di T. Hölscher, in AA.VV., Storia e civiltà dei Greci (dir. R. Bianchi Bandinelli), vol. 6. La crisi della pólis: arte, religione, musica, Milano 1990, pp. 355 sgg.
Negli ultimi tre decenni del V secolo il sistema di forze in se stesso conchiuso dell’arte della piena classicità, risolto nella cerchia di Fidia e di Policleto, fu posto in discussione, compromesso e infine spezzato. Questo sviluppo è in connessione con i profondi mutamenti verificatisi nell’ambito della vita pubblica e privata, intellettuale e religiosa; senza dubbio la guerra contribuì a rafforzarlo, ma certamente non fu essa sola a portarlo alla ribalta.
Ancora una volta fu da Atene che le arti figurative ricevettero impulsi decisivi: un segno delle straordinarie capacità creative di questa città nonostante la pesante situazione interna ed esterna a causa della guerra. I committenti più importanti erano sempre le istituzioni pubbliche, la pólis e i santuari, la cui configurazione collettiva determina per molti versi temi e forme dell’arte figurativa. Tuttavia, accanto ad esse si fa strada in misura sempre crescente l’iniziativa privata, soprattutto nei rilievi sepolcrali e votivi.
I grandiosi progetti dell’età periclea avevano reso disponibile una vasta schiera di scultori, educati da Fidia a uno stile altissimo e relativamente unitario: un formidabile potenziale artistico, ma anche un notevole impegno economico.
Le difficoltà finanziarie a causa della guerra avevano fortemente ostacolato le imprese di maggior mole nell’epoca successiva, com’è attestato soprattutto dalla storia della costruzione dell’Eretteo; ed era perciò scomparsa una delle ragioni più importanti del mantenimento di un così numeroso team di artigiani. Inoltre, anche la situazione storica favoriva il sorgere delle forze centrifughe, cioè di una molteplicità di correnti stilistiche. Il carattere eterogeneo di quest’epoca rende difficile il più delle volte datazioni precise su basi stilistiche. Ci atterremo qui piuttosto, per la statuaria, a determinate tendenze di fondo.

SCULTURA ARCHITETTONICA.
In Attica, una volta portato a termine il Partenone, le botteghe scultoree furono impegnate nell’erezione di una serie di templi dei quali alcuni votati ex novo, altri rimasti interrotti, ripresi secondo il programma edilizio pericleo. Il più delle volte la decorazione plastica di questi edifici è conservata così frammentariamente, che è a mala pena riconoscibile il contesto tematico e formale, soprattutto nel tempio di Ares il cui programma figurativo, evidentemente assai complesso, avrebbe dovuto contenere elementi chiave per la comprensione di quest’epoca: una grave perdita. Negli altri monumenti, laddove si possono ancora ravvisare i temi, questi sono in larga misura in relazione con Atene; la situazione politica poneva questa tematica in una posizione di particolare rilievo.
L’Hephaisteîon, il tempio di Efesto, fu iniziato nel 450 a.C. circa e già in questa prima fase possedeva sulla fronte un ciclo di metope con le imprese di Eracle e all’estremità orientale di entrambi i lati lunghi un ciclo con le imprese di Teseo. Le altre sculture sono più recenti e continuano lo stile del fregio e dei frontoni del Partenone. Il fregio orientale sembra raffiguri la vittoria di Teseo sui figli di Pallante, che volevano disputargli la signoria sull’Attica. Come nel fregio del Partenone l’episodio muove da entrambi i lati per confluire verso il centro; e ugualmente la scena centrale è incorniciata dalle figure degli dèi. Al centro sta Teseo, campione isolato con i quattro figli di Pallante, che come giganti lottano scagliando enormi massi. La sua figura ripete quella dell’Aristogitone del gruppo dei tirannicidi di Crizio e Nesiote, la sua vittoria contro la ribelle brutalità è intesa come mitico esempio della presente vittoria dell’ordinata vita civile che era stata ristabilita dopo l’uccisione dei tiranni. Il fregio più corto sopra l’opistodomo raffigura la battaglia dei Lapiti contro i Centauri; singoli gruppi si riallacciano strettamente alle metope meridionali del Partenone. Al centro compare nuovamente Teseo, secondo lo schema dell’Armodio del gruppo dei tirannicidi (il personaggio più giovane, giacché si tratta di un’impresa giovanile di Teseo); anche in questo caso egli, come soccorritore dei suoi amici e come difensore del diritto vigente, incarna l’ideale della politica attica del tempo. La composizione di entrambi i fregi è chiaramente simmetrica, singoli gruppi come quelli di Teseo e dei figli di Pallante presentano una sorprendente spazialità; i corpi sono resi in forte tensione e realisticamente, il loro movimento è più violento che nell’età di Fidia.
Per le statue frontonali e acroteriali attribuzioni e interpretazioni sono allo stato attuale delle cose ipotetiche. Un gruppo di due fanciulle che giocano all’ephedrismós, che sembra appartenere alla decorazione del tempio, è più tardo del fregio e segna il passaggio alle statue cultuali di Efesto e di Atena, che furono eseguite nel 421-415 a.C.

L’Efesto, opera di Alcamene, secondo Cicerone (De natura deorum, I 30, 83) stava ritto con entrambe le piante poggiate al suolo e la sua infermità doveva essere ben visibile anche se non sgradevole: un modo contenuto di esprimersi tipicamente classico, che però non rifugge completamente dal deforme. A quel che pare si sono conservate copie della testa e del corpo e inoltre dell’intera figura nelle arti minori. Il peso del corpo riposa tutto sulla gamba destra e su uno scettro (che caratterizzava il dio come antenato dei re di Atene) sorretto dalla mano sinistra; pur non avendo funzione portante, anche la gamba sinistra era pienamente appoggiata, segno della grave infermità. Sulla testa il dio porta il pílos, copricapo caratteristico degli artigiani.
L’Atena pertinente al gruppo scultoreo non è attestata finora con sicurezza. I rilievi della base erano lavorati a giorno: figure bianche su fondo scuro. Probabilmente la scena è conservata in copie: Gaia consegna Erittonio bambino ad Atena, sullo sfondo, Efesto; un tema dell’arcaismo attico, al quale si ricollega la pretesa dell’autoctonia, espressione del crescente sentimento patriottico del tempo. Efesto, il dio degli artigiani, attraverso la decorazione scultorea del suo tempio è inteso come il protettore di Atene e del suo tradizionale ordinato viver civile.
Le diverse tendenze della decorazione del tempio, da un lato i richiami nel contenuto al tirannicidio, a Teseo e all’arcaismo attico, l’adesione formale al Partenone sentito come “classico”, la composizione simmetrica di entrambi i fregi, dall’altro la libera spazialità di singole figure e gruppi, l’accresciuta tensione e il movimento dei corpi, delineano un quadro caratteristico di un’epoca di trapasso divisa tra vecchio e nuovo, fra rispetto e rifiuto dell’antico “ordine”.
Il tempio ionico di Atena Nike sull’Acropoli di Atene è per la tematica e lo stile della sua decorazione scultorea uno dei monumenti più caratteristici dell’epoca della guerra peloponnesiaca. L’edificio fu votato poco prima della pace di Callia (449 a.C.), ma subito dopo la sua realizzazione nel corso del nuovo ordinamento pericleo dell’Acropoli fu rinviata; la costruzione fu iniziata dopo i successi conseguiti negli anni venti del secolo, ancora durante il conflitto archidamico.

Il fregio sul lato orientale presenta un’accolta di dèi ed eroi, il cui significato è tuttora da chiarire, dove al centro sono riconoscibili Zeus, Atena e Poseidone. La scena deve aver a che fare con le battaglie che sono rappresentate sui tre restanti fregi: a sud la vittoria sui Persiani, a ovest e a nord la vittoria di Atene contro avversari greci, probabilmente all’inizio delle ostilità interne al continente greco negli anni cinquanta del secolo. È difficile spiegare singolarmente gli episodi; non si tratta tanto di una precisa descrizione storica quanto di una generica esaltazione delle famose imprese ateniesi del passato, che qui sono chiamate a far da modello alla guerra del momento. Così, in un certo senso, il tempio di Atena Nike continua il ciclo figurativo del Partenone sulle cui metope era raffigurato in che modo dèi ed eroi avevano difeso gli ordinamenti civili greci (e in particolare ateniesi) contro le minacce esterne. Similmente anche i frontoni del tempio di Atena Nike presentavano ed est, con ogni probabilità, la battaglia degli dèi contro i Giganti, a ovest quella degli Ateniesi contro le Amazzoni. Inoltre, sopra il timpano quali acroteri si trovavano ai lati due Níkai e al centro forse Bellerofonte, che aveva sconfitto in Licia la Chimera: anche questo episodio è un mitico precedente delle battaglie di età storica contro l’Oriente. Come nel ciclo figurativo di questo tempio, così nelle orazioni funebri ufficiali per i soldati caduti, le vittorie del passato storico erano esaltate in connessioni con quelle dei tempi mitici. E come in queste orazioni così nei fregi figurati non sono poste in risalto personalità storiche e le loro imprese individuali; si raffigurano battaglie generiche di singoli e piccoli gruppi, senza un capo, ognuno a sé stante: la democrazia non celebra l’individuo, ma il popolo tutt’intero. La tematica storica, del resto inusitata sugli edifici religiosi, ha acquisito qui la forma adeguata per un monumento della pólis.

Appena ultimato l’edificio templare, il santuario fu circondato sui tre lati lungo la pendice scoscesa dell’acropoli da una balaustrata decorata a rilievo. Su ogni lato siede Atena e sorveglia una schiera di Níkai celebranti una vittoria: vengono trascinati tori al sacrificio; si erigono trofei con armi greche e persiane e una Nike si slaccia i sandali, come talvolta si usa fare in un santuario. Anche se in parte i motivi sono decorativi, sarebbe sbagliato interpretarli come vuoti formalismi. Le numerose Níkai e i vari trofei sottintendono ancora una volta le molte vittorie del passato ateniese, quali sono descritte nel fregio del tempio; fregio e balaustra formano un’unità tematica. Il sacrificio tuttavia non riguarda Atena, alla quale non s’immolano tori. L’affinità di contenuti con le orazioni funebri ufficiali potrebbe piuttosto indicarci che in questo caso l’offerta è intesa per i caduti ateniesi sulle loro tombe comuni erette dallo Stato. Atena rappresenterebbe allora la città, la cui popolazione assisteva a tali solennità.
Questi rilievi vanno annoverati fra gli esempi più compiuti dello “stile ricco” in scultura. Con ogni probabilità provengono dalla medesima bottega che ha eseguito i fregi e nella quale dovettero operare scultori di chiara fama: la Nike che fugge spaventata dinanzi al toro è strettamente imparentata con una delle Menadi danzanti di Callimaco; quella che doma l’animale ricorda la scuola di Agoracrito; per quella che si slaccia il sandalo, non si ha ancora un’attribuzione sicura, ma fu certamente scolpita da uno dei maestri più importanti dell’epoca. I committenti dell’opera sono sconosciuti, ma in ogni caso si sono avvalsi per celebrare la vittoria degli artisti più all’avanguardia del loro tempo. La solennità tradizionale si ritrova soltanto nell’accolta di divinità del fregio orientale, dove le figure sono isolate e allineate simmetricamente come sulle basi delle statue cultuali di Fidia. Ma già i fregi di battaglia con la veemenza delle loro azioni, la complessità del movimento, il veloce trapassare dei motivi, l’interdipendenza a largo respiro dei vari gruppi, lo scaglionamento in profondità delle figure e il loro distacco dal piano di fondo spezzano la disciplina raccolta della forma della piena classicità. E infine, nella balaustrata, la violenza del movimento e – soprattutto nel gruppo con il toro – l’indipendenza dal piano di fondo delle figure, poste obliquamente rispetto a esso, vengono accresciute dai panneggi svolazzanti: questi servono da sfondo alle figure e al loro movimento, ne segnano i contorni con ombre profonde, vengono improvvisamente gonfiati dal vento, esaltano la sensualità dei corpi con un delicato e trasparente gioco di pieghe. In scultori meno vitali da tutto ciò scaturirà facilmente un astratto schema di linee, una maniera.
Nel fregio della balaustrata il movimento violento è articolato dai rigidi trofei, che con esso contrastano fortemente, e da una serie di Níkai stanti del pari rigide a guisa di pilastri. L’effetto maggiore si raggiunge qui grazie al contrasto dei mezzi stilistici e alla raffinatezza virtuosa del lavoro scultoreo. La pregnanza delle azioni, al pari della delicatezza delle superfici è espressione di quegli anni travagliati e stimolanti, nei quali, in maniera così lontana dalla norma, si osò decorare un edificio sacro della città con temi che celebravano in modo tanto diretto successi politici quasi contemporanei.
Durante la pace di Nicia (421-415 a.C.), sulla scia di una rinnovata sensibilità conservatrice per le antiche tradizioni religiose locali, fu iniziato l’Eretteo, che con un complicato progetto riuniva una serie di venerandi culti prevalentemente a carattere ctonio. Ricco, in particolare, è l’atrio annesso a sud, sopra la tomba di Cecrope, il cui architrave ionico è sostenuto da sei statue di fanciulle: le iscrizioni dell’edificio le definiscono kórai; probabilmente si tratta di un insieme di semi-divinità, forse Ninfe. In sostanza sono figure classiche poco adatte ad assolvere alla funzione di sostegni in un contesto architettonico: lo schema statico del V secolo è un principio costruttivo assai labile, il sistema di forze di queste statue è in se stesso conchiuso e autosufficiente. Ciò nonostante, agli occhi di chi guarda, non è messa in pericolo la stabilità della costruzione e il peso dell’architrave appare sostenuto con elastica leggerezza. Inoltre sono significative, da un lato, la severa simmetria della disposizione con la gamba portante di volta in volta posta all’esterno a mo’ di colonna e, dall’altro, la struttura stessa delle figure. Poiché la testa non prosegue la curva del corpo inclinandosi, ma al contrario è del tutto eretta, la figura non si conclude in se stessa, ma entra a far parte di un insieme più vasto. Al tempo stesso il portamento conserva un tratto più severo e arcaicizzante, accentuato dai rigidi boccoli che ricadono sulle spalle (e del resto l’idea delle Cariatidi è chiaramente mutuata dai thēsauroí ionici arcaici).

La costruzione dell’Eretteo fu interrotta poco prima di essere portata a termine a causa della sconfitta in Sicilia (413 a.C.); la sua ultimazione nel 410-406 a.C. servì poi ad impiegare manodopera nella precaria situazione economica verificatasi. Attorno alla cella e al portico settentrionale furono posti fregi, le cui figure vennero scolpite una per una nel chiaro marmo pentelico e poste su un piano di fondo di marmo scuro eleusino. Questa tecnica inusitata fornì di una preziosa fascia decorativa questo tempio già sovrabbondantemente ornato. Non si possono più ravvisare la composizione e i temi del fregio; lo stile è più avanzato rispetto a quello della balaustrata delle Níkai per la plasticità del modellato dei corpi i cui contorni sono segnati dal contrasto creato da forti ombre, per lo svincolamento delle figure dalla costruzione del piano del rilievo, ma anche per la calligrafia del disegno dei panneggi.
Che lo “stile ricco” non sia rimasto circoscritto ad Atene, è attestato da un monumento situato notevolmente lontano, quello delle Nereidi di Xanthos, ma anche, in particolare, dal tempio di Apollo a Phigaleia. Già la collocazione di un fregio all’interno della cella rappresenta una sorprendente novità; del pari è ardita la forma in cui vengono rappresentati i temi tradizionali della Amazzonomachia e della Centauromachia. Tipica è la figura di un Centauro morto, della cui testa si vede ancora soltanto la parte posteriore, un’immagine fortemente incisiva dello spegnersi della vita; ma, accanto ad esso, quasi spettrale, la maschera leonina, in visione completamente frontale, della leontéē, offre allo spettatore in certo senso il vero volto della rabbia dell’essere ucciso. Sopra il Centauro morto si erge saltando un altro Centauro, che con gli zoccoli posteriori mena un colpo sonoro sullo scudo che un Lapita sorregge con entrambe le mani innanzi a sé per ripararsi, mentre ancora a mezz’aria addenta a fauci spalancate il collo di un altro Lapita. L’espressione della morte, la rabbia e la violenza del combattimento, la transitorietà delle azioni: tutto questo viene qui esaltato ed esasperato con motivi completamente inusitati e lungi dall’equilibrio della piena classicità. Vi si aggiungono in altre lastre componenti patetiche, come bambini posti a repentaglio, o la pietà per i morti e i feriti; ed inoltre elementi che interrompono bruscamente l’andamento delle forme, come le pieghe esasperate fra le gambe ampiamente divaricate, e ancora i forti effetti ottici creati col contrasto fra luce e ombra e dall’alternarsi di un rilievo ora alto ora bassissimo fino a scomparire. Il fregio deve essere stato eseguito verso la fine del secolo da scultori che non si collocano nell’ambito della tradizione attica, ma che tuttavia hanno esaurito fino in fondo le possibilità dello “stile ricco”.

Quest’epoca dispiega un’incredibile ricchezza d’idee nell’inventare tipi di acroteri, per lo più figure che anche tematicamente richiedono una collocazione a grande altezza e nel libero spazio: scene di ratto, come Eos e Cefalo, Borea e Orizia; e inoltre Bellerofonte e la Chimera, Teseo che scagli giù dalle rocce Sciro, fanciulle che giocano all’ephedrismós, Níkai e altre figure alate o in corsa. Esiste qui una precisa concezione spaziale che prende alla lettera la collocazione in alto delle figure e le conferisce un significato concreto. Il volo e l’annullamento del peso materiale diventano una delle principali tematiche formali dell’arte di quest’epoca.
L’esempio migliore si coglie negli acroteri del tempio di Apollo eretto a Delo dagli Ateniesi con ogni probabilità tra il 425 e il 417 a.C. Al di sopra del frontone orientale, Borea e Orizia, assieme ad un sottostante animale in atto di saltare, formano un gruppo dal movimento esplosivo, che tuttavia, al contempo, dovendo assolvere alla funzione di coronamento del tempio, è rigidamente racchiuso in un triangolo; come acroteri laterali si innalzano ai due lati del gruppo due compagne di giochi di Orizia, figlie del re Cecrope. Al di sopra del frontone occidentale Eos, volando leggera, rapisce portandoselo alto sulle spalle il suo giovane amato, Cefalo, e dal basso ancora si slancia verso quest’ultimo il suo cane da caccia; ai due lati Ninfe spaventate fanno da cornice all’evento.

Le sculture si collocano chiaramente nella tradizione dei frontoni del Partenone; ma in luogo della veemenza contenuta dei movimenti e della chiara articolazione dei corpi, qui si fa strada una tensione verso l’alto che tutto investe. La felice connessione fra il potente dio tracio del vento e la figlia del re ateniese, fra la dea del mattino e il giovane e bel cacciatore si manifesta una leggerezza con la quale i rapiti vengono portati via, una connessione che, una volta felicemente istituita, è valida anche per il presente: Borea aveva mandato una terribile tempesta in aiuto dei suoi “cognati”, gli Ateniesi, già contro i Persiani e durante la guerra del Peloponneso Atene aveva stretto una lega importante con la sua patria, la Tracia; Cefalo, un eroe attico, come eponimo di Cefalonia attestava gli antichi legami di Atene con i Greci del mare di Occidente.
Più conservatore appare l’acroterio centrale del tempio di Ares, giunto fino a noi: una figura femminile, frontale, che arriva in volo e si posa, con un panneggio sorprendentemente semplice e simmetrico, anche se a destra, sul petto, la stoffa appare drappeggiata con raffinata sensibilità e la mano solleva con grazia un lembo del peplo. Questo gesto, prediletto in epoca tardo arcaica, è un sintomo dell’affiorare in questi decenni di forme di vita volutamente stilizzate.
Un motivo tradizionale è ripreso in maniera del tutto diversa in una Nike che proviene probabilmente dalla stoà di Zeus Eleuterio. In essa lo schema arcaico della corsa, pur conservando la sua disposizione piana, è trasformato in uno strabordante vortice di pieghe che ora procedono parallele, ora corrono contrapposte, un movimento circolare che sembra sottrarre del tutto la figura alla forza di gravità. La ricchezza formale della Nike consiste nel fatto che il motivo tradizionale viene reso integralmente in uno stile estremamente moderno, cosa possibile, com’è ovvio, solo a patto che questa modernità di stile non modificasse radicalmente e sotto più punti di vista le strutture di fondo dello schema formale.
Ancora diversa è una figura poco più tarda dell’agorà di Atene, non si sa con certezza se statua acroteriale, ma in ogni caso proveniente da un complesso architettonico: una fanciulla che avanza con passo concitato, con la testa gettata da una parte; il corpo traspare con sensualità dalla veste leggera come un soffio, ma quest’ultima è bruscamente interrotta di traverso al petto e alla parte inferiore del corpo da spessi fasci di pieghe, che tradiscono un principio compositivo chiastico. La struttura consapevolmente articolata dall’Afrodite del Louvre-Napoli è trasformata qui in un movimento violento di tensioni contrapposte: un misto di riflessione e vitalità, tipico per quest’epoca di esasperato razionalismo.

Qualora vi si aggiunga la Nike di Peonio, strutturata in modo ancora diverso, apparirà sorprendente il numero delle figure volanti che nella virtuosistica assenza di peso devono aver sortito l’effetto di apparizioni miracolose, così poste in alto in piena aria aperta. Nella scultura attica del tardo V secolo si ripetono due divinità: Atena e Afrodite. Anche se entrambe le dee non venivano più connesse a funzioni eccessivamente limitate, tuttavia due sono le tematiche che ricorrono con maggior frequenza, tematiche che in questo periodo rivestono un ruolo dominante, non soltanto nell’arte, ma nella vita in generale: il patriottismo in politica e la felicità nella vita privata.
Atena incarna soprattutto la fama e lo splendore della sua città, Atene. Le grandi statue di Atena in armi e con tutti i suoi attributi dell’età di Pericle, particolarmente la Prómachos e la Parthénos di Fidia, avevano mostrato a tutti, all’interno di un complesso programma figurativo, la grandezza e la potenza di Atene. Nel periodo successivo la dea appare spesso in gruppi di statue cultuali collegata con importanti divinità: ad esempio, con Efesto o con Ares che in tal modo acquistano legami singolarmente stretti con la città.
Fra le statue rimaste l’Atena Hope-Farnese con l’ampia egida e l’elmo ricco di decorazioni, segue la concezione fidiaca; la mancanza dello scudo attenua il suo carattere guerriero, mentre il manto gettato di traverso le conferisce una solennità tradizionale, alla quale corrisponde anche la patera che certo va supplita nella destra. La figura, con il suo accentuato contrasto fra le parti laterali del corpo, appartiene forse già al primo periodo della guerra: essa attesta la sopravvivenza di quell’orgogliosa sicurezza propria dell’età periclea.

Al contrario, l’Atena di Velletri, malgrado il suo formato monumentale, segna il trapasso ad una concezione più in sordina. L’egida è diventata una piccola fascia decorativa, la testa è inclinata verso l’attributo sorretto dalla mano sinistra, forse una Nike. In molte statue di Atena di quest’epoca si può osservare una maggiore accentuazione dei tratti umanamente pensosi, che è poi il sintomo di un mutamento nella temperie generale della città stessa.
Questo processo ha coinvolto persino l’immagine del dio della guerra. Dalle opprimenti esperienze dei primi anni della guerra peloponnesiaca è scaturita una famosa statua di Ares, la cui copia migliore è l’Ares Borghese. Probabilmente ripete la statua di Alcamene che, insieme all’Atena Areia dello scultore Locro di Paro, formava il gruppo culturale del tempio di Ares nell’agorà di Atene. La figura mostra una marcata ponderazione, la gamba in riposo è decisamente avanzata e la testa è accentuatamente inclinata nella stessa direzione di essa: in tal modo è infranto l’intimo equilibrio dello schema chiastico; la disposizione lungo il medesimo asse della testa e della gamba destra fa affiorare pesanti disarmonie. Non è più un dio animato da spirito guerresco, da furia travolgente, ma un dio ben conscio del dolore e della crudeltà di questa guerra: una consapevolezza che traspare anche dalle coeve raffigurazioni di battaglia. la divinità appare dunque piena di discordanze, inserendosi in tal modo in quel clima di instabilità e di contrasti che è tipico di questa generazione inquieta.
Lo Zeus di Dresda mostra il padre degli dèi in una posa volutamente imponente. Muovendo dalla solida compagine del lato relativo alla gamba stante, la figura è costruita tutta aperta e avanza nella medesima direzione grazie alla posizione del piede destro e alla torsione della testa. Quest’ultima, di chiara tradizione fidiaca, s’inserisce in un nuovo periodo non solo per il complesso intrecciarsi dei capelli, ma anche per la perdita di quella sublime lontananza delle opere della piena classicità; ad onta della sua aria regale, lo stesso Zeus è qui riportato in una sfera più prossima agli uomini.
Si comprende dunque come non soltanto i bisogni dei singoli, ma anche il generale senso religioso pubblico si articolassero nella venerazione di dèi ed eroi più vicini alla terra. Nell’Efesto di Alcamene, il dio artigiano come archēgétēs dell’industriosità artistica dell’uomo, era divenuto uno dei progenitori di Atene. Forse intorno al 430 a.C. un gruppo statuario dei dieci eroi delle phylaí fu posto nell’agorà di Atene, come monumento dell’ordine dello stato attico. Una testa di Napoli, aggrondata da una pesante, primordiale capigliatura di riccioli scomposti, e che si ricollega agli eroi delle tribù del fregio partenonico, può darci un’idea di questi eroi dei tempi remoti. Affine è una testa di Codro, copiata su una pasta vitrea romana, che stilisticamente richiama la testa dello Zeus fidiaco, ma per il ricco intrecciarsi della capigliatura è certamente un po’ più recente; è ripresa forse da una statua del santuario di Codro, Neleo e Basile, che fu completamente rinnovato nel 417 a.C. In tale considerazione per gli eroi delle proprie origini si rispecchia l’importanza crescente dei sentimenti patriottici del tempo.

Inoltre in quest’epoca si sviluppa una chiara predilezione per divinità con risvolti concettuali. Il capolavoro di Agoracrito di Paro era la statua cultuale del tempio della Nemesi di Ramnunte del 430 a.C. circa. Qui la dea era venerata da un lato come signora di piane e animali e la sua immagine la mostrava con un ramo di melo in mano e i cervi sulla corona; ma dall’altro ella era anche la vendicatrice dei diritti umani e la sua potenza si era vista in atto nella non lontana battaglia di Maratona quando erano stati sbaragliati i Persiani; perciò le dee della vittoria erano contrassegnate dai cervi sulla corona. Nell’altra mano una phiálē con teste di negro attestava l’estendersi del potere di questa grande dea fino ai confini del mondo abitato. Di recente sono state identificate copie di questa famosa scultura: una figura dal chiaro carattere afrodisio, il cui corpo non è analizzato sotto il profilo della sua funzionalità organica tramite la ponderazione, ma è raffigurato in ampie masse volumetriche, sulle quali fluiscono ricchi panneggi.
La Nike che Messeni e Naupatti eressero a Olimpia in cima ad un alto pilastro triangolare dopo la vittoria su Sparta a Sfacteria (425 a.C.), ci riporta nel cuore degli eventi della guerra peloponnesiaca. Il momento è una risposta polemica allo scudo votivo appeso dagli Spartani sul culmine del tempio di Zeus ad Olimpia dopo la vittoria sugli Ateniesi a Tanagra (457 a.C.); assieme ad altri consimili anathḗmata esso fa parte di una fitta rete di monumenti che rispecchiano le costellazioni e i conflitti politici di quell’epoca. In questo senso l’arte, a partire dal V secolo, è diventata consapevolmente storica e politica.
Nella figura della Nike il volo è reso tangibile in una maniera del tutto nuova dal mantello che si gonfia come un paracadute. Tecnicamente la statua è un pezzo di bravura: l’impressione è accresciuta dal forte contrasto creato dalle rotondità chiare del corpo e dai solchi scuri del panneggio. Il corpo è posto in risalto sullo sfondo del manto, ed è chiaramente orientato secondo un preciso punto di vista, ribadito anche dal pilastro triangolare. In questo periodo per la prima volta l’osservatore è coinvolto nella rappresentazione come punto di riferimento dell’efficacia di quest’ultima.
Al pari della Nike di Peonio, molte opere dello “stile ricco” sono contrassegnate da una forte carica di sensualità. La cosa è quanto mai evidente nelle numerosissime raffigurazioni di Afrodite di quest’epoca, nelle quali questa generale componente stilistica è divenuta parte integrante del tema stesso della raffigurazione. E, al tempo stesso, è in esse visibile come mai in altre opere quale molteplicità di correnti stilistiche dominò l’arte di quel tempo.

In questi anni si assiste a un grande rifiorire del culto di Afrodite “nei giardini” lungo l’Ilisso. La bellezza della sua statua cultuale, opera di Alcamene, era così straordinaria che si disse che Fidia stesso vi avesse posto mano. Probabilmente è tramandata nel tipo dell’Afrodite appoggiata, che già dal suo apparire, nel 430 a.C. circa, esercitò ampia influenza irradiandosi nei più svariati generi di produzione artistica. Appoggiata leggermente a un pilastro o a un tronco d’albero, la dea porta la gamba sinistra, che è quella in riposo, di fronte al piede destro che è quello portante, così che la figura appare caratterizzata proprio da questa posa elegante. La vibrante torsione del corpo, facendo perno sul fianco sinistro, teso diagonalmente, muove dal sostegno e dal fluente drappeggio che ricade pesantemente sopra di esso, con una grazia ricca di movimento che fa ben comprendere la fama di quest’opera dell’antichità. Più recente è un’Afrodite, che del pari sembra si trovasse in Atene e che rappresenta la più chiara testimonianza di come in Attica si stato recepito lo schema policleteo puro del chiasmo: è l’Afrodite del Louvre-Napoli. La veste leggera, che sembra quasi bagnata, fa trasparire il corpo quasi senza veli; lo solcano pieghe sottili come linee di forza. Lo scaricarsi del peso sulla gamba stante è reso evidente da lunghe linee slanciate a forma di S; in chiastico contrasto al di sopra e al di sotto di volta in volta l’un l’altro corpo è posto in risalto dalle linee aggiranti del panneggio, l’altro lato è ricacciato indietro a mo’ di sfondo. Schema costruttivo razionale e fascino sensuale si fondono qui in modo del tutto singolare. Ancora diversa l’Afrodite Doria-Pamphili: una figura le cui forme esuberanti s’innestano ad una struttura visibilmente allentata del corpo e delle membra in parte divergenti. Qui non è primario l’interesse per un’articolazione chiastica, ma quello per la ricchezza dei motivi del panneggio che ricoprono fluenti il corpo. In questa Afrodite Doria-Pamphili è evidente la dipendenza dall’Afrodite del frontone orientale del Partenone, ma anche un’accentuazione della ricchezza di contrasti. Ancora più innanzi in questa direzione si spinge l’Afrodite dell’agorà di Atene, nella quale il corpo a mala pena si avverte come coerente contesto funzionale e serve ormai solo come sostegno degli abiti che, nelle loro raffinate e sensuali trasparenze, nei loro contrasti di luce e di ombra, nel loro movimento espressivo ed ondeggiante, ma non più fondato su un motivo concreto, toccano il vertice dello stile virtuosistico nella lavorazione del marmo di quell’epoca.
In queste statue di Afrodite si coglie nella maniera più evidente quel che ha comportato questo stile delle vesti “bagnate”: la totale sovranità nella rappresentazione della materia, con lo scopo di trarre gli effetti più esasperati dai volumi corporei, dai sistemi di forze delle figure e, al tempo stesso, dalle capacità sensuali delle superfici.
Da parecchie delle sculture esaminate traspare un forte interesse per gli stati emozionali. Anche sotto questo profilo è stata l’arte partenonica ad aprire nuove strade, ma la generazione successiva è poi andata notevolmente più avanti. Un esempio tipico è il gruppo di Procne e Iti, opera originale di Alcamene del 430 a.C. circa, che lo stesso autore dedicò sull’Acropoli. La scultura è caratterizzata dai contrasti: il fanciullo, che con una forte torsione e con grande espressività stringe al grembo della madre il suo corpo snello e teneramente infantile, e, per contrapposto, la donna massiccia, dalle vesti pesanti, che poggia delicatamente la destra sulla spalla del figlio e al tempo stesso con la sinistra solleva la spada assassina. La composizione rende tangibile la tensione di un momento di profonda crisi emozionale con quell’intensità ben nota anche alla coeva tragedia. Tipico dell’epoca è che i moti dell’animo traspaiano soprattutto dall’atteggiarsi dei corpi. Certo i tratti del volto con la loro sensibilità possono potenzialmente assumersi il rendimento della situazione spirituale espressa nella tematica, ma di per loro tradiscono emozioni meno specifiche e perciò non si differenziano essenzialmente dalle teste di altre figure.
RILIEVI SEPOLCRALI.
Intorno al 430 a.C. riprese in Atene la produzione di rilievi sepolcrali, interrotta all’inizio del V secolo evidentemente a causa di una legge suntuaria contro il lusso delle sepolture. Già a partire dalla metà del V secolo le lèkythoi a fondo bianco si trasformano da oggetti dell’effettivo culto dei morti in monumenti figurati e decorativi sempre più grandi e le scene che vi compaiono sono improntate sempre più ad una tematica funeraria. Questo processo portò di conseguenza alla creazione di monumenti figurati in pietra: stele, loutrophóroi, lèkythoi, che furono poste su terrazze funebri, disposte a mo’ di facciate. Vi si aggiunse la guerra del Peloponneso e la peste, eventi che forse non da soli provocarono la ripresa della produzione di rilievi sepolcrali in Attica, ma che sicuramente la incrementarono fortemente.

Uno dei fondamenti importanti di quest’arte sepolcrale attica fu lo stile dell’epoca partenonica, alla cui sensibile severità fu dischiuso il tema della morte con una nuova varietà di angolazioni.
Le forme delle stele che vengono adoperate furono in parte quelle dell’allora fiorente arte funeraria delle isole egee (trasmesse certo dagli scultori che erano stati attirati ad Atene dai programmi edilizi dell’età di Pericle). Il frammento della stele di una fanciulla mostra con chiarezza questa influenza isolana. Anche i committenti in un primo momento sembrano in buona parte essere degli immigrati. Lo sviluppo di questo tipo nel suo insieme va però visto solo nell’ambito della storia di Atene, dove nel V secolo venne elaborato un gran numero di forme diverse, finché all’inizio del IV secolo si creò un determinato canone.
La stele alta e stretta con una figura di profilo si trova ancora solo raramente; la figura del V secolo ha bisogno di uno spazio dove agire potenzialmente più ampio. Così il giovane Eufero, ad esempio, ha relativamente molto spazio dinanzi a sé, non soltanto per sorreggere lo strigile, ma soprattutto per spiegare lo sguardo, la cui intensa profondità non può essere motivata da un gesto concreto, ma che implica l’intero destino di questo giovane prematuramente scomparso; è lo spazio dinanzi alla figura a conferire questa “atmosfera” alla rappresentazione. Una migliore soluzione a questo problema (e pertanto adoperata più di frequente) è offerta dalle figure viste frontalmente o da quelle sedute di formato più ampio, come quella del calzolaio Santippo.
Ma il tema più ricco di sviluppi futuri dell’arte sepolcrale di quest’epoca è la rappresentazione con più personaggi, nella quale la figura trova modo di realizzarsi nel rapporto con un partner. Mentre nella stele di Santippo i bambini sono quasi solo degli attributi, la schiava è per Egesò una vera e propria antagonista. Il tipo è noto fin dall’epoca arcaica, ma qui è elaborato secondo un più severo rapporto di connessione fra le due donne. In entrambe le figure la curva a S dei dorsi (e della sedia) e il semicerchio delle braccia portano a risalire verso le teste, i cui sguardi muti e intenti s’incrociano al centro: un gioiello, tratto da uno scrigno dalla destra protesa, evoca la felicità della vita perduta.
L’evento luttuoso, che è accennato solo in modo assai contenuto sulla stele di Egesò, è invece chiaramente espresso su un rilievo da Egina. Il tipo con un giovane e il suo schiavo si rifà a stele di atleti dello stile severo note al di fuori dell’Attica; ma qui fra le due figure si è inserita la consapevolezza della morte; nessun gesto le unisce, il loro sguardo si perde nel vuoto; il pilastro, al quale si appoggia lo schiavo, deve essere inteso come la tomba stessa. Senza le conquiste dell’arte partenonica certo non sarebbe stato possibile un simile processo d’interiorizzazione privando la scena di qualsiasi azione.
Dall’inizio del V secolo gli uomini sui rilievi funerari ricevono la loro caratterizzazione soprattutto dalla contrapposizione ad altre figure: padrona e serva, genitori e figli, marito e moglie. Come conseguenza dell’adozione di questi temi, e con il favore della guerra peloponnesiaca, vi si aggiunge un nuovo tipo: il guerriero in duello. Esso s’incontra non solo su tombe di singoli, ma anche su fosse comuni, dove venivano sepolti i caduti ateniesi di ogni singolo anno. Il rilievo con cavaliere Albani deve essere appartenuto ad una tomba eretta dalla cavalleria attica per i suoi morti intorno al 430/420 a.C. In un aspro paesaggio roccioso (la cui raffigurazione in un rilievo è una delle più ardite anticipazioni dell’arte del tempo) è un cavaliere, saltato già da cavallo, solleva la spada fin dietro le spalle calando un fendente contro un nemico atterrato e privo di difesa. Tra l’animale che balza in avanti e l’avversario, si colloca il vincitore in un vortice d’impulsi contrapposti (evidenti soprattutto nelle braccia e nell’orlo svolazzante del mantello); al contrario gli sguardi sprofondano intensi l’uno nell’altro, certo legati dalla consapevolezza di un destino comune sul campo di battaglia. In un senso tutto democratico, l’anonimo cavaliere sta a rappresentare tutti i caduti; egli incarna il valore della collettività.

I rilievi sepolcrali mostrano dunque gli aspetti e i rapporti fondamentali della vita precedente. Inoltre nelle raffigurazioni è inclusa spesso in modo stranamente irreale la consapevolezza della morte. Come sulle lèkythoi a fondo bianco le scene della vita sono sempre più fortemente impregnate di accenni alla morte e in tal modo acquistano una singolare molteplicità di aspetti, così sulla maggior parte dei rilievi funerari più statici il morto appare spesso sprofondato in se stesso o con gli occhi sbarrati nel vuoto, e i sopravvissuti sono più volte piombati nell’afflizione. E, come sulle lèkythoi, su alcuni monumenti qualitativamente superiori questo tratto è ancor più sottolineato con l’introduzione di oggetti del culto dei morti come la lèkythos, la benda o la tomba stessa. Tuttavia la morte non è contrapposta ai sopravvissuti come un’altra esistenza nell’aldilà, come spesso si è pensato. Il tema è la vita perduta.
Questa interpretazione vale perfino per un’apparente eccezione: l’inusitata lèkythos marmorea di Mirrine, un’opera eseguita secondo lo stile lineare della fine del V secolo. Hermes Psicopompo con mano delicata ma inesorabile porta la defunta lontano dai suoi familiari che la salutano per l’ultima volta. È impressionante il carattere irreale della scena: i parenti guardano soltanto la defunta; Hermes resta loro invisibile, si colloca in un rapporto spaziale e irrazionale fra i vivi e i morti ed è connesso alla sola Mirrine. Questa non vede né lui, né i suoi; è già di gran lunga rapita al mondo dei vivi e segue il dio con passo titubante, la mano rattrappita aggrappata al mantello, tutta compresa nel suo destino. Il tema della comunanza di vita brutalmente interrotta è qui portato fino ai confini della morte.
In luogo dell’arte relativamente omogenea della nobiltà arcaica con la sua qualità quasi sempre eccellente e i suoi temi dall’impronta aristocratica, qui si chiude un mondo assai stratificato. Accanto a pochi capolavori compare un’ampia produzione di qualità corrente, in parte con rilievi di modeste dimensioni, connessa con le fasce sociali inferiori; accanto a membri di buone famiglie, spesso giovani uomini e donne, s’incontrano il calzolaio, il fabbro e simili; non di rado i committenti sono meteci e molte pietre tombali sono state rinvenute presso il Pireo. La famiglia con le donne, i bambini e gli schiavi gioca il ruolo centrale: è un mondo “borghese” che si presenta in forme tipicizzate.
RILIEVI VOTIVI E UFFICIALI.
La religiosità privata determinò nel tardo V secolo una nuova fioritura di rilievi votivi, eretti in onore non solo delle grandi divinità olimpiche, ma soprattutto di quegli dèi ed eroi che assistevano gli uomini nei loro bisogni personali. Particolarmente ci è noto da numerose testimonianze figurative il culto di Asclepio, assai fiorente in quest’epoca. Un esemplare caratteristico, proveniente dal Pireo, mostra una guarigione miracolosa: la malata giace su un letto immersa nel sonno guaritore; Asclepio e Igea le si accostano, la dea in severo atteggiamento ieratico, il dio, al contrario, caritatevolmente curvo in avanti; e ancora, a rispettosa distanza, la famiglia raffigurata in dimensioni minori.

Circa contemporaneamente, verso il 400 a.C., un santuario campestre di Cefiso fu adornato di molti ex voto. Un rilievo particolarmente grane e di un certo livello qualitativo fu dedicato da una certa Senocratea per l’educazione di suo figlio: in primo piano Cefiso si china clemente verso i mortali raffigurati più piccoli e poggia i piedi su un altare dedicatogli da Senocratea; attorno a quest’ultima compaiono varie divinità ed eroi, che erano adorati nel medesimo santuario. La scena è chiaramente dedotta dal gruppo centrale del fregio orientale del Partenone; ma le figure divine sono qui più vicine ai mortali che non su quel monumento ufficiale dello stato del periodo pienamente classico.
Alcuni tratti di rilievi votivi richiamano da presso l’arte sepolcrale rifiorita in Atene nel medesimo torno di tempo: la profonda ed intima sensibilità per il dolore e la morte, il ruolo importante della famiglia, soprattutto delle donne e dei bambini, in breve un’intensità di sentire sono posti in primo piano assieme all’importanza che viene ad assumere il privato, il personale.
I rilievi con i quali più volte vengono decorate le iscrizioni ufficiali hanno avuto importanza fino ad oggi nell’ambito degli studi soprattutto come punti di riferimento per la cronologia storico-artistica perché offrono una datazione precisa. Si è fatta meno attenzione invece al loro contenuto, mentre questo aspetto è assai caratteristico per quest’epoca. Sono affini ai rilievi votivi sia nella loro forma esteriore che nella loro funzione di doni votivi; quanto al contenuto rappresentano invece una varietà a sé. Ad un trattato fra Atene e Samo (sottoscritto nel 403/2 a.C.) appartiene un rilievo nel quale compaiono Atena e l’Hera di Samo che si porgono la mano a ratifica del trattato: non si tratta di divinità fatte oggetto di un omaggio cultuale, come nei rilievi votivi, ma delle divinità rappresentanti dei due Stati. Vien qui tradotto in immagine un avvenimento politico. Proprio nella sfera politica si diffondono sempre più in quest’epoca le rappresentazioni concettuali, e non è certo un caso che questi rilievi legati a documenti ufficiali siano noti a partire dal V secolo e si facciano sempre più numerosi dalla fine del secolo in poi.

RILIEVI VARI.
L’estasi dionisiaca è il tema di un ciclo di Menadi, spesso poi ripetute nei rilievi neoattici. Il movimento non è tanto riposto nei corpi quanto nel vorticare delle vesti, i cui lembi in parte non seguono più neppure impulsi reali, ma suggeriscono l’ebbrezza della danza in maniera tutta formale (a volte si tratta di un ornato quasi astratto). Lo scultore, probabilmente Callimaco, ha sviluppato in queste figure una maniera calligrafica. Il tema dovette essere di una certa attualità all’epoca: nelle Baccanti di Euripide il thiásos dionisiaco sta a significare la speranza della liberazione dalle preoccupazioni quotidiane, al limite il desiderio nostalgico per un immaginario e lontano paese di sogno, sede della felicità (chiaramente un tipo diffuso di fuga dalla realtà, dall’oppressione degli eventi del momento).

Del pari in copie romane è tramandato un gruppo di quattro famosi rilievi con scene mitiche, ognuna con tre figure, che partecipano assai da vicino all’atmosfera dei rilievi funerari. Su uno di essi è raffigurato il momento carico di tensioni in cui Orfeo porta fuori dagli Inferi Euridice, ma infrangendo il divieto la guarda in viso prima del tempo ed Hermes, il dio che guida i morti, la trattiene e inesorabile l’afferra per il polso per ricondurla indietro. La composizione, nel ristare e nel volgersi delle figure, nell’incrociarsi delle braccia e delle mani, descrive con grande efficacia numerosi nessi interni. La coppia mortale strettamente unita in contrapposizione al dio, i due uomini simmetricamente ai due punti opposti e nel mezzo la donna della quale si decide la sorte; Euridice già legata ad Hermes per la consonanza del movimento e separata da Orfeo: in questi rapporti è resa tangibile tutta la fatale odissea dei personaggi. La scena va vista nel contesto degli altri tre rilievi pertinenti: Medea e le Peliadi attorno alla pentola in cui Pelia doveva essere ringiovanito; Eracle che libera Teseo dagli Inferi, mentre Piritoo rimane indietro; Eracle fra le Esperidi. Finora non è stato ravvisato con sicurezza quale sia il nesso interno che lega il ciclo. È chiaro comunque che in esso i destini degli eroi sono in genere commisurati alle possibilità di superamento della morte: un tema che sembra aver interessato con rinnovata intensità quest’epoca.
SINGOLI ARTISTI.
Una delle particolarità di quest’epoca consiste nel fatto che ora le varie correnti artistiche divergono l’una dall’altra assai più di prima. È indubbiamente una conseguenza di un momento di maggiore riflessione dell’operare artistico, ma rispecchia anche le differenze sempre più profonde dei modi e delle concezioni di vita generali. In questi decenni si trovano l’una affiancata all’altra e nette come mai prima tendenze consapevolmente conservative, e questo sia in arte che in ogni altro campo dell’attività umana.
L’archeologia, sulla scia della tradizione del XIX secolo, ha più volte inteso la storia dell’arte come la storia degli artisti. Oggi non è più concepibile questo isolamento delle singole personalità artistiche. Ci si comincia ad accorgere che l’operare artistico – soprattutto in quest’epoca, quando tutta la grande arte era pubblica – germoglia da una situazione storica generale nella quale accanto all’artista rivestono un’importanza determinante anche il committente ed il corrispondente pubblico. In un’analisi del genere tuttavia non va dimenticato che anche il ruolo dell’artista in seno alla società muta e che, proprio nel V secolo, in particolare nella seconda metà, si è verificato un cambiamento significativo. Gli artisti, infatti, avevano sviluppato un’acuta consapevolezza sia dei loro mezzi formali sia del loro personale stile, avevano in parte elaborato teoricamente il modo di operare; il crescente individualismo di singole personalità andò a coincidere con una società disposta ad accogliere ammirata manifestazioni d’eccezione anche in quest’ambito. In quest’epoca perciò ha maggior senso che in altre epoche una ricerca delle singole personalità artistiche. Tuttavia, l’eccessiva tendenza delle passate generazioni a definire i “maestri” spesso ha portato a trasgredire alle regole di un rigoroso metodo di ricerca, al punto che oggi da più parti si è diffuso un senso di rinuncia e di scetticismo. D’altra parte, proprio in questi ultimi tempi, si è giunti a definire sulla base di criteri obiettivi alcune delle opere dei più famosi scultori di questi decenni, note alla tradizione scritta. Esse ci offrono nuovi punti di vista per l’impostazione della ricerca. Qui con la dovuta cautela verranno delineati i caratteri di due esponenti di questa generazione, non certo per dar vita alla vecchia “storia degli artisti”, ma per dare un esempio del ruolo che ebbero in quell’epoca le personalità artistiche.
ALCAMENE.
Questo artista è uno dei primi scolari di Fidia; raggiunse già fama autonoma quando il suo maestro era ancora in vita e fin verso la fine del secolo rimase lo scultore più importante in Atene. Qui lavorò, a quel che pare, soprattutto su commissione dello Stato alla decorazione figurata dei templi e in particolare ad una serie di statue cultuali. Sono state identificate con buona dose di probabilità numerose sue opere e possiamo farci un quadro relativamente ricco della sua attività.

Si è conservata nell’originale la Procne, che egli stesso dedicò sull’Acropoli, una pesante figura con il peplo sulla scia delle figure femminili del Partenone, la cui modernità risiede soprattutto nel contrasto formale e, al tempo stesso, emozionale con il figlio Iti, che si rifugia nel suo seno con una torsione del corpo estremamente espressiva. Circa nel medesimo torno di tempo, verso il 430 a.C., deve essere stata creata la sua opera più famosa, l’Afrodite dei Giardini. Questa è stata ravvisata in maniera convincente in una figura morbidamente appoggiata che del pari rielabora forme partenoniche in una grazia vibrante. Durante la prima fase della guerra del Peloponneso, ad Alcamene dovette essere affidato l’incarico di eseguire la decorazione scultorea del tempio di Ares. L’immagine cultuale ci è tramandata probabilmente dall’Ares Borghese, che mostra nuove possibilità espressive nella sua voluta mancanza di ponderazione; invece i frammenti di un fregio provenienti dal tempio di Ares tradiscono legami sia con la Procne che con l’Afrodite. Le immagini cultuali dell’Hephaisteîon nell’agorà risalgono al periodo della pace di Nicia. La testa e il corpo dell’Efesto sono attestati da copie; il dio è rappresentato al tempo stesso come patrono degli artigiani e come il grande progenitore dei mitici re ateniesi. Il supposto rilievo della base con la nascita di Erittonio riprende in una figura il tipo dell’Afrodite. Vi si aggiungono due immagini divine arcaizzanti, entrambe appartenenti ai culti dell’ingresso dell’Acropoli ateniese. L’antica immagine tricorporea della dea riceve per la prima volta la sua forma poi rimasta canonica nell’Ecate Epipirgidia, posta presso il tempio di Atena Nike: tre figure uguali di fanciulla in abbigliamento arcaico, prive di ponderazione, disposte ordinatamente attorno a un palo. L’opera non è nota da copie, ma si può ravvisare in un gran numero di rielaborazioni nell’ambito della produzione artigianale.
A sinistra, accanto all’ingresso dei Propilei, doveva trovarsi l’Hermes Propileo, un’erma con una corona di grossi riccioli arcaizzanti e con una barba a punta e simmetrica attorno al volto pieno di dignità. L’opera, che deve essere stata creata in età periclea, è stata spesso copiata e designata come opera di Alcamene in una copia di Efeso. Dello scultore la tradizione scritta ricorda inoltre il Dioniso del santuario presso il teatro dedicato a questa divinità e la Hera di un tempio sulla strada del Falero. Mantinea gli affidò l’incarico di eseguire un Asclepio. La fama di Alcamene è legata a queste immagini divine.

Queste opere parlano un linguaggio tradizionale e di grande solennità ed è certo questa la ragione per cui ad Alcamene furono commissionate le immagini cultuali dei santuari più venerati. Vi corrisponde il sentire di una vasta corrente all’interno della popolazione ateniese dell’epoca che, tornando ai valori tradizionali, si riprometteva di ristabilire l’ordine pubblico. Ma non basta semplificare così le cose quando si voglia formulare un giudizio su Alcamene. Un ritorno al passato puro e semplice, senza riflettere sulla mutata situazione dei tempi, era impossibile e infatti in Alcamene le forme tradizionali appaiono rielaborate in conformità alle esperienze del presente.
Con chiara consapevolezza, come pochi altri artisti attici, Alcamene ha pienamente accolto lo schema della ponderazione chiastica di origine policletea. Ma lo scopo cui tende attraverso di essa è assai diverso da quello di Policleto, che nel suo sistema di contrapposizioni vuole rendere evidenti le funzioni fisiche del corpo e delle sue parti: Alcamene, in maniera assai più varia, adopera le possibilità offerte dalla ponderazione come un mezzo espressivo. Nell’Efesto la gamba completamente in riposo è avanzata con tutta la pianta del piede, per significare la pesantezza e l’incapacità a sorreggere effettivamente il corpo. L’Ares con la sua gamba portata in avanti e l’inclinazione della testa spezza completamente l’ordine chiuso del sistema chiastico, chiaramente per esprimere uno stato d’animo di oppressione e d’inquietudine. Nell’Afrodite, d’altro canto, l’insieme formato dal lato sinistro tutto teso diagonalmente con il fianco destro che torcendosi si porta in avanti, rappresenta una rielaborazione ampiamente riuscita del chiasmo policleteo che pone in risalto tutta la leggiadria della dea. Sia nell’Afrodite sia nell’Ares in luogo dello slancio contrapposto delle membra del corpo si realizza un movimento che corre quasi senza interruzioni lungo una diagonale dal piede avanzato fino alla spalla sinistra arretrata e che è tipico per il tardo V secolo. Infine, nel gruppo di Procne si crea nelle due figure una brusca contrapposizione fra la verticalità pesante dell’una e la fragile curva dell’altra – Iti sembra la gamba in riposo di Procne – e in tal modo vengono espressi lo stato d’animo della madre, carico del peso del destino, e la mancanza di difesa del figlio che si stringe a lei inerme.
Dunque, Alcamene fa sue, riempiendole di nuovi significati, le possibilità insite nella ponderazione e le rielabora giungendo a espressioni del tutto nuove. È determinante in questo processo che non si tenda più tanto ad un sistema di forze fisiche, cioè a seguire le leggi di natura, ma a delineare caratteri individuali o impulsi dell’animo che frantumano sempre più l’ordine che fino ad ora aveva dominato la struttura complessiva delle figure. Così Alcamene, in maniera quanto mai differenziata, ha destinato i mezzi espressivi del suo tempo alla rappresentazione di un’esperienza che certo allora dovette essere qualcosa di assai nuovo: l’importanza crescente di motivi e interessi personali in ogni sfera della vita.
Questo spostamento delle capacità espressive delle forme artistiche su un nuovo piano fu di grandissima importanza per il successivo sviluppo dell’arte. Sotto questo profilo, Alcamene, malgrado il suo atteggiamento di fondo tradizionalista, fu uno degli artisti che schiusero la via alle esperienze del IV secolo.
AGORACRITO.
La tradizione scritta ci dice che questo scultore era originario di Paro, che era lo scolaro prediletto di Fidia e – anche se ad un gradino più basso nel favore degli Ateniesi – il più importante concorrente di Alcamene. Solo dalla recente identificazione della Nemesi di Ramnunte possiamo farci un’idea fondata del suo stile. Si tratta di una statua nella quale la ponderazione non è adoperata come principale mezzo figurativo, né per analizzare il corpo e le sue funzioni, come in Policleto o nel maestro dell’Afrodite Fréjus, né per dare espressione a stati d’animo riposti; piuttosto il corpo trae sviluppo dall’accentuata verticalità del lato stante in tutta la sua ampia pienezza e rotondità ed è posto in risalto nelle sue qualità sensuali dalla ricchezza fluente dei panneggi.

Grazie alla Nemesi possiamo ravvisare in alcune copie la Madre di Agoracrito, che stava nell’agorà di Atene. Inoltre possiamo aggiungere lo Zeus di Dresda, che nell’atteggiamento del corpo e nell’andamento del panneggio è assai vicino alla Nemesi e presenta anche stretti nessi con i frammenti dei rilievi della base della Nemesi stessa. In tutte queste statue è chiaro il rapporto con l’arte partenonica nello Zeus con il Poseidone del fregio orientale, nella Nemesi e nella Madre con le figure K, L, M del frontone orientale. Inoltre, all’Afrodite giacente di questo gruppo frontonale si riallaccia l’Afrodite Doria-Pamphili, sia nella caratterizzazione del panneggio sia nella compagine allentata del corpo; anche questa scultura deve essere stata creata almeno nella cerchia di Agoracrito.
Questo scultore fu sicuramente uno dei più importanti artisti che dall’arte partenonica svilupparono la ricchezza virtuosistica del puro “stile ricco”. D’altro canto egli non fu l’unico artista canonico di questa corrente: Peonio di Mende e Callimaco si erano proposti i medesimi effetti, ma li raggiunsero con altri mezzi. Fino ad oggi non si sa quasi nulla dei committenti di Agoracrito, perciò sono possibili solo vaghe supposizioni su quale fosse la cerchia che apprezzava questo stile.
CARATTERI GENERALI DELLA SCULTURA IN ATENE ALLA FINE DEL V SECOLO.
Nella seconda metà del V secolo Atene, accanto ad Argo, acquista una posizione sempre più chiaramente preminente fra i centri produttori di opere d’arte in Grecia. L’arte di Fidia e dei suoi scolari ben presto andò imponendosi con sempre maggiore autorità anche al di fuori di Atene. Atene era predestinata a divenire il centro della Grecia, sia per le arti figurative sia per le altre sfere culturali, per la presenza di un pubblico largamente intellettuale che, con uno spiccato ottimismo razionale, discuteva animatamente anche i problemi dell’arte. Le manifestazioni di arte figurativa venivano osservate con occhi vigile e critico, sia per le questioni relative ai contenuti rappresentati, come per le ambiziose pitture fatte fare da Alcibiade per la sua vittoria sportiva e che suscitarono dispute fra i giovani e i benpensanti (Plutarco, Vita di Alcibiade, 16), sia per problemi squisitamente artistici, come per Callimaco del quale si criticò che per l’eccessiva accuratezza andasse perduta nelle sue opere la grazia (Plinio, Naturalis Historia, XXXIV 92), ed è tipico dell’epoca che fino a quel momento era stato uno degli indiscussi fondamenti dell’arte. Un’idea dei dibattiti di quei tempi ci è fornita dai dialoghi fra Socrate e Parrasio e lo scultore Clito, tramandati da Senofonte, nei quali trovano eco le leggi formali del chiasmo, il procedimento eclettico di un modo di rappresentare idealizzato e le possibilità di un tipo di raffigurazione psicologica (Senofonte, Memorabili, III 10, 1). In questo periodo furono soprattutto gli stessi artisti a cercare i presupposti per la creazione di una teoria artistica, presupposti già delineati da Policleto; in singoli casi si colgono collegamenti con la sofistica. La struttura razionale dell’Afrodite del Louvre-Napoli è chiaramente un segno di questa consapevolezza presente nell’operare artistico.
Questo era il clima spirituale nel quale alcuni degli artisti più notevoli furono esaltati al punto da divenire personalità celebrate. Toccò soprattutto a pittori come Zeusi e Parrasio, che con il loro comportamento stravagante, la loro autoesaltazione e non da ultimo il prezzo delle loro opere, attestano una posizione sociale simile a quella dei sofisti; ma questo processo, in maniera generale, deve aver investito anche la scultura. A quanto sembra, gli artisti più importanti assunsero un profilo individuale sotto aspetti quanto mai disparati. In questo periodo tendenze stilistiche contrapposte sono così pronunciate come solo di rado era accaduto per l’innanzi. L’antitesi fra stile “antico” e stile “nuovo”, che in generale corre per le commedie di Aristofane, si coglie anche nell’arte figurativa; alla corrente conservatrice di Alcamene si contrappongono opere come la Nike di Peonio, la balaustrata delle Níkai o le Menadi di Callimaco, che devono aver rappresentato il dernier cri in questo campo.

A tutt’oggi ben poco di certo si può dire sui gruppi sociali che sostennero l’una o l’altra corrente, sui fondamenti e la profondità della consapevolezza che era in gioco in quest’ambito. Mentre da alcune testimonianze Alcamene si può inquadrare come un esponente della democrazia tradizionale e delle sue concezioni religiose (Pausania, IX 11, 6), non sappiamo assolutamente nulla dei promotori delle correnti più virtuosistiche.
Uno dei motivi ricorrenti di quest’epoca è quello del volo. Tutte le figure volteggianti e sospese, come la Nike della stoà di Zeus o quella di Peonio, sono svincolate dalla forza di gravità con inaudita arditezza. Le statue di pietra diventano leggere figure dell’aria; la pesantezza della materia è superata dall’arte dell’uomo. Questa sensazione che tutto è “fattibile” corrisponde alla forte consapevolezza di progresso di quei decenni, radicata soprattutto nei sofisti; essa è orgogliosamente formulata dal pittore Parrasio quando dice di aver raggiunto i confini dell’arte (Ateneo, Deipnosofisti, XII 542e). L’immagine più rappresentativa di tale pretesa fu il motivo del volo. Così Aristofane trasferisce le sue idee fantastiche (e le sue speranze) in un utopico regno dell’aria (gli Uccelli, le Nuvole, la Pace); un’aspirazione ai “voli intellettuali” deve essere stata all’epoca un ideale senz’altro proverbiale (Uccelli, 1437 sgg.). L’arte figurativa con le sue immagini dell’aria perseguì le medesime tendenze.
Fu soprattutto il panneggio ad offrire i mezzi formali per il raggiungimento di questi effetti. Non si può valutare appieno lo stile di quest’epoca se lo si giudica alla stregua di un formalismo puramente calligrafico. La tendenza più importante è rappresentata dal fatto che nelle opere di questo periodo la stoffa degli abiti è spessissimo ampiamente svincolata dalle leggi di natura, dal peso della materia; che quest’ultima – nell’ambito del pensabile per quell’epoca – diventa plasmabile pressoché illimitatamente e che con tali mezzi formali si possono concepire i più arditi motivi figurativi. Come i motivi di danza o di volo senza peso, così anche la stilizzazione calligrafica, ornamentale risulta qui dall’intento di padroneggiare i problemi della materia. Questo proposito di plasmare sovranamente la realtà secondo le proprie concezioni ai fini di determinati effetti è strettamente imparentato all’idea di fondo dell’allora nascente retorica.
Quando però la materia è trasformabile con troppa facilità, quando le concezioni formali trovano in essa una realizzazione troppo priva di fatica, quando essa non deve essere più variata secondo la molteplicità di aspetti della realtà concreta, allora si affaccia il pericolo di formule che si possono ripetere con una certa leggerezza. Qui sta la causa di fondo della comparsa in quest’epoca di un manierismo che è in parte da ravvisare anche nelle opere più note e più pretenziose.
Inoltre spesso è chiamata in causa anche una buona dose di virtuosismo tecnico. Il superamento di difficoltà tecniche fuori dell’ordinario, per esempio nella Nike di Peonio, deve aver rappresentato l’orgoglio dell’artista esecutore né più né meno che la sensibilità raffinata della ricchezza di piani della Nike dal sandalo slacciato. Probabilmente è legato a queste tendenze il fatto che ora, a poco a poco, il marmo ridiventa rispetto al bronzo il materiale prediletto dagli scultori. Nell’opera di Peonio il brillante livello dell’esecuzione si sposa con l’elevata arditezza della concezione, la cui novità suscitò certo uno scalpore pari ai motivi sensazionali di alcuni pittori contemporanei.
La tendenza a voler far colpo sullo spettatore, che è evidente in queste opere, contribuì largamente a modificare l’insieme della struttura delle figure. Queste sono spesso dilatate dai lembi del mantello usati a mo’ di sfondo, che formano una specie di nicchia scura sulla quale risaltano chiari i corpi. Così le statue non sono più immagini autonome a tutto tondo nel senso antico, ma oggetti da guardare da un ben accentuato punto di vista, messi in scena per uno spettatore supposto in una ben precisa collocazione. È lo stesso rapporto con lo spettatore che si istituisce nella pittura di Parrasio, il quale cercò con la sua linea di contorno di rendere visibili anche le parti posteriori delle figure, cioè di porre sotto gli occhi dello spettatore in un solo sguardo d’insieme gli elementi essenziali delle immagini raffigurate. Ed è proprio per porre la figura volutamente in relazione con l’osservatore che Zeusi suscita l’impressione della tridimensionalità con la gradazione dei toni (skiagraphía): in tal modo la realtà oggettiva è subordinata alla visione ottica dello spettatore. Similmente in scultura si sviluppano forme che non raffigurano primariamente la concreta realtà corporea, ma innanzitutto intendono trasmettere un’impressione visiva: nelle Níkai della balaustrata o nell’Afrodite dell’agorà le vesti sono in parte accennate soltanto da segni graffiti e corpi e panneggi sono individuati da forti contrasti di luce ed ombra; nelle Menadi di Callimaco, come in numerose altre opere, il movimento delle vesti non è più causato dall’atteggiamento o dall’azione del corpo, ma al contrario si suscita nello spettatore l’impressione di un corpo in movimento attraverso il volteggiare dei panneggi. L’io dello spettatore è dunque riportato al centro dell’interesse al pari dell’io dell’artista figurativo. Questi sviluppi procedono di pari passo.

Ma anche le correnti più conservatrici, come quella di Alcamene, non si fermano alla ripetizione di concezioni della piena classicità. Al di là delle acquisizioni dell’arte fidiaca l’arte del V secolo aveva elaborato in tutte le sue correnti nuovi modi di intendere la figura umana. Alcamene rielaborò tenacemente la ponderazione classica facendone un mezzo per caratterizzare le figure nella loro intima natura. Molte opere di quest’epoca attestano come la composizione a chiasmo perda sempre più la sua importanza fondamentale per la costruzione della figura. Certo non viene negata la forza di gravità, ma la dialettica fra peso e forze contrarie non caratterizza più le figure così totalmente come per il passato. Nelle kórai più moderne dell’Eretteo o nell’Afrodite Doria-Pamphili le singole parti della figura vengono a porsi in un più accentuato contrasto. Come le figure alate dello “stile ricco” tentano di vincere la forza di gravità, così qui è generalmente palese che si prescinde da quelle forze che determinano la figura dall’esterno e ci si concentra su un sistema di forze interne ad essa, svincolando la singola immagine da ordini super-imposti. A partire dalla fine del secolo il movimento dal ritmo più breve, spesso violento delle figure tradisce impulsi più individuali, più determinati da una ben precisa volontà.
Del pari le figure nei fregi di battaglia di quest’epoca agiscono con maggior veemenza e al tempo stesso vengono tenuti presenti con nuova intensità anche i moti emozionali. La fatica e il dolore dei combattenti sul fregio di Phigaleia, la tensione intima del gruppo di Procne, l’aria oppressa e triste dell’Ares Borghese, l’esperienza interiorizzata del destino di morte sui rilievi sepolcrali nascono tutti dalla medesima sensibilità per gli atteggiamenti dello spirito. La crescente predilezione in quest’epoca per temi afrodisiaci e dionisiaci rientra nel medesimo quadro. Inoltre i rilievi votivi attestano il ripiegamento su divinità come Asclepio che sono più vicine agli uomini e ai loro bisogni personali che non le grandi divinità olimpiche. Vi si aggiunge la penetrazione di culti stranieri che spesso coinvolgono emozionalmente i loro fedeli in una maniera ignota fino a quel momento.
Il significato sociologico di questo sviluppo è evidente soprattutto nei rilievi funerari. Questi si rifanno sempre più alla sfera privata della famiglia. Attraverso questo processo d’imborghesimento diventano anche per gli strati sociali più bassi un’adeguata forma espressiva di autorappresentazione.
Ma, sotto altri aspetti, anche le tematiche ufficiali sono portate innanzi con nuova intensità. Figure di dèi e di eroi evocano lo splendore dell’arcaismo attico e le origini autoctone della città e, cosa inaudita fino a questo momento, nel tempio di Atena Nike è celebrato in un edificio sacro persino un passato storico assai recente. Il generale accrescersi del sentimento patriottico si coglie particolarmente nel gran numero di statue di Atena di quest’epoca; e la Nike di Peonio ci fa intendere, oltre a ciò, come in questi monumenti pubblici la politica può essere introdotta come una sfera ampiamente autonoma.

Tutte queste manifestazioni non sono di poco peso per la storia dell’epoca. Nella polarizzazione di tendenze patriottiche e private si fa evidente un sintomo della crisi della pólis classica. La preminenza del tutto fuori dell’ordinario di alcuni artisti eccezionali corrisponde ad un processo generale che investe l’epoca e nel quale individui fuori della norma mettono sempre più in pericolo l’omogeneità della compagine sociale. La soggettivizzazione dell’arte è parte di una profonda trasformazione dell’intero modo di porsi dinanzi alla vita. Un accentuato entusiasmo, la ricerca di nuove, violente sensazioni e al tempo stesso un esaltato ottimismo razionale sono diffusi ovunque. Si usa far risalire questa evoluzione quasi esclusivamente all’influenza della guerra o forse della peste, e, per la verità, alcuni dei suoi fattori sono posti in connessione da Tucidide come queste esperienze. Le radici si possono però cogliere già prima in molti campi, anche in quello dell’arte; oggi difficilmente si dà credito alla possibilità di una simile puntuale influenza degli eventi storici sulle concezioni di vita, piuttosto si preferisce vedere all’opera più genericamente mutamenti storici. Tuttavia queste manifestazioni e in particolare queste opere d’arte appartengono all’epoca della guerra peloponnesiaca che senza dubbio favorì l’evoluzione e la portò alle estreme conseguenze. Le espressioni di quest’arte sono da intendere solo come la specifica risposta che i contemporanei diedero agli eventi della vita che li coinvolsero, eventi dai quali è impossibile escludere questa guerra.
Lo “stile ricco” culminò in ardite artistiche figure, come le Menadi di Callimaco, in un volo verso l’alto che sia tematicamente che stilisticamente rappresentò una fuga dalla realtà. Ma la via battuta da questo stile fu un vicolo cieco che si rivelò inutilizzabile per dominare la realtà. Questa esperienza non sarebbe stata comunque risparmiata a quell’epoca, ma senza dubbio fu fortemente incrementata dalla deludente chiusura del conflitto; la comparsa di un nuovo stile, pesante e realistico, cade, particolarmente in Atene, proprio negli anni del fallimento. Questo nuovo stile non si riallaccia alla corrente virtuosistica dello “stile ricco”, ma piuttosto a quella tendenza che aveva dischiuso il mondo privato e i suoi motivi individualistici e, come contrapposto a questo, aveva raffigurato gli dèi nella forma tradizionale.
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