Note sul medaglione di Ticinum

di Bruno Bleckmann, relazione al convegno internazionale di studio Costantino il Grande. Alle radici dell’Europa, 19 aprile 2012 (in Zenit.org).

1. Introduzione 

La situazione delle fonti determina che siano sempre le stesse testimonianze ad essere presentate e discusse in relazione alla svolta politico-religiosa di Costantino dopo la battaglia presso il ponte Milvio. A questo materiale documentario fondamentale appartiene il celebre medaglione d’argento che mostra Costantino con il cristogramma sull’elmo ed è noto in tre esemplari provenienti da tre diversi conii. È stato Alföldi ad illustrare l’importanza, che questa moneta riveste per la storia della svolta costantiniana. Nel secondo dei suoi articoli dedicati al medaglione egli però attribuisce alla testimonianza un onere della prova enorme: «il cristogramma sull’elmo dell’imperatore e lo scettro a forma di croce sul medaglione d’argento … dell’anno 315 sono già per sé una testimonianza perentoria della pubblica confessione della fede cristiana da parte di Costantino, così ferma e così sicura, come ve ne sono poche per svolte storiche così drammatiche». Successivamente, negli anni cinquanta, Konrad Kraft ha descritto l’esemplare di Monaco pubblicato per ultimo, il quale presenta la realizzazione del cristogramma di gran lunga più distinta. Kraft ha utilizzato le testimonianze di questo conio per prendere risoluta posizione contro la “liquidazione” della visione costantiniana operata da Henri Grégoire e la sua scuola. Kraft vide nel programma iconografico del medaglione la prova che il racconto cristiano della visione esisteva già prima di Lattanzio e che Costantino stesso fece documentare l’esistenza di tale racconto della visione con il cristogramma sul suo elmo.

Da allora il dibattito procede a ondate, ora se ne riconosce la forza argomentativa, ora essa viene sminuita. Se in un dibattito lungo oltre sessant’anni non è stata trovata una soluzione realmente convincente e un’interpretazione dei problemi relativi al medaglione di Ticinum, ciò è dovuto alla generale insolubilità della questione costantiniana, ma anche alla polivalenza di significati del reperto numismatico. Di seguito presenteremo in una sintesi concisa alcune questioni ancora aperte e altre ormai chiarite relative a questa moneta così importante per la ricerca costantiniana.

 

2. La discussione sulla data e sul luogo della coniazione: Ticinum 315

 

Costantino. Medaglione d’argento, Ticinum 315 d.C. D – Costantino, elmato e paludato, con trabea, elmo e globo, con Vittoria che lo incorona, e un cavallo sulla sinistra (IMPCONSTANTINVSPFAVG).
Costantino. Medaglione d’argento, Ticinum 315 d.C. D – Testa di Costantino elmata e paludata, con trabea, elmo e globo; testa di cavallo sulla sinistra (IMPCONSTANTINVSPFAVG).

Ritengo che sia fallito il tentativo di escludere il medaglione dalla discussione sulla svolta politica-religiosa avvenuta dopo il 312 attraverso una datazione più tarda e di collocarlo cronologicamente in un periodo, per il quale non si possa più mettere in dubbio un chiaro avvicinamento di Costantino alla Chiesa cristiana fino al punto di una professino di fede – non importa come essa vada interpretata – ad esempio come fa Bernardelli in un periodo dopo il 324, o von Schönebeck almeno in un periodo nel quale si inasprì lo scontro politico-religioso con Licinio.

Già la composizione con la sua tematica romana indica che la moneta è stata coniata poco dopo la conquista da parte di Costantino dell’Italia e le zecche di Massenzio. La data precisa del conio è stata accertata da Alföldi e Kraft con argomentazioni difficilmente contestabili. Le raffigurazioni frontali sono opera di un esperto incisore, il quale ha operato prima a Roma e Ostia, ma fu poi attivo dal 313 a Ticinum. Contemporaneamente alla rappresentazione quasi frontale di Costantino con l’elmo venne coniata una serie di solidi chiaramente riconducibili alla zecca di Ticinum i quali raffigurano Costantino frontalmente con il nimbus. Parallele alla rappresentazione del rovescio del medaglione con una scena di adlocutio, tali scene di adlocutio sono raffigurate inoltre anche in oro. Il gruppo di esemplari più particolarmente affini dal punto di vista stilistico al medaglione d’argento viene datato con sicurezza all’anno 315 grazie al legame con un conio che celebra l’inizio del quarto consolato di Costantino. Il medaglione rientra evidentemente in una serie di conii celebrativi, che furono commissionati per i decennali di Costantino.

Un’ulteriore argomentazione a favore del conio a Ticinum viene addotta da Maria R.-Alföldi sulla base del confronto con un solido oramai perduto della collezione di Breslavia che presentava le lettere identificative di conio SMT e che mostrava Costantino con il medesimo elmo, come il celebre medaglione.

Le probabili circostanze di ritrovamento non inficiano la datazione e lìattribuzione a Ticinum. Le monete sono state ritrovate singolarmente. Poiché gli esemplari coniati in puro argento e relativamente pesanti non erano in alcun modo mezzi regolari di pagamento, ma venivano consegnati a dignitari militari e civili quali regali in metallo nobile similmente a quanto avveniva successivamente con i pesanti miliarenses, dobbiamo presupporre che siano stati ritrovati nel contesto di tesori aurei. Poiché essi furono venduti senza alcuna indicazione riguardo al contesto di ritrovamento, risulta impossibile ottenere informazioni relative al primo proprietario. È tuttavia piuttosto sicuro che l’esemplare di Monaco provenga dall’area balcanica, dove finì sotto terra poco dopo esser stato coniato.

Proprio il luogo di ritrovamento nei Balcani di una moneta proveniente da Ticinum è pienamente compatibile con le vicende di Costantino: nel 316 Costantino entrò in guerra con Licinio e occupò l’Illyricum, dove soggiornò con la corte e l’esercito in modo durevole sino al 324. Esemplari del medaglione coniato nel 315 con la sua tematica militare possono essere stati portati nell’Illyricum da un officiale al seguito di Costantino.

L’unica possibilità di datazione alternativa che merita di essere discussa, poiché anche questa sarebbe conciliabile con la provenienza dai Balcani degli esemplari scoperti, presuppone che la moneta sia stata impressa nella zecca di Siscia. Una rappresentazione frontale di Costantino con il nimbus venne coniato in un multiplo aureo di Siscia, il quale mostra evidenti somiglianze con l’esempio di Ticinum. Poiché gli imperatori della tarda antichità portavano con sé nei loro spostamenti i loro thesauri con il relativo apparato, incisori della zecca di Ticinum potrebbero aver accompagnato l’imperatore nell’Illyricum, tanto più che là la coniatura in oro cessa intorno al 317. Una migrazione dei migliori artigiani, che è stata presupposta per le somiglianze fra Roma e Ticinum, potrebbe chiarire le somiglianze fra Ticinum e le zecche illiriche per il periodo successivo al 316/317.

 

3. La moneta nel contesto delle ulteriori testimonianze numismatiche sulla politica di Costantino dal 312 al 315/316.

 

Nel tentativo di delineare le testimonianze fornite dai conii sulla politica di Costantino a partire dal 312 bisogna prendere in considerazione in primo luogo le coniazioni in metalli preziosi. In generale si può infatti ammettere che il conio eseguito nel comitatus dell’imperatore reagisse meglio e con più immediatezza alle circostanze rispetto alla decentrata coniazione in bronzo, per la quale nuovi temi iconografici sono talvolta il risultato di una riforma monetaria, di una definizione del rapporto fra bronzo e metallo prezioso. Le coniazioni in metallo nobile devono inoltre essere poste in relazione a grosse donazioni che avvenivano per ragioni dinastiche e politiche e per le quali si può per ciò presumere l’esistenza di un legame contenutistico fra nuove effigi di moneta e l’occasione del donativo.

Costantino. Nummus, Roma 313 d.C. Æ 0,8 gr. R – SAPIENTIAPRINCIPIS, altare sormontata da una civetta, scudo e lancia.
Costantino. Nummus, Roma 313 d.C. Æ 0,8 gr. R – SAPIENTIAPRINCIPIS, altare sormontata da una civetta, scudo e lancia.

Le aspettative di ritrovare nelle effigi di moneta precisi riferimenti agli eventi della storia dovrebbero essere tuttavia attenuate. Per quanto riguarda i successi contro nemici esterni la novità delle sue vittorie sui Germani vengono certamente sottolineate, nonostante tutte le convenzioni nel linguaggio figurato, attraverso riferimenti chiaramente attualizzanti: sulle monete vengono celebrate vittorie sulle regioni sino ad allora sconosciute della Francia e Alamannia. Nelle monete con riferimenti alla politica interna e alla celebrazione della vittoria nella guerra civile manca al contrario questo piano dell’esplicito. Persino l’interpretazione del serpente sconfitto raffigurato sulla moneta SPES·PVBLICA di Costantinopoli quale tirannide di Licinio è inficiata da numerose incertezze. Le effigi per la vittoria su Massenzio per la loro dipendenza da temi e cliché già noti, che erano accessibili alla perizia dell’incisore, non accantonano accadimenti e aspettative attuali, ma d’altra parte non li traducono sempre immediatamente o con un linguaggio chiaro.

Partendo da questi presupposti, si può certamente tentare un`interpretazione delle monete impresse fra il 312 e il 315. Un gruppo di conii provenienti da Roma e Ostia è stato coniato immediatamente dopo la vittoria su Messenzio. Si tratta di monete, sulle quali come sull´arco trionfale, Costantino viene celebrato come liberatore e fondatore della pace e il suo esercito gallico viene elogiato: LIBERATORI·VRBIS·SVAE, FVNDAT·PACIS, VIRT·EXERCIT·GALL. Tuttavia insieme con queste monete vengono coniate numerose altre monete nelle quali i riferimenti alla vittoria non sono così chiaramente visibili: SOLI·INVICTO·COMITI, MARTI·CONSERVATORI, HERCVLI·VICTORI; GENIO·POPVLI·ROMANI.

Al contempo la coniatura costantiniana non smette di celebrare la vittoria su Massenzio, acquisendo i motivi della coniatura di Massenzio, che pone sempre in primo piano i rapporti particolari fra Roma e Massenzio, e utilizzandoli per la rappresentazione dei rapporti tra Roma e il suo salvatore Costantino. Ciò risulta evidente in una moneta di bronzo coniato presumibilmente nel 313 recante la legenda RECVPERATORI·VRB·SVAE. Similmente un conio PAX·AETERNA·AVG·N proveniente da Ostia, che sottolinea la particolare coesione fra Massenzio, l’esercito e Roma, venne variata a Ticinum e Treviri per Costantino e reinterpretata in modo da evidenziare il suo legame con la Pax e Roma. Anche il medaglione di Ticinum deve essere annoverato per alcuni dettagli (adozione sullo scudo della lupa capitolina, scena di adlocutio) in questa tipologia di revisione dei motivi della coniatura di Massenzio.

Costantino. Follis, Roma 314-315 d.C. Æ 3,53 gr. R – SOLIINVICTOCOMITI, statua del Sole stante verso sinistra, con globo e lancia. R sopra, X in basso a sinistra, F in basso a destra. RP in exergo.
Costantino. Follis, Roma 314-315 d.C. Æ 3,53 gr. R – SOLIINVICTOCOMITI, statua del Sole stante verso sinistra, con globo e lancia. R sopra, X in basso a sinistra, F in basso a destra. RP in exergo.

Al contesto della celebrazione della vittoria nella guerra civile appartiene inoltre il conio SPQR·OPTIMO·PRINCIPI realizzato nelle zecche di Roma, Ostia, Ticinum e Treviri, che mostra tre insegne militari piantate. In questa moneta si può innanzitutto notare un`allusione al culto, ancora curato da Costantino, delle insegne militari delle truppe che gli avevano assicurato la vittoria del 312. Il riferimento al trionfo del 312 viene però complicato dal riferimento al modello storico. È infatti noto che le monete costantiniane siano la copia esatta del modello traianeo. Una tale moneta sottolinea la legittimità del nuovo optimus princeps, la cui cura e forza militare ha liberato Roma dalla tirannia di Massenzio. Il messaggio è paragonabile a quello dell’arco di Costantino, sul quale il senato e il popolo (SPQR) tributano a Costantino la propria riconoscenza per aver liberato la città con il suo esercito e iustis armis. La sollecita salvezza della città rende Costantino un optimus princeps, che emula e persino supera Traiano. Come è noto anche altri indizi rimandano all’imitazione di Traiano legata al successo del 312, quali la nuova pettinatura dell’imperatore, come pure forse l`incorporazione delle spoglie dei monumenti traianei nel programma iconografico dell’arco di Costantino o la presunta occupazione del foro di Traiano con motivi costantiniani. Il conio SPQR·OPTIMO·PRINCIPI è però la più chiara testimonianza di questa imitatio Traiani.

Alla luce dell’adozione delle formule traianee si deve interpretare probabilmente anche un conio in oro proveniente da Arles, che in un primo momento si potrebbe facilmente collegare, per il suo insolito programma, a una dichiarazione politico-religiosa, cioè la moneta risalente al periodo di ri-orientamento politico-religioso, che celebra la PRINCIPIS·PROVIDENTISSIMI·SAPIENTIA e mostra una civetta con altri attributi di Minerva e che venne coniata ad Arelate, assai probabilmente da incisori trasferiti dalla zecca di Ostia. Questa moneta deve essere analizzata in combinazione con un conio, che celebra la VIRTVS·AVGVSTI e mostra un grosso leone, sul quale è visibile una clava posta di traverso. Bruun parte dal presupposto, che in questo conio perdurino ancora i ricordi dei motivi della dinastia tetrachica-erculea coltivati a Ostia.

Ora anche per regno di Traiano sono noti dei conii che mostrano leoni o pelle di leone in combinazione con una clava rivolta verso il basso. Nel disegno più recente di tutte le coniazioni traianee viene certamente riconosciuta nella rappresentazione della colonna con la civetta una contraffazione moderna. La combinazione di clava di Ercole e civetta di Minerva viene riscontrata però anche in quadranti dell’epoca traianea. L’imitazione attraverso i conii provenienti da Arles di un modello traianeo probabilmente scomparso rimane quindi una probabile possibilità interpretativa, che in ogni modo esclude qualsiasi riferimento ad attuali scelte politico-religiose di Costantino.

Immediatamente dopo la vittoria su Massenzio, Costantino e Licinio si incontrarono a Milano, dove fu celebrato il matrimonio fra Licinio e Costanza e cementata l’alleanza contro Massimino Daia. La cerimonia di Milano è la conseguenza del successo conseguito precedentemente con la vittoria al ponte Milvio, con la quale Licino riconosce il primo posto di Costantino nel collegio degli imperatori. Il grosso medaglione, che celebra l’ADVENTVS·AVGG, quindi l’arrivo e l’incontro di entrambi gli imperatori e che richiama l’attenzione sul rango preminente di Costantino con la legenda INVICTVS·CONSTANTINVS·MAX·AVG, viene posto solitamente in relazione con il soggiorno a Milano. Ma dalla moneta non è possibile evincere alcun riferimento all’accordo suggellato in quest’occasione dai due imperatori a favore del Cristianesimo o addirittura una professione di fede da parte di Costantino; al contrario Costantino viene rappresentato proprio in questa moneta con il nume tutelare Sol.

Costantino. Nummus, Roma 337-340 d.C. Æ 1,5 gr. R – VIRTVSAVGVSTI, figura dell’imperatore stante, con lancia e scudo.
Costantino. Nummus, Roma 337-340 d.C. Æ 1,5 gr. R – VIRTVSAVGVSTI, figura dell’imperatore stante, con lancia e scudo.

Nei conii presentati è certamente possibile rilevare o motivare i riferimenti alla vittoria del 312 e ai suoi effetti immediati, anche se essi rimangono in ogni caso sottili e sicuramente non esplicitano alcuna testimonianza su decisioni politico-religiose. Nelle monete coniate in occasione dei decennali del 315, che offrono il contesto immediato del medaglione, non è in alcun modo possibile rilevare il riferimento al successo nella guerra civile – a differenza dell’arco del 315, che richiama chiaramente alla memoria gli avvenimenti del 312. In primo piano è visibile la presentazione del carismatico e vittorioso dominatore del mondo. Sol invictus compare chiarissimamente, per esempio nei doppi ritratti, quale nume tutelare del sovrano. Le testimonianze dei conii dei decennali potrebbero essere comprese come formulazione di una rivendicazione di autocrazia rivolta contro Licinio. Soprattutto le monete coniate per quest’occasione, che mostrano Costantino stante frontale col nimbus e in posizione ieratica e che sono particolarmente collegate dal punto di vista tipologico al medaglione d’argento, associano il tema della vicinanza al dio del Sole con la celebrazione della continuità e della felicità del regno di Costantino. Sulla moneta recante sul verso la legenda GAVDIVM·ROMANORVM un trofeo con prigionieri seduti celebra la vittoriosità di Costantino, raffigurato sul dritto stante frontale in trabea e con una victoriola sul globus che lo incorona, con la legenda IMP·CONSTANTINVS·P·F·AVG. Una moneta, che data tutta la serie per la legenda P·M·TRIB·POT·CONS·III·P·P·PROCOS sul rovescio, mostra sul diritto un’identica rappresentazione. Sul rovescio Costantino è raffigurato sulla sedia curule, sul dritto nuovamente col nimbus e la victoriola che lo inghirlanda. Una terza rappresentazione di Costantino nimbato lo effigia soltanto con il globus e la destra alzata e esprime in maniera particolarmente chiara nella legenda del verso e nella figura la continua vittoriosità. Essa mostra Costantino in trabea insieme con una figura femminile cinta di corona turrita e con Victoria, che tiene una corona sul capo. La legenda recita VICTORIOSO·SEMPER. Un altro conio della serie di monete, in cui egli è rappresentato frontale e nimbato, celebra con motivi di Eroti cortesi e noti dall’affresco della volta di Treviri i FELICIA·TEMPORA cominciati con Costantino. Se il medaglione d’argento con la sua tematica legata alla città di Roma e i suoi rimandi alle monete di Massenzio richiama la vittoria del 312, possiede però indubbiamente una certa peculiarità, per quanto riguarda questo riferimento in confronto ai restanti conii del 315.

Come bilancio si può rilevare che le monete coniate dal 312 al 316, che in parte variano monete di Massenzio, in parte inventano nuove tematiche, costituiscono un sottile commento alla guerra civile e alla rivendicazioni autocratiche di Costantino collegate ai decennali. Non sono riscontrabili nelle monte impresse fra il 312 e il 316, se si ignora il caso eccezionale del medaglione, riferimenti a decisioni in favore del cristianesimo da parte di Costantino e in generale alla politica religiosa.

 

4. Motivi singoli sulla moneta

 

Mosaico parietale dal soffitto della volta del Mausoleo degli Iulii. Cristo nelle vesti di Sol Invictus guida il carro (dettaglio). Fine III secolo d.C. dalla Necropoli vaticana.
Mosaico parietale dal soffitto della volta del Mausoleo degli Iulii. Cristo nelle vesti di Sol Invictus guida il carro (dettaglio). Fine III secolo d.C. dalla Necropoli vaticana.

È già stato fatto notare che sul medaglione d’argento compaiono elementi del repertorio familiare a Ostia e Roma: questo riguarda la stessa rappresentazione frontale, ma anche la rappresentazione del busto con elmo e cavallo come per la rappresentazione della lupa capitolina sullo scudo. Questo motivo compare già sullo scudo della Roma rappresentata sul basamento della colonna di Antonino Pio. Sulle monete compare per la prima volta sullo scudo dell’imperatore Probo. Il valore simbolico non risiede esclusivamente nel riferimento a Roma, ma all’aeternitas della fondazione di Romolo e Remo. Ha perciò una qualità cosmica. Non solo Roma, anche il regno di Costantino stesso poteva rivendicare continuità. L’idea dell’Aeternitas Augusti viene variata in una sorprendente legenda di un medaglione eneo coniato a Treviri, nel quale l’imperatore stesso viene definito perpetuus: VICTORIAE·LAETAE·PRINCIPIS·PERPETVI.

Il punto focale di tutti i dibattiti è la rappresentazione del cristogramma sull’elmo. Il cristogramma è il simbolo scelto da Costantino della sua personale e duratura vittoriosità. I cristiani interpretarono questo simbolo che essi stessi non utilizzavano ancora e che venne evidentemente coniato nella cerchia di Costantino come le iniziali del nome di Cristo. Costantino stesso abbracciò in ogni caso questa interpretazione, subito dopo essersi dichiarato in maniera univoca. Si possono fare solamente congetture su un eventuale significato cosmico a sua volta racchiuso originariamente del simbolo che può essere variamente interpretato anche come stella a sei raggi fino ad arrivare ad associazioni con la croce ansata o altre interpretazioni. Per poter contestualizzare il medaglione di Ticinum si deve in conclusione osservare che il cristogramma non riappare più nelle monete posteriori come coccarda sull´elmo, ma solo sulla calotta stessa dell’elmo come evoluzione del segno zodiacale. Il già menzionato pezzo gemello in oro del medaglione, il perduto solidus di Breslavia mostra sì l’imperatore frontalmente e con l’elmo, ma senza cristogramma. Dal punto di vista tematico esso rimanda esclusivamente alla vittoriosità di Costantino, senza ricordare l’ausilio del dio cristiano. Stranamente fu proprio questa rappresentazione priva di qualsiasi connotazione religiosa a divenire modello delle coniazioni per i tricennalia di Costanzo II, che mostrano l’imperatore stante di fronte con elmo e lancia e che ebbero un grande influsso.

La legenda SALVS·REI·PVBLICAE si accorda alla rappresentazione di Costantino, come mostra il simbolo aeternitas sullo scudo e il cristogramma sull’elmo, di salvatore della res publica militarmente energico, che agisce con il sostegno divino e la cui azione assicura la continuità e la salvezza dello Stato romano. La legenda non ha qui alcuna connotazione dinastica, diversamente da un uso altrimenti attestato, che sottolinea la salvaguardia del bene pubblico attraverso la discendenza imperiale; essa mostra l’optimus princeps forte militarmente che agisce per il bene dello Stato. La legenda SALVS·REI·PVBLICAE non compare per combinazione su un conio, che ritrae Costantino, il nuovo Traiano, sul nuovo ponte sul Danubio presso Oescus, mentre egli protegge il mondo civilizzato dai barbari del Danubio. Le coniazioni di Vetranio, che mostrano l’imperatore come SALVATOR·REI·PVBLICAE con lo stendardo del cristogramma e la lancia, chiariscono ciò che si vuole esplicitare: lo Stato viene preservato dalla vittoriosità del sovrano carismatico.

Elmetto romano crestato e tempestato di pietre preziose. Dal cosiddetto «Tesoro di Berkasovo», primo quarto del IV secolo d.C. Muzej Vojvodine di Novi Sad.
Elmetto romano crestato e tempestato di pietre preziose. Dal cosiddetto «Tesoro di Berkasovo», primo quarto del IV secolo d.C. Muzej Vojvodine di Novi Sad.

Nell’accentuazione degli aspetti militari del potere assoluto colpisce, in corrispondenza dell’importanza della cavalleria pesante nell’esercito, l’enfatizzazione dell’elemento dei cavalieri. Il motivo del cavallo condotto a briglia compare già nelle coniazioni di Probo o di Massimiano, per i quali dobbiamo presupporre una simile rilevanza della cavalleria nei loro eserciti. Il rapporto speciale con la cavalleria diviene però evidente soprattutto nella scena di adlocutio, nella quale Costantino, diversamente dal modello originale, si rivolge non solo ai fanti ma anche ai cavalieri. Qui sono rintracciabili analogie con altre coniazioni: i multipla provenienti da Nicomedia risalenti al periodo dopo il secondo conflitto celebrano l’EQVES·ROMANVS e mostrano un eques a cavallo. Poiché egli viene rappresentato con la destra alzata, si deve ritenere si tratti dell´imperatore stesso, che qui rimanda al suo speciale attaccamento alle truppe di cavalleria più che a antiche tradizioni romane. Un singolo cavaliere si trova sullo scudo del solidus di Breslavia. Solitamente nel caso di simboli sullo scudo si deve pensare a raffigurazioni connotate in senso religioso, ad allusioni a numi tutelari. Rimane incerto se la raffigurazione assai comune di un cavaliere sullo scudo consenta o meno una tale interpretazione. Potremmo scorgerne un indizio nel racconto di Zonara dei prodigi verificatisi nelle battaglie di Costantino. Zonara racconta l’apparizione piuttosto singolare di un cavaliere che venne interpretata in chiave cristiana: «Si narra che nella battaglia contro di lui (Licinio) o in quelle contro Massenzio Costantino vide un cavaliere armato, che recava invece di uno stendardo il segno di una croce e avanzava dinanzi al suo spiegamento di battaglia». A questo racconto prodigioso Zonara ne aggiunge un secondo, nel quale riferisce le azioni di due giovani apparsi a Costantino nell’atto di combattere al suo fianco: «ed egli vide nuovamente ad Adrianopoli due adolescenti, che batterono le fila dei nemici». Dal succinto riassunto dell’autore bizantino non si evince tuttavia se questi adolescenti fossero a cavallo. In rapporto con la tematica romana del medaglione di Ticinum ed il risalto dato alla tematica equestre si ricavano comunque indizi che la stilizzazione di Costantino come eroe equestre possa indurre a prendere in considerazioni legami con i Dioscuri (rappresentati con i loro cavalli in una straordinaria moneta dell’epoca massenziana), verso i quali l’imperatore nutriva una particolare venerazione ancora percepibile nel progetto di costruzione di Costantinopoli.

Un ulteriore problema interpretativo è rappresentato dall’oggetto che Costantino reca nella mano sinistra sullo scudo, mentre con la destra tiene la briglia del proprio cavallo (questo secondo elemento compare anche in altre monete, e ciò consente di escludere qualsiasi legame con un peculiare carattere di insegna della briglia del cavallo). Andreas Alföldi ha interpretato l’insegna come uno scettro crociato, Maria R. Alföldi invece come estremità di una lancia puntata verso il basso. L’ipotesi dello scettro a forma crociato sarebbe da escludere, in quanto il raddoppiamento delle sfere (globus piccolo e grande) non sarebbe plausibile, giacché uno scettro non potrebbe essere tenuto nella mano sinistra accanto allo scudo ecc. Il medaglione mostrerebbe il momento «nel quale Costantino, giunto al piazzale dell’appello, è appena smontato da cavallo, azione per la quale si aiuta con la lancia rovesciata». R. Göbl ha confutato la tesi di Maria R. Alföldi in una dura risposta e facendo riferimento al fatto che le estremità delle lance rovesciate sulle monete non hanno sfere di differente, ma di eguale grandezza. Egli rimanda ad esempi posteriori di scettri crociati, che uniscono un globus ad una croce. Il dibattito riguardante l’oggetto tenuto da Costantino ha ricevuto ulteriore vigore dal ritrovamento a Roma di parti di uno scettro, che è stato attribuito in modo forse precipitoso a Massenzio. Sulla base di questi ritrovamenti Ehling ha di nuovo interpretato la barra trasversale come un disco, che non sarebbe stato, come afferma R.-Alföldi, parte della terminazione di una lancia, ma un elemento dello scettro, proponendone una ricostruzione. In ciò egli tralascia le argomentazioni addotte da Göbl, che, cioè, un incisore scrupoloso sarebbe stato ovviamente in grado di rappresentare prospetticamente un disco di traverso.

G. Rava, Costantino e un centurione di Massenzio negoziano prima della battaglia di Ponte Milvio.
G. Rava, Costantino e un centurione di Massenzio negoziano prima della battaglia di Ponte Milvio.

Entrambe le interpretazioni conducono a sicure aporie. L’interpretazione dell’oggetto come scettro crociato presuppone che si tratti della rappresentazione sperimentale di una nuova insegna che non trova alcun riscontro nelle successive raffigurazioni dell’imperatore. Là, dove in epoca teodosiana lo scettro crociato è stato ulteriormente sviluppato, non compare mai una combinazione in cui la sfera si trovi sopra il simbolo della croce e occupi per così dire lo spazio del braccio superiore della croce. Se proprio il globus svolge un qualche ruolo, esso si trova sotto la struttura della croce. È problematico se lo scettro crociato potesse essere tenuto nella mano sinistra sopra lo scudo. Si deve inoltre far presente che nelle altre rappresentazioni, nelle quali Costantino stringe uno scettro, egli viene ritratto in trabea. Questo vale, come pare, anche per rappresentazioni di scettri a forma di croce risalenti all’epoca teodosiana, mentre le rappresentazioni in abiti militari mostrano l’imperatore con la lancia sulla spalla. In ogni caso si dovrebbe esaminare quale funzione nel cerimoniale abbia rivestito la combinazione fra scettro e abiti militari. Si potrebbe ricercare la risposta nell´ambito della cerimonia dell’adventus. Paragonabile sarebbe ad esempio la rappresentazione sul verso di un solido proveniente da Antiochia, che venne coniato per l’arrivo dell’imperatore previsto per il 325 recante la legenda ADVENTVS·AVGVSTI N, sul l’imperatore tiene chiaramente non già una lancia, come ritiene Bruun, ma piuttosto una sorta di lungo scettro (baculus), il cui disegno è stato sviluppato probabilmente attenendosi ai modelli dello scettro per i trionfi.

Per ciò bisogna considerare anche alternative: la rappresentazione della statua che Eusebio descrive nella sua storia ecclesiastica, indica un’insegna militare, che viene interpretata come simbolo di salvezza, così come in generale nelle rappresentazioni di Costantino la croce e l’insegna (signum) vengono messe in relazione, mai però una croce e uno scettro. L’imperatore viene rappresentato con l’insegna portatrice di vittoria sulla celebre moneta di Vetranio, dalla quale emerge chiaramente che non il cristogramma deve portare la vittoria, ma il signum, l’insegna prodigiosa e magica. Costantino si mostra con il signum prodigioso, che altrimenti reca il cristogramma, su una coniazione di Siscia. Una tale insegna su un busto, che mostra l’imperare loricato e dotato di elmo con una lancia poggiata sulle spalle o portata in avanti, potrebbe sostituire per quanto riguarda la funzione questa lancia.

Per interpretare l’emblema portato dall’imperatore come insegna militare, l’oggetto visibile sopra l’asta trasversale dovrebbe essere identificato non con una sfera, ma con un disco. Questa esegesi viene resa plausibile dai paralleli con un conio di Valentiniano II. L’oggetto, che deve essere interpretato non come uno scettro, ma come un`insegna militare simile ad un giavellotto, mostra al di sopra dell`asta trasversale un oggetto, che si lascia interpretare come un disco con il monogramma di Cristo. La configurazione, per la quale il cristogramma non viene mostrato sul drappo del vexillum, ma come disco al di sopra del vexillum, corrisponde al grandi linee alla descrizione di Eusebio (VC 1, 31, 1): «un’alta picca rivestita d’oro aveva un’asta trasversale così da creare la forma di una croce. Sul sommo di tutto era fissata una corona intrecciata con pietre preziose e oro, sulla quale due elementi, che alludevano al nome di Cristo, indicavano il nome del Salvatore con le iniziali la lettera rho veniva intersecata al centro dal chi. Successivamente l’imperatore era solito portare queste lettere sull’elmo».

Come tutte le interpretazioni anche questa non è del tutto convincente. In particolare deve essere certamente chiarito perché non si possa riconoscere nella rappresentazione il drappo della bandiera descritto da Eusebio in modo minuzioso ma con dettagli anacronistici. Il rovescio del medaglione è qui forse illuminante. Sul labaro con il drappo della bandiera a cui si è accennato sono visibili tuttavia l´asta e la barra davanti al drappo. Forse la rappresentazione del medaglione fu ispirata dall´interpretazione privilegiata dai cristiani, che, cioè, sull´insegna militare l´intersezione (nella forma di una croce) fra barra e asta fosse l´elemento centrale. Potrebbe egualmente pensare ad una ispirazione della forma di un tropaeum (vid. Nr. 8). In ogni caso la rappresentazione del nuovo labaro portatore di vittoria immediatamente prima del conflitto con Licinio – per il quale poi l’efficacia del labaro fu sottolineata espressamente nei racconti dell’imperatore – apparirebbe più comprensibile su una moneta in occasione dei decennali che uno scettro crociato in seguito non più utilizzato.

 

Peter Connolly, Battaglia di Ponte Milvio. I cavalieri di Costantino (dettaglio).
Peter Connolly, Battaglia di Ponte Milvio. I cavalieri di Costantino (dettaglio).

5. Riassunto

 

I decennali del 315, che costituiscono ancora lo sfondo interpretativo del medaglione di Ticinum, collegano il giubileo dell’imperatore al ricordo della vittoria del 312 e alla previsione di nuove sfide che il crescente attrito con Licinio lasciava presagire. Entrambi i temi – il ricordo e il programma per il futuro imminente – sono interconnessi: il ricordo della vittoria contro Massenzio e della presa di possesso dell’Italia acquistò nuova attualità in un’epoca, nella quale i due sovrani lottavano per la divisione dell’Impero romano e nella quale Licinio, in quanto sovrano delle redditizie provincie orientali e del serbatoio di reclute illiriche, aveva un peso pericolosamente maggiore. In questa situazione Costantino fece rievocare la sua vittoria del 312 con riferimenti alla città di Roma, non soltanto sull’arco di Costantino, ma anche sul medaglione coniato in occasione della celebrazione dei decennali. In modo programmatico su una moneta coniata in argento quale dono per gli ufficiali della cavalleria che simpatizzavano per il cristianesimo fu annunciato in riferimento ai conflitti imminenti, che la salvezza dello stato romano poteva essere garantita da Costantino, dai suoi cavalieri e dalle sue armi, efficaci grazie al sostegno divino, e dell´insegna militare.

 

Bibliografia:

 

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L’atteggiamento dei cristiani verso il potere e l’Impero prima di Costantino

di M. Rizzi, relazione al convegno internazionale di studio Costantino il Grande. Alle radici dell’Europa, 19 aprile 2012 (in Zenit.org).

Le complesse motivazioni che hanno condotto Costantino alla scelta di legittimare prima, e sostenere poi il Cristianesimo sono state oggetto di molteplici studi […]. Il mio contributo si propone, più limitatamente, di indagare l’evoluzione dell’atteggiamento dei gruppi cristiani nei confronti del potere politico – e specificamente verso quello di Roma – nell’arco di tempo che va dalla metà del primo secolo sino alla svolta costantiniana, per verificare se anche ciò abbia in qualche modo potuto concorrere ad essa.

Anticipando le conclusioni di quanto cercherò di mostrare, si può affermare che accanto ad una linea di pensiero che mantiene a lungo il carattere di generica riflessione sul potere nelle sue varie manifestazioni e sugli obblighi dei cristiani verso di esso, si è progressivamente venuta elaborando, specie in Occidente, una più puntuale riflessione sui caratteri e le funzioni proprie dell’Impero romano; una dinamica che risulta tanto più significativa perché sviluppatasi in parallelo allo strutturarsi dell’organizzazione ecclesiastica nella forma del mono-episcopato cittadino e, nella pars occidentis dell’Impero, della sua gravitazione su Roma.

Vespasiano. Denario, Roma 69-70 d.C. Recto: Personificazione della Giudea in catene a destra di un trofeo; Iudaea (in exergo).
Vespasiano. Denario, Roma 69-70 d.C. Recto: Personificazione della Giudea in catene a destra di un trofeo; Iudaea (in exergo).

Al cuore della prima fase della riflessione cristiana sul potere, sta un problema molto concreto e sentito nel contesto giudaico prima, e poi più generalmente nella sensibilità delle popolazioni orientali sottomesse a Roma, ovvero quello della tassazione.

Nella formulazione paolina del tredicesimo capitolo della Lettera ai Romani («rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse, le tasse; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore»), che nel corso dei secoli ha rappresentato il testo chiave di ogni teologia politica cristiana, sono nitidamente individuate le due forme di tassazione proprie del sistema fiscale romano: l’imposta capitaria sulle persone e i patrimoni (phóros/tributum), inteso quale segno di sottomissione al potere del vincitore, e quella indiretta sulle attività e le transazioni economiche (télos/vectigal); accanto ad esse, viene distinta l’obbedienza dovuta a chi esercitava il potere giudiziario, su delega dell’autorità superiore, per giudicare e reprimere il crimine (phóbos/timor), dalla sottomissione riservata al detentore del potere politico in quanto tale (timḗ/honor).

Così, pur indirizzate ai cristiani di Roma dove risultavano immediatamente tangibili, le parole di Paolo conservavano il loro pieno significato anche in altri contesti geografici e sociali, in accordo con le forme dell’articolazione gerarchica e personale con cui tali poteri venivano concretamente esperiti dai primi cristiani che li identificavano nel locale esattore delle tasse o nei soldati preposti all’ordine pubblico piuttosto che in altre figure intermedie.

Paolo di Tarso. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro
Paolo di Tarso. Affresco, fine III-inizi IV sec. d.C. Roma, Catacombe dei SS. Marcellino e Pietro.

La riflessione di Paolo, pur ancora nell’orizzonte di un’escatologia imminente, si sforza così di dettare una serie di indicazioni valide per il tempo di sospensione che da quello separa ancora il presente; per contestualizzarle in dettaglio, sappiamo ad esempio da Tacito che in quel torno di anni la popolazione di Roma era in subbuglio per il peso del carico fiscale, cosa che indusse Nerone ad una parziale modifica del sistema daziario.

Le affermazioni paoline avevano dunque con ogni probabilità una portata del tutto contingente, senza essere state pensate dallo stesso Paolo come un precetto assoluto – come peraltro l’esegesi antica tenne fermo a lungo, risultando in ciò assai più avveduta di molta esegesi “scientifica” moderna; erano tuttavia destinate a caricarsi di una portata ben più ampia, come detto.

Scrivendo qualche decennio più tardi, l’autore della prima lettera di Pietro riprende letteralmente parecchie delle idee paoline sul rapporto di subordinazione dei cristiani nei confronti dell’autorità, sforzandosi però di collocarle in termini più efficaci dal punto di vista politico-amministrativo, distinguendo il basileús dai «governatori inviati da lui», e senza menzionare direttamente le tasse.

Il timore (phóbos) questa volta viene riservato a Dio, mentre si ribadisce come l’onore (timḗ) vada tributato al basileús; fattore unificante (lo ritroviamo anche nella prima lettera di Timoteo) dell’atteggiamento dei cristiani verso il potere diviene la preghiera in favore dei governanti, che viene presentata come una manifestazione libera e spontanea di lealismo, andando a sostituire su di un piano spirituale il tributo materiale e imposto della tassazione – ovviamente a livello di enunciati prescrittivi, perché dopo le parole fatte apporre da Pilato sulla croce di Gesù secondo il vangelo di Luca, aperte rivolte fiscali sono sempre rimaste tendenzialmente estranee alla prassi cristiana dei primi secoli.

Nerva. Sesterzio, Roma 97 d.C. Æ 25 gr. R – FISCIIVDAICICALVMNIASVBLATA. SC divise da una palma.
Nerva. Sesterzio, Roma 97 d.C. Æ 25 gr. Recto: legenda – fisci Iudaici calumnia sublata / s(enatus) c(onsultu). Una palma.

Questa linea di pensiero, che imposta l’atteggiamento cristiano verso il potere attorno all’idea della sottomissione e del lealismo testimoniati dalla preghiera, si snoda senza soluzione di continuità dalla fine del I secolo sino alla metà del III, a partire dalla lettera di Clemente Romano ai Corinzi, che ribadisce il dovere della preghiera per i regnanti, passando per Giustino, che unitamente alla riaffermazione della fedeltà fiscale dei cristiani cerca di depotenziare ogni implicazione politica del concetto di «regno di Dio» dichiarandone la natura esclusivamente spirituale e ultraterrena, sino a Origene, che ne rappresenta il momento speculativamente e teologicamente più avanzato e avvertito.

Questi, nel contesto del dibattito che travagliava le chiese sull’atteggiamento da assumere nei periodi di persecuzione, non esita ad affermare sulle orme di Paolo il dovere dei cristiani di restare sottomessi pure ad un sovrano ingiusto e persecutore, che comunque dovrà rendere conto di sé a Dio nel momento del giudizio; del resto, per Origene, il potere politico viene esercitato nell’ambito di quella dimensione terrena che il cristiano è chiamato a trascendere per attingere già in questa vita alla vera realtà spirituale.

Se, nella prospettiva cristiana, l’esercizio dell’autorità secolare acquisiva in questo modo un proprio statuto autonomo di legittimità, legato all’idea di legge naturale universalmente conoscibile che deve ispirarne l’azione, una tale posizione scontava due gravi limitazioni agli occhi dei detentori del potere imperiale: anzitutto una certa indeterminatezza storico-politica, per cui qualsiasi autorità risultava di fatto fungibile da parte dei cristiani, senza che una eventuale incorporazione del loro Dio nel pantheon romano ne garantisse appieno la fedeltà, dato il carattere universalistico e non etnico-territoriale della loro religione, diffusasi anche al di fuori dei confini dell’Impero (e in questo senso è significativo il protettorato che Costantino proclamerà nei confronti del cristiani residenti al di fuori dei suoi diretti dominii all’indomani dell’accesso al potere anche nella pars orientis dell’Impero).

Soprattutto, a distanza di settant’anni da quando Celso, a nome di Marco Aurelio, aveva sollecitato i cristiani ad assumere un ruolo più attivo nella difesa militare e nella gestione politica dell’Impero (specie delle concrete vicende dell’autogoverno cittadino), la risposta di Origene non andava al di là di reiterate proclamazioni di lealismo e promesse di preghiere, nonostante l’estensione universale della cittadinanza avvenuta con la Constitutio Antoniniana e lo stesso avvicinamento delle élites cristiane al potere imperiale nel periodo della ben disposta dinastia severiana.

Sarà solo con l’editto di Serdica del 311, che l’autorità romana, nella persona di Galerio, accetterà controvoglia le preghiere dei cristiani, inserendole, sia pure con difficoltà, nel tradizionale schema teologico- politico romano della pax deorum: «Poiché vedemmo che essi non tributavano la dovuta venerazione agli dèi celesti e che neppure onoravano il Dio dei cristiani (…) in conformità a quanto da noi disposto, i cristiani sono tenuti a pregare il loro Dio per la salvezza nostra, della res publica e di loro stessi, affinché in ogni modo la res publica si confermi integra ed essi possano vivere sereni nelle loro case».

M. Aurelio Numeriano. Antoniniano, Lugdunum 284 d.C. AR-Æ 3, 41 gr. Obverso: Statua della Pace, stante verso sinistra, reggente un ramo d’olivo nella destra e uno scettro, posto di traverso nella sinistra; legenda: Pax Aug(usti); B, punzonata a sinistra della figura.

Che per di più tra i cristiani dei primi secoli l’ermeneutica delle parole di Paolo non fosse solo quella che sfociava nel lealismo e nelle preghiere per i sovrani, bensì fossero possibili sulla loro base anche atteggiamenti che agli occhi delle autorità romane dovevano risultare quanto meno ambigui, è testimoniato dal breve resoconto degli atti dei martiri scilitani, risalenti al 180; il loro portavoce, Sperato, ha con sé proprio le lettere di Paolo «un uomo giusto» e per definire la sua posizione afferma di non aver commesso furto, bensì di aver pagato la tassa (teloneum) ogni volta che ha acquistato qualcosa, perché «conosco il mio signore (dominum), re dei re (rex regum) e imperatore (imperator) di tutte le genti», anche se «non conosco l’Impero (imperium) di questo mondo».

Dal canto suo, Donata, una sua compagna, non esita a proclamare «onore a Cesare come Cesare, ma timore a Dio (honorem Caesari quasi Caesari; timor autem Deo)»; la precisione della terminologia politica e amministrativa utilizzata mostra come il pagamento a Cesare delle tasse sulle transazioni non comporti nessuna ammissione di appartenenza o sottomissione che travalichi il semplice svolgimento ordinato della vita quotidiana: l’assenza di ogni menzione del tributum, la tassa capitaria, è altrettanto eloquente del rifiuto esplicito di riconoscere l’Impero e l’imperatore di questo mondo, in quanto tale e non come semplice Cesare. E il timore, come nel caso della prima lettera di Pietro, è riferito piuttosto a Dio, sommo giudice, che ha insegnato ai cristiani a non rubare, a non dire falsa testimonianza e a non uccidere.

Proprio nel drammatico contesto dell’ondata persecutoria accesasi intorno all’ultimo quarto del secondo secolo, di cui gli atti dei martiri scilitani sono testimonianza, la riflessione cristiana inizia a interrogarsi sulle condizioni e le caratteristiche specifiche del potere incarnato da Roma e dai Romani, avviandosi a superare la genericità delle indicazioni di matrice paolina sin lì dominanti.

Nel celebre frammento della sua apologia, trasmessoci da Eusebio di Cesarea, Melitone vescovo di Sardi sviluppa tre idee, di differente provenienza e destinate ad avere altrettanto diversa fortuna negli autori e nei decenni immediatamente successivi. La più celebre è legata al cosiddetto “sincronismo augusteo”, ovvero alla presunta coincidenza cronologica tra la fondazione dell’Impero da parte di Augusto e la diffusione al suo interno del Cristianesimo.

Nonostante la storiografia più recente, soprattutto di area anglosassone, abbia voluto vedere un antecedente esplicito di questa posizione nell’opera lucana, sino a spostare molto in avanti – addirittura in epoca adrianea – la redazione degli Atti degli Apostoli per farla coincidere con un periodo di relativa tranquillità per la nuova religione, è solo con Melitone che una simile affermazione viene formulata con nettezza.

Tuttavia, Melitone risulta meno ingenuo di quanto in genere gli storici siano disposti a concedergli. Infatti, egli si mostra ben cosciente della genesi sostanzialmente allotria del cristianesimo rispetto all’orizzonte propriamente romano, affermando che esso si è diffuso anzitutto tra i barbari, intendendo con ciò tutta l’area mediorientale piuttosto che il solo ambito giudaico, e riconoscendo altresì come per la sua propagazione si sia giovato del periodo di pace e stabilità garantite dall’Impero sino a Nerone e Domiziano, i quali furono non solo persecutori dei cristiani, ma pure causa di guerra civile o di sollevazioni senatorie che misero a repentaglio quella medesima pace e stabilità.

È questa la seconda idea teologico-politica melitoniana, ovvero l’associazione tra persecuzione, crisi dell’Impero, morte infamante dei persecutori, che si tradurrà di lì a poco nel tópos storico-letterario De mortibus persecutorum, e manterrà inalterata la sua fortuna anche in epoca costantiniana. Centrale per il superamento dell’originaria estraneità cristiana a Roma e alla sua cultura è però il terzo fattore, ovvero la presentazione del Cristianesimo come “filosofia”, sulle orme di una tradizione che si era avviata Aristide e si prolunga nella seconda generazione degli apologisti cristiani.

Questa identificazione era stata resa possibile dalla svolta ellenizzante di Adriano, che aveva definitivamente legittimato la presenza e il ruolo sociale della filosofia, fin lì considerata a Roma e nella cultura latina un prodotto d’importazione. Non è un caso che Melitone menzioni proprio Adriano, unitamente ad Antonino Pio, in chiara opposizione a Nerone e Domiziano, che furono protagonisti non solo delle persecuzioni religiose, ma anche di una dura repressione anti-filosofica.

Omelia attribuita a Melitone di Sardi. Retro del P.Mich. 5552, con parti del Libro di Enoch. IV secolo d.C. dall’Egitto. University of Michigan, Ann Arbor Library.

In questo modo Melitone, pur riconoscendo l’origine non romana e “barbarica” del Cristianesimo, lo associava ad una pratica culturale ed esistenziale che inizialmente era stata vista come altrettanto estranea e sospetta, ma che ora risultava pienamente integrata nella cultura imperiale, tanto più sotto un imperatore “filosofo” quale Marco Aurelio diceva – o millantava – di essere.

In termini meno enfatici, la medesima sottolineatura del ruolo positivo svolto dalla condizione di sottomissione dell’ecumene all’impero romano emerge anche da una cursoria osservazione di Ireneo di Lione, che, forse riecheggiando l’encomio di Roma di Elio Aristide, afferma che «il mondo è in pace grazie ai Romani, così che noi possiamo viaggiare senza paura, per terra e per mare, ovunque vogliamo» e – implicitamente – proprio grazie a ciò diffondere il vangelo, come era accaduto nel suo caso, che lo aveva visto muovere dall’Asia a Roma, alle Gallie.

Più rilevante e più celebre è la successiva inserzione, operata da Ireneo, del dominio di Roma nello schema apocalittico dei quattro regni universali del libro di Daniele, a sua volta rielaborazione biblica dell’originaria idea ellenistica della traslatio imperii.

Non ci è purtroppo giunto il trattato di Melitone sull’Apocalisse di Giovanni e il diavolo, che avrebbe consentito di vedere come il vescovo di Sardi maneggiasse un testo, anzi con ogni probabilità il testo, che era alla base delle frenesie escatologiche dei vari movimenti cristiani che preoccupavano tanto le autorità romane, quanto le stesse gerarchie ecclesiastiche che proprio allora si stavano consolidando intorno alle idee di episcopato monarchico e di successione apostolica.

In Ireneo è evidente il tentativo di disinnescare la portata eversiva della pulsione millenaristica che il generico rimando alla prescrizione paolina di sottomissione non sembrava più in grado di contenere, attraverso l’elaborazione di un poderoso affresco escatologico in cui la cronologia si dilata in avanti e il ruolo di Roma risulta quanto meno ambivalente: la stessa identificazione della cifra della bestia apocalittica con Lateinos rappresenta solo una tra le molte possibilità presentate da Ireneo, mentre l’accenno alla provenienza dell’Anticristo escatologico dalla tribù di Dan, che Ippolito sviluppò in una direzione coerentemente antigiudaica, sembra orientare verso oriente – e non verso Roma – lo sguardo di chi attende con la persecuzione finale anche il definitivo instaurarsi del regno di Dio su questa terra.

Le posizioni di Ireneo vennero rielaborate immediatamente a ridosso dell’inizio del III secolo da Ippolito nel suo sistematico commento al Libro di Daniele, con un approccio particolarmente attento alle implicazioni politologiche del testo e alle concrete dinamiche storico-politiche del potere romano contemporaneo. Il sincronismo augusteo viene riproposto da Ippolito in una chiave meno ingenua e più sottile di quella di Melitone; il culmine del potere romano non rappresenta solo la condizione che favorisce la diffusione del cristianesimo, ma costituisce al tempo stesso una contraffazione di matrice diabolica del vero universalismo cristiano: il primo censimento venne realizzato da Augusto perché gli uomini di questo mondo, censiti da un re terreno, venissero chiamati romani, mentre i sudditi del re celeste venissero chiamati cristiani.

La riflessione di Ippolito analizza acutamente la struttura del contemporaneo potere romano, laddove individua nella concessione della cittadinanza lo strumento con cui vengono cooptati «i più nobili da tutte le nazioni» in vista dell’approntamento dell’esercito. Agli occhi di Ippolito, nella volontà di sottomettere tutte le altre popolazioni l’impero romano risulta del tutto in linea con i tre precedenti, con la sola decisiva differenza che, mentre questi fondavano il loro potere militare su un esercito monoetnico, la leva romana era estesa a tutte le popolazioni, e al suo termine era appunto possibile ottenere la cittadinanza; proprio questa modalità era stata lodata da Elio Aristide nel già ricordato Encomio di Roma come segno di governo illuminato, capace di associare a sé i migliori tra i non-romani.

Bassorilievo da un sarcofago romano paleocristiano. Frammento con raffigurazione di Daniele nella fossa dei leoni. Calcare, IV secolo d.C. Museo Arqueológico y Etnológico de Córdoba.

Il massiccio ricorso ad una siffatta forma di reclutamento – ancora una volta – si era avviato con Marco Aurelio e proprio su questo punto aveva richiamato l’attenzione anche Celso; con Settimio Severo si era acuito così un problema che, in aggiunta a quello della tassazione, doveva essere dibattuto nelle comunità cristiane, specie nel periodo dei conflitti civili a cavallo tra II e III secolo.

In quanto espressione della medesima libido dominandi, l’Impero romano non risulta né migliore né peggiore di quelli che l’hanno preceduto, solo più militarmente più potente e perciò più efficace ed esteso; proprio per questo, dopo l’inevitabile dissoluzione di esso, l’ultimo dominio universale, massimamente contraffattorio del regnum Dei, l’impero dell’Anticristo, ne riassumerà le specifiche fattezze, a partire dall’esaltazione della propria forza militare. Così, partendo dal grado di orgoglio e di autoesaltazione che li connota è possibile distinguere tra re sottomessi a Dio e re destinati ad essere smascherati dal giudizio di Dio; tesi questa che richiama in modo indiretto e più problematico l’ingenua teoria sulla morte dei persecutori avanzata da Melitone.

Soprattutto, Ippolito combina accuratamente il sincronismo augusteo con la cronologia biblica esamillenaria della storia universale, prospettando con precisione una scansione che rimanda da lì a oltre trecento anni il compiersi dei tempi, la conseguente frantumazione dell’impero romano in una poliarchia, l’apparizione finale dell’Anticristo tra gli Ebrei; Ippolito rispondeva con tutta probabilità ad analoghi computi che ritenevano invece ben più imminente la fine, come, a detta di Eusebio, avrebbe fatto un certo Giuda, sempre sotto Severo.

Le fila delle riflessioni ippolitee che intrecciano cronologia biblica, cronologia romana, cronologia cristiana potranno essere poi tirate in una direzione marcatamente filo-romana da Giulio Africano prima e soprattutto da Eusebio poi; ma questo potrà accadere solo dopo la svolta “universalistica” della Constitutio Antoniniana e l’atteggiamento filo-cristiano di Alessandro Severo.

In Ippolito, invece, permane ancora un atteggiamento che si potrebbe definire esterno, se non estraneo, rispetto all’Impero, considerato un dato storico di fatto dalla prospettiva di un esponente di una popolazione sottomessa e probabilmente coinvolta nei conflitti civili a cavallo tra II e III secolo, la cui strumentazione concettuale risulta innervata da una acuta combinazione di concetti politologici ellenistici (la translatio imperii, l’originale ri-declinazione dell’opposizione tra monarchia e democrazia nei termini dell’opposizione tra un solo potere romano e i molti poteri che deriveranno dal suo crollo), osservazioni storiche pragmatiche (il ruolo centrale degli eserciti nell’acquisizione e nel mantenimento del potere, la politica romana di concessione della cittadinanza) e presupposti biblico-teologici (la cronologia universale dalla creazione all’éschaton).

Arco di Alessandro Severo
a Thugga/Dougga (od. Téboursouk, Tunisia).

In quegli stessi anni, nell’Africa romana, Tertulliano recepisce le sollecitazioni provenienti dall’oriente cristiano, ma ne inserisce le tensioni escatologiche e politiche in un quadro significativamente modificato, tale da avviare la costruzione di un’escatologia politica propriamente occidentale. Sin dall’Apologeticum, infatti, Tertulliano lega l’ormai tradizionale tema della preghiera pro imperatoribus, apertamente ricondotto all’insegnamento della prima lettera di Timoteo, alla funzione esercitata da essi e più in generale dall’impero romano nell’allontanamento della fine dei tempi, considerata più o meno imminente, ma senza che egli si addentri in computi cronologici più specifici quali quelli elaborati da Ippolito e dagli altri cronografi cristiani.

Sono tre gli aspetti degni di nota della nuova prospettiva inaugurata da Tertulliano. Anzitutto, l’abbandono di ogni riferimento alla teoria ellenistico-danielica della translatio imperii, che vedeva nel potere romano un epigono dei precedenti, senza alcun tratto ideologicamente o qualitativamente distintivo; nemmeno troppo implicitamente, Tertulliano lascia invece trasparire una sorta di adesione condizionata al mito della aeternitas di Roma, laddove afferma che i cristiani, non volendo sperimentare le acerbitates horrendae comportate dalla fine dei tempi coincidente con il commeatus Romani imperii, pregano per il suo differimento e con ciò stesso contribuiscono alla diuturnitas Romana.

Sarcofago dei due fratelli con scene bibliche. Particolare – Marmo, 325-30 d.C. ca., dal cimitero di Lucina. Città del Vaticano, Museo Pio Cristiano.

In secondo luogo, l’oggetto delle preghiere e dell’interesse teologico-politico di Tertulliano non risulta più limitato alle sole persone degli imperatori o dei loro rappresentanti, come era stato sino ad allora, bensì si allarga alla condizione complessiva del sistema di dominio romano, lo status Romanus; sempre più, nelle opere successive, esso viene ad assumere un ruolo di «trattenimento» della fine modellato a contrario sulla funzione assegnata nella seconda Lettera ai Tessalonicesi alla misteriosa figura del katéchon, che fino ad allora aveva avuto un significato puramente negativo, di ciò o colui che impediva la parousía di Cristo.

Indubbiamente, persiste anche in Tertulliano una certa dose di ambivalenza, se non di ambiguità, dato che, in ogni caso, l’aeternitas di Roma non trascende la dimensione del saeculum presente; ma viene meno – ed è la terza novità introdotta da Tertulliano – quell’estraneità radicale affermata ad esempio negli Acta martyrum Scillitanorum, sostituita da un atteggiamento di piena condivisione della situazione politica comune, nei suoi aspetti tanto positivi, quanto soprattutto negativi: «Quando l’Impero è scosso (concutitur), sono scossi anche i suoi membri, ed anche noi, sia pure estranei alle turbe, in qualche modo ne siamo coinvolti». Questa prima inserzione dei cristiani nell’orizzonte politico dell’Impero segna una significativa divaricazione rispetto al più o meno contemporaneo commento ippoliteo a Daniele e apre la strada ad una sempre più marcata romanizzazione dell’escatologia occidentale.

Così, il vescovo pannonico Vittorino di Petovio supera lo schema ermeneutico orientale che vedeva nelle profezie vetero e neotestamentarie esclusivamente il preannuncio di eventi escatologici a venire, per individuarvi invece puntuali riferimenti ad eventi storici intermedi, tra cui la successione degli imperatori adombrati, a suo dire, dall’Apocalisse di Giovanni; si tratta di una linea cronografica già presente in autori come Clemente Alessandrino, dove assumeva però una valenza de-escatologizzante, mentre Vittorino la lega, con un complesso procedimento esegetico, all’identificazione del persecutore dei tempi finali con il Nero redivivus proveniente dall’oriente.

La minacciosa rappresentazione di un re devastatore ex Oriente affonda le radici addirittura nell’epoca preclassica, ma venne particolarmente diffusa dagli oracoli sibillini e ancora in epoca imperiale dalle cosiddette profezie di Istaspe, la cui lettura era stata proibita dalle autorità romane – o almeno così ci dice Giustino.

Nel quadro della tradizionale opposizione tra occidente e oriente, la visione escatologica di Vittorino assegna all’Impero uno statuto peculiare: il nemico finale, tanto dei cristiani, quanto dei romani, è un ex imperatore persecutore, anzi il persecutore per antonomasia, ma proprio dall’Impero nella sua forma attuale partirà la resistenza nei suoi confronti. In questo modo, l’intera vicenda cristiana si colloca a pieno titolo entro quella romana, come testimonierà di lì a poco Commodiano con i suoi tentativi di raccordare strettamente la cronologia apocalittica alle vicende dell’Impero susseguenti all’invasione persiana del 259/60, giungendo addirittura a duplicare la figura dell’Anticristo per meglio riuscire nel proprio intento.

Scrivendo proprio alla corte occidentale di Costantino e a lui dedicandolo il settimo e ultimo libro delle Divinae institutiones, Lattanzio opera sul piano teorico il definitivo abbandono di ogni idea di estraneità cristiana all’Impero. In questo senso, la sua vicenda risulta oltremodo significativa. Proveniente dall’Africa cristiana, la sua piena adesione al cristianesimo avvenne però in Asia minore, dove l’aveva chiamato Diocleziano e dove presumibilmente dovette conoscere le tradizioni cronografiche ed escatologiche di matrice ippolitea, e più in generale il Cristianesimo d’impronta orientale, che sembrano caratterizzare ancora la sua presentazione dei tempi finali. Tuttavia, le ultime parole del suo scritto ne scandiscono l’epitaffio e aprono ad un orizzonte totalmente rinnovato:

«Quando tuttavia debba compiersi tutto ciò, lo insegnano coloro che hanno scritto riguardo ai tempi, ricavando dai sacri testi e da diverse storie il numero di anni passati dall’inizio del mondo. Benché questi varino e le loro somme complessive risultino un po’ diverse, non sembra che l’attesa sia superiore a duecento anni. La cosa in sé mostra che la rovina e il crollo del mondo saranno tra breve, tranne che non si deve temere nulla di ciò fino a che la città di Roma è sana e salva.

Quando invero quel capo del mondo sarà caduto e comincerà ad esserci la violenza che le sibille prevedono, chi potrà dubitare che per gli uomini e per il mondo sia venuta ormai la fine? Quella è la città che tiene tutto ancora in piedi e noi dobbiamo implorare e adorare il Dio del cielo, posto che i suoi disegni e i suoi decreti possano essere differiti, che non venga più presto di quanto pensiamo quel tiranno abominevole, che ordisca un tale crimine e strappi via quella luce, alla cui rovina il mondo stesso cadrà».

Sarcofago «di Giona». Particolare – Giona e la balena. Marmo, 280-300 d.C. ca. dalla Necropoli vaticana. Museo Pio Cristiano.

Difficile dire se questa celebrazione di Roma e della sua funzione katechontica da parte cristiana preceda o segua, sia causa (anche solo minima) o effetto della svolta di Costantino all’indomani di ponte Milvio. Certo è che simili accenti non erano mai risuonati sino ad allora nella pars orientis dell’Impero e solo con Eusebio si assisterà lì alla definitiva liquidazione di ogni cronologia apocalittica, qui ancora in qualche misura solo sospesa.

È però lo stesso Eusebio a indicare nella biografia di Costantino la motivazione ideologica che lo avrebbe spinto a calare su Roma e a innalzarvi il labaro dopo la vittoria su Massenzio: «Considerava l’intero assetto del mondo come un grande corpo e si rese conto che il capo del tutto, la città che regnava sul potere dei romani era oppressa da una schiavitù tirannica (…); dichiarò quindi che la vita gli sarebbe stata invivibile se avesse abbandonato la città regale così vessata».

Una simile immagine organica per caratterizzare la res publica non costituisce di per sé una novità, rimontando addirittura a Platone, e lo stesso si può dire della retorica anti-tirannica qui utilizzata. Tuttavia, Eusebio colloca proprio a ridosso di questa decisione l’avvicinamento di Costantino al Cristianesimo che culminerà nella celebre visione di ponte Milvio, almeno a detta del biografo, che sottolinea altresì come sempre a seguito di quella circostanza Costantino iniziasse la lettura dei testi sacri e la frequentazione di sacerdoti e vescovi.

Accenni indubbiamente labili per stabilire una diretta connessione tra la «conversione» di Costantino e il suo incontro con un Cristianesimo più disponibile a una possibile composizione con Roma di quello che Costantino aveva potuto invece conoscere nella sua permanenza in oriente e con un episcopato come quello gallico meno litigioso, perché probabilmente meno numeroso e intellettualmente sofisticato del suo corrispettivo orientale (o africano).

Certo è però che tra gli atti successivi alla battaglia di Ponte Milvio compaiono una cospicua donazione economica ai vescovi delle province africane e la convocazione, a Roma e di fronte al suo vescovo, di un sinodo destinato a risolvere i problemi di giurisdizione ecclesiastica insorti proprio in Africa a seguito della questione donatista; Costantino impone altresì la presenza di tre vescovi provenienti dalle Gallie, Reticio di Autun, Materno di Colonia e Marino di Arles e, dopo il fallimento di quel primo tentativo di pacificazione, provvede immediatamente a indirne un secondo proprio in quest’ultima città, per chiudere il conflitto «anche se tardi» e ristabilire la necessaria concordia. Va rilevato come nella seconda lettera di convocazione Costantino non manchi di sottolineare il ruolo svolto dal vescovo di Roma nell’incontro precedente.

Quantomeno il gesto di munificenza imperiale potrebbe apparire del tutto in continuità con l’analogo sostegno offerto da Aureliano ai sacerdoti del templum Solis poco più di una generazione prima; ma un punto decisivo li differenzia, ovvero il reciproco rispecchiamento, inconcepibile nel culto solare e nei suoi officianti, tra imperatore e vescovi nell’esercizio dell’autorità. Sulla scia delle cosiddette lettere pastorali, l’immagine del governo di questi ultimi sulle chiese veniva per lo più associata dai cristiani a quella del pater familias che sovrintende alla gestione del complesso della domus.

Ma nella Didascalia apostolorum, redatta in Siria nel corso del III secolo, la funzione episcopale viene assolutizzata con modalità che rappresentano un unicum nella letteratura disciplinare cristiana; rivolgendosi ai fedeli, l’autore li invita infatti ad amare il vescovo come un padre, temerlo come un re, onorarlo come Dio. Se dopo la svolta costantiniana, Eusebio di Cesarea costruirà l’ideologia dell’imperatore cristiano e Costantino una nuova Roma in oriente, l’immagine del vescovo-imperatore verrà traslata in occidente da un anonimo traduttore, probabilmente di ascendenza ariana, intorno alla metà del IV secolo.

Bisognerà attendere Agostino e la sua De civitate Dei perché si sciolga, almeno in Occidente, il nodo così venutosi a stringere tra il Cristianesimo e Roma, mentre l’Impero secolare di quest’ultima viene derubricato a semplice tappa, forse neppure la più importante, di un disegno provvidenziale e di una storia umana destinati entrambi a proseguire ben oltre il suo tramonto.

Il caso dei libelli deciani

di A. Garzetti, Introduzione alla storia romana, con un’appendice di esercitazioni epigrafiche, Milano 1995 (7^ ed.), pp. 101-106.

Alla metà del III secolo i rapporti fra l’Impero romano e il Cristianesimo subirono un improvviso peggioramento a causa dell’opera dell’imperatore Decio, sotto il quale si ebbe la prima persecuzione generale e sistematica. Appena giunto al trono alla fine del 249, d’accordo col Senato, e forse con la collaborazione di P. Licinio Valeriano, il futuro imperatore, Decio emanò un editto, nel quale si chiedeva una dimostrazione di lealismo a tutti i singoli membri del corpo cittadino romano, enormemente dilatato dalla costituzione antoniniana de civitate (212). Questa dimostrazione di lealismo doveva consistere in una prova di rispetto del culto tradizionale e del culto imperiale, che ciascuno doveva fornire prestando un atto rituale (incenso, libagione, gustazione della sacra vivanda dei sacrifici) davanti ad una commissione locale appositamente costituita a questo scopo in tutte le parti dell’Impero. Chi prestava l’atto di ossequio era munito di un libellus attestante il compimento dell’atto, e risultava così in regola con l’editto imperiale.
Il giudizio sul gesto di Decio è ora più realistico e benevolo che nei tempi passati, volendosi vedere in esso un tentativo di ricostituzione dell’unità spirituale dell’Impero, quale base dell’unità materiale e garanzia dell’efficacia nella difesa contro i nemici esterni. L’iniziativa era, in fondo, sulla linea tradizionale degli interventi a salvaguardia della sicurezza. Solo che con l’aumento dell’assolutismo imperiale e con il perfezionamento dell’amministrazione, risultò assai maggiore che in passato la capacità di raggiungere capillarmente i singoli attraverso appunto gli organi amministrativi, e l’efficacia dell’editto imperiale fu estesa e pronta, sì che questa persecuzione, pur breve (durò pochi mesi del 250), apparve subito ai contemporanei sia cristiani (Origene, S. Dionigi di Alessandria, S. Cipriano) che pagani (Porfirio) come la prima grande persecuzione del nome cristiano.
Che fosse una persecuzione specifica contro i Cristiani, parve pacifico ai contemporanei. Ciò perché in pratica i cristiani soli dovettero soffrire persecuzione, in quanto la richiesta di lealismo pagano poteva presentarsi come drammatico dilemma soltanto alla coscienza dei cristiani, posti nella necessità di scegliere fra l’apostasia e la rappresaglia. Si credette così a lungo che l’editto di Decio fosse un editto promulgato esplicitamente e nominatamente contro i cristiani. L’antichità non ci ha trasmesso, d’altra parte, il testo dell’editto. Un dotto francese del sec. XVII, il Médon, finse di averlo trovato, e lo pubblicò a Tolosa nel 1664 (Decii imp. edictum adversus Christianos). Era una falsificazione su elementi tratti da fonti antiche, specialmente dagli atti dei martiri. Eppure già prima scrittori ecclesiastici di grande valore, fra i quali il cardinale Cesare Baronio (fine ‘500), avevano cominciato a sospettare, in base a quello che le fonti antiche dicevano circa i libelli, che l’editto di Decio non poteva essere stato emanato specificamente ed esclusivamente contro i Cristiani, ma che doveva essere un editto generale e generico, per tutti i cives Romani. Praticamente si sarà proceduto, è stato supposto, in base alle liste del censo.
Si trattò dunque di un’enorme setacciatura di tutti i cittadini dell’Impero. Molti cristiani non apostatarono e confessarono la fede; si ebbero gloriosi casi di martirio specialmente fra i vescovi, i più colpiti a causa della lotta particolarmente violenta contro il proselitismo: S. Fabiano, il vescovo di Roma, martirizzato il 20 gennaio 250, S. Dionigi di Parigi, S. Saturnino di Tolosa furono tra le vittime più illustri. Ma la grande massa non trovò difficoltà a fare quello che l’imperatore voleva, e non solo i pagani, ma anche i cristiani si adattarono. S. Cipriano parla del lassismo che tanti anni di pace avevano introdotto nella comunità cristiana. Questi cristiani apostati si chiamarono lapsi, distinti in categorie secondo la gravità dell’atto di apostasia (i thurificati, i sacrificati, i semplici libellatici), e il loro trattamento provocò controversie tali da condurre allo scisma di Novaziano. È noto che molti si erano procurati il libellus anche senza far il sacrificio richiesto, per via di favore e di raccomandazione, o con denaro. Certe commissioni addette al controllo dell’atto di culto dovettero fare affari d’oro.

Ritratto di Decio. Marmo, 249 d.C. ca. Roma, Musei capitolini.

Ci si chiede se documenti contemporanei confermano la genericità ed universalità dell’editto di Decio. La risposta è affermativa. Fino al 1893 non si conoscevano esemplari di libelli, ma da tale anno ne sono divenuti noti ben 43, conservati in papiri: in parte sono stati pubblicati dal Leclercq in Cabrol-Leclercq, Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et de Liturgie, IV cc. 317-330 (1916), IX cc. 80-85 (1929) e XIII cc. 1402-1405 (1937), cfr. V cc. 1067-1080 (1922), sui lapsi, e altri sono sparsi nelle pubblicazioni papirologiche (da segnalare i due bellissimi per conservazione in «Michigan Papyri», III, 1936, nr. 157 e 158). Naturalmente questi documenti papiracei riguardano l’Egitto, ma la testimonianza in questo caso serve per il resto dell’Impero. I libelli noti si raccolgono tutti fra le date 12 giugno-14 luglio 250, ma con una caratteristica concentrazione della quasi totalità in una decina di giorni del giugno. Questo conferma che si trattò di un’operazione ufficiale sistematica, sul tipo di censo, proprio com’era stato supposto. Gli interessati, chiamati, si presentavano alla commissione, villaggio per villaggio, già muniti di due copie del libellus, fatte fare da uno scrivano, nella forma di una petizione e dichiarazione, con data. Era lasciato in bianco lo spazio per la dichiarazione di testimonianza della commissione, e per una firma di vidimazione. Infatti questi libelli di solito mostrano traccia, nella scrittura, di tre mani diverse. Compiuto l’atto di omaggio religioso (o non compiuto, ma attestato lo stesso per effetto di favore o di corruzione, come s’è visto sopra), una copia rimaneva agli interessati, e l’altra passava agli atti dell’ufficio della commissione, come è stato dimostrato dal ritrovamento di due libelli identici, di cui uno con le tracce sul margine superiore della colla con la quale era stato posto in blocco con altri.
Nei libelli non c’è alcuna menzione del Cristianesimo, ed è completamente assente la forma di abiura. Si riporta a titolo di esempio il libello nr. 13 del Leclercq (Dictionn. d’Arch. Chrét., IX c. 82), proveniente da Theadelphia, nel demo arsenoitico, e datato 20 giugno 250. È contenuto in un papiro della John Rylands Library di Manchester ed è pubblicato anche in Catalogue of the Greek Papyri in the John Rylands Library, II, 1915, p. 94, nr. 112a (oltre che dal Wessely, in «Patrologia Orientalis», XVIII, fasc. 3, 1924, p. 365, nr. 13).

1. mano: Τοῖς ἐπὶ τῶν θυσιῶν ᾑρημένοις
παρὰ Αὐρηλίας Σου̣ήλεως μητρὸς
Ταήσεως ἀπὸ κώμης Θεαδελφείας.
καὶ ἀεὶ μὲν θύουσα καὶ εὐσεβοῦσα
τοῖς θεοῖς διετέλεσα καὶ νῦν ἐπὶ παρόν-
των ὑμῶν κατὰ τὰ προσταχθέν-
τα [ἔ]θυσα καὶ ἔσπεισα καὶ τῶν ἱε-
ρείων ἐγευσάμην, καὶ [ἀ]ξιῶ ὑμᾶς
ὑποσημειώσασθαι διευτυχεῖτε.
2. mano: Αὐρήλιοι Σερῆνος καὶ Ἑρμᾶς εἴδαμέν σε θυσι-
άζουσαν.
3. mano: Ἑρμᾶς σ(εσ)η(μείωμαι).
1. mano: (ἔτους) α Αὐτοκράτορος Καίσαρος Γαίου
Μεσσίου Κυίντου Τραϊανοῦ Δεκίου
Εὐσεβοῦς Εὐτυχοῦς Σεβαστοῦ Παῦνι κϛ.

1. mano: «Alla commissione nominata per sorvegliare i sacrifici, da parte di Aurelia Suelis,
figlia di Taesis, del villaggio di Theadelphia. Sono sempre stata devota ai sacrifici e
alle pratiche pie verso gli dèi,
ed anche ora in vostra presenza, secondo l’editto, ho bruciato l’incenso, ho fatto la libagione,
ho mangiato della sacra vivanda, e vi prego di mettere sotto la vostra firma. Salute a voi.
2. mano: Noi, Aurelio Sereno ed Aurelio Erma, ti abbiamo vista sacrificare.
3. mano: Io, Erma, ho controfirmato.
1. mano: Anno I dell’imperatore Cesare C. Messio Q. Traiano Decio Pio Felice Augusto, il 26 del mese
Payni (= 20 giugno 250)».

Non è affatto detto che Aurelia Suelis fosse cristiana, sebbene lo potesse essere. Un altro libello si riferisce a persona sicuramente non cristiana, e dimostra che la professione del lealismo religioso fu chiesta a tutti. È il libello di una sacerdotessa di Petesuchos, il dio-coccodrillo egiziano. È mutilo alla fine, ma c’è quanto basta per decidere la questione. Si trova presso Leclercq, nel Dictionn. d’Arch. Chrét., IV, c. 320, nr. 3, ed anche in Mitteis-Wilcken, Grundzüge u. Chrestomantie, I 2, Leipzig 1912, p. 152, nr. 125.

2. mano: υλγ
1. mano: τοῖς ἐπὶ τῶν θυσιῶν
ᾑρημένοις
παρὰ Αὐρηλίας Ἀμμω-
νοῦτος Μ̣ύ̣στου ἱε〚ρε〛-
ρείας Πετεσούχου θεοῦ
μεγάλου μεγάλου ἀειζῴου
καὶ τῶν ἐ[ν Μ]οήρει θεῶν
[ἀ]πὸ ἀμ[φόδο]υ Μοήρεως. ἀεὶ
[μ]ὲν θύ<ο>υσ[α] τοῖς θεοῖς δι-
[ε]τέλεσα τὸν βίον, επιδε (sic)
[κ]αὶ νῦν κατὰ τὰ κελευσθέ-
[ντ]α καὶ ἐπὶ παρόντων
[ὑμ]ῶν ἔθυσα καὶ ἔσπεισα
[κ]αὶ τῶν ϊερ[ε]ίων ἐγευσά-
[μη]ν καὶ [ἀξι]ῶ ὑποση-
[μειώ]σασθα[ι].

2. mano: «(probabilmente è un numero – 433 –, il numero d’ordine del certificato, che era forse la
copia d’archivio: infatti ha tracce di colla, cfr. supra).
1. mano: Alla commissione nominata per sorvegliare i sacrifici, da parte di Aurelia Ammonute,
figlia di Miste, sacerdotessa di Petesuchos, il grandissimo dio eterno, e degli dèi di
Moeri, del quartiere di Moeri (nel Fayum). Per tutto il tempo della mia vita ho
sacrificato agli dèi, e anche ora in vostra presenza, secondo l’editto, ho fatto sacrificio
e libagioni, e ho mangiato la sacra vivanda, e chiedo di darmene atto…».

Se lo stato della comunità cristiana in Egitto a metà del III secolo era tale che una cristiana poteva essere insieme sacerdotessa del dio-coccodrillo, allora la testimonianza potrebbe essere non convincente. Ma le cose non erano certo a questo punto. Aurelia Ammonute era sicuramente pagana. Quindi tutti furono chiamati a prestare l’atto di lealismo. L’editto di Decio fu generale, non specifico contro i cristiani.

Mitra, Cristo e la disputa per il vero pane

di M. CLAUSS, in Archeo, Attualità nel passato, n.3, marzo 2014, pp. 82 sgg.

I luoghi dedicati al culto di Mitra (i cosiddetti «mitrei») oggi conosciuti sono più di duecento, un dato riconducibile all’enorme diffusione che questo culto ebbe nella parte occidentale dell’Impero romano, ma anche al fatto che i mitrei sono facilmente identificabili grazie alla loro peculiare architettura: un edificio rettangolare con un corridoio centrale che conduce a una parete di fondo, nella quale si apre una nicchia con l’immagine cultuale, il dio Mitra, rappresentato nell’atto di uccidere un toro. Durante questo atto, l’animale subisce una misteriosa metamorfosi: dalla sua coda emergono spighe di grano e dal sangue che fluisce dalla ferita infertagli si generano grappoli d’uva!

Mitreo conservato sotto la basilica di S. Clemente
Mitreo conservato sotto la basilica di S. Clemente, a Roma.

Dalla morte del toro, dunque, si genera la vita, la sua uccisione diventa garanzia per accedere nell’aldilà. Dalla leggenda mitraica emerge, inoltre, l’importanza che il culto di Mitra attribuiva al pane e al vino (insieme all’acqua gli elementi base dell’alimentazione nell’antichità).

L’ambiente principale del mitreo appare come una «sala da pranzo»: sui due lati lunghi del corridoio centrale sono due podi che fungevano da panchine per i membri del culto; alcuni di questi podi conservano ancora la modanatura sulla quale veniva deposto il vasellame da tavola. È palese la somiglianza con il triclinio della tradizione romana, una ambiente con tre letti conviviali disposti intorno a un tavolo centrale. Nei mitrei, il posto d’onore è sempre occupato dall’immagine cultuale del «padrone di casa», lo stesso Mitra. I mitrei appaiono, così, come sale da banchetto riservate a una ristretta cerchia di convitati, per i quali il pasto rituale doveva ricoprire un significato di fondamentale importanza.

La più suggestiva rappresentazione di un tale pasto comunitario è quella raffigurata su un rilievo proveniente dalla città di Konjic (Bosnia ed Erzegovina). L’immagine è racchiusa, su entrambi i lati del rilievo, da due colonne, suggerendo che gli eventi rappresentati si svolgano all’interno di uno spazio chiuso, come, per esempio, una grotta di culto. Al centro della scena si notano due sacerdoti intenti al pasto. Il letto sul quale sono poggiati non è altro che lo stesso toro ucciso, di cui si riconoscono la pelle e la testa. L’animale sopraffatto è il simbolo della vittoria di Mitra che si intende celebrare, una vittoria che sarà foriera di successi anche per i seguaci del dio.

Banchetto mitraico. Bassorilievo, calco, da Konjic (Boznia-Erzegovina)
Banchetto mitraico. Bassorilievo, calco, da Konjic (Boznia-Erzegovina).

I due principali protagonisti della scena giacciono su un letto conviviale, appoggiati su cuscini, con il braccio sinistro – come è consuetudine durante il pasto – poggiato sul letto, mentre la mano destra è sollevata in gesto di benedizione. I sacerdoti sembrano pronunciare formule sacre destinate alle offerte disposte su un tavolino a tre piedi. Questo tavolino, su cui è convogliata l’attenzione dello spettatore, è rappresentato «dall’alto», contro ogni legge di prospettiva. Su di esso sono disposte alcune piccole pagnotte, incise a croce, affinché possano essere più facilmente spezzate. Questo pasto terreno riproduce, a livello cultuale, il banchetto che Mitra stesso aveva consumato insieme al dio Sole, prima del loro comune viaggio sul cocchio solare, una scena riprodotta spesso, soprattutto sui rilievi provenienti dalle province danubiane.

Anche le testimonianze provenienti dalle regioni del Reno pongono particolare enfasi sul banchetto, raffigurato nei massimi dettagli: un rilievo da Ladenburg (Baden-Württemberg) rappresenta la panchina sulla quale sono distesi Mitra e il dio Sole, ricoperta dalla pelle del toro; entrambe le divinità tengono un corno potorio nella mano. Sul tavolo, con gambe a forma di zoccoli di toro, si riconoscono un grappolo d’uva e una pagnotta incisa.

Mitra e Sole a banchetto. Rilievo con tracce di policromia, arenaria, c. 130, da Lopodunum (od. Ladenburg). Lobdengau-Museum
Mitra e Sole a banchetto. Rilievo con tracce di policromia, arenaria, c. 130, da Lopodunum (od. Ladenburg). Lobdengau-Museum.

Su un rilievo proveniente dalla città romana di Nida (l’odierna Heddernheim, distretto di Francoforte sul Meno) sono rappresentato Mitra e Sole, in piedi dietro l’imponente carcassa del toro, abbattuto dal superiore potere del dio e crollato in tutta la sua maestosità. Nella mano destra Mitra regge un recipiente per bere e, con la sinistra, riceve da Sole un grappolo d’uva –quasi in sostituzione del consueto corno potorio. Poiché la carcassa del toro riempie quasi tutto lo spazio della scena, manca il tavolo e, per questo motivo, sono raffigurati due servitori che accorrono ai due lati, recando cesti con piccole pagnotte.

La rappresentazione fa parte di una tipologia di rilievi scolpiti su entrambe le facciate e munite di un dispositivo rotante. In questo caso, la cornice dell’immagine rimane fissa, mentre il rilievo stesso ruota grazie a un perno centrale. Grazie a questo espediente, nel corso della celebrazione le due scene essenziali del culto – la tauroctonia (l’uccisione del toro) e il banchetto – potevano essere esibite nel momento opportuno. Quello che, se si considera solo una delle due immagini, poteva sembrare una mera uccisione, acquista così ulteriore significato: morte e pasto rituale, con pane e vino, contribuiscono entrambe alla salvezza dei fedeli del culto.

Ma rivolgiamo ora l’attenzione al Cristianesimo. Comune a tutti i fedeli del vasto spettro delle comunità cristiane è la fede nella resurrezione di Gesù Cristo, garanzia e speranza dell’esistenza di una vita dopo la morte e della possibilità, per ogni cristiano, di risorgere. Sostiene San Paolo «che se non si dà risurrezione dai morti, neanche Cristo fu risuscitato! Ma se Cristo non fu risuscitato, è vana la nostra predicazione, è vana la vostra fede» (1 Corinzi 15:13-14). La speranza dei cristiani è radicata nella successione o, meglio, nell’imitazione di Cristo, e di questa imitazione è parte essenziale la celebrazione dell’eucaristia, in diretto riferimento al convivio di Gesù e i suoi discepoli. Da Paolo in poi, la ripetizione del rituale dell’Ultima Cena rappresenta il modo in cui i cristiani celebrano il ricordo della morte di Gesù. E già in Paolo possiamo rilevare l’alta considerazione che, in questo contesto, l’apostolo riserva al pane e al vino.

Tauroctonia. Bassorilievo, travertino, II-III sec. d.C., da Fiano Romano. Musée du Louvre
Tauroctonia. Bassorilievo, travertino, c. II-III secolo, da Fiano Romano. Paris, Musée du Louvre.

Fino a quando le dimensioni circoscritte della comunità dei fedeli lo consentivano, questa celebrazione commemorativa avveniva con un vero e proprio pasto, utilizzando spazi in cui trovavano posto diversi triclini. In seguito, al più tardi partendo dagli inizi del II secolo, i cristiani celebrano il loro pasto rituale di domenica, nello stesso girono che rivestiva un significato importante anche per i seguaci di Mitra, dio del Sole.

La descrizione dettagliata di un tale culto eucaristico ci viene offerta dal padre della Chiesa Giustino di Nablus, il quale, verso la metà del II secolo, visse a lungo in un ambiente pagano prima di convertirsi al Cristianesimo: il capo della comunità, visto come l’imitatore di Gesù durante l’Ultima Cena – e dunque considerato il suo rappresentante –, formula una preghiera di elogio e di ringraziamento sopra il pane e un calice di vino misto ad acqua.

Dopodiché, i servitori distribuiscono il pane e il vino ai fedeli. La descrizione sembra evocare una scena raffigurata su un monumento funebre di Roma, che ritrae una defunta che, guidata da un angelo, attraversa la porta celeste per dirigersi verso un banchetto.

La descrizione di Giustino può essere ben usata per comprendere anche la già citata rappresentazione del rilievo di Konjic, visto che è egli stesso a esprimere sorpresa per le somiglianze tra l’eucaristia cristiana e il banchetto mitraico: Giustino descrive la cerimonia cristiana non come un semplice pasto in cui si consumano pane e vino ordinari, ma in quanto consacrazione del cibo – nutrimento dei fedeli – che, attraverso la preghiera eucaristica, viene tramutato in carne e sangue di Cristo (come recitano i Vangeli). E il consumo della carne e del sangue a sua volta trasforma i fedeli che, attraverso l’atto eucaristico, acquistano la speranza nella resurrezione.

Dopo aver citato, nella sua opera (Apologie, I 66), le parole di Gesù («Fate questo in memoria di me, questo è il mio corpo» e «questo è il mio sangue»), Giustino spiega come «demoni malvagi» abbiano introdotto una simile pratica anche nei misteri di Mitra. Egli è ben consapevole, dunque, del corrispondente rituale mitraico, dei parallelismi esistenti tra le due celebrazioni, e non solo sul piano delle pratiche rituali, ma, verosimilmente, anche per quanto concerne le formule usate durante la consacrazione.

Iniziato ai Misteri. Affresco, II sec. d.C., dalla Domus di L. Licinio Sura (Mitreo di S. Prisca, Roma)
Un μύστης, un iniziato ai Misteri. Frammento di affresco, c. II secolo, dalla Domus di L. Licinio Sura, ovvero dal Mitreo di Santa Prisca, Roma.

Circa mezzo secolo più tardi, verso il 200 d.C., il padre della Chiesa Tertulliano – grande conoscitore dei misteri mitraici – affermava che a «scimmiottare» le azioni dei sacramenti divini all’interno del culto di Mitra fosse proprio il Diavolo. Nel convito mitraico, quest’ultimo celebrava una presentazione del pane e inscenava una rappresentazione della resurrezione (De praescriptione haereticorum, 40, 3-4). Il rischio di confondere i rispettivi banchetti rituali era, dunque, tutt’altro che scongiurato. Rimane il fatto che nei misteri mitraici, come nei riti iniziatici cristiani, Tertulliano aveva ravvisato l’espressione di una speranza per la vita eterna; nella comune convinzione che il consumo del pane e del vino – cibi metaforici oltre che alimenti di questo mondo – fosse il viatico per la rinascita, per l’ascesa dell’anima verso la luce immortale.

Tertulliano, dunque, stabilisce un rapporto diretto tra il banchetto mitraico, comunione cristiana e l’idea di «resurrezione». Può darsi che egli si riferisca a immagini e suggestioni letterarie, ma non si può escludere che avesse in mente anche delle immagini concrete. Forse il padre della Chiesa alludeva a una sequenza – spesso raffigurata come una successione di tre immagini – al cui centro è una scena di banchetto con Mitra e il dio solare, seguita da quella del viaggio di entrambe le divinità sul cocchio solare. Spesso il carro è rappresentato con un’inclinazione verso l’alto, in un moto ascensionale verso il cielo. Così come il dio Mitra, una volta completate le sue gesta terrene, ascendeva in cielo, anche l’iniziato al culto poteva sperare che la sua anima, con l’aiuto del dio, un giorno potesse ritornare nel regno della luce solare.

Se consideriamo l’importanza che i cristiani attribuivano alla luce come simbolo celeste o di vita eterna (Cristo stesso, del resto, era una divinità solare), possiamo comprendere meglio l’osservazione di Tertulliano. A prescindere dagli atti (che non conosciamo) svolti durante il culto mitraico, i seguaci di Mitra facevano uso di queste due immagini per «mettere in scena» il rapporto tra eucaristia e resurrezione.

Rito mitraico officiato da alcuni militari nel Mithraeum di Housteads Fort (Britannia), c. III secolo. Illustrazione di P. Connolly
Rito mitraico officiato da alcuni militari nel Mithraeum di Housteads Fort (Britannia), c. III secolo. Illustrazione di P. Connolly.

Ora, offerte votive di pane e di vino si trovano in quasi tutte le culture antiche e l’idea di un pasto comune, inteso come elemento unificante tra i credenti e tra questi e la divinità, è tratto distintivo di molte religioni. Se però, come nel caso sopra descritto, il banchetto mitraico poteva essere interpretato – dal punto di vista di un osservatore cristiano – come la «caricatura» dei misteri cristiani, è assai verosimile che ciò accadesse perché i due banchetti si svolgevano secondo identiche modalità rituali, e forse anche usando le medesime formule di benedizione.

È bene ricordare, inoltre, che gli scritti di Giustino e di Tertulliano non erano diretti a un generico pubblico esterno, quanto piuttosto a quei cristiani, forse provenienti dal culto di Mitra, ai quali essi intendevano spiegare il nuovo o – per usare un’espressione cara al Cristianesimo – il «vero» punto di vista. E, sebbene a proposito delle similitudini appena descritte non si possa in nessun modo parlare di imitazione (dall’una o dall’altra parte), i cristiani vedevano la questione in maniera diversa: convinti di essere gli unici detentori della verità, bollarono le analogie presenti negli altri culti come banali «imitazioni» o, peggio, come volgari «scimmiottamenti». Fino a che i cristiani non poterono disporre di altri mezzi, l’unico modo era quello di mettere in guardia contro il culto di Mitra e i suoi banchetti. Il quadro mutò a partire da Costantino, quando –forti del sostegno imperiali – i cristiani abbandonarono le semplici raccomandazioni per scagliarsi con violenza contro tutte quelle comunità religiose considerate alla stregua di concorrenti.

Intorno all’anno 400, il padre della Chiesa Girolamo (autore della cosiddetta Vulgata latina) scrive una lettera a una donna cristiana, in cui elogia il prefetto di Roma degli anni 376/7 (Lettere, 107, 2): «Non è forse vero che qualche tempo fa uno dei tuoi parenti, della stirpe dei Gracchi, prefetto della città di Roma, ha distrutto, smembrato e bruciato la grotta dedicata al dio Mitra e tutte le immagini prodigiose (…) e che per questo impegno ha preteso il battesimo di Cristo?». Quel prefetto di Roma aveva messo in atto la distruzione di uno dei numerosi mitrei dell’antica capitale come proprio pegno d’ammissione al Cristianesimo. Girolamo loda esplicitamente quell’azione, non riferendo semplicemente della distruzione del santuario mitraico, ma insistendo sui termini «distruggere», «smembrare» e «bruciare», offrendo così un ritratto inequivocabile della fanatica intolleranza che all’epoca vigeva tra i cristiani.

Gli effetti di quella temperie possono essere illustrati anche grazie agli scavi archeologici. Valga l’esempio del mitreo rinvenuto a Strasburgo-Koenigshoffen (Francia): qui, come in centinaia di altri casi simili, nell’area dell’altare si trovava un rilievo di culto, di circa 180×230 cm, con la raffigurazione della tauroctonia. Di questo grande rilievo gli scavi hanno recuperato più di 360 frammenti, una chiara dimostrazione che l’altare era stato deliberatamente distrutto: una demolizione accuratamente pianificata ed eseguita, partendo dal distacco di tutte le parti sporgenti e proseguendo, poi, con la frantumazione in mille pezzi della lastra stessa. Infine, come se non bastasse, i frammenti furono sparpagliati per tutta la superficie del santuario.

Con la fine del IV secolo si assiste al tramonto di gran parte dei mitrei e della stessa memoria di Mitra, cancellata assai più sistematicamente di quanto non fosse accaduto per le vestigia degli altri culti. A quell’epoca, infatti, la disputa intorno al «vero» pane era stata decisa.

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Riferimenti bibliografici:

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M.J. Vermaseren, Corpus inscriptionum et monumentorum religionis Mithriacae, The Hague 1956-1960.

Cibele, la Grande Madre degli dèi

 

di S. Erbelding, in Archeo, Attualità nel passato, n.3, marzo 2014, pp. 68-71.

 

Cibele (Magna Mater) in trono fra due leoni. Statua, marmo, seconda metà del III sec. d.C., da Ostia antica. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
Cibele (Magna Mater) in trono fra due leoni. Statua, marmo, seconda metà del III sec. d.C., da Ostia antica. Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

 

In Asia minore, già nel XIII secolo a.C. gli Ittiti adoravano divinità protettrici materne – per esempio «Kubaba», la dea della città siriana di Karkemish – e anche i successivi regni dei Frigi e dei Lidi conoscevano una divinità di nome «mātār kubileya» o «Kybēbē». A partire dal VII secolo a.C., Kybebe fa il suo ingresso nel mondo ellenico come Cibele, la Megálē Mētēr o «Grande Madre» di tutti gli dèi. Verso il II secolo a.C. Cibele appare a Roma, dove subisce una essenziale trasformazione, prima che il suo culto si diffonda in tutte le parti dell’Impero romano.

Lo storico Tito Livio racconta la versione romana dell’arrivo della dea nella capitale: quando, durante la seconda guerra punica (218-201 a.C.), il generale cartaginese Annibale era giunto con il suo esercito fino «alle porte di Roma», l’oracolo dei libri sibillini fece notare ai Romani che «mancava la Madre». Il Senato inviò subito una legazione al santuario centrale della Magna Mater/Cibele a Pessinunte in Frigia, che da lì tornò con un idolo della Dea Madre, probabilmente un meteorite nero. I Cartaginesi si ritirarono e l’idolo fu collocato in un nuovo santuario sul Palatino. Qui, presso le residenze dei senatori e dei futuri palazzi imperiali, Cibele trovò la sua nuova dimora, quasi fosse la dea nazionale di Roma.

La Dea Madre, però, possedeva un carattere ambiguo e imprevedibile: il mito la dipinge come una divinità della natura dai tratti arcaici, proveniente dalla selvaggia Frigia, padrona di crescita e di declino, di vita e di morte, accompagnata dai suoi animali, gli indomabili leoni, e dal tamburello, il suo strumento musicale dal suono sordo ed esotico. Il suo amante, il giovane mortale Attis, a causa della sua infedele passione per una donna, verrà punito con la follia: egli si rescinde i genitali e muore per le ferite riportate. L’arte antica caratterizza il frigio Attis con il tipico copricapo e i lunghi pantaloni, ma anche attraverso il suo atteggiamento «esibizionista», che ne prefigura il tragico destino.

A questi eventi mitologici faceva riferimento la festa primaverile ufficiale della Magna Mater, celebrata in molte città romane con sacrifici, processioni e rappresentazioni teatrali del mito di Attis, caratterizzate da riti esotici,, tra cui la bizzarra danza rituale dei sacerdoti (i cosiddetti «archigalli», eunuchi che si erano evirati a imitazione di Attis) che si flagellavano fino a sanguinare. Poiché le usanze cultuali dei Romani non contemplavano l’automutilazione e la castrazione umana era di solito proibita, è da presumere che il rito fosse di diretta derivazione da un’antica tradizione frigia.

In connessione con il sacrificio del toro, nel quale giocava un ruolo preponderante la castrazione dell’animale, si manifesta, nel IV secolo, un nuovo cambiamento nella concezione del culto e della divinità. A fronte del declino dell’Impero, ormai in mano agli imperatori cristiani, l’aristocrazia senatoria pagana propose il ritorno agli antichi valori e alle divinità di Roma. Punto di riferimento di questa opposizione politica, sociale e religiosa divenne la Magna Mater con il suo santuario tardo-antico, il Phrygianum o Vaticanum, situato nel luogo dell’attuale piazza San Pietro, di fronte alla basilica paleocristiana.

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