in A. De Benedictis, A. Pisapia (eds.), Specula principum, Frankfurt-am-Main 1999, 4-20; G. Bezza, Arcana mundi. Antologia del pensiero astrologico antico, I, Milano 1995, 163-192; D.A. Miller, Emperor and the Ritual: Magic and Harmony, EtByz 6 (1979), 120-128.

[5] Cfr. A. Marcone, Pagano e cristiano: vita e mito di Costantino, Roma-Bari 2002, 174; F. Kolb, L’ideologia tetrarchica e la politica di Diocleziano, in G. Bonante, A. Nestori (eds.), I cristiani e l’Impero nel IV secolo, Atti del Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico (Macerata, 1990), Macerata 1998, 17-44.

[6] Cfr. J. Ferguson, Le religioni dell’Impero romano, Roma-Bari 1983, 47-50. Vd. anche F. Dvornik, Early Christian and Byzantine Political Philosophy. Origins and Background, DOS 9 (1966), 611.

[7] Ravegnani, La corte…, 15; A. Pertusi, Il pensiero politico bizantino, Bologna 1991, 30; M.L. Palladini, L’aspetto dell’imperatore-dio presso i Romani, CIFC 1 (1965), 4-25.

[8] G. Catalano, Il problema del culto di San Costantino Imperatore (secondo il diritto canonico), in F. Sini, P.P. Onida (eds.), Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore tra Oriente e Occidente, Torino 2003, 397-398.

[9] Cfr. Marcone, Pagano e cristiano…, 173; S. Rebenich, Vom dreizhnten Gott zum dreizehnten Apostel? Der tote Kaiser in der Spätantike, ZACh 4 (2000), 300-324.

[10] G. Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, Torino 1968, 29.

[11] Cfr. Iren. Adv. haer. V 24; Orig. Num. hom. 22, 2; Comm. Epist. Rom. 9, 25; Comm. Matth. 16, 8; Exod. hom. 11, 1-6; contra Cels. 8, 68; Clem. Rom. Ep. 1, 61.

[12] Plat. Leg. 176, 712b-717; Resp. 517b, 519b, 521c, 532b, 611; Phaedr. 247, 248a, 249c-d, 816e; Tim. 90b-d; Gorg. 507; Pol. 301d; Plot. Enn. I 6, 7; IV 3, 15; V 8, 10; Sen. Dial. VII 16, 3; Dial. VI 23, 1; Clem. 1, 1; Cic. Somn. 3; Nat. deor. II 7, 19; 45, 115; 119; III 11, 28; Resp. I 36-38; Tusc. II 26, 62; Cato maior 21; Niceph. Greg. 10, 1; Agapet. Diac. Exp. cap. admon. 24.

[13] Phil.² Confus. 77; Mos. 1, 148-162; Legat. 50; 76, 119; Leg. 4, 164; 184-188.

[14] G. Ravegnani, Imperatori di Bisanzio, Bologna 2008, 19.

[15] C. Lamparelli (ed.), Confucio, I dialoghi, Milano 1989, Lunyu, 4, 27.

[16] R. Farina, L’imperatore cristiano in Eusebio di Cesarea. La prima teologia politica del Cristianesimo, BThS 2 (1966), 107 ss.; 131 ss.; 270 ss.; S. Calderone, Storia e teologia in Eusebio di Cesarea, in E. Del Covolo, P. Uguglione (eds.), Cristianesimo e istituzioni politiche, Roma 1977, 8-94.

[17] A. Piras, L’atteggiamento di Costantino durante la controversia ariana, in Sini, Onida, Poteri religiosi…, 237-238.

[18] P. Palazzolo, Concezione giurisprudenziale e concezione legislativa del diritto: la svolta costantiniana, poteri religiosi e istituzioni, in Sini, Onida, Poteri religiosi…, 175; M. Mazza, Il principe ed il potere. Rivoluzione e legittimismo costituzionale nel III sec. d.C., in Istituzioni giuridiche e realtà politiche nel mondo antico, Milano 1976, 1-62.

[19] F. Dölger (ed.), Regesten der Kaiserurkunden des oströmischen Reiches von 561-1453, München-Berlin 1924-1965, n. 290.

[20] Piras, L’atteggiamento di Costantino…, 235-239; cfr. R. Schiavolin, Divina dispositio: ordine e governo dell’universo nella politica, nella teologia e nell’arte di ambiente ottoniano, EsFilos 2 (2007), 3.

[21] Cfr. A. Hauser, L’arte del cesaropapismo bizantino, ΠΟΡΦΥΡΑ 1 (2003), 40-46.

[22] Pertusi, Il pensiero…, 33.

[23] P. De Francisci, Arcana Imperii, Milano 1948, 2-3; 179; 193.

[24] L. Cohn, s.v. Eustathios (18), RE 6 (1907), 1452-1489.

[25] A. Carile, Regalità sacra ed iniziazione nel mondo bizantino, in A. Panaino (ed.), Sulla soglia del sacro: esoterismo ed iniziazione nelle grandi religioni e nella tradizione massonica, Atti del Convegno di Studi del Grande Oriente D’Italia (Firenze, 1-3 marzo 2002), Milano 2002, 79.

[26] Cfr. Sen. Clem. 1, 1; Aristot. Polit. III 13, 128a; Agapet. Diac. Exp. cap. admon. 24, c. 1171; cfr. J. Chevalier, A. Gheerbrant (éds.), Dictionnaire des symboles, Paris 1982, 635-639; A. Carile, Le insegne del potere a Bisanzio, in La corona e i simboli del potere, Rimini 2000, 110-111.

[27] Agapet. Diac. Exp. cap. admon. 25, c. 1177.

[28] Ravegnani, La corte…, 17.

[29] Ravegnani, Imperatori…, 18.

[30] F. Volbach, G. Salles, G. Duthuit (éds.), Art byzantin, Paris 1933, 45, pl. 25.

[31] Cfr. A. Carile, Il Sacro palazzo di Costantinopoli nuova Roma, QSCons 3 (2003), 24.

[32] Cfr. P. Maas, Metrische Akklamationem der Byzantiner, ByzZ 21 (1912), 45; Carile, Regalità…, 78.

[33] Cfr. G. Morello (ed.), Gli splendori di Bisanzio, Milano 1990, 78-81.

[34] J.D. Mansi (ed.), Sacrorum Conciliorum nova amplissima collectio, Florentiae 1692-1769, 1, c. 7, 129d-131a.

[35] Nov. Anthemii 3, praef. 4-7; cfr. Const. Porph. Cerem. 1, 91.

[36] Petr. Patr. De scient. polit. 92 Reiske.

[37] Ibid.

[38] Ibid.

[39] Cfr. R. Cantarella (ed.), Poeti bizantini, Milano 1948, 1, 28; 2, 20; G.W.H. Lampe, A Patristic Greek Lexicon, Oxford 1961-68.

[40] Cfr. H. Grégoire, Imperatoris Michaelis Paleologi de vita sua, Byzantion 29-30 (1959-1960), 447-476; C. Chapman, Michel Paléologue restaurateur de l’empire byzantin, Paris 1926, 40-45.

[41] Cfr. Z.A. Gavrilovic, The Humiliation of Leo VI the Wise, CahArch 28 (1979), 87-94.

[42] Optat. App. 3; cfr. Marcone, Pagano e cristiano…, 102.

[43] Cfr. M. Kaplan, Bisanzio, l’oro e la porpora di un Impero, Milano 1993, 32; Ostrogorsky, Storia dell’Impero…, 336.

[44] Cfr. Iohan. Chrys. Epist. ad Rom.; Hom. 23.

[45] Cfr. A. Toynbee, Costantino Porfirogenito e il suo mondo, Firenze 1987, 34; Ravegnani, Imperatori…, 50-70.

[46] M. McCormick, L’imperatore, in G. Cavallo (ed.), L’uomo bizantino, Roma-Bari 1992, 377. Ravegnani, Imperatori…, 160-161; P.H. Grierson, Tombs and Obits of the Byzantine Emperors (337-1042), DOP 16 (1962), 1-60; C. Mango, I. Ševčenco, Additional Note on the Tombs and Obits of the Byzantine Emperors, DOP 16 (1962), 61-63.

[47] Toynbee, Costantino Porfirogenito…, 34.

[48] Cfr. Ravegnani, Imperatori…, 131-132.

[49] Ravegnani, Imperatori…, 50.

[50] Teoph. Cont. 4, 37; Simeon. Mag. 3, 17 Bekker.

[51] Cor. In laud. Iust. 1, 62-65; 2, 118-145; S.G. MacCormack, Arte e cerimoniale nell’antichità, Torino 1995, 376.

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