La terza Roma riscopre la prima

di AA.VV., Le grandi avventure dell’archeologia: i misteri delle civiltà scomparse, Roma 1980, pp. 1388 sgg.

L’ingresso dei Bersaglieri a Porta Pia il 20 settembre del 1870 apre, come è noto, l’ultima fase della storia millenaria di Roma, quella che stiamo ancora vivendo. La retorica che corse a fiumi sui destini della «terza Roma» (Roma capitale d’Italia, dopo la prima, – la capitale dell’Impero, – e la seconda, – la capitale del Cristianesimo -) valse allora, almeno in parte, a coprire le storture sociali, economiche e urbanistiche e gli affari poco puliti che caratterizzarono – e caratterizzano – la vita più recente della città. Se questa è storia ormai nota, e più volte scritta, assai meno conosciuto è invece il risvolto archeologico del trasferimento a Roma della capitale del Regno: non esiste infatti ancora una storia degli scavi per questo periodo, e i documenti giacciono sparsi in migliaia di riviste e giornali, quando non sono addirittura del tutto inediti. La conquista di Roma apre dunque una nuova era anche per quanto riguarda la conoscenza dell’antica Roma. E questo non solo – e non tanto – per l’incremento che si volle dare a scavi scientifici e programmati – principali fra tutti quelli del Foro – ma per i grandi lavori edilizi, che liberarono per un momento gran parte della città antica, ma solo per subito ricoprirla, e definitivamente, sotto la spessa coltre dei nuovi quartieri amministrativi o residenziali.

Un triste destino urbanistico e la febbre edilizia.
La creazione del complesso ministeriale del Quirinale, lungo la via XX Settembre (voluta da Quintino Sella) e quella dei grandi quartieri hanno non solo determinato definitivamente il triste destino urbanistico di Roma, ma hanno anche sfigurato il volto della città, risultato di un armonico sviluppo millenario, e contribuito a distruggere una documentazione storica insostituibile della quale solo pochi frammenti, strappati al massacro, si sono conservati fino a noi.

Statua di Hygeia. Copia romana da un originale ellenistico di marmo pentelico del 290 a.C. ca. Dagli Horti Maecenatiani, Musei Capitolini
Statua di Hygeia. Copia romana da un originale ellenistico di marmo pentelico del 290 a.C. ca. Dagli Horti Maecenatiani, Musei Capitolini

La zona più colpita è quella compresa tra nord e est, tra Pincio e Celio: la parte di essa più vicina alla città era stata occupata dai quartieri residenziali della fine della Repubblica e dell’Impero, mentre la fascia più esterna aveva costituito una serie di parchi, creati dall’aristocrazia repubblicana, e passati in seguito nel demanio imperiale: dalla villa di Sallustio, nella zona dell’attuale via Veneto, fino ai giardini di Mecenate (via Merulana), un’unica fascia di meravigliosi giardini aveva costituito il confine tra il centro urbano e la campagna romana. Questa situazione era praticamente rimasta immutata, attraverso l’abbandono del Medioevo e la ripresa economica e demografica del Rinascimento e dell’età barocca: nuove ville, di papi e di principi romani, avevano sostituito quelle primitive, riproducendo la situazione di età romana.
Apparve subito chiaro che la creazione della nuova capitale avrebbe provocato rapidamente un forte incremento demografico e quindi un’intensa attività edilizia. Ancora nel 1883, il piano regolatore prevedeva la conservazione delle ville comprese tra Castro Pretorio e Porta Pinciana. Ma, come tutti i successivi, esso non fu applicato. Una dopo l’altra, le splendide ville scomparvero sotto la marea di case, e anche la più bella di tutte, la villa Ludovisi, che aveva occupato il sito di quella di Sallustio, nel luogo dove è oggi l’insulso quartiere intorno a via Veneto. Scoppiò così la prima febbre edilizia della Roma moderna: in poco tempo sorsero il quartiere «piemontese» intorno a piazza Vittorio, sull’Esquilino; il quartiere Ludovisi, al posto della magnifica villa omonima; e poi, via via, i quartieri di San Giovanni, del Testaccio, di Prati, Nomentano-Salario… A malapena si poté salvare la villa Borghese, e parve un miracolo. La speculazione edilizia fu arrestata solo dalla terribile crisi del 1888, che può essere sintetizzata in due cifre: fra il 1886 e il 1887 venivano costruiti ogni mese 12691 vani; tra il 1888 e il 1889, solo 819.
La febbre edilizia non colse del tutto impreparati gli archeologi. Già nel 1872 viene creata la Commissione Archeologica Comunale, dotata di una rivista, ancora oggi esistente e il cui compito era «l’esercizio dei diritti e dei doveri, che al Comune incombono verso i monumenti della città, e del suo territorio… il Comune, nelle convenzioni stipulate con le varie società edificatrici de’ nuovi quartieri, essendosi riservato ove la assoluta, ove la parziale proprietà degli antichi monumenti, ove la semplice sorveglianza delle scoperte, conveniva provvedere urgentemente al disegno delle icnografie degli edifici; alla loro conservazione, qualora ne fossero giudicati degni; al trasporto ed al collocamento ne’ palazzi capitolini degli antichi oggetti estratti dalle escavazioni; all’ampliamento dei musei; alla fondazione di nuove raccolte ceramiche e numismatiche; procurando sempre di conciliare gli interessi della scienza con quelli dell’edilità».
Il documento, datato 20 novembre 1872, pecca ai nostri occhi di posteri, dotati del senno di poi, per qualche ingenuità ed era da prevedere infatti che «gli interessi della scienza» sarebbero stati travolti da «quelli dell’edilità». Infatti, le forze culturali raccolte intorno alla Commissione dovettero scontrarsi subito con potentissimi interessi costituiti, ed ebbero per lo più la peggio. È una storia che si è ripetuta più volte, anche ai giorni nostri: se la fine dell’800 e il periodo tra le due guerre hanno portato le più grandi distruzioni del centro urbano, gli anni dopo l’ultima guerra mondiale hanno segnato la fine della campagna romana. Il Lanciani si lamentava spesso della scarsa comprensione dimostrata dagli impresari edili del nuovo quartiere Esquilino, come nel caso delle Terme di Nerazio Ceriale, scoperte nel 1873 presso S. Maria Maggiore: «Le condizioni di così importante trovamento furono in singola guisa avverse ai desideri della Commissione – che avrebbe voluto estendere in quel sito le sue ricerche – non solo per l’enorme innalzamento del suolo moderno sull’antico, che in alcuni punti raggiunge ed oltrepassa gli 11 metri; ma per gli ostacoli ancora e le esorbitanti pretese opposte alla Commissione medesima dai costruttori del nuovo fabbricato». Talvolta i membri della Commissione non riuscirono neppure ad accedere ai cantieri.
Nonostante tutto, la Commissione Archeologica Comunale svolse un compito prezioso raccogliendo il materiale mobile, segnalandone la provenienza e documentando almeno graficamente i resti monumentali dei quartieri e delle necropoli dell’antica Roma man mano che venivano riportati alla luce – per poi riscomparire sotto le tristi case umbertine. Il documento più notevole che ce ne è rimasto è la grandiosa pianta al mille, redatta da Rodolfo Lanciani: questi creato, appena ventiseienne, segretario della neonata Commissione, fu il prezioso testimone delle scoperte che segnarono, in rapidissima successione, gli anni finali del secolo, che egli raccolse accuratamente e fissò sulla carta. Senza quest’opera paziente e gigantesca, oggi non sapremmo quasi nulla di interi quartieri dell’antica Roma.

Lo scavo dell’Esquilino.

Felice Luca Cardone, Rappresentazione grafica degli alzati dell'Auditorium di Mecenate.
Felice Luca Cardone, Rappresentazione grafica degli alzati dell’Auditorium di Mecenate.


Lo scavo dell’Esquilino fu senza dubbio il più grandioso e il più ricco di risultati. Edifici di grande importanza, abitazioni e resti di ville patrizie, mercati, strade, terme furono liberati e poi subito risepolti. Tra i rarissimi casi di edifici che, per la loro importanza, non furono demoliti, è il cosiddetto Auditorium di Mecenate (ancora oggi visibile nel largo Leopardi, lungo via Merulana). I primi editori del monumento, descrissero la scoperta nel Bullettino Comunale del 1874: «Tracciandosi le vie che devono racchiudere i nuovi quartieri della seconda zona dell’Esquilino, nel mese di marzo dell’anno corrente, fu scoperta, entro la villa già Caetani, e, precisamente alla sua estremità verso la via Merulana, la sommità di un muro di forma curvilinea, con residui di intonaco vagamente dipinto; il quale muro si sprofondava nel terreno per l’altezza di un metro soltanto, rispetto al piano della villa suddetta. Questa nostra Commissione archeologica, vigilantissima sempre a toglier cura di qualunque avanzo di vecchie costruzioni che ritorni alla luce, ordinò si seguisse colle escavazioni l’andamento di quel muro, e si estrassero le terre che l’avevano coperto, fino a raggiungere il piano primitivo dell’edificio». Venne così liberata una sala semi-sotterranea, di forma rettangolare, terminata su uno dei lati minori da un’abside occupata da sette gradini semicircolari, a mo’ di cavea teatrale. Le pareti interne della sala e le sue nicchie erano ricoperte di pitture appartenenti al cosiddetto 3° stile pompeiano, con rappresentazioni di giardini: tra i più begli esempi di pittura parietale romana della piena età augustea.
La forma dell’edificio fece subito pensare ad una sorta di piccolo teatro coperto, mentre la sua localizzazione permise il collegamento con la villa di Mecenate, che sorgeva proprio in questa zona. La prima ipotesi si è poi rivelata falsa, perché la piccola cavea, sulla quale scorreva l’acqua, in realtà serviva probabilmente per sostenere vasi da fiori, e l’intera sala, semi-sotterranea, non era altro che un ninfeo monumentale.
La seconda ipotesi invece resta estremamente probabile: l’edificio appartiene infatti agli anni in cui Mecenate fece costruire la sua villa, e sorge proprio nel terreno da essa certamente occupato.
Le pitture con giardini furono aggiunte in una seconda fase, quando la villa era divenuta proprietà di Augusto. Sappiamo che il futuro imperatore Tiberio, di ritorno dal suo esilio di Rodi, andò ad abitarci: non è improbabile che allora egli abbia fatto eseguire le pitture, che sono di livello assai elevato, e databili proprio in quegli anni.
Un altro dettaglio sembra confermare questa identificazione. Così lo descrivono i primi editori: «È poi notabile al sommo la circostanza che la fabbrica si trovi incastrata nelle mura serviane, le quali furono a bella posta tagliate obliquamente per darle luogo; in guisa ché l’edificio giace parte dentro e parte fuori del vetusto recinto della città». Ora, noi sappiamo da un carmen di Orazio, il grande poeta amico di Mecenate, che questi, intorno al 30 a.C., aveva ampliato i suoi giardini precedentemente inclusi entro le mura repubblicane (dette Serviane), oltre le mura stesse, includendo un tratto dell’antichissima necropoli che occupava quest’area. Ciò coincide perfettamente con la posizione del cosiddetto Auditorium che si sovrappone all’antico recinto urbano.
Il testo oraziano, e quello dei suoi commentatori, è estremamente interessante per la topografia e la storia di questa parte di Roma, e per le trasformazioni che essa ebbe a subire nel corso dell’età augustea. «Qui era un tempo la fossa comune per la plebe miserabile… Ora è possibile abitare sull’Esquilino ormai reso salubre, e passeggiare sull’agger aperto, dove prima si doveva assistere all’orrendo spettacolo della campagna disseminata di bianche ossa umane»[1].
L’Esquilino, subito fuori dell’agger, cioè la grande fortificazione attribuita tradizionalmente al re Servio Tullio, era quindi destinato, alla fine della Repubblica, a sepolcro comune dei poveri e dei condannati a morte. Anche per questo aspetto gli scavi dell’800 hanno confermato la natura di necropoli nella zona intorno alla Porta Esquilina (Arco di Gallieno, presso la via Carlo Alberto). Ma il carattere “povero” della necropoli dell’Esquilino sembra riguardare piuttosto l’ultima fase della sua utilizzazione. La necropoli comprende tre fasi fondamentali: quella dell’età del ferro, quella medio-repubblicana (IV-III secolo a.C.) e quella tardo-repubblicana: è in quest’ultimo periodo, immediatamente precedente ai lavori di Mecenate, che essa assume il carattere di sepolcreto comune descritto da Orazio. L’aspetto forse più importante della necropoli coincide forse con la sua fase più antica.
Purtroppo, i reperti, anche se raccolti con una certa cura, spesso furono mescolati nei vari trasporti, quando erano ancora in gran parte inediti. È dunque quasi impossibile ricostruire i corredi delle varie tombe, scoperti prima del 1882. Solo con la monumentale opera di G. Pinza, che è del 1905, si poté disporre di una pubblicazione sufficiente, e inoltre della prima sistemazione scientifica del materiale: la divisione in due grandi periodi (prima e seconda età del ferro laziale) allora proposta, precisata e suddivisa in sotto-fasi minori (quattro per la precisione) soprattutto per merito di uno studioso tedesco, il Müller-Karpe, è ancor oggi perfettamente valida. Ora, ciò che colpisce maggiormente nella necropoli dell’Esquilino è in primo luogo la sua data d’origine: al momento del passaggio tra la seconda e la terza fase del Müller-Karpe, e cioè non prima dell’inizio dell’VIII secolo a.C. Non vi si trovano, ad esempio, le tombe ad incinerazione, tipiche della fase più antica, che sono invece numerose nella necropoli del Foro: quest’ultima, infatti, non solo è più antica di quella dell’Esquilino, ma il suo utilizzo sembra bruscamente arrestarsi proprio negli anni in cui ha inizio l’occupazione della seconda. Sembra ovvio dedurne un ampliamento demografico e territoriale delle ristrette comunità originarie, che abitavano soprattutto la zona circostante del Palatino, e alle quali appartiene la necropoli del Foro. Attraverso la documentazione delle tombe dell’Esquilino è possibile seguire il graduale sviluppo verso forme di vita più avanzate, che preludono al passaggio da forme socio-economiche di villaggio, alla creazione di un vero e proprio centro urbano. Nel corso del VII secolo a.C. documentata, in sempre maggiore quantità, la ceramica greca e quella etrusca (il “bucchero”), le prime testimonianze di scrittura, e soprattutto la differenziazione dei livelli sociali, che traspaiono attraverso una netta differenza di ricchezza tra una tomba e l’altra, fino all’apparire delle “tombe a camera”, simili a quelle contemporaneamente in uso in Etruria, e manifestazione evidente dell’ormai avvenuto consolidamento delle aristocrazie gentilizie.

Planimetria della necropoli arcaica dell'Esquilino.
Planimetria della necropoli arcaica dell’Esquilino.

Dopo un vuoto di documentazione, corrispondente alla fase “arcaica” del VI e del V secolo a.C., proprio quella in cui la città può considerarsi ormai formata, l’Esquilino ci offre di nuova una ricca messe di ritrovamenti, relativa al periodo dell’alta e media Repubblica (IV-III secolo a.C.). Troviamo tombe a inumazione entro sarcofago di tufo (le «arche» delle relazioni di scavo ottocentesche), alla «cappuccina» (cioè di tegole disposte a doppia pendenza) e a incinerazione in urna di tufo, che ora divengono prevalenti. Accanto a questi sepolcri «poveri» vengono riportate alla luce le tombe aristocratiche (i cosiddetti «sepolcri singolari» delle relazioni di scavo): si tratta di ambienti rettangolari di dimensioni medie, costruiti interamente in blocchi squadrati di tufo, e ornati esternamente di semplici cornici. I più importanti tra essi fiancheggiavano le antiche strade (Prenestina, Labicana) che uscivano dalla Porta Esquilina, ed erano decorati all’interno di pitture, come i contemporanei ipogei etruschi. Di queste pitture ci sono rimasti solo pochi frammenti, che furono fortunatamente staccati prima che tutta la zona fosse ricoperta dai casoni umbertini del quartiere «piemontese», e trasportati nei Musei Capitolini, dove si possono ancora oggi vedere.
I due sepolcri decorati con pitture si trovavano l’uno in prossimità della Porta Esquilina (il luogo è oggi occupato da un grande edificio, compreso tra via Carlo Alberto, via Napoleone III e piazza Vittorio Emanuele). È molto probabile che l’uso fosse tutt’altro che raro in Roma: la facciata del sepolcro degli Scipioni, presso la via Appia, è anch’essa decorata con vari strati di pitture sovrapposte.
I nostri due sepolcri apparvero quasi contemporaneamente, nel 1875. Purtroppo, solo poche e scarne righe sono state pubblicate alla loro scoperta, così che ignoriamo di essa quasi tutto: il Lanciani afferma addirittura che le pitture di uno dei sepolcri (quello più antico) erano all’esterno del monumento: si tratta chiaramente di una svista, perché in realtà la decorazione era certamente all’interno.
Da questa tomba (la più vicina alla Porta Esquilina) è stato recuperato un solo frammento di affresco, alto appena 87, 5 centimetri, largo 45. Nonostante la sua esiguità, è questo uno dei più importanti documenti della storia e della storia dell’arte di Roma repubblicana. In esso, su quattro registri sovrapposti, sono rappresentate scene relative probabilmente alla seconda guerra sannitica (328-304 a.C.): combattimenti, assedi di città, trattative. Cosa particolarmente importante, i nomi dei personaggi principali sono iscritti accanto alle figure: sappiamo così che il più importante dei Romani si chiama Q. Fabio. È evidente che la tomba appartenga a uno dei membri di questa potente famiglia patrizia, che ha voluto far rappresentare in essa le sue imprese militari. Dovrebbe trattarsi di Q. Fabio Rulliano, uno dei più celebri generali romani, cinque volte console e trionfatore nel corso della seconda guerra sannitica. Si può anche fare un’ipotesi sull’autore delle pitture: l’unico artista a noi noto di questo periodo, e anche l’unico appartenuto a famiglia nobile, è Fabio Pittore, che trasmise il suo cognomen – derivato dalla professione – a un ramo della famiglia. Questi visse proprio negli anni della seconda guerra sannitica, quando decorò con pitture il tempio della Salus sul Quirinale, dedicato nel 303 a.C., proprio da un generale che avrebbe trionfato sui Sanniti. Non è quindi impossibile che Fabio Pittore, certamente parente di Q. Fabio Rulliano, abbia eseguito anche la decorazione dipinta della tomba dell’Esquilino. In ogni caso, il frammento superstite ci restituisce un’idea notevolmente precisa della pittura romana negli anni intorno al 300 a.C.: si tratta, a differenza della contemporanea pittura funeraria etrusca, di un’arte legata alla rappresentazione storica puntuale: una tradizione che risale ai quadri con scene belliche che venivano trasportati nel corso delle cerimonie trionfali, per esaltare la gloria dei generali vittoriosi. E questa tradizione costituisce uno degli elementi essenziali dell’arte romana: il modesto frammento dell’Esquilino è chiaramente un antenato della Colonna Traiana.

Un frammento di affresco con scene storiche relative alla II Guerra sannitica (328-304 a.C.); dalla Tomba di Quinto Fabio. Prima metà del III secolo a.C. Musei Capitolini.
Un frammento di affresco con scene storiche relative alla II Guerra sannitica (328-304 a.C.); dalla Tomba di Quinto Fabio. Prima metà del III secolo a.C. Musei Capitolini.

L’altra tomba dipinta scoperta accanto alla prima (detta Sepolcro Arieti, dal nome del suo scopritore) è assai più tarda della precedente, probabilmente della fine del II secolo a.C. Nonostante la rozzezza delle pitture, si tratta anche in questo caso del sepolcro di un generale romano. Le rappresentazioni superstiti costituiscono un ciclo completo, il cui significato è sufficientemente chiaro: scene di battaglia sulla parete destra, scene di trionfo su quella di fondo, supplizio dei prigionieri su quella d’ingresso. In conclusione, si tratta di nuovo di scene storiche, sia pure più generiche e riassuntive rispetto alla tomba più antica, e quindi forse di riproduzioni di quadri «trionfali», d’occasione (ciò che potrebbe spiegare anche la cattiva qualità). La presenza di un personaggio crocifisso ha fatto pensare che possa trattarsi della rappresentazione di una guerra servile: ora, l’unica guerra definibile come tale, in seguito alla quale sia stato celebrato un trionfo, è quella in Asia Minore contro Aristonico, conclusasi nel 129 a.C. In tal caso non è impossibile che la tomba possa appartenere al vincitore di quella guerra, M. Aquilio, che trionfò nel 126 a.C.: ciò si accorderebbe anche con la datazione tarda della tomba, deducibile sia dallo stile delle pitture, sia dal fatto che essa si sovrappone a un più antico sepolcro del III secolo a.C.
Lo scavo dell’Esquilino non restituì naturalmente solo materiali relativi a sepolcri. Esso portò alla scoperta, tra l’altro, di un ricchissimo complesso di oggetti votivi, soprattutto in terracotta, avvenuta a partire dal maggio 1887 nei pressi di via Merulana, e che si deve attribuire al santuario di Minerva Medica, che era in questa zona. Un’enorme quantità di oggetti votivi dello stesso tipo appariva contemporaneamente (1885-87) in varie zone lungo le rive del Tevere, in particolare presso l’isola Tiberina, dove era l’importantissimo santuario del dio della medicina, Esculapio. Queste scoperte furono dovute alla realizzazione dei «muraglioni» del Tevere, realizzati in seguito alla disastrosa inondazione del 1870, furbescamente interpretata come punizione divina per la presa di Roma da parte delle truppe italiane. Tra i vari progetti di sistemazione del Tevere che furono allora proposti ve ne fu uno di Garibaldi, che prevedeva addirittura l’eliminazione dell’isola Tiberina. Fortunatamente, ci si limitò a demolire il ponte Cestio, tra l’isola stessa e il Trastevere: demolizione che si manifestò in seguito del tutto inutile, se non dannosa.

Un conto archeologico.
Sarebbe troppo lungo fornire anche solo un elenco delle altre numerosissime scoperte degli ultimi anni del XIX secolo, realizzate in seguito a lavori edilizi. Una lista impressionante (limitata alle opere finite in proprietà al Comune dal 1887) è quella di Lanciani, che meglio di ogni altro era in grado di fare questi conti: «705 anfore con importanti iscrizioni; 2360 lucerne in terracotta; 1824 iscrizioni scolpite nel marmo o nella pietra; 77 colonne di marmo rosso; 313 pezzi di colonne; 157 capitelli di marmo; 118 basi; 590 opere d’arte in terracotta; 405 opere d’arte in bronzo; 711 tra gemme, pietre incise e cammei; 18 sarcofagi in marmo; 152 bassorilievi; 192 statue di marmo in buone condizioni; 21 figure di animali in marmo; 266 busti e teste; 54 pitture in mosaico policromo; 47 oggetti d’oro e 39 d’argento; 36679 monete d’oro, d’argento e di bronzo; e una quasi incredibile quantità di piccole reliquie in terracotta, ossa, vetro, smalto, piombo, avorio, bronzo, rame e stucco». Questo enorme materiale, e quello altrettanto imponente scoperto negli anni fra le due guerre, esposto per un certo tempo nell’Antiquarium del Celio, è da decenni chiuso in centinaia di casse, in attesa della ricostruzione dell’Antiquarium, irreparabilmente lesionato dai lavori della metropolitana, e in abbandono dal 1939[2].

Una scoperta di Rodolfo Lanciani.

Fotografia del 1885. Rinvenimento del cosiddetto «Pugilatore».
Fotografia del 1885. Rinvenimento del cosiddetto «Pugilatore».

Tra le tante scoperte di opere d’arte ne descriveremo una sola, non solo per l’obiettiva importanza degli oggetti, ma anche per le circostanze particolarmente curiose in cui essa avvenne, che possono dare un’idea dell’inesauribile ricchezza archeologica del suolo di Roma. Diamo la parola ad un testimone oculare, a Lanciani: «Nella primavera del 1884, una domanda fu fatta al governo nazionale e alla municipalità di Roma per l’istituzione di una “Società Drammatica Nazionale” e per la concessione di un appezzamento di terra su cui potesse essere costruito il teatro della Società. Essendo state accordate entrambe le richieste dalle autorità dello Stato e della città, la Società prese possesso di un bellissimo luogo sul pendio a est della collina del Quirinale, tra i giardini Colonna e il Palazzo Campanari, con la condizione che qualsiasi cosa fosse stata trovata nello sgombero, sarebbe divenuta proprietà dello Stato… Un sabato, il 7 febbraio 1885, verso il tramonto, un operaio occupato nel portar via le macerie che riempivano lo spazio tra la prima e la seconda fondamenta dei muri, scoprì l’avambraccio di una statua di bronzo che giaceva sulla schiena, alla profondità di 5 metri sotto il livello della piattaforma del tempio (del Sole). La notizia fu mantenuta segreta dall’appaltatore dei lavori fino al giorno seguente e quando gli ufficiali governativi si recarono sul luogo, la statua era già stata rimossa dal suo posto nascosto e di conseguenza noi non potemmo studiare e prendere nota delle circostanze della scoperta… questa nobile figura è alta 2 metri e mezzo, larga 66 centimetri di spalle, e rappresenta un atleta nudo o un uomo dal corpo atletico, nel pieno sviluppo della sua forza, le cui fattezze sono evidentemente modellata dalla natura; in altre parole esso è una statua-ritratto… L’eccitamento creato da questa straordinaria scoperta si era appena calmato, quando, circa un mese più tardi, una seconda statua di bronzo fu estratta dal terreno nelle stesse circostanze sopra riferite. La scoperta fu fatta fra il secondo e il terzo muro delle fondamenta, ad una profondità di 6 metri sotto il livello della piattaforma. Appena saputa la notizia, noi ci riunimmo subito sul luogo e fummo presenti quando apparve la testa della figura sopra il terreno e perciò potemmo seguire e studiare i più minuti dettagli della scoperta. Il più importante dato raccolto, mentre ero presente e seguivo la rimozione della terra nella quale il capolavoro giaceva seppellito, è che la statua non era stata gettata là, o seppellita in fretta, ma era stata nascosta e trattata con la massima cura. La figura, trovandosi in posizione seduta, era stata posta su un capitello di pietra dell’ordine dorico, come sopra uno sgabello e il fosso che era stato aperto tra le fondamenta più basse del tempio del Sole, per nascondere la statua era stato riempito con terra setacciata per salvare la superficie del bronzo da ogni possibile offesa.
Sono stato presente, nella mia lunga carriera nell’attivo campo dell’archeologia, a molte scoperte; ho sperimentato una sorpresa dopo l’altra; ho talvolta e per lo più inaspettatamente, incontrato reali capolavori ma non ho mai provato un’impressione straordinaria simile a quella creata dalla vista di questo magnifico esemplare di un atleta semi-barbaro, uscente lentamente dal terreno come se si svegliasse da un lungo sonno dopo i suoi valorosi combattimenti»[3]. Ora queste due statue, il cosiddetto Principe ellenistico e il Pugilatore, costituiscono uno dei principali vanti del Museo delle Terme.

Il cosiddetto «Principe ellenistico»; statua in bronzo fusa a cera persa del III-II sec. a.C. di ascendenza lisippea, raffigurante un giovane in nudità eroica appoggiato ad un'asta. Forse ritrae un principe seleucide, o Attalo II di Pergamo. Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme.
Il cosiddetto «Principe ellenistico»; statua in bronzo fusa a cera persa del III-II sec. a.C. di ascendenza lisippea, raffigurante un giovane in nudità eroica appoggiato ad un’asta. Forse ritrae un principe seleucide, o Attalo II di Pergamo. Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme.

Lo scavo del Foro romano.
Se l’esplorazione dell’Esquilino costituisce l’esempio più importante di uno scavo di recupero, determinato e condizionato dalle impellenti necessità di una frenetica attività edilizia, e quindi casuale, monco, mai esauriente dal punto di vista scientifico (tranne casi eccezionali), lo scavo del Foro costituì, invece, la più ampia realizzazione di carattere scientifico realizzata in Roma dall’archeologia ufficiale. L’area del Foro Romano si adattava singolarmente a una storia simile impresa: oltre alla sua ovvia importanza storica, giocava soprattutto il fatto che la quasi totalità della sua superficie si era conservata sgombra attraverso i secoli, assumendo l’aspetto di una grande area sterrata, destinata al mercato del bestiame: il Campo Vaccino, appunto. Questa condizione, abbastanza miracolosa, se si considera la posizione centrale dell’area, presentava del resto alcuni risvolti negativi: la facilità di accesso aveva facilitato scavi di rapina, soprattutto quelli, particolarmente perniciosi e distruttivi, avvenuti nel corso del Rinascimento. Già all’inizio dell’800, del resto, si erano iniziati i primi saggi di carattere esplorativo: Carlo Fea, nominato Commissario delle antichità nel 1801, aveva scavato intorno all’Arco di Settimio Severo, e questi scavi erano continuati, sotto l’occupazione napoleonica, ai piedi del Tabularium e alla Colonna di Foca. Più tardi, altre esplorazioni sotto la direzione di Fea e di Canina aveva riguardato il Tempio dei Castori, l’angolo occidentale della Basilica Giulia. Ma nel 1853 gli ultimi scavi (quelli immortalati da Giuseppe Gioacchino Belli) cessarono definitivamente. Essi saranno ripresi solo dopo il 1870.

L’opera di Giacomo Boni.
I primi saggi furono opera di Pietro Rosa e Giuseppe Fiorelli (quest’ultimo sarebbe poi divenuto famoso per aver impostato per la prima volta in modo scientifico gli scavi di Pompei). Ma l’evento fondamentale fu la nomina a direttore degli scavi, nel 1898, per opera dell’allora ministro alla Pubblica Istruzione, Guido Baccelli, di una delle più singolari figure dell’archeologia militante che abbia avuto l’Italia: Giacomo Boni. Egli era nato nel 1859 a Venezia, dove aveva avuto un’educazione fondamentalmente tecnica, conclusasi con gli studi di architettura. Il primo scavo fu da lui realizzato ai piedi del Campanile di S. Marco nel 1885. Chiamato a Roma nel 1888 come segretario della Regia Calcografia, e poi come Ispettore Generale ai Monumenti presso la Direzione Generale delle Antichità e delle Belle Arti (allora diretta da Fiorelli), ebbe modo di intervenire più volte per la salvaguardia delle basiliche romaniche di Puglia. Nel 1892 partecipò ai sondaggi archeologici nel Pantheon, e infine, nel 1898, divenne direttore degli scavi del Foro Romano. Ebbe inizio così un’intensissima stagione di scavi, che in pochi anni portò ad una serie di scoperte, tra le più importanti per la storia, specialmente arcaica, di Roma. In queste ricerche, Boni portava le sue notevolissime capacità tecniche: egli fu il primo ad applicare il metodo dello scavo stratigrafico, elaborato in precedenza dagli archeologi orientalisti e preistorici, nell’archeologia classica.
Inoltre, fu un pioniere anche nell’uso della fotografia aerea: celebri le sue fotografie del Foro dall’areostato, che diedero un notevolissimo contributo alla soluzione di vari problemi topografici, e permisero di scoprire, nel 1906, l’iscrizione di L. Nevio Surdino, l’autore del lastricato del Foro di età augustea, incisa sulle lastre stesse della pavimentazione, presso la Colonna di Foca. Il metodo di scavo adottato, più volte descritto dallo stesso Boni, era di una raffinatezza difficilmente raggiunta in seguito, tranne forse negli scavi preistorici. […] I saggi del Comitium, nel 1900, costituiscono il primo caso in Italia di una grande stratigrafia (23 strati, corrispondenti a 8 pavimenti) riprodotta a grandezza originale. Così egli descrive lo scavo nelle Notizie degli scavi del 1900: «Segnai gli strati del Comizio su regoli di legno tenuti in contatto con le pareti verticali delle rispettive trincee… Ognuno di questi strati testimoniava qualche residuo di vita del periodo al quale appartenne… perciò ebbi sempre cura di esaurire, per quanto era materialmente possibile, l’analisi di ogni singolo strato, entro l’area assegnata a ciascuna esplorazione, e di non passare al taglio di uno strato inferiore, senza averne prima diligentemente raschiata e spazzolata la superficie o lavata con una spugna. Di ciascuno strato feci scomparire le zolle e misi da parte i materiali più minuti o caratteristici avvolgendoli in una carta solida e chiudendoli in una speciale cassetta con tutte le indicazioni tipografiche e altimetriche necessarie, ogni serie di queste cassette rappresenta un’opera in più volumi».
In effetti, il lavoro di scavo e di classificazione fu così accurato, che ancor oggi, a distanza di tanti anni, è possibile consultare quest’«opera in più volumi» con piena fiducia, anche se purtroppo Boni non pubblicò gran parte dei suoi scavi. […]
Negli anni successivi, l’attività di Boni si sposta altrove: nel 1906 scavò nel Foro di Traiano, e si realizzò importantissimi saggi alle mura «serviane». Inoltre, si spostò a Venezia per eseguire scavi nella zona della sua prima esperienza archeologica, il Campanile di S. Marco, che era crollato nel 1902. Dal 1907, alla competenza del direttore del Foro fu affidato anche il Palatino: di qui ebbe inizio una seconda stagione di febbrile attività, con la scoperta della Casa dei Grifi, dell’Aula Isiaca, dei cosiddetti Bagni di Tiberio sotto la Domus Flavia.

Planimetria ricostruttiva dell'area del Comitium in età repubblicana. In alto a destra, i monumenti del Comitium in relazione ai livelli 1, 2, 3, 4 che corrispondono al 2°, 3°, 4°, 5° pavimento.
Planimetria ricostruttiva dell’area del Comitium in età repubblicana. In alto a destra, i monumenti del Comitium in relazione ai livelli 1, 2, 3, 4 che corrispondono al 2°, 3°, 4°, 5° pavimento.

Con la prima guerra mondiale l’attività di Boni sembrò arrestarsi definitivamente: responsabili forse la stessa guerra, una grave malattia nel 1916, ma soprattutto l’accentuarsi delle tendenze irrazionalistiche, che erano state sempre caratteristiche della sua cultura, sempre in bilico tra positivismo scientista e torbide tendenze nazionalistiche e addirittura razziste. Da questo punto di vista, anzi, Boni poteva considerarsi, culturalmente, uno dei precursori del fascismo: non a caso, egli fu creato senatore a vita già nel 1923, e il 27 aprile votò la fiducia a Mussolini. La sua attività sembrava ormai limitarsi (fino alla morte che sopravverrà il 10 luglio del 1925) ad una serie di curiosi revivals: come la ricostruzione, per incarico di Federzoni, dell’antico fascio littorio.
Giacomo Boni non può certo considerarsi un provinciale: nutrito fin dalla giovinezza di cultura anglosassone (conosceva a perfezione l’inglese, aveva corrisposto a lungo con Ruskin, e aveva intrattenuto rapporti con il movimento preraffaelita e con quello neogotico), egli è un tipico rappresentante del passaggio dalla cultura positivistica allo spiritualismo decadente che ormai dominava all’inizio del nuovo secolo. Sarà proprio la parte migliore della sua opera, quella di scavatore tecnicamente perfetto, a venir presto dimenticata. L’archeologia militante italiana, in particolare quella romana, sarà ormai caratterizzata dal disprezzo per lo scavo stratigrafico e dalla pratica corrente dello sterro indiscriminato, al servizio diretto dell’ideologia dominante.

Ricerca archeologica e positivismo.
Le speculazioni urbanistiche dell’aristocrazia e del «generone» della Roma Umbertina e le minuziose esplorazioni stratigrafiche di Boni avevano portato alla luce un’impressionante quantità di materiali e, con questi, un problema: le «origini di Roma». Terreno privilegiato di confronto tra archeologia e storia, la ricostruzione del periodo di «fondazione dell’Urbe», come si amava scrivere nei primi quarant’anni del XX secolo, ha interessato generazioni di studiosi.
Gli scavi del primo mezzo secolo di storia unitaria italiana aveva portato alla luce, oltre a minori elementi della Roma d’età regia, le necropoli arcaiche e i siti più antichi e sacri del Foro, più tratti delle mura Serviane, le tombe dell’Esquilino, il basamento del tempio di Giove Capitolino. L’archeologia positivista, impegnata nella meritoria impresa della «Carta Archeologica d’Italia», lavorava intanto, con le notevoli personalità di Angelo Pasqui, Adolfo Cozza e Raniero Mengarelli, alla scoperta delle culture del Lazio primitivo e delle contigue regioni dell’Etruria meridionale, offrendo allo studio comparativo grandi complessi arcaici laziali, etruschi e falisci. L’infaticabile opera di ricerca topografica, di scavo e di documentazione trovava il coronamento nelle straordinarie raccolte di antichità pre-romane del Museo di Villa Giulia, destinato – nell’ottica della terza Roma laica e liberale – a competere e superare le raccolte pontificie della seconda Roma, quelle dei Musei Vaticani e Lateranense.
Le sistemazioni teoriche di quegli anni oggi forse fanno sorridere. S’immaginava l’Italia preistorica percorsa da orde di popoli «palafitticoli», «remedelliani», «villanoviani», «appenninici» che corrispondevano ad altrettante culture archeologicamente definite: migrazioni di popoli incineratori, infiltrazioni di genti inumatrici prendevano corpo, come le «migrazioni barbariche» della tarda antichità e dell’alto Medioevo, sulla carta dell’Italia con i nomi delle antiche tribù della penisola pre-romana: Osci, Ausoni, Umbri, Latini, Etruschi, … Le origini di Roma diventavano così un fatto peninsulare, un problema da risolvere nel più vasto contesto della protostoria italiana. Al di là di alcune grossolanità del metodo e del linguaggio, questa è forse una delle maggiori e più significative conquiste della ricerca archeologica dell’epoca del positivismo. Tuttavia, con gli anni ’20 del XX secolo, lo spegnersi lento e progressivo di queste correnti di pensiero «positivo» ha portato con sé un vistoso regresso negli studi di protostoria in generale e della Roma arcaica in particolare. Prevalevano ora le correnti irrazionaliste strettamente collegate alle involuzioni politiche dei vari fascismi europei; ricordiamo qui di passaggio che, se l’archeologia di Roma imperiale era una delle bandiere del fascismo italiano, il nazismo con i suoi miti razzisti non era certo da meno, dal momento che giunse a sviluppare un «servizio archeologico» delle SS, il cui compito era quello di legittimare, ricercando documenti archeologici, le aspirazioni dell’espansione del III Reich sulla scia di vere o pretese diffusioni in Europa dei gruppi ariani e germanici in particolare.
[…] Il clima culturale tra le due guerre non era certo favorevole ad un razionale e scientifico procedere della ricerca su di un tema così delicato come quello delle origini di Roma. Da un lato proseguivano stancamente le discussioni sui temi «invasionisti» ereditate dalla tradizione precedente: la ricerca archeologica, si sa, dopo la grande fiammata settecentesca che ne aveva fatto la disciplina dell’avanguardia, si è sempre attestata su posizioni, se non retrive, certo di prudentissimo e lento rinnovamento della propria metodologia e della propria tematica scientifica. Dall’altro, le squille del regime fascista suonavano l’adunata attorno ai temi della Roma dell’imperialismo o, al più, del «genio italico». Oltre alle «quadrate legioni dell’Urbe» erano di moda gli Etruschi, gli Italici e in genere le popolazioni pre-romane della penisola, solo come motivo capace di giustificare sia il successivo primato di Roma sia l’oscuro principio – proprio del «precursorismo» fascista – dell’individualità e dell’autonomia delle culture maturate sul suolo italiano.
Le «origini di Roma» erano in certa misura un tema imbarazzante per i tempi. La dipendenza di buona parte della cultura della Roma primitiva dalle più progredite civiltà del Mediterraneo, da quella etrusca e quella greca in particolare, lasciava poco spazio alla propaganda del regime sulla «fatidica genialità della razza» e soprattutto suscitava moderati interessi negli studiosi, attratti da più seducenti temi che la voga intellettuale dell’epoca andava agitando. La stessa modestia – apparente più che reale – dei reperti protostorici romani poteva al più suscitare rievocazioni di un’Arcadia romulea, spesso mutuata dalla retorica dei poeti augustei, l’idea di un’età dell’oro palatina a contrasto con la grandezza imperiale dell’Urbe dei secoli successivi. La stessa critica storica positivista, impersonata dalle grandi figure di Julius Beloch ed Ettore Pais, concludeva in quegli anni la gigantesca opera di demolizione della tradizione antica sulla storia arcaica di Roma: si era gettata via come inverosimile tutta l’età regia, considerata pia leggenda elaborata in età tardo-repubblicana; quindi anche il primo secolo della repubblica aveva subito una profonda revisione, basata sul principio della reduplicazione degli avvenimenti storici e delle interpolazioni dovute all’intervento dei sacerdoti romani incaricati della registrazione delle vicende. In altre parole, le grandi famiglie patrizie della repubblica – secondo la critica positivistica – avevano fino al IV secolo manipolato fatti, date, battaglie, ora raddoppiando o ripetendo gli eventi, ora inserendo a bella posta nomi illustri come protagonisti di vicende gloriose.
Il principio metodologico in sé era giusto e sacrosanto. I Romani hanno scritto la propria storia solo molto tardi, verso la fine del III secolo a.C., e il sacerdozio del pontificato massimo, responsabile delle semplici (e pratiche) registrazioni annuali degli eventi, è rimasto appannaggio di poche, prestigiose famiglie, quasi sempre le stesse che erano state protagoniste della storia arcaica di Roma. Se il sospetto era giustificato in linea di principio, il limite del metodo era costituito dalla sua radicalità, che aveva finito con il cancellare come leggendaria o inventata tutta o quasi la sequenza dei fatti della Roma primitiva e della prima età storica. Non mancavano in quegli anni voci di dissenso, posizioni più pacate e contenute, come quella di Gaetano De Sanctis: ma la linea demolitrice della critica positivista aveva conquistato larghi consensi in Italia e fuori d’Italia, lasciando dietro di sé le ceneri della storia arcaica di Roma.
Gradualmente, però, a partire dalla fine degli anni ’30, l’archeologia e la storia ripresero in considerazione con occhi diversi la realtà della Roma più antica: la «grande Roma dei Tarquini», che la penna sapiente del grande filologo Giorgio Pasquali aveva ridisegnato, tornava a richiamare interessi e ricerche, mentre le stridenti cronologie «alte» della protostoria italiana, pensate dalla paletnologia degli inizi del secolo, e le fantasie invasioniste del positivismo trovavano un attento critico in Massimo Pallottino.
Ma l’ipercritica «positiva», nello stesso torno di tempo, trovava, con l’opera dei grandi archeologi svedesi Aake Aakerstroem ed Einar Gjerstad, una definitiva sistemazione in campo archeologico. Il primo riproponeva nel 1943 una nuova e più bassa cronologia della ceramica geometrica italiana derivata da quella greca, con la diretta conseguenza di una revisione delle datazioni della fase protostorica tra il IX e il VII secolo a.C. Il secondo, che con una monumentale ricerca aveva già negli anni ’30 rivisitato la complessa protostoria dell’isola di Cipro, negli anni ’50 iniziava una riedizione dei materiali archeologici della Roma arcaica, pubblicando vari volumi – l’ultimo è del 1973 – dal titolo Early Rome. […]

La Basilica Aemilia durante gli scavi di G. Boni (1900-1905).
La Basilica Aemilia durante gli scavi di G. Boni (1900-1905).

Distruggere per costruire.
Lo scavo archeologico […] è in sostanza un’opera di distruzione, quasi l’entrare in un archivio per smembrarlo; una volta disfatto quest’ordine di materiali, non è più possibile ricomporlo, per cui la «distruzione» dello scavo va fatta in maniera scientificamente sistematica, non solo raccogliendo la documentazione con minuziosità, ma ponendo delle domande al contesto archeologico in via di smontaggio, che forniscano tutti i possibili dati al problema cui ci si interessa. Lo scavo fatto nel XIX secolo, per quanto «scientifico» ed esatto, era condotto per rispondere alle domande che erano proprie degli interessi correnti a quell’epoca e che dipendevano direttamente dal grado di conoscenze complessive della cultura oggetto dello scavo stesso. In breve, il coccio dell’agger serviano di antica scoperta e di contesto inadeguato, raccolto con criteri inadeguati non è e non può diventare un argomento sufficiente per distruggere il complesso della tradizione tramandataci dagli storici antichi per l’età regia.
Ma lo scienziato svedese, cui va comunque tutta la nostra gratitudine per la gigantesca opera di raccolta dei dati, non si è fermato all’opera di demolizione. Convinto anch’egli che la tradizione non poteva essere rifiutata in blocco, ha compiuto una singolare operazione: stabilito che la fondazione di Roma doveva coincidere con un atto tangibile che socializzasse le esigenze politiche delle varie comunità sparse sui sette colli e fissato quest’atto nella pavimentazione del Foro da lui collocata su basi archeologiche intorno al 575 a.C., ha collocato la serie dei sette re della tradizione a partire da quella data, quasi due secoli più tardi della data tradizionale della fondazione, il 753 a.C. E, per tornare al nostro coccio attico dell’Esquilino, poiché si data al 470 a.C., esso finisce per essere veramente testimonianza dell’attività di Servio Tullio, che nei calcoli dei sette re del Gjerstad verrebbe a collocarsi proprio in quel torno di tempo!
Tutta questa lunga disamina delle teorie del Gjerstad era necessaria, dal momento che questa teoria, soprattutto fra gli storici, ancora in parte sotto il peso dell’immenso lavoro filologico del Beloch e del Pais, hanno trovato se non accoglienza incondizionata, almeno vasto interesse ed attenzione. L’archeologia del periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale è stata in gran parte paralizzata dalla polemica pro e contro le tesi dello studioso svedese […].
La polemica attorno alle idee di Einar Gjerstad fu senz’altro la motivazione principale del fiorire di esplorazioni su Roma e nel Lazio prima del IV secolo a.C. Ma va sottolineato anche che metodologicamente (beninteso, in senso lato) tale fioritura di esplorazioni ricalcava linee seguite nei decenni finali del XIX secolo: poiché Roma, come è stato detto, con il suo millenario sviluppo urbano, ha proverbialmente mangiato se stessa, è stato necessario ricercare nelle zone circostanti, nell’antico Lazio, nell’Etruria vicino a Roma, utili termini di paragone e situazioni teoricamente e praticamente analoghe a quelle che sarebbe vano sperare di trovare nel suolo di Roma. Le scoperte sono state insperabilmente ricche di dati e di importanti novità scientifiche, che hanno trovato consacrazione nella grande mostra di Roma del 1976 dal titolo Civiltà del Lazio primitivo. Questa esposizione, che agli occhi dei visitatori esibiva antiche, favolose scoperte, come le tombe principesche di Palestrina, accanto a sconvolgenti novità, come le grandi necropoli di Castel di Decima, ha indubbiamente rappresentato una svolta nelle ricerche sulle «origini di Roma» e ha consentito una riflessione in termini nuovi su questo problema storico di enorme portata. […]


[1] Orazio, Satire, I 8, 10-16: «hoc miserae plebi stabat commune sepulcrum/ … nunc licet Esquiliis habitare salubribus atque/ aggere in aprico spatiari, quo modo tristes /albis informem spectabant ossibus agrum».
[2] N.d.t.
[3] R. LANCIANI, L’antica Roma, Roma 1970, pp. 319-326.

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