di F. GUALDONI, in Arte classica, Milano 2007, pp. 125 sgg.
«Gli antichi Romani non si curavano della bellezza, tutti presi da cose più grandi e più necessarie». In questo passo di Strabone è sintetizzato il rapporto complesso che la cultura romana dei primi secoli intrattiene con l’ellenistica, così come con quelle italiche più evolute – in specie l’etrusca – sino alla seconda metà del II secolo a.C.
La sofisticatezza dei modelli greci, l’apprezzamento puramente estetico del bello, il fasto decorativo non solo non appartengono alla cultura romana ma vengono avvertiti come ostili, come elementi tali da erodere un senso di appartenenza fondato su valori altrimenti concreti e funzionali di civitas.
L’origine e i costumi delle genti romane sono rurali, e a fronte del vitalissimo espansionismo militare ed economico che contraddistingue i primi secoli il modo di vita fa valore della semplicità, della frugalità, dell’utilità. Rispetto al mondo greco la cultura urbana matura in modo affatto differente: Roma è già di per se stessa la città, non una città, e il suo potere per lungo tempo non ha bisogno di ratifiche e manifestazioni sul piano simbolico. Il suo confine e perimetro è una linea sacra non difensiva, il pomerium – la città verrà dotata di mura munite solo dopo l’invasione gallica del 390 a.C. – secondo un concetto che permarrà anche in età imperiale, e il suo interno è concepito come una macchina funzionale, in cui è prevalente la risposta alle esigenze pratiche di vita di un agglomerato complesso di abitanti. La copertura della Cloaca Massima, l’antica condotta fognaria, i due acquedotti costruiti nel 312 e nel 272 a.C., l’avvio di una pratica rete viaria lastricata, sono nei primi secoli di vita della città opere di utilità pubblica avvertite come prioritarie rispetto alla stessa edificazione di templi, le cui proporzioni rimarranno, sino all’età imperiale, modeste.
Del resto la stessa struttura della società presenta, sul piano simbolico per eccellenza, quello religioso, forti tipicità. La comunità è strutturata sulla coesione di forti nuclei familiari, i quali rappresentano il primo inderogabile fattore di identità. Il ruolo centrale è attribuito al pater familias, il patriarca, responsabile a un tempo del partecipare della famiglia alla vita collettiva e della religione privata, non secondaria rispetto alla pubblica, in cui gran luogo hanno i sacrifici alle icone dei Lari e dei Penati, divinità protettrici private della terra e della dispensa, e ai Mani, gli antenati la cui presenza era garantita e al tempo stesso esorcizzata da immagini all’interno della casa, che contrassegnavano la continuità della stirpe e il complesso dei suoi valori sociali e morali. La pietas, amore verso i genitori, è lo stesso sentimento con cui ci si rivolge agli dèi.
Il passaggio da questa religiosità privata, che fa dell’interno della casa un luogo a sua volta sacrato, tipica del retaggio rurale e con evidenti residui animistici, a una religione comunitaria di tipo uranico, in cui progressivamente si opera il sincretismo con gli dèi olimpici greci avviato con l’identificazione della triade celeste Giove, Giunone, Minerva (gli etruschi Tinia, Uni, Menrva) con Zeus, Hera e Atena, e delle divinità ctonie Cerere e Proserpina con Demetra e Persefone, non intacca il ruolo della religiosità domestica, e contribuisce a spiegare la non particolare rilevanza, a quel tempo, degli edifici pubblici di culto.

Altro elemento di forte tipicità è il prevalere dei riti sui dogmi. La religiosità romana pone al centro l’uomo e le sue azioni, cui il rituale mira a rendere favorevoli, quasi contrattualmente (tale è il senso del votum) le forze soprannaturali, e non le divinità stesse, le quali peraltro non agiscono di propria iniziativa nella vita degli uomini: l’assenza di una cultura mitica, così sviluppata invece nel mondo greco, ne è testimonianza evidente.
Da ciò discende un elemento cruciale riguardante la cultura artistica, l’assenza di una vera discontinuità concettuale tra immagine del divino e immagine umana, tra figura sacrata e figura individuale, entrambe appartenendo a un sistema unico di onori che la società e i suoi nuclei fondanti attribuiscono a chi incarni i valori condivisi cui far riferimento.
Plinio testimonia, peraltro, l’uso antico della terracotta per le statue delle divinità (in uno strato ancor più arcaico esse erano lignee), e il bronzo per quelle degli uomini; marmo, oro, avorio essendo materiali lussuosi non appartenenti alla tradizione. Quando, nel 396 a.C., Camillo saccheggia Veio, ne riporta le statue sacre in quanto sacre, così come accadde alla statua di Giove condotta a Roma da Preneste nel 380 a.C., e a quella di Giano quadrifronte presa a Falerii nel 241 a.C., secondo la ben conosciuta tendenza ad appropriarsi dell’altro impossessandosi dei suoi segni identitari di culto.

Quando, nel 212 a.C., dalle vinte Capua e Siracusa vengono a Roma come bottino statue marmoree e bronzee, ori, argenti, decori lussuosi, e poi nel 210 a.C. da Taranto altre ricchezze tra cui l’Eracle di Lisippo, e in seguito centinaia di quadri e statue dalle prime vittorie greche dopo quella nel 194 a.C. su Filippo V di Macedonia, l’atteggiamento è palesemente mutato. Quelle statue, quei quadri, non valgono in quanto signa delle altrui religioni, ma in quanto opera d’arte, indicatori d’una tutta umana qualità della vita contrassegnata da simboli ormai squisitamente culturali. È ben vero, d’altronde, che sino al II secolo a.C. anche l’attività edilizia e architettonica, la più tipica romana, non mostra ambizioni qualitative particolari. Il tempio Capitolino dedicato a Giove, Giunone e Minerva nel 509 a.C., così come quello eretto in onore della triade «plebea» e tutta ctonia Cerere, Libero e Libera nel 493 a.C., vedono all’opera nel primo caso maestranze etrusche, come testimonia il nome tramandateci dalle fonti del veiente Vulca, e nell’altro magno-greche. Le decorazioni fittili, vivamente dipinte, adornavano edifici di concezione originale, debitrice dell’architettura templare etrusca, dalla quale derivavano i concetti strutturali fondamentali.

L’edificio, di non grandi dimensioni, si ergeva su un alto podio ed era accessibile grazie a una gradinata che saliva verso l’unica facciata, colonnata, oltre la quale si schiudeva la cella tripartita, dedicata alla triade divina, chiusa dalla parete posteriore del tempio.
Dal III secolo a.C. è documentato con sicurezza l’uso di materiali litici come tufo, travertino, peperino, e soprattutto della tecnica dell’opus caementicium, un conglomerato fluido di calce e sabbia mescolato a ghiaia o a frammenti di tufo il quale, asciugandosi, acquisisce una straordinaria solidità e consente di legare stabilmente tra loro altri materiali costruttivi, schiudendo soluzioni assai diverse dall’elementare sistema trilitico in uso nel mondo greco, limitato dal modesto rapporto tra peso intrinseco e capacità statica degli elementi impiegati.
Nel II secolo a.C. fanno la loro apparizione altri tipi architettonici. Gli archi commemorativi e onorari, sovrastati da statue, celebrativi di campagne militari vittoriose, sfruttano la tecnica nuova dell’opus caementicium per creare ampie strutture a fornice di valore monumentale; analogamente, la struttura ad arco consente realizzazioni complesse come i corsi degli acquedotti e i ponti in muratura sul Tevere, e nei secoli successivi darà vita a costruzioni grandiose, come teatri e anfiteatri.
Le basiliche, strutture coperte a pianta rettangolare e sviluppo longitudinale divise in tre navate, destinate a scopi civili, sono tra gli edifici che qualificano il foro, spazio aperto di commercio e vita pubblica sul quale affacciano gli edifici pubblici. In esse è testimoniato l’uso dei mattoni d’argilla corti (opus latericium), di largo impiego in tutta l’edilizia imperiale per la flessibilità d’uso.
È con la stagione del potere di Silla, colui che nell’86 a.C. saccheggia Atene e che dopo aver vinto Mario esercita la dittatura, ovvero il potere supremo e non condizionato tipico delle situazioni di emergenza, tra l’82 e il 79 a.C., che ha inizio il processo di rinnovamento architettonico di Roma in senso monumentale. Esso prosegue con Giulio Cesare per trovare compimento in età augustea, allo scorcio dell’età repubblicana e all’avvio di quella imperiale.
L’influenza della cultura ellenistica, si avverte nell’introduzione del modello della tholos nei tempietti a pianta circolare, nell’adozione del marmo e delle sue policromie come elemento decorativo, nell’impiego degli ordini greci. Essi, tuttavia, vengono in certo senso sovrapposti al concetto costruttivo romano, la cui tecnica consente ben altri ardimenti, testimoniati ad esempio dal terrazzamento del tempio di Giove a Terracina, per cui vengono ridotti a semplici partiture decorative, con predominio del corinzio, in un gioco di pieni e vuoti in cui colonne e semi-colonne dialogano con la nuova cadenza visiva degli archi. Ciò accade nella scena architettonica e nell’architettura stessa dei teatri, che contraddicendo l’antica morigeratezza di costumi, che stabiliva che fossero solo strutture provvisorie in legno, si fanno in quest’epoca stabili: il Teatro di Marcello in Roma, avviato da Cesare e compiuto sotto Augusto, mostra la possibilità di reggere la grande cavea senza sfruttare un pendio naturale, ma con un sistema di ampie arcate, ritmate pittoricamente negli ordini sovrapposti dalle semi-colonne tuscaniche, ioniche e corinzie. Allo stesso principio risale la concezione degli anfiteatri, edifici circolari nei quali si svolgevano ludi gladiatori e circensi.

Proprio l’accezione decorativa e ostentatoria dell’arte greca tutta fa sì che essa trovi spazio, nel ricco ed ellenizzante I secolo a.C., soprattutto nel consumo privato, declinandosi in spazi come ville e giardini dalle articolazioni complesse ed esuberanti, in cui le statue – originali, copie, reinvenzioni – perdono ogni altra accezione che non sia l’estetica, e in cui persino tipi architettonici cultuali come il ninfeo, nel mondo greco semi-sotterraneo e dedicato al culto delle Ninfe, divengono puro accidente scenografico: è tuttavia dalla forma absidata del ninfeo, unita all’assialità longitudinale a tre navate della basilica, che deriverà di lì a qualche secolo il modello basilicale cristiano.
Degli ornamenti della vita privata nelle ville patrizie, e del grado di penetrazione della voga ellenistica, è testimonianza il tesoro di Boscoreale, corredo di vasellame da tavola in argento trovato in una villa dell’area pompeiana nel 1895 insieme ad altri oggetti aurei meno interessanti sul piano artistico, ma denotanti l’immensa ricchezza del proprietario. I decori esterni delle coppe, che presentano talora rilievi anche all’interno, sono a motivi vegetali alternati con pittoresche immagini allegoriche, e indicano il grado di enfasi fastosa con cui il gusto ellenistico viene declinato e fruito in ambiente romano nel I secolo a.C. Analoga qualità decorativa traspare dal coevo tesoro di Hildesheim, scoperto nel 1868, in cui a decorazioni complesse si alternano raffigurazioni divine di gusto sofisticatissimo.
Il caso della scultura è assai più complesso. Una destinazione pubblica della statuaria si radica nell’uso di collocare nella città effigi bronzee celebrative e commemorative dei cittadini illustri, in molti casi secondo la tipologia originale della statua posta su una colonna. Sono ritratti spesso eseguiti dopo la morte del personaggio, quindi tipizzati, come avviene nella Grecia del IV secolo a.C., ma dotati di una caratterizzazione realistica che appartiene al portato originale dell’arte etrusca prima e poi romana, in cui hanno un gran peso la ritrattistica funeraria e il culto degli antenati: ne è tipico il modello delle imagines clipeatae, ritratti realizzati a rilievo di individui collocati al centro di uno scudo o medaglione circolare. Già nei canopi e nei sarcofagi etruschi è evidente l’intento ritrattistico che presiede alla realizzazione dei volti, dei quali è concettualmente e culturalmente fondamentale l’identificazione. Tale tradizione, fondandosi su una pratica concepita peraltro come artigianale, quindi senza particolari implicazioni colte, trasferisce all’arte romana dei primi secoli un linguaggio immediatamente verista, crudo e diretto, lontano dall’idea stessa di stile e di elaborazione ideale. Essa permane anche quando, tra il III e il II secolo a.C., i rapporti con l’arte ellenistica si fanno più stretti, e la ritrattistica ideale greca consente a tale atteggiamento di evolversi dal punto di vista tecnico e formale, pur senza tradire la propria natura originaria.
Popolaresco e tendenzialmente ignaro sul piano stilistico, tale strato artigianale permane a lungo come humus dell’ambiente artistico romano. Se la cultura tradizionalista legata alla virtus romana concepisce la scultura meramente in funzione civica e religiosa, dunque utilitaria e scevra da implicazioni estetiche, non riconoscendo ai suoi artefici altro statuto che l’artigianale, quella affascinata dalla luxuria ellenistica è xenofila e snobistica, apprezza e onora i maestri stranieri (ecletticamente neoattici oppure baroccamente ellenistici, da Pasitele a Arcesilao, da Stephanos a Cleomene, largamente omaggiati dalle fonti) ma in quanto stranieri, verso i quali esercitare un mecenatismo a sua volta imitativo, perpetrando un sostanziale disconoscimento della figura dell’artista come intellettualmente degna e autorevole in seno alla comunità.

Il ritratto verista, di stringata sintesi fisionomica, e un’arte del rilievo fatta di diretta, fresca descrittività e narratività, attenta all’evidenza iconografica quanto schietta sul piano esecutivo, sono dunque caratteristiche che transitano dal III-II secolo a.C. sino all’età imperiale, riemergendo come nutrimento primario dell’arte imperiale stessa da Traiano in poi. Esemplare è da questo punto di vista, naturalmente, proprio la ritrattistica funebre. Una statua di personaggio togato che regge nelle mani i busti del padre e del nonno è perfettamente esplicativa di questo filone. Il personaggio, ben connotato, fa delle fisionomie degli antenati i signa stessi della propria gens. Tale fedeltà descrittiva è robusta e sintetica, ed è riscontrabile in una serie di busti e di rilievi funerari che dal I secolo a.C. si inoltrano alla prima età imperiale, indicando differenti livelli di fattura, da un maturo realismo che supera i limiti del semplice verismo a espressioni di ingenuo piglio popolare.
Dal III-II secolo a.C. sino all’età cesariana si dipana una serie di testi e busti ritrattistici che ben indicano l’intrecciarsi della vigorosa sintesi etrusco-italica con elementi più popolareschi e con accentuazioni veristiche di sapore addirittura espressionista; ma anche con il fertile influsso della ritrattistica greca del IV secolo a.C., che agisce nella tensione vitale e nell’intensità psicologica, oltre che nell’equilibrio formale, di alcune di queste opere. La testa del Bruto Capitolino, scandita su piani netti con il fitto lavorio di capigliatura e barba, seccamente chiaroscurati, a evidenziare gli elementi identificativi maggiori, le labbra sottili, il forte naso e le orbite che ombreggiano lo sguardo intensificandone il protagonismo, è sicuramente uno dei raggiungimenti più alti del periodo più antico. Alla stessa epoca, III-II secolo a.C., appartiene una testa di fanciullo la cui stereometria è addolcita dal luminismo dolce delle superfici, non lontano dalle coeve teste fittili etrusche.
Anche la ritrattistica del I secolo a.C., dalla quale ci si attenderebbe una eroizzazione del personaggio all’uso greco, che ne amplifichi l’eccezionalità rispetto all’uomo comune, presenta piuttosto un’attenzione alla misura spirituale dell’individuo che ne definisce la sostanza psichica, non una retorica grandeur. Ritratti di personaggi illustri come Cicerone, dai lineamenti maturi e intensi, e Cesare, effigiato con sobrio realismo e modi di austera semplicità, ne indicano il concreto valore individuale, senza spinte eroizzanti o divinizzanti. È quanto emerge anche da una delle opere maggiori a noi giunte, il cosiddetto Arringatore. Al maturo realismo del volto si affianca, qui, anche una descrittività sobria e diretta che riguarda il corpo tutto, non risentendo di alcun modello sculturale ideale che faccia da paradigma.
Dei rari rilievi dell’epoca sopravvissuti, l’Ara di Domizio Enobarbo, diversamente datata dagli studiosi tra la fine del II secolo e gli ultimi decenni del I a.C., mostra un caso di convivenza complessa tra elementi ellenistici, prevalenti nella scena mitologica raffigurante le nozze tra Nettuno e Anfitrite, con Tritoni e Nereidi, e autoctoni, tipici della scena di sacrificio rituale per la purificazione dell’esercito. Le sensuose movenze curvilinee, il luminismo chiaroscurale della scena mitologica, di chiara ispirazione pergamena, sono in evidente contrasto con la sobrietà della scena storica, scandita come una theoria classica ed eseguita con pesantezza accademica non priva di abbreviazioni popolareggianti.
Una prima sintesi tra cultura romana e modelli greci si attua sotto il principato di Ottaviano, il vincitore nel 31 a.C. della battaglia di Azio contro Cleopatra e Marco Antonio, al quale nel 27 a.C. vengono riconosciuti dal Senato il titolo di Augusto e l’imperium militare, e che concentrando progressivamente su di sé tutti i poteri repubblicani, sino alla carica di pontefice massimo, la più alta autorità religiosa conferitagli nel 12 a.C., avvia la gestione monocratica dello Stato.
Dall’ellenismo Augusto deriva in primo luogo la consapevolezza dell’importanza della cultura come valore di appartenenza, come reagente e collante in grado di agire nella formazione di un’identità romana precisata e autorevole. L’azione letteraria di Virgilio, Orazio, Livio, Ovidio, favorita e orientata dal principe, mira ad accreditare la rinascita di un’età aurea pacificata e florida, in cui la virtus romana rifulga come modello per il mondo tutto, nonché a vestire di mito la figura di Augusto, discendente, per il tramite di Enea, da Venere.
Il programma di trasformazione monumentale di Roma, già concepito e avviato da Silla e da Cesare, è parte integrante della strategia culturale di Augusto, che ricerca forme e modi che assommino il potere romano, la sua sagace concretezza, e il carisma colto dell’antica Atene: in questo ambito alla scultura viene attribuito parimenti il ruolo di fissare e diffondere un’iconografia insieme nobile e propagandisticamente persuasiva.
Documento per eccellenza di questo programma è l’Ara Pacis, inaugurata nel 9 a.C., un altare decorato a rilievi poggiante su un podio con gradinata e circondato da un recinto marmoreo. Accessibile da due porte che si aprivano – nella collocazione originale – sulla via Flaminia e sul Campo Marzio, il recinto è decorato all’esterno da uno straordinario complesso di rilievi su due ordini separati da un meandro continuo. L’ordine inferiore è decorato da volute correnti di acanto, il superiore da scene figurate rispondenti a un preciso programma iconografico. All’interno, la fascia alta è scandita da una serie di festoni vegetali retti da bucrani. Il fregio vegetale esterno ha un valore insieme decorativo e allegorico. L’acanto, dal cui cespo si diparte la serie fastosa di motivi curvilinei, simboleggia la forza prorompente della natura che genera e si rigenera: tra le sue volute si colloca una varietà infinita e minuziosa di motivi come palmette, fiori, viticci, foglie d’edera e di vite, abitata da piccoli animali, dalla lucertola alla rana allo scorpione. Di estrema eleganza, nascente dal gioco sottile delle linee curve e del ritmo scandito tra ripetizioni e varianti, il fregio è, nel suo trionfo del naturale, il pendant concettuale dell’ordine superiore: là è l’effetto storico della pax deorum guadagnata da Augusto, qui è la manifestazione nella natura, fiorente e rigenerata: l’ordine cosmico, l’armonia tra divino e umano e naturale, è pienamente ristabilito. I due pannelli superiori che affiancano la porta occidentale, la principale, aperta su Campo Marzio, raffigurano l’uno Enea, in veste sacerdotale, sacrificante ai Penati, l’altro, di cui restano pochi frammenti, Marte con Faustolo che guardano Romolo e Remo allattati dalla Lupa.

Enea, dunque la discendenza da Venere proveniente da Troia, nell’atto di compiere un rito tipico del pontefice massimo; Romolo e Remo, dunque la discendenza autoctona da Marte, accolti e cresciuti dal pastore Faustolo, esponente delle popolazioni italiche precedenti Roma: il programma iconografico è esplicito. Simmetrici, sul lato opposto sono i due pannelli raffiguranti Roma vincitrice e pacificatrice, del quale quasi nulla ci è pervenuto, e la Tellus, la Terra madre, tra piante e animali, ambiguamente ritratta un po’ come Venere un po’ come Cerere, che regge sulle ginocchia due fanciulli ed è affiancata da due figure femminili sedute rispettivamente su un cigno e su un drago marino, raffiguranti gli spiriti fecondatori della terra e dell’acqua. I lati nord e sud del recinto esterno raffigurano una processione sacra cui prende parte lo stesso Augusto con littori, sacerdoti, la famiglia imperiale, in una vera e propria teoria nella quale l’evocazione classica greca si salda con un preciso intento ritrattistico. Il fregio dell’ara vera e propria, ridotto a pochi frammenti, non consente ipotesi iconografiche solide. Dal punto di vista stilistico il gioco delle pose e dei panneggi, svolti con abile effetto chiaroscurale tra cadenze verticali e fluenze diagonali, determina netti rapporti narrativi ed emotivi tra figura e figura, ricorrendo anche all’incrociarsi degli sguardi reciproci, che intensificano l’esplicito valore ideologico dell’immagine dovuto alla riconoscibilità dei personaggi. Il clima ellenistico, trasparente dalla spettacolarità dell’insieme, del suo senso fastosamente decorativo e naturalistico, si stempera in una deliberata ripresa del classico che già può essere detto, a queste date, classicismo: il richiamo alla grande arte attica della seconda metà del V secolo a.C. non è, qui, pura questione di gusto, ma scelta da leggere nel quadro del programma politico-culturale di Augusto.
Un peso fondamentale, e per certi versi nuovo, assume in questo momento la ritrattistica. Il ritratto ufficiale del princeps diviene l’elemento iconografico che anche nei domini più lontani impone il carisma del monarca: esso dunque deve possedere una sorta di riconoscibilità “ufficiale”, un misto tra realismo e idealizzazione, in grado di eroizzare il personaggio attraverso l’interpretazione psicologica più che attraverso la tipizzazione divinizzante.
La varietà di teste giunte a noi, scalate negli anni dalla presa e dell’esercizio di potere di Augusto, mostra una certa oscillazione tra l’ispirazione più esplicitamente realistica e quella idealizzante, per far posto in seguito a un’iconografia ufficiale e ripetuta.
Le opere più rappresentative di questa fase sono la statua eroica proveniente dalla villa di Livia, moglie di Augusto e madre di Tiberio, a Prima Porta, e quella in veste di pontefice massimo da via Labicana. La prima rappresenta il principe in armi, secondo uno schema iconografico ispirato al Doriforo di Policleto ma aperta a un ritmo più mosso grazie al braccio destro teso, bilanciato dal panneggio sul sinistro. Il volto è reso con accuratezza fisionomica, ma è privo delle crudezze italiche, sintetizzato in un’espressione intensa che conferisce al personaggio un’aura di umanità e intelligenza, dunque di eroismo esercitato responsabilmente nel mondo, non al di sopra di esso in virtù di un potere autocratico. A tale definizione della sua autorità Augusto è programmaticamente attento. Egli si presenta come il restauratore della centralità dell’idea di Roma e della sua storia repubblicana, non come colui che l’ha dissolta: il suo potere non è personale, ma esercitato con dignità in nome di Roma. Sulla corazza, scolpita a rilievo alto, scene allegoriche si alternano a figure storiche in cui un generale romano, forse Tiberio, è circondato da figure di vinti. La statua velata si sottrae a maggior ragione a ogni suggestione eroica per fare di Augusto una sorta di pater, di capo spirituale, come fosse il pater familias di Roma tutta, nel segno di più compiuta appartenenza all’identità civica.
Impressionante è l’attività architettonica che dall’età augustea caratterizza tutto il periodo della dinastia giulio-claudia (Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone) e flavia (Vespasiano, Tito, Domiziano), cioè il I secolo d.C.
Svetonio attribuisce ad Augusto il merito di aver trovato una città di mattoni e di averne lasciata una di marmo. In realtà, è proprio nel I secolo d.C. che l’uso dei laterizi cotti si diffonde e consente, a Roma come nelle province, imprese imponenti di cui il Pont du Gard, presso Nimes, e la Porta Palatina di Torino, accesso munito alla città fondata nel 28 a.C., sono testimonianze eloquenti. È peraltro vero che un impiego diffuso del marmo e delle sue possibilità decorative risale a questo momento, realizzandosi in un’amplissima diffusione dello stile corinzio, come testimoniano esemplarmente il comportamento del Teatro di Marcello, dedicato nell’11 a.C. e ispiratore dell’Anfiteatro Flavio (noto più tardi come Colosseo) eretto da Vespasiano, e il tempio augusteo detto la Maison Carrée di Nimes.

Più complesso è il caso del capolavoro dell’architettura augustea, il Pantheon, tempio di tutti gli dèi. Dedicato nel 27 a.C. da Marco Agrippa, generale e genero di Augusto, era a pianta rettangolare, rivestito di marmo, con capitelli bronzei, Cariatidi e frontone figurato. Il suo aspetto si deve alla ricostruzione di età adrianea, nel terzo decennio del II secolo d.C., con il grande pronao a colonne corinzie che si apre su una cella a pianta circolare, con esedre e colonne corinzie, coperta da una cupola semisferica, la cui concezione è stata per secoli oggetto di studio e ammirazione, e sarà modello per l’architettura rinascimentale. Delle originali decorazioni bronzee nulla è sopravvissuto.
Nel I secolo d.C. si diffonde anche l’uso di rendere monumentali le porte urbane a fornice con semicolonne corinzie, frontoni e rilievi, trasformandole sempre più in veri e propri archi commemorativi, che assumono ben presto fisionomia autonoma. Tale processo giunge a compimento nell’arco di Tito, eretto da Domiziano per celebrare le vittorie giudaiche del predecessore nel 70 d.C. Le semicolonne corinzie con elementi ionici su alto zoccolo, l’estradosso dell’arco e il fregio decorati, un attico con iscrizioni, perfezionato il fronte. All’interno dell’arco, l’intradosso è decorato a cassettoni e l’interno dei piloni di sostegno con rilievi figurati, che inaugurano l’uso di celebrare i fasti militari dell’impero con vere e proprie narrazioni. Sull’attico si trovava una quadriga con l’imperatore sul carro, in bronzo dorato.
Del tutto innovativa è la concezione scultorea che presiede ai rilievi narrativi. Scavate nella pietra senza levigature superficiali, e lasciando in vista ai bordi la superficie originale in modo da dar conto della profondità, le figure trascorrono dal limite del tutto tondo a rilievo pressoché disegnativo sullo sfondo. Esse, tuttavia, non sono scalate su piani paralleli convenzionali, ma variamente articolate secondo una profondità continua, che senza soluzioni trascorre dal primo piano allo sfondo. Tale caratteristica è accentuata dal raggruppamento e dalle sovrapposizioni diverse tra figure, e dall’effetto chiaroscurale dovuto all’incidenza diretta della luce naturale, che produce effetti pittorici non artificiosi. Ulteriore elemento di innovazione, certo derivato da modelli pittorici ellenistici, è la scelta di risparmiare nella parte alta una fascia dello sfondo, corrispondente al cielo sapientemente solcato dalle lance, anziché spingere l’altezza delle figure sino al bordo superiore, come avviene nel rilievo classico. L’allegorismo e il cauto classicismo del tempo di Augusto sono ormai alle spalle, e la sintesi matura tra realismo narrativo romano e illusionismo ellenistico comincia ad avvicinarsi: essa troverà pieno compimento in età traianea.

È al periodo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. che si attribuisce la quasi totalità delle pitture romane giunte a noi. Esse in gran parte provengono dall’area vesuviana – dove la data dell’eruzione del vulcano, 79 d.C., offre un sicuro termine cronologico – ma anche da Roma. Si tratta esclusivamente di decorazioni murali destinate all’ornamentazione di edifici privati, dunque esemplari della luxuria romana e del suo gusto ostentatorio, propenso all’enfasi e alla sovrabbondanza.
Un’arte della pittura su tavola era in realtà diffusa sin dall’età repubblicana. Essa era legata alla narrazione, tra sintetica e allegorica, dei fatti memorabili durante le celebrazioni dei trionfi, oppure collocata per ragioni affini in edifici pubblici: si trattava, con ogni probabilità, di figurazioni essenziali e di impronta stilisticamente non evoluta, di valore per lo più illustrativo. Artisti greci immigrati e locali, in genere schiavi e liberti vista la scarsa considerazione sociale attribuita alla figura dell’artista, operavano affiancati in questo come in altri campi prediletti dal mondo romano: la ritrattistica, di viventi e dei maiores defunti, le pitture votive, le raffigurazioni popolaresche di ludi. Dalla Grecia, poi, fioriva l’importazione di pinakes, di tema sia storico che decorativo, oggetto di un vero e proprio collezionismo maniacale, tipico status symbol ellenizzante.
La pittura murale ha soprattutto carattere decorativo, e sotto molti punti di vista risente dell’influenza ellenistica, in modo particolare di quella alessandrina, alla quale si devono il prevalere di elementi paesistici suggestivi e la tecnica della compendiaria, ovvero una pittura fatta di tocchi rapidi e corsivi, di sapore impressionistico, in cui peso quasi nullo ha la tradizione greca della nitida linea di contorno e protagonista è il colore, dai toni fastosi e ricchi, dall’ocra d’oro alla porpora al blu d’Armenia, il cui pregio era tale che, testimonia Vitruvio, il loro acquisto era a carico del committente.
L’abbondanza delle pitture da Pompei e da Ercolano ha consentito nel 1882 ad August Mau, nella fondamentale pubblicazione Geschichte der dekorativen Wandmalerei in Pompeij (Storia della decorazione parietale a Pompei), di suddividere le tipologie di decorazioni pittoriche in quattro stili, corrispondenti con le debite cautele a quattro fasi cronologiche scalate dal I secolo a.C. al 79 d.C. Pur precisata in molti punti e assai più articolata sulla base degli studi successivi, tale classificazione è tuttora in uso. Il primo stile, derivante da esempi ellenistici del II secolo a.C., prevede uno zoccolo sopra il quale la parete è ripartita in blocchi imitanti marmi variegati, alabastro, porfido, con coloriture intense in cui dominano nero, rosso, giallo. Semplici elementi architettonici, come porte chiuse, pilastri, metope, fregi, scandiscono e compartiscono questo tipo di pitture. Nel secondo stile la quadratura architettonica evolve sino a trasformarsi in un illusionistico chiostro colonnato, nei cui riquadri appaiono panorami urbani e architetture illusionistiche di tipo prospettico, oltre a vedute paesistiche, di sapore e ispirazione certo teatrali. In questa fase compaiono anche festoni vegetali e fregi continui ricchi di figurette dipinte in modo veloce e impressionistico, quasi bozzettistico, con freschi effetti narrativi e artifici come colpi di luce e sapidi chiaroscuri.
Alcune opere eminenti, attribuibili a esecutori di qualità superiore, appartengono a questa fase. La pompeiana Villa dei Misteri presenta partizioni architettoniche semplici che delimitano ampi riquadri a fondo rosso in cui gruppi di figure rappresentano scene d’iniziazione misterica.

La villa di Livia a Prima Porta, in Roma, scavata nel 1869, si caratterizza per l’abbondanza di festoni vegetali e per la vasta descrizione ravvicinata di un giardino, motivo tipico di questa stagione del gusto, con minuzie naturalistiche e delicati accenni bucolici, in una concezione comunque eminentemente decorativa. Il miniaturismo idilliaco della pittura ellenistica si nutre qui, nelle mani di un artefice consapevole, del gusto descrittivo e diretto della tradizione romana, con un risultato di sintesi di notevole livello, confrontabile per certi versi – precisione nel differenziare le specie vegetali, attenzione descrittiva negli animali – al decorativismo naturalistico del fregio vegetale dell’Ara Pacis.
Caratteristica del terzo stile è l’abolizione della scenografia architettonica in favore di decorazioni esili e calligrafiche come candelabri culminanti in figurette, tralci, corone, e di illusioni di tessuti tesi con figurazioni centrali, emulanti le ricche decorazioni in tessuto delle case, dei quali nulla ovviamente ci è giunto, con inserzione di illusionistici pinakes. Talora, anziché essere raffigurati direttamente sulla parete, i pinakes erano eseguiti su stucco o marmo e incastonati nella parete stessa. È tra secondo e terzo stile che si diffonde la moda delle nature morte, il cui sviluppo e la cui proliferazione presuppongono un fitto e continuo scambio tra produzione di quadri veri e propri e raffigurazione degli stessi quadri nei contesti decorativi della pittura parietale.
Il quarto stile torna, dopo la finezza grafica delle grottesche del terzo, a un’accelerazione degli elementi scenografici e della sovrabbondanza decorativa. Ricco di tipologie diverse, rende protagonisti gli illusionismi architettonici collocandovi figure e scene vere e proprie, oppure larghe vedute paesistiche, dove la pittura compendiaria raggiunge effetti di autentica suggestione impressionistica, senza più la preoccupazione naturalistica tipica del secondo stile.
Rispetto ai modelli ellenistici, è proprio la tendenza a semplificare e rendere schietto il clima visivo l’elemento di innovazione che si può riferire alla cultura romana. Poco, tuttavia, si può dire in merito alla qualità specifica di queste pitture, di concezione e fattura ascrivibili all’alto artigianato, in assenza di una vera e propria cerchia di maestri riconosciuti. È nei riquadri figurati, ispirati spesso a temi ellenistici spinti verso un clima definitivamente idilliaco, che la pittura pompeiana raggiunge talora esiti di straordinaria fragranza.
Anche l’arte dei pavimenti a mosaico si diffonde secondo esempi ellenistici, sostituendo progressivamente i più semplici pavimenti in cocciopesto con incrostazioni marmoree, e quelli con decorazioni geometriche continue, incornicianti piccoli elementi figurativi riquadrati, tipici della casa romana. Se gli esempi più direttamente impliciti nell’arte ellenistica, in genere copie di pinakes, sono a tessere piccole in pasta colorata, le traduzioni romane impiegano più larghe tessere in marmo e pietre dure, e talora paste vitree colorate, con effetti più corsivamente decorativi.
Della pittura ritrattistica romana nulla è sopravvissuto. Tuttavia, la ritrattistica di età imperiale è evocata dalla produzione tipica di un’area specifica dell’Egitto, il Fayum, isola sul Basso Nilo, da cui provengono circa seicento ritratti funerari databili dall’età neroniana al IV secolo. Sono ritratti dipinti su tavolette di legno che venivano fissate sull’involucro delle mummie secondo l’uso egizio, e che, nell’evolvere da un più schietto realismo a forme di idealizzazione del tipo frontale con gli occhi fissi, mostrano un rapporto continuo e diretto con l’arte romana di madrepatria.
Un articolo veramente interessante, pieno, completo ed avvolgente.
L’ arte antica non smette mai di insegnare, e noi non smettiamo mai di imparare da questa.
Grazie.
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[…] settori importanti delle élite politiche romane del II secolo, particolarmente influenzate dalla cultura greca e decise a diffondere i propri ideali attraverso un rinnovamento in campo letterario e artistico, […]
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[…] prima cosa occorre interrogarsi su «quale Grecia» fosse quella cui si riferiva immediatamente la nozione stessa di «grecità» agli occhi dei […]
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