A che cosa serve la filosofia? A cosa servono i classici?

di A. MASSARENTI, Introduzione alla collana “I Grandi Filosofi”, Milano 2006, pp. 1-4.

A che cosa serve la filosofia? Ecco una domanda alla quale i “filosofi di professione” reagirebbero considerandola o molto ingenua o troppo irriverente. La filosofia – risponderanno o con indignazione o con la pazienza che si riserva ai neofiti – non deve servire a qualcosa. È una delle più nobili attività umane. È amore, puro e disinteressato, della conoscenza. Lo dice, in greco, la parola stessa. Ed è da questo amore che scaturiscono le domande fondamentali e irrinunciabili sulle quali da quasi tre millenni si arrovellano le migliori menti dell’umanità: di che cosa è fatto il mondo? Da che cosa ha avuto origine? Perché le cose cambiano? Esiste qualcosa di costante nel continuo mutare e trasformarsi della vita e degli eventi? L’esistenza dell’uomo è destinata a esaurirsi con la morte, o si può sperare in un’anima immortale? La vita ha un senso, magari un destino, o è un futile agitarsi per nulla? Siamo liberi di scegliere, o tutto è già scritto da qualche parte? Come dobbiamo comportarci con i nostri simili? Esiste Dio? E una giustizia al di sopra degli uomini? E delle norme per orientare la nostra condotta nella vita quotidiana, tali da aiutarci a rispondere a un’ulteriore domanda – posta per la prima volta da Socrate e che, ancora oggi, rimane la più importante di tutte – su «come uno deve vivere»?

Luca della Robbia, Dibattito fra Platone e Aristotele, o 'Filosofia'. Marmo dal lato nord del campanile di Firenze (basamento inferiore), 1437-1439. Firenze, Museo dell'Opera del Duomo.
Luca della Robbia, Dibattito fra Platone e Aristotele, o la Filosofia. Formella, marmo, 1437-39, dal lato nord del campanile di Firenze (basamento inferiore). Firenze, Museo dell’Opera del Duomo.

 

Queste, sì, sono domande da porsi, dirà il nostro professionista. Ma se proprio si vuol sapere anche a che cosa serve la filosofia, ebbene la risposta è che serve proprio a evitare che si facciano domande improprie come questa. Uno dei compiti della filosofia in fondo – a dar retta a uno dei più grandi pensatori del secolo scorso, Ludwig Wittgenstein – è appunto quello di sviluppare, per ogni aspetto della vita e della conoscenza, la capacità di fare le domande giuste, evitando di girare a vuoto intorno a falsi-problemi o a questioni mal poste.

La risposta del nostro ipotetico “filosofo di professione”, sia essa “indignata” o “paziente”, in realtà è molto sofisticata. Tiene conto del particolare humus della filosofia contemporanea, che ha ormai abbandonato, nei casi migliori, l’illusione di dare a tutte quelle domande risposte certe e definitive; ma che nello stesso tempo non rinuncia a porsele, proprio perché esse continuano a essere fondamentali come un tempo, e a riguardare non soltanto i filosofi, ma le vite di tutti i cittadini.

«La filosofia – ha scritto Bertrand Russell – va studiata non per amore delle risposte precise alle domande che essa pone, perché nessuna risposta precisa si può, di regola conoscere, ma piuttosto per amore delle domande stesse; perché esse ampliano la nostra concezione di ciò che è possibile, arricchiscono la nostra immaginazione e intaccano l’arroganza dogmatica che preclude la mente alla speculazione». Si può capire, per questa via, anche che cosa ci sia di peculiare nella filosofia, e in che cosa sia diversa dagli altri ambiti del sapere. Uno storico si chiede cos’è accaduto in un certo periodo del passato. Un filosofo si domanderà: cos’è il tempo? Un matematico studia le relazioni tra i numeri; e il filosofo si chiede: cos’è il numero? Di che cosa sono fatti gli atomi? È la domanda del fisico; come possiamo sapere che esiste qualcosa, nel mondo, fuori dalle nostre menti? È quella del filosofo. Uno psicologo studia come i bambini apprendono il linguaggio: ma, dirà il filosofo, com’è possibile che le parole abbiano un significato? E da dove viene la nostra capacità di afferrarlo fin dalla più tenera età?

E a proposito di infanzia, ricordate la voce fuori campo del film di Win Wenders, Il cielo sopra Berlino (1987)? «Quando il bambino era bambino – recitava a mo’ di filastrocca – era il tempo di queste domande: perché io sono io, e perché non sei tu; perché sono qui, e perché non sono lì; quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio; la vita sotto il sole è forse un sogno? C’è veramente il male? E gente veramente cattiva? Come può essere che io, che sono io, non c’ero, e che un giorno io, che sono io, non sarò più quello che sono?».

Domande, domande, domande. Questo è lo spirito con cui accingersi alla lettura dei classici. Dietro ognuno di questi interrogativi non sarà difficile scovare uno o più autori del passato (in alcuni casi, forse persino tutti) che se la siano posta. Da Socrate, Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso, fino a Kierkegaard, Marx, Nietzsche, Russell, Wittgenstein, Heidegger. Poco importa quanto diversi siano i loro temperamenti, oppure che l’uno contraddica, proprio a partire da quelle domande, la tesi dell’altro. Perché in realtà, i classici della filosofia resistono al tempo assai più, per esempio, dei grandi libri che hanno fatto avanzare le scienze, per un motivo molto semplice. Mentre i libri scientifici diventano presto obsoleti (oggi assai ancor più rapidamente che in passato) grazie all’accrescimento stesso della conoscenza, il testo di un grande pensatore riuscirà sempre a parlarci in maniera assai diretta. Raramente capiterà di trovare le sue riflessioni del tutto superate, perché anche quelli che potremmo oggi considerare degli errori, avranno comunque qualcosa di interessante da dirci, o magari saranno incorporati in qualche visione ancora viva e operante dell’esistenza umana.

3 pensieri su “A che cosa serve la filosofia? A cosa servono i classici?

  1. Sono un sincero ammiratore dei tuoi articoli, che leggo spesso e con molto interesse. Questo però non mi trova affatto d’accordo.
    Innanzitutto scinderei il valore della filosofia dal valore dei classici. Mi sembra che la filosofia si sia allontanata ormai di molto dal riconoscimento del classico come un valore, ovvero il valore dell’antico.
    In secondo luogo la tua mia sembra una difesa di ufficio della tipica insidiosa spocchia messa in campo dai filosofi per evitare di essere trascinati, com’è invece necessario che accada, davanti al tribunale del senso comune. Cosa necessaria, visto che oltre la soggettività, difesa a spada tratta un po’ da tutti i filosofi (moderni e non antichi!), esiste anche un’oggettività che è proprio il pane quotidiano dell’uomo. Nel senso di pane materiale e spirituale. La filosofia si sottrae a tutto questo proprio attraverso soofismi come quelli che tu hai impiegato, e questo non certo per amore dell’umanità, ossia per rispondere alle “domande fondamentali” dell’uomo comune (che essa odia e disprezza), bensì semmai per auto-elevarsi al ruolo supremo al quale il filosofo di scuola ambisce per costituzione e per contratto. E nella filosofia moderna ancora di più, dato che i filosofi sanno bene che, per troppa arroganza, sono poco a poco giunti al punto che nessuno se li fila più. Chi è causa del suo mal….!”

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    • Tengo a sottolineare, in primis, che quanto riportato nell’articolo non è farina del mio sacco, ma di Massarenti.
      In secondo luogo – qui non svelo nessun arcano – su questo blog, non riporto mai alcun pensiero personale. Se trovo un articolo o un passo d’autore, anziché il capitolo di un saggio, che abbia suscitato il mio interesse, lo riporto preoccupandomi di citare il libro in cui l’ho trovato.
      In terzo luogo, ottima lettura critica.

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      • Grazie per la cortese precisazione, per l’apprezzamento e grazie anche per la dovuta tirata d’orecchie. Me la merito! Chiedo quindi scusa per la svista circa la paternità delle idee esposte. In ogni caso resto un fervente ammiratore del tuo ottimo ed utilissimo, quanto anche imparziale, lavoro

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