Il mito del classico

di F. Gualdoni, in Arte classica, Milano 2007, pp. 7 sgg.

Nel 1503 il papa Giulio II Della Rovere incarica Donato Bramante di incorporare nel Palazzo Vaticano il contiguo casino del Belvedere: l’ampio cortile è destinato a ospitare una collezione esemplare di sculture antiche, e a divenire ben presto celebre in Europa come il “Cortile delle statue”. La scelta fa parte del progetto papale di stabilire il carisma del proprio potere radicandolo nel passato più illustre. Il colle Vaticano stesso era in antico luogo di vaticini etruschi, poi sacro ad Apollo; dalla finestra aperta sulla parete del Parnaso di Raffaello qualche anno dopo si vedranno le sculture antiche del Belvedere, in continuità tra antico e moderno; il corridoio che porta al cortile recherà incise le parole virgiliane della Sibilla Cumana «Procul este, profani» (“State lontani, profani”) e le sibille affiancheranno i profeti nella Sistina di Michelangelo… è tale sovranità sacrata, in cui l’antico si proietta nell’attualità e in un potere che si vuole universale, che da subito celebrano Francesco Albertini nel suo Opusculum de mirabilibus novae et veteris urbis, 1510, e Andrea Fulvio in Antiquaria Urbis, 1513, oggi documenti preziosi, allora veri e propri manifesti di cultura e potere. È, questo, il momento culminante della mitizzazione dell’arte classica, e contemporaneamente l’avvio della riscoperta e dello studio dell’arte greca e romana. In effetti, nessuna vicenda storico-artistica presenta, nella cultura occidentale, uno scambio così fitto, duraturo e reciprocamente stimolante tra costituzione di un modello culturale e conoscenza storica dei suoi presupposti.

Già nella Roma repubblicana, forte della conquista della Magna Grecia, della Sicilia e della stessa madrepatria greca, compiuta nel 146 a.C., la cultura dell’oraziano «Graecia capta ferum victorem cepit» (“La Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore”) diventa allo stesso tempo moda e modello, gusto e paradigma: classicus è sinonimo del meglio, dell’oggetto di imitazione e di ispirazione costante, pena la deriva dalla qualità suprema e insuperabile, pena la lontananza dalla bellezza assoluta.

In quel tempo, in seno alle cerchie ellenizzanti che prime danno vita al nucleo sorgivo della cultura classica, la Grecia delle arti è già, più che una realtà storica un’idea sconfinante nel sogno, il bisogno di un modello che incontra i propri riscontri, piegandoli al proprio desiderio. La vivente arte ellenistica e Fidia, Zeusi e Lisippo, vi si amalgamano in un unico orizzonte ideale, del quale il primato di Atene è mito nel mito, ed entro il quale s’intessono nozioni effettive e desideri tutti nuovi che da quel mito traggono garanzia. Così, nel I secolo d.C., ne scrive Plinio il Vecchio nei libri XXXIV-XXXVI della Naturalis Historia, prima ampia trattazione che rappresenta ancor oggi una fonte preziosa di informazione e un materiale straordinario di riflessione; così si desume dalla Periegesi della Grecia di Pausania, erudito greco del II secolo d.C.

L’umanesimo che marca il trapasso dal Medioevo al Rinascimento si radica esattamente in quel mito, raddoppiandolo con il mito congenere della grandezza di Roma antica, e con il desiderio di rinnovarne i fasti. Atene e Roma incarnano, dal Rinascimento a oggi, il culmine definitivo della bellezza e della grandezza: sarà Edgar Allan Poe, in To Helen, a sintetizzare tutto ciò nel distico celeberrimo «To the glory that was Greece, / And the grandeur that was Rome» (“Alla gloria che fu la Grecia, / Alla grandiosità che fu Roma”).

Statua dell'Ermafrodito dormiente. Copia romana del II secolo d.C. da un originale ellenistico, restaurato da David Larique (1619) e riadattato da Gian Lorenzo Bernini. Musée du Louvre
Ermafrodito dormiente. Statua, copia romana in marmo di II secolo da un originale di età ellenistica. Restauri di David Larique (1619), riadattamento di Gian Lorenzo Bernini (1620). Paris, Musée du Louvre.

È l’umanesimo a rileggere e rielaborare, ben più che filologicamente, l’idea dell’antichità come antichità classica. Ed è l’umanesimo, tra Venezia e Roma, a offrirci i primi esempi significativi di collezionismo e studio delle antichità greche e romane. Nei gabinetti antiquari degli intellettuali dell’epoca si accumulano, pur in assenza di qualsiasi prospettiva storica e sistematica, monete e vasi, bronzetti e frammenti scultorei e architettonici dell’antico, a comporre delle Wunderkammern, le eclettiche ed esotiche stanze di meraviglie allora in voga, sempre più specialistiche.

Possedere questi oggetti significa poterli studiare, ma allo stesso tempo – com’è da sempre nella ragione stessa del collezionare – partecipare della loro sacralità, facendosi irradiare dal loro potere carismatico. L’oggetto antico, l’oggetto classico, proietta sul possessore le proprie virtù: dunque, lo rende partecipe della medesima grandezza e bellezza della quale è portatore, testimoniandone allo stesso tempo l’eccellenza nei confronti della società.

Non è un caso, in questa prospettiva, che i papi più sensibili e arguti del XV secolo facciano delle raccolte di antichità lo strumento di una renovatio Romae che si vuole allo stesso tempo restituzione della città alla sua grandezza urbana e monumentale, e rifondazione ideologica di un’unità di tipo imperiale garantita dall’eredità atavica: concetto, questo, che avrà in seguito lunga e controversa fortuna, sino al Fascismo.

Lupa Capitolina. Originale etrusco del V secolo a.C. modificato nel '500 con l'aggiunta dei gemelli. Bronzo, Musei Capitolini
Lupa Capitolina. Statua, bronzo, originale etrusca del V secolo a.C. con aggiunta cinquecentesca dei Gemelli. Roma, Musei Capitolini.

Già nel cuore del Quattrocento papa Paolo II Barbo raccoglie un’importante collezione di antichità nel romano Palazzo di Venezia. Dopo di lui, sarà Sisto IV Della Rovere, nel 1471, a donare un gruppo fondamentale di sculture fino a quel momento collocate davanti al Patriarchio lateranense – rappresentando così proprio la continuità tra la Roma imperiale e il potere temporale della Chiesa – alla città e a farle collocare al Palazzo dei Conservatori, primo nucleo dei Musei Capitolini, i quali possono ben vantare il titolo di primo museo pubblico della storia: la Lupa (alla quale nel Cinquecento sono state aggiunte le figure di Romolo e Remo), lo Spinario, il Camillo, il Costantino, simboleggiano la nuova Roma che, grazie al papato, torna agli antichi fasti di prima città del mondo. È poi con Alessandro VI Borgia che l’attività di scavo di antichità, sino a quel momento sporadica, prende a farsi sistematica, a partire dai primi ritrovamenti alla Villa Adriana di Tivoli: sarà un suo discendente, Ippolito II d’Este, figlio di Lucrezia Borgia, a dare un impulso determinante agli scavi di Tivoli intorno al 1550, assistito dal dotto Pirro Ligorio.

Negli stessi anni, non meno intensa è l’opera di studio, imitazione e reinvenzione del classico da parte delle nuove generazioni artistiche. Esemplare è il caso della corte mantovana dei Gonzaga, dove la passione antiquaria è alla base del progetto dello studiolo di Isabella d’Este, in cui il collezionismo d’antichità si incrocia con le invenzioni classiche di Andrea Mantegna e con le copie, le citazioni e le reinvenzioni scultoree di Pier Jacopo Alari Bonacolsi, che gli valgono l’appellativo di “l’Antico”: questi, tra l’altro, darà anche precoce testimonianza dell’uso di intervenire con restauri estetizzanti sulla scultura classica, firmando a Roma un intervento sui Dioscuri del Quirinale.

L’effetto del Cortile del Belvedere sulla cultura europea è dirompente. La chiave di lettura non è, tuttavia, quella del riconoscimento dell’antico, bensì la sua equivalenza immediata nel contemporaneo: non si tratta di conoscere l’altro distante, ma di inglobare, quasi in una forma di amorevolmente feroce cannibalismo, il modello e nutrirsene per creare l’arte del presente, dotata di pari prestigio e senso della bellezza.

Che Michelangelo assuma il Laocoonte (l’opera che Plinio definiva «tra tutti i dipinte e le sculture, il più degno di ammirazione»), scoperto nel 1506 e subito collocato al Belvedere, a modello anatomico, identificandovisi al punto che, in tempi recenti, si è potuto addirittura sostenere – in modo peraltro del tutto fallace – che egli ne sia l’inventore stesso; che Bramante indica una vera e propria gara per realizzarne modelli per la fusione in bronzo, tra i quali Raffaello giudica quello di Jacopo Sansovino come il più meritevole; che poco più di dieci anni più tardi la copia marmorea eseguita da Baccio Bandinelli – il quale risiede e ha studiato al Belvedere stesso, così come Bramante, Sansovino, l’orafo Caradosso, e per un certo periodo Leonardo – sia ambita da Francesco I di Francia; che due repliche bronzee figurino da subito nella “grotta” di Isabella d’Este: tutto ciò, oltre ai risarcimenti diversi e alle varianti che di replica in replica rendono appassionante la vicenda iconografica dell’opera, dice quanto l’antico, testualmente o per elaborazione concettuale, sia argomento vivo del dibattito artistico cinquecentesco, e altrettanto quanto il possesso di un exemplum classico abbia valore carismatico presso le maggiori corti europee.

Leocare (attr.), Apollo del Belvedere. Statua, copia romana in marmo bianco di II secolo da un originale ellenistico, c. 350 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
Leocare (attr.), Apollo del Belvedere. Statua, copia romana in marmo bianco di II secolo da un originale ellenistico, c. 350 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Sarà ancora Michelangelo, d’altronde, a dare la propria impronta alla re-mitizzazione del classico con la collocazione in Campidoglio della Statua equestre di Marco Aurelio a far da perno concettuale, su un nuovo basamento, alla sistemazione di tutta la piazza. E va ricordato che i suoi Prigioni saranno esposti un secolo dopo nella collezione del cardinal Richelieu fianco a fianco alle sculture antiche.

Possedere originali, possedere repliche, possedere copie d’après. Con una gradazione infinita di differenze, è tra queste tre pulsioni che si gioca la vicenda dell’arte classica.

Parallele alle collezioni capitoline, ulteriormente arricchite a partire dal 1566, e a quelle papali, si formano cospicue collezioni private, tra le quali spiccano la Cesi, la Cesarini, la Della Valle, cui inoltrandoci nei due secoli successivi altre se ne affiancheranno, fondamentali per la storia artistica, dalla Medici alla Farnese, dalla Ludovisi alla Borghese, dalla Giustiniani alla Odescalchi, dalla Pamphili alla Albani, seguendo i saliscendi delle fortune delle grandi casate aristocratiche.

Collezionismo, d’altronde, significa anche mercato. A questo proposito, tiene conto  ricordare che proprio per l’acquisto del Laocoonte si scatena una feroce contesa nella quale Giulio II deve risolversi a far valere il proprio potere, ma anche  che, per tutto il Seicento e il Settecento, saranno più l’iconografia e la fama delle opere, piuttosto che la loro qualità intrinseca, a determinarne il prezzo: né è inusuale che siano esponenti della stessa casata nobiliare che colleziona a farsi protagonisti del mercato, reperendo, comprando e vendendo, come accadrà agli Albani.

Agesandro, Atanodoro e Polidoro (Scuola di Rodi). Gruppo del Laocoonte. Copia romana del I secolo d.C. da un originale bronzeo del 150 a.C. ca.
Agesandro, Atanodoro e Polidoro (o Scuola di Rodi). Gruppo del Laocoonte. Copia romana in marmo di I secolo da un originale bronzeo del 150 a.C. ca. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

È proprio la spinta del mercato a espandere rapidamente anche l’attività di restauro dei pezzi antichi ritrovati. Il concetto di restauro come restituzione e completamento dell’opera, da allora assai diffuso, nasce, oltre che dall’assenza di una consapevolezza filologica, anche dalla labilità dei confini, tipica del tempo, tra arte contemporanea e arte antica. La famiglia Della Porta annovera scultori, mercanti (autori di importanti vendite alla collezione Borghese) e restauratori, e sarà uno dei suoi esponenti, Guglielmo, a por mano all’Ercole Farnese.

Dai primi del Seicento si rendono protagonista di tale tipo di restauri (che meglio descrive il termine francese rénovation) molti autori, anche di primo piano. Nel 1609 Nicolas Coridier restaura le Tre Grazie e altre opere della collezione Borghese, e un decennio dopo sarà Gian Lorenzo Bernini, reduce dal successo della Capra Amaltea scambiata per antica, a rielaborare l’Ermafrodito per il mecenate Scipione Borghese, restaurandolo e aggiungendovi il materasso.

Di lì a poco, nel 1626, un altro astro del firmamento scultoreo, Alessandro Algardi, assumerà l’esclusiva dei restauri delle opere antiche della collezione Ludovisi, succedendo a Ippolito Buzio: nel 1633 alle sue mani sarà affidato anche il ripristino delle centoventidue sculture acquistate a Roma dal cardinal Richelieu, prima del loro trasferimento in Francia.

Alla metà del secolo addirittura vi è chi cerca di stabilire pionieristicamente le norme per il restauro. Si tratta di Orfeo Boselli, le cui Osservazioni della scoltura antica, 1642-1663, hanno il carattere di vero e proprio trattato. Tant’è. Ancora per molti decenni, e sino all’affermarsi della consapevolezza storica moderna, il restauro sarà vissuto come una forma di creatività e di ricreazione, tale da condizionare in modo decisivo il formarsi dell’idea di classico così come poi verrà normata da Winckelmann e dai suoi seguaci.

Laddove non si acquisiscano originali – pratica che, nel primo Seicento, raggiunge un tal grado di intensità da far imporre, nel 1624, severe restrizioni all’esportazione di opere antiche da Roma, e da render necessaria per gli scavi di una licentia extraendi da parte del Camerlengo del papa – è ritenuto necessario presso le corti e l’aristocrazia internazionale, in Francia al pari che in Inghilterra e in ambito tedesco, ottenere calchi e repliche fedeli. Perso il Laocoonte di Baccio Bandinelli (che perverrà alle raccolte medicee), e solo parzialmente risarcito con la copia dello Spinario eseguita da Benvenuto Cellini e donatagli nel 1540 da Ippolito II d’Este, l’italianizzante Francesco I invia a Roma il fedele Primaticcio per far eseguire calchi delle maggiori sculture classiche, dalle quale trarre bronzi per Fontainbleau. Sono, questi calchi, i capostipiti di una vera e propria industria dei gessi e delle copie che, nel volgere di pochi decenni, dilagherà per tutta l’Europa, riproducendo con relativa fedeltà modelli iconografici e suggestioni stilistiche che, con il passar del tempo, assumeranno un valore ideologico fortissimo, sino al costituirsi delle collezioni di modelli nell’ambito delle accademie e delle scuole d’arte.

In ogni caso, il primo originale classico a lasciare Roma per la Francia sarà la Diana cacciatrice, copia romana di un originale del IV secolo a.C., donata nel 1554 da papa Paolo IV Carafa a Enrico II, e subito, a sua volta, oggetto di repliche. Giusto un secolo dopo, nel 1649, sarà Diego Velásquez ad affrontare un viaggio romano per provvedere di calchi la corte di Filippo IV di Spagna.

Il Seicento è, in generale, il secolo della diffusione internazionale di un numero di originali, di copie e di stampe di traduzione tale da omologare una sorta di visione del classico in cui sono indistinguibili – né, d’altronde, importa distinguere – il tratto originale dall’interpretazione posteriore, lo stile dalla stilizzazione. D’altronde, la mancanza di distinzione tra severità dell’arte antica d’epoca più alta e drammaticità dell’ellenistica, tra formalismo greco e realismo romano, in quel momento accomunati nell’unico ideale classico, colma lo iato tra persistenze classiciste e folate barocche che contraddistingue il dibattito artistico del secolo, garantendo a entrambe le posizioni i necessari quarti di nobiltà.

Da segnalare è inoltre, in questo periodo, il diffondersi di una vera e propria moda del classico in Inghilterra e in Francia. Oltremanica, pioniere e santone della riscoperta dell’antico è Lord Arundel, leggendario collezionista che nel suo viaggio italiano del 1613-1614 conduce con sé il pupillo Inigo Jones, primo grande architetto classicista in Inghilterra, e nella cui raccolta confluiscono ben centosessantacinque pezzi antichi. Nel secolo successivo, collezionista principe sarà Charles Townley. In Francia a fianco delle raccolte reali (le sculture dei giardini di Versailles sono una sorta di fior fiore dell’arte classica, in copia) si segnalano quelle di Richelieu, che arriva a possedere quattrocento pezzi originali, e del cardinal Mazzarino. Nel 1666 viene istituita su iniziativa di Lebrun e Colbert l’Académie de France a Roma: il Prix de Rome, grazie al quale i migliori tra i giovani pittori e scultori vengono inviati a Roma a formarsi nel confronto diretto con l’antico, durerà sino al 1968.

Così, mentre ancora la sensibilità artistica non fa alcuna distinzione tra classicità effettiva e trasognato ideale classico, cosicché può accadere che François Girardon, scultore prediletto di Luigi XIV, nel 1684 trasformi la statua mutila scoperta nel 1651 ad Arles in una Venere con braccia, specchio e pomo, una svolta ulteriore al mito del classico è impressa dall’affermarsi e dal diffondersi della moda del Grand Tour.

Glicone di Atene, Ercole Farnese. Statua, copia romana in marmo di III secolo da un originale ellenistico di Lisippo (IV secolo a.C.). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Glicone di Atene, Ercole Farnese. Statua, copia romana in marmo di III secolo da un originale ellenistico di Lisippo (IV secolo a.C.). Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

La cultura del Grand Tour prende avvio dalla pubblicazione in Inghilterra nel 1670, e subito dopo in Francia, nel Voyage of Italy, or a Complete Journey through Italy di Richard Lassels, di lì a poco, 1691, affiancato da resoconti come il Nouveau Voyage d’Italie di François-Maximilien Misson. Si tratta di un vero e proprio pellegrinaggio, compiuto da aristocratici e intellettuali, nei luoghi del classico: Firenze, Venezia, ma soprattutto Roma e Tivoli, e di lì a poco il Mezzogiorno, l’antica Magna Grecia e la Sicilia. Un effetto moltiplicatore esercita, su tale voga, l’avvio degli scavi sistematici, deciso dai Borbone, di Ercolano, 1738, e Pompei, 1748, asseverati nel 1757 dalla pubblicazione del primo volume delle Antichità di Ercolano. Moda nella moda, per lunghi decenni un “gusto pompeiano” circolerà tra gli ambienti intellettuali, e non solo, d’Europa. Va ricordato peraltro che, prima di quelle date, solo le cosiddette Nozze Aldobrandini, scoperte nel 1606, erano documento significativo della pittura romana.

Sempre meno mere elencazioni di mirabilia, tali opere letterarie e grafiche sono vere e proprie esperienze conoscitive, in cui il pittoresco e l’esotico lasciano luogo a una repertoriazione agguerrita di dati storici e artistici, che tra Settecento e Ottocento consentirà il diffondersi, a mezzo stampa, di una messe iconografica imponente, e di alcuni non banali tentativi di comprensione sistematica dei materiali.

Attorno al fenomeno del Grand Tour si coagula inoltre una ulteriore ondata collezionistica, in cui alla pittura di paesaggio e alla moda dei capricci pittorici con rovine si affianca un fitto scambio di materiali originali, legalmente o illegalmente esportati, soprattutto in Inghilterra e in area tedesca. Ancora una volta a far da padrone è, in questo ambito, la figura dell’artista, che a un tempo svolge la funzione di restauratore e di mercante. È il caso di Giovan Battista Piranesi, restauratore e mercante oltre che autore di fondamentali incisioni documentarie e d’invenzione di antichità e monumenti; di Bartolomeo Cavaceppi, collezionista, restauratore e catalogatore, cui si deve l’importante repertorio Raccolta d’antiche statue, busti, teste cognite…, 1769-1772, attivo nella cerchia del cardinale Alessandro Albani e alla base della collezione Torlonia; di Vincenzo Pacetti, incaricato tra l’altro del restauro e dell’ordinamento della collezione Giustiniani. È il caso, soprattutto, di Gavin Hamilton, esempio perfetto del nuovo vento di moda classicheggiante che spira in Inghilterra, dalla quale si trasferisce a Roma nel 1756: buon pittore, è soprattutto archeologo e mercante delle proprie scoperte. Più che di un mero gusto esotico, il Grand Tour è padre, s’è detto, del maturare di un atteggiamento antiquario consapevole dell’importanza di una conoscenza diretta, verificata, delle opere antiche.

Nel 1722 i pittori inglesi Jonathan Richardson padre e figlio pubblicano Account of Some of the Statues, Bas-Reliefs, Drawings, and Pictures in Italy, in cui la filosofia diaristica del voyage comincia a trasformarsi in una documentazione sistematica e accurata, con implicazioni storico-artistiche in nuce.

Nel 1734 sono «dei gentlemen che avevano viaggiato in Italia», secondo le parole di Richard Chandler, a fondare a Londra la Dilettanti Society, emula della Society of Antiquaries of London nata nel 1718, che ha lo scopo di finanziare e patrocinare viaggi di studio che dall’Italia meridionale si estendono infine al mondo greco, sino a quel momento trascurato in quanto considerato parte di un Oriente d’umore esotico. Tra il 1769 e il 1800 Chandler pubblica le Antiquities of Ionia e nel 1776 i Travels in Greece. Prima di lui, James Stuart e Nicholas Revett, sempre su iniziativa dei Dilettanti, lavorano a The Antiquities of Athens, edite dal 1762, riproduzioni grafiche accurate, rigorosamente misurate, delle rovine d’Atene, e in particolare dell’Acropoli. Negli stessi anni, peraltro, Julien-David Leroy pubblica a Parigi Les Ruines des plus beaux monuments de la Grèce, 1758, di intento affine.

Leocare, Diana cacciatrice. Copia romana di un originale greco del IV secolo a.C. Musée du Louvre
Leocare, Diana cacciatrice. Statua, copia romana in marmo di un originale greco di IV secolo a.C. Paris, Musée du Louvre.

Sulla scia di questo approccio positivo e metodologicamente orientato si muovono anche due nobili siciliani, Ignazio Paternò Castello principe di Biscari, al quale si devono la costituzione di un vero museo «publicae utilitati / patriae decori / studiosorum commodo», inaugurato dal principe nel 1758 nel suo palazzo in Catania, e un Viaggio per tutte le antichità di Sicilia e Calabria, 1781; e Gabriele Lancillotto Castelli principe di Torremuzza, il quale redige nel 1764 l’Idea di un tesoro che contenga una generale raccolta di tutte le antichità di Sicilia, preziosa e precoce intuizione sistematica.

Ben poco tali tentativi hanno a che fare con esperimenti enciclopedici ancora compilatori, come L’Antiquité expliquée, 1719-1724, di Bernard de Montfaucon, e come il Recueil d’antiquités égyptiennes, grecques, étrusques et romaines di Anne Claude Philippe de Tubières, conte di Caylus, i cui sette tomi, usciti tra il 1752 e il 1767, sono responsabili del diffondersi di un antico indiscriminato come fattore di moda imitativa.

È in questo clima, e forte di un nutrimento filosofico altrove assente, che irrompe la figura cruciale nella conoscenza e nello studio dell’antico. Johann Joachim Winckelmann, fondatore della moderna storia dell’arte e dell’archeologia, è colui che elabora il primo autentico tentativo di comprensione e di sistemazione dell’arte antica, soprattutto greca, e che allo stesso tempo conferisce dignità intellettuale proprio al mito del classico.

Trasferitosi a Roma nel 1755 e divenuto bibliotecario del cardinale Alessandro Albani, Winckelmann è autore dei fondamentali scritti Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst (Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura), 1755, e Geschichte der Kunst des Altertums (Storia dell’arte nell’antichità), 1764.

L’opera d’arte deve, per lui, essere sottoposta ad analisi testuali e comparative, che ne facciano emergere i rapporti con il contesto ambientale, storico e culturale in cui fu prodotta, grazie al quale definirne i caratteri estetici. È, per la prima volta, un’idea di arte in prospettiva storica. Carattere tipico dell’arte greca – che peraltro Winckelmann studia e differenzia dalla romana, sebbene basandosi solo su materiali romani – è il perfetto dominio delle passioni e del disordine, quella «nobile semplicità e serena grandezza» derivante ai Greci dalla bellezza etica e civile che ne fece i campioni della libertà. La bellezza dunque è bellezza insieme fisica e morale, una sorta di condizione sorgiva e, in Grecia, naturale: è a quella condizione primigenia che il Rinascimento si è avvicinato, a quella ancora l’arte deve tendere, in un’imitazione che superi il mero aspetto formale. E per vero Anton Raphaël Mengs, sodale e artista preferito da Winckelmann, ben più al classicismo raffaellesco che al «gusto greco» guarda, nella sua copiosa produzione.

Al di là delle ramificazioni di dibattito culturale che faranno di Winckelmann il patrono del neoclassicismo in via d’affermazione (Denis Diderot sostiene peraltro che bisogna «peindre comme on parlait à Sparte», dove con il «dipingere come si parlava a Sparta» intende il mito classico come etica eroica della pittura), soprattutto le sue riflessioni sullo stile e sul metodo indicano il mutato approccio in termini di cultura archeologica. Da subito, ad esempio, una diversa sensibilità nei confronti del contesto in cui le opere si inseriscono, e del quale lo scavo e il prelievo indiscriminato rappresentano delle lacerazioni, affiora tanto nelle riflessioni di Cavaceppi, amico dello studioso tedesco, sia, che soprattutto, in quelle successive di Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy, le cui Lettres à Miranda, redatte nel 1796, rappresentano una denuncia lucida e appassionata contro la rimozione dei capolavori dal loro contesto originario da parte di Napoleone.

Gian Lorenzo Bernini, Il ratto di Proserpina. Marmo, 1621. Galleria Borghese
Gian Lorenzo Bernini, Il ratto di Proserpina. Gruppo scultoreo, marmo, 1621. Roma, Galleria Borghese.

Tra i resoconti illustrati di fine Settecento vanno ricordati ancora, per il loro impatto in termini di diffusione iconografica, il Voyage pittoresque ou description des Royaumes de Naples et de Sicilie, in cinque volumi e 411 tavole, 1781-1786, di Jean-Claude Richard Abbé de Saint-Non, che si avvale delle indicazioni di Dominique Vivant Denon, il quale sarà direttore dei Musei di Francia in età napoleonica, e Travels in the Two Sicilies in the Years 1777, 1778, 1770 and 1780, di Henry Swinburne, 1783. Di intento più metodologicamente schiarito è Reise durch Sicilien und Grossgriechenland (Viaggio in Sicilia e Magna Grecia), di Johann Hermann von Riedesel, 1771, la cui dedica all’amico Winckelmann indica una ben precisa collocazione culturale.

Tuttavia gli eventi degli ultimi decenni del secolo sono di segno differente. Mentre, nello stretto ambito della produzione artistica e in quello del gusto, il goût grec indica forme accentuatissime di idealizzazione e di reinterpretazione (si pensi al successo ottenuto da John Flaxman con le sobrie e composte illustrazioni per l’Iliade, 1793, e l’Odissea, 1795; si pensi alla scultura canoviana), sul piano della conoscenza è proprio il modello museale, erede ed emulo del collezionismo papale e aristocratico, a prevalere su ogni ragionamento di contesto e di studio comparativo.

Il British Museum, inaugurato a Londra nel 1759, nel 1772 si arricchisce della collezione di vasi greci e di oggetti classici. Ma è soprattutto il Louvre, nell’epoca che segna il trapasso dalla Rivoluzione all’impero napoleonico, a incarnare esemplarmente il concetto di museo di paradigmi storici, di modelli eccellenti il cui valore civile sia educativo verso il popolo, e carismatico per il regnante.

Nel 1791 un decreto dell’Assemblea destina la residenza reale del Louvre alla «riunione di tutti i monumenti delle scienze e delle arti»: aperto due anni dopo, gratuito, esso è visitabile sempre dagli artisti, e il fine settimana dal pubblico. L’ascesa di Napoleone coincide con il trascolorare del senso civile dell’operazione, e con l’imporsi esclusivo del modello imperiale. Nel 1796, a conclusione della campagna d’Italia, tra le clausole d’armistizio Napoleone impone la cessione di cento opere, scelte discrezionalmente tra le collezioni italiane, da trasferire al Louvre. L’operazione ha un valore ideologico straordinario, implicando simbolicamente e concretamente il passaggio dall’eredità culturale dell’antica Grecia e del retaggio imperiale romano a Parigi.

Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne. Gruppo scultoreo, marmo, 1622-1625. Roma, Galleria Borghese
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne. Gruppo scultoreo, marmo, 1622-1625. Roma, Galleria Borghese.

Aperto il 9 novembre 1800 nel vecchio appartamento di Anna d’Austria, il Musée des Antiques eredita dalle collezioni romane anche i criteri di ordinamento, affidati a Ennio Quirino Visconti, già conservatore a Roma del Museo Capitolino e figlio di quel Giovan Battista Antonio Visconti cui si deve la riorganizzazione del Museo Pio-Clementino in Vaticano, peraltro assai caratterizzato anche architettonicamente in senso classico dagli interventi di Michelangelo Simonetti. Frutto del soggiorno parigino del Visconti saranno anche studi fondamentali come Iconographie grecque, 1808-11, e il primo volume di una Iconographie romaine, 1817.

Nel 1807 Napoleone arricchisce ulteriormente il museo con l’acquisizione di molte opere della collezione Borghese, grazie al legame di parentela stabilito dalla sorella Paolina, moglie di Camillo Borghese. Quando nel 1815, alla caduta dell’imperatore, i suoi bottini di guerra verranno restituiti ai legittimi proprietari, sarà Antonio Canova a occuparsi delle antichità italiane: i Cavalli di San Marco, giunti a Venezia dopo la conquista di Costantinopoli nel 1204, tornano nella città lagunare, e le collezioni vaticane, capitoline e medicee vengono reintegrate.

Per effetto imitativo, il Langravio Federico II tra il 1769 e il 1779 fa edificare il Museum Fridericianum a Kassel, su progetto dell’architetto Simon Louis du Ry, di cultura neopalladiana, e Ludovico I di Baviera immagina di fare di Monaco l’«Atene tedesca», commissionando nel 1815 a Leo von Klenze la costruzione della Glyptothek, che si inaugurerà nel 1830. Il gioiello della sua collezione, che nei primi anni del secolo si arricchisce notevolmente, è il frontone del tempio di Aphaia a Egina, che nel 1812, secondo l’uso invalso, lo scultore neoclassico Bertel Thorvaldsen, di lunghe frequentazioni romane, sottopone a restauro.

Il 1830 è anche l’anno dell’inaugurazione dell’Altes Museum di Berlino, voluto da Federico Guglielmo III e progettato dal grande architetto Karl Friedrich Schinkel. È in questi musei e nel loro citare elementi del tempio greco, a cominciare del frontone e dalle colonne, che si afferma il paradigma, poi divenuto stereotipo, del museo come tempio, come luogo sacro dell’arte e della sua celebrazione.

Sarà nella seconda metà del secolo, dopo il 1871, che una serie sistematica di scavi archeologici, in cui ragioni scientifiche e motivi di competizione coloniale con Francia e Inghilterra si intersecano strettamente, arricchirà notevolmente i musei berlinesi, a partire dall’Altare di Pergamo, scavato tra 1878 e 1886. A segnare la prima metà dell’Ottocento sono due fattori, l’incremento cospicuo delle conoscenze e il maturare di una più salda consapevolezza storica.

Da un lato, più di frequente le campagne di scavo si estendono verso la Grecia di madrepatria e il Vicino Oriente – oltre che, dopo le campagne napoleoniche, l’Egitto – per incrementare lo studio delle opere originali in situ e per aumentare parallelamente la quantità dei materiali collezionistici, pubblici e privati. Sino alla fine del Settecento, il repertorio di opere conosciute, nella quasi totalità di provenienza italiana, aveva nutrito un mito classico fatto di repliche e di imitazioni, oltre che di un’accentuata attenzione iconografica. Di ciò è documento eloquente uno degli ultimi tentativi eruditi del tempo, il Musée de Sculpture antique et moderne, contenant una suite de planches au trait relatives à la partie technique de la sculpture…, monumentale opera in 13 volumi che il conte di Clarac e Alfred Maury pubblicano tra il 1826 e il 1853. Solo gli scavi – e tecniche di scavo non improvvisate, non volte solo alla ricerca del capolavoro – secondo la nuova consapevolezza possono portare significative evoluzioni negli studi e nella conoscenza. In effetti, se si eccettua l’identificazione di una copia marmorea del Discobolo di Mirone, nel 1781, l’ampliamento della conoscenza dell’arte greca è merito tutto delle campagne del primo Ottocento. Dal 1801 Edward Daniel Clarke, archeologo e viaggiatore, compie un periplo della Grecia, riportandone una raccolta di circa 2000 pezzi: i suoi marmi antichi entreranno nella collezione del Fitzwilliam Museum di Cambridge.

Nel 1806 Thomas Bruce, più conosciuto come Lord Elgin, porta in Inghilterra dalla Grecia parte del fregio, 15 metope e 17 figure frontonali del Partenone, una Cariatide e una colonna dell’Eretteo, che passano nel 1816 al governo britannico ed entrano al British Museum. Ambasciatore a Costantinopoli, egli non solo ottiene i preziosi reperti ateniesi, ma promuove intense campagne di scavo nell’Attica e a Egina, nelle Cicladi e a Salamina. Nel 1812 si effettuano gli scavi del tempio di Apollo a Figalia-Bassae: i rilievi verranno portati in Inghilterrra – perverranno al British Museum – da Charles Robert Cockerell, geniale archeologo che aveva preso parte anche agli scavi di Egina, riconoscendo precocemente tracce di colore sull’architettura. Nel 1820 l’isola di Melos restituisce l’Afrodite, subito passata al Louvre; nello stesso anno, il duca di Luynes scava il tempio di Apollo Liceo a Metaponto, e lo pubblica con Debacq nel 1833. Del 1829 sono gli scavi francesi al tempio di Zeus a Olimpia, e del 1835 gli scavi sistematici dell’Acropoli di Atene.

Alessandro di Antiochia (attr.), Venere di Milo. Statua, marmo pario, c. 130 a.C. Paris, Musée du Louvre
Alessandro di Antiochia (attr.), Venere di Milo. Statua, marmo pario, c. 130 a.C. Paris, Musée du Louvre.

Altro fattore è lo studio dei materiali, iniziando a prescindere dal modello intellettuale e algido di una grecità immaginata, e per certi versi sognata. L’interrogazione delle opere e dei siti procede con piglio sempre più metodologicamente schiarito, e consente di aprire fronti d’indagine sino a quel punto mai immaginati. Non più nella logica del Grand Tour, che vi conduce nel 1787 Wolfgang Goethe, il soggiorno a Selinunte nel 1822 degli inglesi Samuel Angell e William Harris porta allo scavo del tempio C e al ritrovamento delle metope del tempio F. Al di là del loro tentativo, fallito, di trasferire illegalmente materiali a Londra, la scoperta rivela al mondo una verità a quel tempo sconvolgente, la presenza del colore nella scultura e nell’architettura greca. Il loro percorso si incrocia con quello di Jacques Ignace Hittorff, che negli stessi anni studia con Karl Ludwig von Zanth i templi di Agrigento, Segesta e Selinunte per ritrovarci tracce di colore.

In effetti, sin dai rilievi ateniesi di Stuart e Revett l’argomento era stato più volte sollevato da coloro che avevano avuto esperienza dell’architettura e della scultura greca di madrepatria. Ma ciò contraddiceva il pensiero dominante della castità cromatica dell’arte classica, e non venne per decenni preso in seria considerazione; peraltro, i restauri e le puliture, oltre che le procedure necessarie per trarre calchi dagli originali, contribuivano non poco a «ripulire» gli antichi marmi.

Il tema viene affrontato in modo esplicito da Quatremère de Quincy in Le Jupiter Olympien, 1814, e ciò rilancia in modo decisivo la questione. Angell e Harris pubblicano le loro scoperte selinuntine nel 1826, Hittorff e Zanth danno alle stampe l’anno dopo il fondamentale Architecture antique de la Sicile: quando nel 1851 pubblicheranno Restitution du temple d’Empédocle à Sélinonte, ou l’architecture polychrome chez les Grecs, redatto nel 1830, la nuova cognizione sarà faticosamente accettata dalle cerchie colte d’Europa. Quanto sconvolgente sia, sul piano della coscienza dell’antico, tale novità, è detto dalle polemiche che nel 1836-37 accompagnano i lavori della commissione, ufficialmente insediata, incaricata di stabilire se anche i marmi Elgin fossero originariamente colorati. Della commissione fanno parte, Hittorff, Thomas Leverton Donaldson e Cockerell: nonostante le conoscenze scientifiche ormai maturate, la conclusione è che non fossero dipinte. Ancora a quelle date, dunque, forte è l’influenza del vecchio concetto winckelmanniano, secondo cui il bianco delle sculture è ideale per qualificare il rapporto dei volumi e delle superfici con la luce: quasi che il fantasma della purezza originaria sia ancor più forte della certezza oggettiva. E forte è la proiezione continua dell’oggi sul desiderio del classico: Canova e Thorvaldsen sono paradigmi classici, infine, non meno di Fidia.

Lisippo, Apoxyomenos. Statua, copia romana in marmo pentelico di età claudia da un originale bronzeo del 330 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
Lisippo, Apoxyomenos. Statua, copia romana in marmo pentelico di età claudia da un originale bronzeo del 330 a.C. Città del Vaticano, Musei Vaticani.

Il miglior omaggio agli studi di questi autori sarà, nel 1868, un quadro, ovvero ancora una creazione d’arte che riflette sul classico: Lawrence Alma-Tadema in Phidias and the Frieze of Parthenon, ora al museo di Birmingham, riproduce il fregio completamente colorato. In ogni caso, dalla seconda metà dell’Ottocento si assiste, sino agli inizi del secolo nuovo, a una sorta di doppio binario. Da un lato, è la prosecuzione del mito classico nelle fattezze dello studio iconografico e della purezza plastica, che si arricchisce di nuove identificazioni: nel 1849 è riconosciuta una copia marmorea dell’Apoxiomenos di Lisippo, nel 1863 una copia del Doriforo di Policleto, nel 1864 viene scoperta la Nike di Samotracia. Il suo tenace permanere è, in realtà, ormai solo il risultato di un classicismo che intride di sé la cultura ottocentesca – e con essa l’architettura, e molta della pittura – in una sorta di conservatorismo che scambia la relatività del proprio gusto per omaggio all’immortalità, e della cui opacità è testimone l’accademismo artistico. Dall’altro si trova il fronte della ricerca archeologica vera e propria, che giunge infine a pensare se stessa come disciplina autonoma e autorevole, non più debitrice del gusto corrente e sottratta alla contiguità con il dibattito artistico e filosofico. È questo fronte, alla fine dell’Ottocento, a dare l’avvio all’archeologia moderna e allo studio autonomo dell’arte antica.

Resta una considerazione. Per una bizzarria della storia quando Filippo Tommaso Marinetti, nel manifesto futurista del 1909, afferma che «un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia», per contrapporsi al mito museificato del classico sceglie l’esempio di una delle sculture più «giovani», e più incolpevoli, tra quante hanno fatto nascere e poi trascolorare il mito del classico.

Un pensiero su “Il mito del classico

  1. Ciao, di solito preferisco la pittura alla scultura, ma le statue che mostri, tra gli altri flashback che mi evocano, mi hanno fatto ripensare allo spirito apollineo di Nietzsche, filosofo che trascuro da tempo perché sto insegnando altro. In effetti però queste statue possono raffigurare solo tipologie ideali perché per rappresentare gli uomini ci vuole anche un po’ di dionisiaco.

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