di N. ABBAGNANO, Storia della filosofia. I – Il pensiero greco e cristiano: dai Presocratici alla scuola di Chartres, Novara 2006, 399-412.
La «scolastica» neoplatonica
Il neoplatonismo è l’ultima manifestazione del platonismo nel mondo antico. Esso riassume e porta alla formulazione sistematica, e (con Proclo) addirittura scolastica, le tendenze e gli indirizzi che si erano manifestati nella filosofia greca e alessandrina dell’ultimo periodo. Elementi pitagorici, aristotelici, stoici vengono fusi con il platonismo in una vasta sintesi che doveva influenzare potentemente tutto il corso del pensiero cristiano e medievale, e, attraverso di esso, anche quello del pensiero moderno. Il neoplatonismo è così la manifestazione più cospicua dell’orientamento religioso che prevale nella filosofia dell’età alessandrina. Esso è altresì la prima forma storica della scolastica, se con tal nome s’intende la filosofia che cerca di realizzare una comprensione razionale delle verità religiose tradizionali. Difatti l’atteggiamento religioso implica che la verità come tale non va cercata: essa è stata rivelata ed è garantita dalla tradizione. Dall’altro lato, occorre comprendere, spiegare e difendere tale verità; e a questo scopo viene utilizzata la filosofia che meglio vi si presta, in questo caso il platonismo.
Il neoplatonismo quindi non ha niente a che fare con il platonismo originario e autentico. È invece una specie di scolastica che utilizza il platonismo, in confusa mescolanza con altri elementi dottrinali eterogenei, allo scopo di giustificare un atteggiamento religioso. Il fatto che Proclo, il più consapevole rappresentante della scolastica neoplatonica, abbia considerato spuri la Repubblica e le Leggi di Platone, che mal si prestano, per il loro dominante interesse politico, ad essere utilizzati ai fini di un’apologetica religiosa, è una prova evidente della cesura che c’è tra platonismo e neoplatonismo e dell’impossibilità di utilizzare quest’ultimo come elemento di comprensione storica del platonismo originario.

Fondatore del neoplatonismo è Ammonio Sacca, vissuto tra il 175 e il 242 d.C. senza lasciare alcuno scritto. Egli era bracciante (donde il soprannome di «Sacca»); in seguito insegnò in Alessandria la filosofia platonica.
Tra i suoi scolari si annoverano Origene – che non è da confondere con l’Origene cristiano – e Cassio Longino (213-273 d.C. ca.), retore e filologo, sotto il nome del quale ci è giunto lo scritto Sul sublime, che però non è suo.
La maggiore figura del neoplatonismo è Plotino. Nato a Licopoli in Egitto nel 203/4 d.C., partecipò alla spedizione dell’imperatore Gordiano contro i Persiani per conoscere le dottrine dei Persiani e degli Indiani; al ritorno si stabilì a Roma, dove la sua scuola ebbe tra i suoi ascoltatori numerosi senatori romani. L’imperatore Gallieno e sua moglie Salonina furono tra i suoi ammiratori. Egli morì in Campania a 66 anni, nel 269/70 d.C.
Il suo scolaro Porfirio di Tiro (nato nel 232/3 e morto al principio del IV secolo) pubblicò gli scritti del maestro ordinandoli in sei Enneadi, ossia libri di nove parti ciascuno. Porfirio è anche autore di numerose opere originali. Tra queste particolarmente importanti una Vita di Plotino, una Vita di Pitagora e l’Introduzione alle Categorie di Aristotele che è un commentario allo scritto aristotelico in forma di dialogo. L’interesse fondamentale di Porfirio è pratico-religioso. Egli trae dalla dottrina di Plotino motivi per difendere la religione pagana.

Plotino: Dio
Plotino accentua sino all’estremo limite la trascendenza di Dio, sulla quale avevano già insistito i Neopitagorici e Filone. Ma mentre Filone ancora identificava Dio con l’essere, Plotino afferma che Dio è «al di là dell’essere» (V 5, 6); «al di là della sostanza» (VI 8, 19); «al di là della mente» (III 8, 9) in modo che è trascendente rispetto a tutte le cose, pur producendole e tenendole in essere lui stesso (V 5, 12). Così la causa dell’essere viene in qualche modo staccata dall’essere, come ciò che è inafferrabile e inesprimibile da parte dell’uomo. Il nome che è meno inadeguato a indicare Dio, è, secondo Plotino, quello di Uno; e ciò sia perché Dio è l’unità, cioè la causa semplice ed unica di tutte le cose; sia perché il nome «Uno» si presta a designare ciò che è semplice e diverso da tutte le cose che vengono dopo (V 4, 1). Plotino stesso avverte però che questo nome non contiene altro che l’esclusione del molteplice; e, salvo quest’esclusione, non è più adeguato degli altri ad esprimere Dio (V 5, 6). Con queste considerazioni, Plotino inizia quello che si chiamò in seguito la teologia negativa, cioè la determinazione di Dio attraverso il riconoscimento dell’impossibilità di predicare di lui tutte e ciascuna le determinazioni finite.
D’altronde, la definizione di Dio come unità non ha niente a che fare con il monoteismo. Conformemente a tutta la tradizione greca, Plotino esplicitamente difende il politeismo come conseguenza necessaria dell’infinita potenza della divinità: «Non restringere la divinità ad un unico essere: farla vedere così molteplice come essa si manifesta, ecco ciò che significa conoscere la potenza della divinità, capace, pur restando quella che è, di creare una molteplicità di dèi che si connettono con essa, esistono per essa e vengono da essa» (II 9, 9).
Per una divinità concepita in questo modo la creazione non può essere un atto di volontà, che implicherebbe un mutamento nell’essenza divina. La creazione avviene in modo tale che Dio rimane immobile al centro di essa, senza volerla né consentirvi. Essa è un processo di emanazione (ἀπόρροια), simile a quello per il quale la luce si spande intorno al corpo luminoso o il calore intorno al corpo caldo, o meglio simile al profumo che emana dal corpo odoroso (V 1, 6). Utilizzando la nozione aristotelica di Dio come «pensiero del pensiero» (νόησις νοήσεως) Plotino interpreta l’emanazione stessa come il pensiero che l’Uno pensa di sé. L’Uno, pensandosi, dà origine all’Intelletto, che è la sua immagine (V 4, 2); l’Intelletto, pensandosi, dà origine all’Anima, che è immagine dell’Intelletto (IV 8, 3). Trascorrendo da immagine a immagine, l’emanazione è anche un processo di degradazione. Ciò che emana dall’Uno è inferiore all’Uno, proprio come la luce è meno luminosa della sorgente da cui emana e l’onda del profumo è meno intensa a misura che si allontana dal corpo odoroso. Gli esseri che emanano da Dio non possono dunque aver né la sua perfezione né la sua unità, ma procedono sempre più verso l’imperfezione e la molteplicità.
Plotino: le emanazioni
La prima emanazione dell’Uno è l’Intelletto (νοῦς) che è l’immagine più vicina di esso. l’Intelletto contiene già la molteplicità in quanto implica la distinzione tra il soggetto che pensa e l’oggetto pensato. Questo Intelletto, come il λόγος o il Verbo di Filone, è la sede delle idee platoniche. Esso corrisponde al Dio di Aristotele.
Dall’Intelletto procede la seconda emanazione, l’Anima mundi (ἡ ψυχὴ τοῦ κόσμου), che è Verbo e Atto dell’Intelletto, come l’Intelletto lo è dell’Uno. L’Anima da un lato guarda all’Intelletto da cui proviene e con ciò pensa; dall’altro guarda a se stessa e si conserva; dall’altro ancora, guarda a ciò che è dopo di lei e lo ordina, lo governa e lo regge. Così l’Anima universale ha una parte superiore che è rivolta all’Intelletto e una parte inferiore che è rivolta al corpo: con questa governa l’universo corporeo ed è Provvidenza (πρόνοια).
Dio, l’Intelletto e l’Anima mundi costituiscono un mondo intellegibile. Il mondo corporeo suppone per la sua formazione, oltre l’azione dell’Anima mundi, un altro principio da cui derivino l’imperfezione, la molteplicità e il male. Questo principio è la materia, concepita da Plotino negativamente, come privazione di realtà e di bene. La materia è all’estremo inferiore della scala alla cui sommità c’è Dio. Essa è l’oscurità che comincia là dove termina la luce; quindi non-essere e male.
Le anime singole sono parti dell’Anima mundi. L’Anima universale ha penetrato la materia vivificandola e penetrandola tutta, ma rimanendo in se stessa unica e indivisibile. Essa produce l’unità e la sympátheia di tutte le cose del mondo; giacché queste, avendo un’unica anima, si richiamano l’un l’altra come le membra di uno stesso animale.
Dominato com’è dall’Anima universale, il mondo ha un ordine e una bellezza perfetti. Per scoprire quest’ordine bisogna guardare al tutto nel quale trova il suo posto e la sua funzione ogni singola parte, anche quella apparentemente imperfetta o cattiva. Il vizio stesso ha una funzione utile al tutto perché diventa un esempio della forza della legge e finisce per arrecare utili conseguenze (III 2, 5).

Plotino: la coscienza e il ritorno a Dio
Nella filosofia di Plotino diventa centrale e dominante un concetto che già si era affacciato nella speculazione degli Stoici: quello di coscienza. Coscienza non è la consapevolezza dei propri stati interni: ma l’atteggiamento del saggio che non ha bisogno di uscire fuori di sé per trovare la verità e che perciò tiene lo sguardo costantemente rivolto a se stesso. La coscienza è in questo senso il campo privilegiato in cui si manifestano nella loro evidenza le verità più alte cui l’uomo può giungere e la fonte o il principio stesso di tali verità cioè Dio. Il presupposto di questo concetto è l’autosufficienza del saggio, su cui avevano insistito gli Stoici e che aveva dominato le speculazioni morali degli Stoici romani. La distinzione stabilita da Epitteto tra «le cose che sono in nostro potere» cioè i nostri aspetti spirituali e «le cose che non sono in nostro potere» cioè le cose esterne, come fondamento degli atteggiamenti morali dell’uomo, non è che un corollario del principio della coscienza. Per indicare la coscienza come introspezione o auscultazione interiore, Plotino adopera espressioni come «ritorno a se stesso», «ritorno all’interiorità», «riflessione su di sé»; e contrappone costantemente questo atteggiamento proprio del saggio a chi invece fa leva, per la condotta della sua vita, sulla conoscenza delle cose esterne. «Il saggio – dice Plotino – trae da se stesso ciò che rivela agli altri e guarda a se stesso giacché non solamente tende ad unificarsi e ad isolarsi dalle cose esterne, ma è rivolto a se stesso e trova in sé tutte le cose» (III 8, 6).
Il ritorno a Dio è un itinerario che l’uomo può iniziare e percorrere solo mediante il ritorno a se stesso. Le tappe del ritorno a Dio sono le tappe della progressiva interiorizzazione dell’uomo; e in primo luogo della sua liberazione da ogni dipendenza o rapporto con l’esteriorità corporea. Plotino afferma pertanto che il primo dovere dell’uomo è quello di sottrarsi ai suoi legami con il corpo e di purificarsi mediante le virtù. Le virtù sono vie di purificazione perché sono vie di liberazione dall’esteriorità. Con l’intelligenza e la sapienza, l’anima dell’uomo si abitua a operare da sola, senza l’aiuto dei sensi corporei; con la temperanza si libera dalle passioni; con il coraggio non teme di separarsi dal corpo; con la giustizia fa sì che comandino in sé soltanto la ragione e l’intelletto (I 2, 3). La virtù come purificazione costituisce tuttavia soltanto una condizione liberatrice dell’itinerario interiore verso Dio. Nella musica, nell’amore e nella filosofia l’anima trova le vie positive del ritorno a Dio.
Attraverso la musica l’uomo deve procedere oltre i suoni sensibili, cercando di raggiungere i loro rapporti e le loro misure per sollevarsi a quell’armonia intellegibile ch’è la stessa bellezza. Attraverso l’amore, l’uomo si solleva gradualmente (secondo il processo già descritto da Platone nel Fedro) dalla contemplazione della bellezza corporea a quella della bellezza incorporea la quale è un riflesso o un’immagine del Bene, cioè di Dio. La bellezza difatti risplende nelle cose che sono più vicine alla perfezione; una statua è più bella di un blocco di marmo, un corpo vivo più bello di una statua. Ma al di là della bellezza l’uomo deve procedere con la filosofia verso la fonte stessa della bellezza, che è Dio. A Dio tuttavia egli non potrà arrivare attraverso l’intelligenza, perché questa è condizionata dal dualismo del soggetto che pensa e dell’oggetto pensato, mentre Dio è assoluta unità. Nella visione di Dio non c’è più intervallo, non c’è più dualità, ma l’anima si unisce a Dio totalmente, con uno slancio di amore. Non si tratta neppure di una visione: ma «di ἔκστασις e di semplificazione, di quiete e di congiunzione, di completa dedizione». Questa condizione può essere raggiunta dal filosofo solo raramente. Porfirio ci testimonia che nei sei anni in cui fu con il maestro, Plotino raggiunse l’ékstasis solo quattro volte.

La scuola siriaca
Lo scolaro di Porfirio, Giamblico di Calcide, morto verso il 330, inizia il cosiddetto «Neoplatonismo siriaco», molto più vicino di quello plotiniano alle fonti orientali. Egli fu autore di numerosi scritti, dei quali ci restano cinque libri dell’opera Sui misteri degli Egiziani. Giamblico è un teologo più che un filosofo. Egli moltiplica le emanazioni plotiniane suddividendole in tante divinità, alle quali fa corrispondere gli dèi della religione popolare. Insiste quindi sul valore della θεουργία, che è la virtù magica dei riti e delle formule propiziatorie. La divinità, egli dice, non può essere persuasa ad agire dal nostro pensiero, perché la perfezione non è condotta ad agire da ciò che è imperfetto. Essa agisce invece in virtù dei simboli e delle formule che essa stessa ha suggerito agli uomini. Il Neoplatonismo inclinava così con Giamblico verso una teologia mitica che si prestava a giustificare tutte le superstizioni delle credenze pagane.
Giamblico ebbe numerosi scolari che, dalle notizie che ci sono rimase, appaiono sprovvisti di ogni originalità. Quanto l’imperatore Giuliano volle dare nuova vita al paganesimo per rimetterlo a fondamento della vita politica dell’Impero, ricorse appunto alla filosofia neoplatonica nella forma che Giamblico le aveva dato.
Frattanto la scuola platonica di Alessandria continuava ed ebbe nuovo lustro da una donna, Ipazia, che cadde, nel 415, vittima del fanatismo della plebe cristiana suscitatale contro dal vescovo Cirillo.
Dagli scritti del suo scolaro Sinesio di Cirene (nato verso il 370) che nel 411 divenne vescovo di Tolemaide, pare che ella abbia esposta la dottrina neoplatonica secondo l’insegnamento di Giamblico.

La scuola di Atene
L’ultima fase del Neoplatonismo fu dedicata prevalentemente al commento delle opere di Platone e di Aristotele. Al principio del V secolo, capo della scuola ateniese era Plutarco di Atene, figlio di Nestorio, che morì molto vecchio nel 401/2 e commentò Platone e Aristotele.
La speculazione metafisica fu invece coltivata da Siriano (il maestro di Proclo) il quale si rifece specialmente a Platone, che riteneva superiore ad Aristotele e che volle conciliare coi Pitagorici e coi Neoplatonici.
Proclo è il maggior rappresentante dell’indirizzo ateniese. Nato a Costantinopoli nel 410 ed educato in Licia, a 20 anni si recò ad Atene dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 485. Le opere più importanti sono il Commentario al Timeo, alla Repubblica, al Parmenide, all’Alcibiade I e al Cratilo, e due scritti sistematici, l’Istituzione teologica e la Teologia platonica.
Proclo dette alla filosofia neoplatonica la sua forma definitiva. A lui succedono numerosi pensatori che seguono le sue orme, ma non offrono nessun contributo originale alla sua dottrina. All’ultima generazione di Neoplatonici appartiene Simplicio, i cui commenti a molte opere aristoteliche hanno per noi la massima importanza come fonti di tutto il pensiero antico e rappresentano pure una notevole opera di pensiero.
Nell’anno 529 Giustiniano vietò l’insegnamento della filosofia ad Atene e confiscò l’ingente patrimonio della scuola platonica. Damascio che ne era il capo con altri sei compagni, tra cui Simplicio, si rifugiò in Persia; ma di lì tornarono presto disillusi. Il pensiero platonico oramai non sussisteva più come tradizione indipendente perché era stato assorbito e assimilato dal pensiero cristiano.
L’ultimo rappresentante di esso si può dire sia stato Severino Boezio. Boezio tradusse e commentò i principali scritti dell’Organo aristotelico e l’Introduzione alle categorie di Porfirio. Scrisse anche un Commentario di quest’opera e altri lavori di logica, matematica e musica. Nel carcere scrisse poi l’opera che lo rese famoso per tutto il Medio Evo, La consolazione della filosofia. Quest’opera non è originale, ma risulta dall’utilizzazione di varie fonti, tra le quali il Protrettico di Aristotele, forse conosciuto attraverso qualche scritto più recente che lo riproduceva. Il punto di vista di Boezio è un platonismo eclettico. Da Platone, Boezio attinge il concetto della divinità come sommo Bene; con Aristotele considera Dio come il primo motore immobile; con gli Stoici ammette la provvidenza e il fato. Sebbene sia cristiano, nella sua filosofia segue da vicino il Neoplatonismo dell’epoca. Egli presenta nella sua persona il passaggio dall’Antichità al Medio Evo; è l’ultimo romano e il primo scolastico.
La dottrina di Proclo
Il punto fondamentale della filosofia di Proclo è l’illustrazione di quel principio triadico che è proprio del Neoplatonismo. Ogni processo si compie per via di una somiglianza delle cose che procedono con ciò da cui procedono. Un essere che ne produce un altro rimane in se stesso immutato, ma la cosa prodotta necessariamente gli somiglia.
Ora il prodotto, in quanto ha qualcosa d’identico al producente, resta in esso, in quanto ha qualche cosa di diverso procede da esso. ma essendo simile è in qualche modo identico e diverso, dunque rimane e procede insieme, e non fa nessuna delle due cose senza l’altra. Ora ogni essere che procede per sua natura da una cosa ritorna verso di essa. Vi ritorna in quanto non può fare a meno di aspirare alla propria causa che è per esso il bene; e ogni essere desidera il bene. Questo ritorno o conversione si compie per la somiglianza di chi ritorna con ciò a cui ritorna (Ist. Teol., 30, 32). Con ciò Proclo distingue nel processo di emanazione di ogni essere dalla sua causa tre momenti: 1°, il permanere (μονή) immutabile della causa in se stessa; 2°, il procedere (πρόοδος) da essa dell’essere derivato che per la sua somiglianza con essa le rimane attaccato e insieme se ne allontana, 3°, il ritorno o conversione (ἐπιστροφή) dell’essere derivato alla sua causa originaria. Quel processo dell’emanazione che Plotino aveva illustrato in termini metaforici con l’esempio della luce e dell’odore, viene giustificato da Proclo con questa dialettica del rapporto tra la causa e la cosa prodotta per la quale esse nello stesso tempo si connettono, si separano e si ricongiungono in un processo circolare nel quale il principio e la fine coincidono.
Il punto di partenza dell’intero processo è l’Uno, Causa prima e Bene assoluto, che Proclo, come Plotino, ritiene inconoscibile e inesprimibile. Dall’Uno procede una molteplicità di Unità o Enadi, che sono anch’esse Beni supremi e Divinità e fanno da intermediarie tra l’Uno originario e il mondo dell’Intelletto. L’Intelletto, che è la terza fase dell’emanazione, è diviso da Proclo in tre momenti: l’intellegibile (l’oggetto dell’Intelletto), che è l’essere; l’intellegibile-intellettuale, che è la vita; l’intellettuale (l’Intelletto come soggetto), che è l’Intelletto. L’essere e la vita vengono a loro volta divisi in vari momenti ad ognuno dei quali Proclo fa corrispondere una divinità della religione popolare. Il quarto momento dell’emanazione è l’Anima, divisa in tre specie: la divina, la demoniaca e l’umana; le prime due vengono ancora suddivise e identificate con divinità o esseri della religione popolare.
Il mondo è organizzato e governato dall’Anima divina. Il male non deriva dalla divinità, ma dall’imperfezione dei gradi medi e bassi della scala del mondo e dalla loro deficiente accettazione del bene divino. La materia non può essere causa del male perché essa è stata creata da Dio come necessaria per il mondo.
Oltre le facoltà distinte nell’anima da Platone e da Aristotele, Proclo ammette in essa una facoltà superiore a tutte, l’Uno nell’anima, che corrisponde all’Uno nel mondo ed è la facoltà adatta a conoscerlo. Il processo dell’elevazione morale ed è la facoltà adatta a conoscerlo. Il processo dell’elevazione morale e intellettuale dell’anima culmina nel congiungimento estatico con l’Uno. I gradi ultimi di questo processo di elevazione sono l’amore, la verità e la fede. L’amore porta l’uomo fino alla visione della bellezza divina; la verità fino alla sapienza divina e alla conoscenza perfetta della realtà. Ma solo la fede lo porta, al di là della conoscenza e di ogni divenire, al riposo e al mistico congiungimento con ciò che è inconoscibile e inesprimibile.
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