di MUSTI D., Storia greca. Linee di sviluppo dall’età micenea all’età romana, Milano 2010, 49-63.
Nel rapporto di Creta col mondo miceneo, il 1450 a.C. circa, la data di passaggio dal Tardo Minoico I al Tardo Minoico II, è un momento cruciale. Prima di esso il mondo miceneo ha senz’altro subito influenze culturali dalla Creta minoica. L’età micenea si distingue archeologicamente in tre sottoperiodi che, in riferimento alla regione in questione, si considerano come l’ultimo periodo dell’Elladico. Si distingue dunque tra un Tardo Elladico I (1600/1580-1500 a.C.); II (1500-1425 a.C.); III (1425-1100 a.C.). All’interno di ciascuna di queste ripartizioni se ne usano altre, indicate con lettere.
Palazzi micenei scavati in Grecia sono: Micene e Tirinto nell’Argolide, Pilo in Messenia, Tebe e Gla in Beozia, Iolco in Tessaglia; resti di strutture di epoca micenea si colgono anche ad Atene e, in Beozia, ad Orcomeno. Già alla I fase del Tardo Elladico sembra risalire il Circolo A delle tombe a fossa (regali o aristocratiche) di Micene. La II e la III fase furono certo di grande espansione per i regni micenei. Tra il 1450 e il 1400 (o, secondo la cronologia più recente, di Popham, fino al 1370) si data un regno miceneo a Cnosso; e tra XIV e XIII secolo si data la maggiore espansione della ceramica micenea in Oriente, a cui si accompagna, ma soprattutto succede, un’espansione in Occidente[1].

È dunque già la seconda fase dalla presenza greca nella penisola greca e nelle isole e regioni adiacenti che così avvertiamo nel Tardo Elladico. Se in Grecia, in corrispondenza con il Medio Elladico, si coglie, sulle tracce della ceramica minia, un’avanzata di popolazione indoeuropea (definibile di “Protogreci”) fino al Peloponneso, con l’età dei palazzi, il cui formarsi e svilupparsi si disloca all’incirca tra il XVI e il XIII secolo, assistiamo invece a profonde trasformazioni delle forme dell’organizzazione sociale ed economica e delle stesse forme del potere. Quelle trasformazioni che si intuiscono tra il periodo prepalaziale e il periodo proto- e neopalaziale nella Creta minoica si verificano, mutatis mutandis, nel continente: sia per sviluppi interni (passaggio dal nomadismo alla sedentarietà e alla pratica di corrispondenti attività produttive), sia per influenze cretesi. Queste si colgono invero molto di meno nell’architettura dei palazzi e nell’edilizia abitativa. Sul continente spicca in primo luogo l’utilizzazione di luoghi forti, come sedi dei palazzi, in continuità con la tradizione elladica (comune al Neolitico greco) dell’insediamento su acropoli di rispettabile altezza (anche 200 o 300 metri). Inoltre è meno individuabile nei palazzi del continente la presenza di ambienti per rappresentazioni di tipo teatrale. I corredi funerari suggeriscono tuttavia l’influenza del modello cretese: le maschere d’oro di Micene o le tazze d’oro di Vaphiò in Laconia (dove non si sono ancora trovati resti di un palazzo di Menelao) non sono concepibili senza l’esperienza dell’oreficeria e della ceramica minoiche. E soprattutto nella scrittura i Micenei di Pilo, come di Micene o di Tirinto, di Tebe e di Orcomeno, si rivelano debitori dei Minoici: la Lineare A, che era stata usata per una lingua non greca, finora non identificata, viene (originalmente, sembra) adattata (Lineare B) all’esigenza di rappresentare graficamente parole greche, di un tipo dialettale di cui in epoca arcaica appare, come più diretto erede, il dialetto arcado-cipriota[2].

Ma il 1450 è una data, alla lettera, cruciale nella storia dei rapporti tra Creta minoica e il mondo greco, ché dopo di essa si ha l’insediamento di un dominio miceneo a Cnosso e probabilmente, nella Creta occidentale, a Chanià. L’eredità minoica sopravvive forse a una catastrofe naturale e certo anche a una sovrapposizione di dominio da parte di Micenei (che taluno concepisce come vera invasione, altri come una sorta di rilevamento del sommo potere); ma essa sopravvive oramai come un patrimonio gestito dai Micenei.
Lo straordinario materiale di testi in Lineare B, che ammontano ad alcune migliaia, presenta due punti di addensamento: Cnosso e Pilo. Per i testi di Pilo si adotta una data, 1200 circa, cioè, in termini archeologici, Tardo Elladico IIIB (alla vigilia della catastrofe, questa volta, dei palazzi micenei del continente, che costituisce la cesura appunto tra Tardo Elladico IIIB e IIIC). Per i resti di Cnosso sembra ancora aperta la controversia tra coloro che, sulla scorta di Evans, li datano alla fine del XV (o ormai anche agli inizi del XIV) secolo, cioè alla fase finale del periodo miceneo di Cnosso, e coloro che invece, dopo le contestazioni di Palmer, ritengono di non poter ammettere uno iato di ben due secoli tra le tavolette in Lineare B di Cnosso e quelle di Pilo. Si tratterebbe perciò, anche per Cnosso, di un materiale prodotto alla vigilia di una nuova distruzione storica, non molto distante nel tempo, né determinata da cause molto diverse, dalla distruzione del palazzo miceneo di Pilo (va rilevata l’adesione di massima alla cronologia del Palmer di un conoscitore della realtà cretese come l’archeologo Doro Levi). Il problema è squisitamente archeologico: gli argomenti che possono aiutare a fornire una risposta sono di natura stratigrafica. Certo, appare comunque singolare la profonda affinità nel contenuto dei testi in Lineare B di Cnosso e di Pilo; ma non è detto si debba pensare a una coincidenza cronologica, bastando con ogni probabilità, a spiegare le analogie, la profonda somiglianza, o addirittura l’identità, delle strutture politiche e sociali da cui questi testi emanano[3].
Nell’insieme, sono le tavolette di Pilo (meno numerose delle tavolette di Cnosso, ma contenenti iscrizioni di maggiore lunghezza) quelle che ci forniscono un maggior numero di dati, e perfino di termini, interessanti la struttura della società palaziale di epoca micenea[4].

Le tavolette micenee provenienti da Pilo e da Cnosso sono registrazioni relative a un breve arco di tempo (qualche mese, forse, rispettivamente), fra le quali è difficile operare una rigida classificazione e distinzione. In generale, però, sulla scorta di Ventris e Chadwick, si possono distinguere: 1) liste di persone (donne, ragazze, ragazzi), in qualche attinenza col palazzo e forma di subordinazione rispetto ad esso; 2) liste di uomini addetti a servizi di guardia; 3) razioni di grano e di olio distribuite a singoli; 4) registrazioni di obblighi, riguardanti il possesso terriero e coinvolgenti evidentemente il palazzo; 5) affitti di terre, spesso del da-mo (dâmos); 6) liste di tributi vari; 7) liste di oggetti (vasi, armi, mobili); 8) liste di quantità di materiali (tessili, metalli, rispettivamente lana, lino e bronzo in particolare), che il palazzo sembra mettere a disposizione dei soggetti, i quali li restituiscono sotto forma di prodotto lavorato; e così via di seguito. Non tutte le categorie sono ugualmente rappresentate a Pilo e a Cnosso.
Nel quadro di un’economia a fondamento agrario, la struttura politica e sociale si presenta fortemente centralizzata, sottoposta al dominio di un wa-na-ka (wánax, “signore”), affiancato da un comandante militare, ra-wa-ke-ta (lawaghḗtas); al “signore” pare nettamente sottoposta un’aristocrazia di capi militari ma anche, forse, di detentori del possesso di ampie porzioni di terra, spesso con funzioni sacrali; la base produttiva è poi rappresentata da strati di dipendenza, che non è facile definire nella loro interezza, ma che certamente (ad esprimersi con la massima cautela possibile) contengono in sé la possibilità dello sbocco ultimo in forme di vera e propria servitù. Nelle tavolette micenee appaiono inequivocabilmente dei do-e-ro (doûloi) (la parola greca che significa “servi” o “schiavi”); frequenti i te-o-jo do-e-ro (ieroduli, o più propriamente teoduli), uomini e donne. Si obietterà, a limitare il valore della definizione dell’economia micenea come palaziale, che la centralità del palazzo è innanzitutto il portato del dato di fatto che la documentazione stessa è palaziale, trattandosi di testi costituenti gli archivi del potere centrale; ma non è forse un caso che la documentazione abbia questa specifica provenienza.

Nell’insieme, appare abbastanza chiara la struttura di una produzione, in cui la forza-lavoro consiste in larga misura di personale “dipendente”, ed esistono strutture di villaggio, inserite in un’economia verticistica, palaziale. I principali prodotti, che vi s’individuano, attengono all’agricoltura (grano, olio, vino) e all’allevamento (la cui organizzazione sembra rigorosamente controllata dal palazzo): figurano perciò fra i prodotti la lana, e anche il miele; tra i tessili, rilevante anche la produzione di lino. L’artigianato (tessitura, metallurgia, ecc.) assolve una funzione notevole, ed elevato appare il ruolo sociale di almeno alcuni di coloro che sono con esso collegati, in particolare di quei ka-ke-we (chalkḗwes, “bronzieri”), che sembrano lavorare il bronzo per conto del palazzo (cioè, in primo luogo, per le esigenze militari dello Stato); particolarmente forte appare il controllo del palazzo medesimo sull’industria tessile. L’interesse alla navigazione si evince, se non altro, dalla cura della difesa costiera, così ben documentata a Pilo[5].
Questa rappresentazione tuttavia è ben lungi dall’essere in qualche modo esauriente; ché se queste sono le linee generali della struttura sociale, essa appare poi complicata da elementi che ne costituiscono un’articolazione, di cui è difficile stabilire le interne connessioni. L’esistenza di un lawaghḗtas rinvia ai ra-wo (lawoí, mai però nominati come tali nelle tavolette conservate) sottostanti alla sua guida; ma un altro termine, quello di dâmos (e sarebbe più opportuno parlare di dâmoi, al plurale), sopraggiunge subito a complicare il quadro. Negli studi che distinguono nettamente tra lawoí e dâmoi, i primi rappresentano un’aristocrazia militare e fondiaria strettamente collegata al centro del potere, cioè al wánax e al lawaghḗtas, mentre i dâmoi consistono di popolazione residente nel territorio. Ma se l’agricoltura è la base di vita dei lawoí come dei dâmoi, qual è il rapporto (il rapporto geografico, ma anche quello di “proprietà”) tra le proprietà dei lawoí e le proprietà dei dâmoi? Sono più centrali quelle dei lawoí e più periferiche quelle dei dâmoi, o sono frammiste le une alle altre? E, se è vera la seconda ipotesi, è possibile che non vi sia interferenza alcuna fra la proprietà degli uni (lawoí) e la terra lavorata dagli altri? Ma è dubbia la distinzione stessa.

Una fondamentale tavoletta di Pilo (Er 312) indica in quantità di semenza di grano l’entità del te-me-no (témenos) rispettivamente del wánax e del lawaghḗtas: il rapporto è di 3:1. Una singola tavoletta non può certo rivelarci il rapporto gerarchico fra le due posizioni: ma già questo documento dovrebbe mettere in guardia dal pensare questo rapporto in termini di una sorta di diarchia, che distingua tra una funzione “politica” del wánax e una separata funzione militare del lawaghḗtas; tanto più che nello stesso testo seguono tre te-re-ta (telestaí), che hanno ciascuno tanta semenza di grano quanto il lawaghḗtas. I telestaí sono forse funzionari o dignitari, meno probabilmente dei “baroni”: certo, da questo e da altri testi, essi appaiono come proprietari o comunque possessori di terreni, in rapporto sia con forme di proprietà che sembra privata, sia con concessioni di terre “comunali”. Eppure molto spesso al lawaghḗtas, solo perché detentore di un témenos, gli studiosi attribuiscono un controllo supremo ed esclusivo delle forze armate, una netta superiorità sugli stessi telestaí, mentre a questi ultimi si tende a riservare l’appartenenza o una connessione esclusiva al dâmos. Sembra piuttosto che il lawaghḗtas sia sì un’autorità rilevante, ma di un livello che può essere condiviso almeno da alcuni telestaí: un “generale”, il quale avrà avuto il comando sui lawoí, cioè su persone che possono ben essere non distinguibili dal dâmos (il che spiega tra l’altro l’assenza della menzione esplicita dei lawoí medesimi), ma, come è frequente in Omero, siano persone del dâmos viste come soldati. Il “capo” dei lawoí è un generale che resta probabilmente del tutto subordinato al generalissimo che è il wánax, il quale d’altronde controlla l’amministrazione attraverso i vari ko-re-te-re, da-mo-ko-ro, ecc. I telestaí sembrano, almeno in parte, appartenere ai livelli più alti della società micenea e non paiono essere in una relazione, almeno esclusiva, col dâmos. Gli e-qe-ta (hépetai?), interpretati come “compagni” del sovrano, svolgono funzioni militari o sacrali, ma essenzialmente di supporto e di raccordo.

Termini che sembrano rinviare per il loro significato al lessico omerico e classico sono quelli di qa-si-re-u (basileús) e ke-ro-si-ja (gherousía?). Ma il significato di basiléwes nei testi micenei non è chiaro, al di là di un generico significato di “capi”: si tratta di capi o di personaggi notabili di dâmoi, o capi di corporazioni di artigiani (in alcuni casi li troviamo associati con la menzione di “bronzieri”, e apparentemente investiti di una qualche funzione di controllo delle assegnazioni di bronzo che vengono fatte ai chalkḗwes, in altri associati con la lavorazione di mobili). E se la ke-ro-si-ja è un gruppo di anziani, non è chiaro se sia un vero “consiglio”, e se sia costituito intorno a qualche basileús: certo non è il consiglio del wánax.
Non è facile determinare l’esatto ruolo del dâmos nei confronti del wánax. È il dâmos veramente l’altro polo della società micenea, o è solo un elemento di una struttura piramidale, il quale funge da filtro dell’autorità e sovranità del wánax? Il terreno su cui si dovrebbe poter meglio misurare la struttura della società micenea è naturalmente quella della proprietà terriera. Ma le situazioni non sono del tutto chiare. Qui compare una prima grande distinzione tra due tipi di ko-to-na (ktoînai): le ko-to-na ki-ti-me-na e le ke-ke-me-na ko-to-na: le prime, proprietà coltivate o piuttosto “private”; le seconde, proprietà non coltivate, o piuttosto “lasciate” (in concessione), e perciò proprietà comunali, dei dâmoi (o forse solo gestite dai dâmoi per conto del sovrano). Frequente è del resto la menzione di kekeménai ktoînai, che sono oggetto di o-na-to (cioè di beneficio o usufrutto) pa-ro da-mo (cioè da parte del [o presso il] dâmos). Spesso persone con funzioni sacrali ricorrono in questa assai vasta categoria di onatēres, che intravediamo nella società micenea. Non è dimostrabile, ma comunque neanche da escludere, che sia proprio il wánax il detentore della proprietà formale eminente sui diversi tipi di proprietà e di possesso[6].
Incertezze sussistono, per altro, sempre nell’ambito della terminologia dei rapporti di proprietà e di possesso o usufrutto terriero, anche per ciò che riguarda il significato di ka-ma (una particolare forma di possesso?) o e-to-ni-jo (forse un possesso più stabile?). Si pone anche per questa via il problema dell’esistenza di forme di possesso privato; così come si è ammessa, anche di recente, l’esistenza di forme di proprietà sacra, nel senso di terre appartenenti a santuari di divinità. In realtà, sono tutt’altro che chiariti l’entità, le forme e il quadro di riferimento di queste “proprietà sacre”; ed occorre evitare di proiettare in età micenea quel quadro di rapporti tra “statale”, sacro e privato, che vale per l’epoca classica della storia greca. In un ambito così ipotetico, è più prudente pensare ad un possesso terriero, privato o sacro, fortemente subordinato all’autorità del wánax, in un rapporto “gerarchico” coerente con la struttura generale della società micenea e le caratteristiche dell’epoca.

In definitiva, la complessità della società micenea, che si coglie meglio a Pilo che non a Cnosso o altrove, può riassumersi in questi termini: 1) presenza di un vertice, rappresentato dal wánax e dalla struttura palaziale; 2) presenza del dâmos, o meglio dei dâmoi, cioè delle singole unità territoriali («unità amministrative locali a vocazione agricola», secondo la definizione di M. Lejeune), e di una forza-lavoro dipendente o di tipo servile, sul piano della produzione (ma anche il rapporto fra questi due termini va, a sua volta, chiarito); 3) presenza di elementi che complicano e articolano questa apparente ma non chiara dicotomia, e che sono: il lawaghḗtas, titolare di un suo témenos, e quella fascia sociale intermedia, di titolari di benefici e di posizioni varie, che costituisce l’embrionale “aristocrazia” di cui si è già detto, e a cui vanno aggiunti i beneficiari effettivi di do-so-mo (dosmoí), concessioni, per esempio, a divinità, santuari e rispettivo personale; gli stessi te-o-jo do-e-ro appaiono in una condizione in qualche modo privilegiata, rispetto ai semplici do-e-ro (doûloi); di tutti questi va poi definito il rapporto rispettivamente col palazzo e con il dâmos.
Ma al centro è pur sempre la struttura palaziale: con un vertice “politico”, il principe; con un habitat specifico, rappresentato dal palazzo, cioè dai suoi ambienti (per l’esercizio del governo e l’amministrazione, per la vita quotidiana, per le funzioni sacre, per le riunioni, per il divertimento), dalle sue difese, dai suoi magazzini, dai suoi depositi; con un territorio, occupato da villaggi, in cui dei contadini lavorano la terra per il principe e sono in una posizione di dipendenza, che almeno in parte si configura come vera e propria servitù. Attorno s’individuano forme di proprietà, o di possesso, che in piccolo riproducono probabilmente questi stessi rapporti produttivi. Il problema più arduo è forse proprio quello di definire il rapporto che intercorre tra la struttura palaziale e l’aristocrazia che s’intravede. Se questa ha infatti un ruolo meramente satellite, sul piano politico e sociale, e costituisce solo una variante, rispetto alla fondamentale polarità tra despota e dipendenza, allora si fanno preminenti le affinità con almeno alcune società dell’Oriente antico, per le quali si può invocare una qualche forma di produzione asiatica. Più articolato e sfumato dovrà invece essere il giudizio generale sulla società micenea, se altro peso e altra funzione si assegnano all’aristocrazia, al suo ruolo economico, politico, militare, alle sue tradizioni e alla sua stessa capacità di emergere con effetti dirompenti per la struttura generale di cui s’è parlato.

Occorre comunque evitare una troppo rigida assimilazione alle “regalità idrauliche” della Mesopotamia. Naturalmente, il limite dell’assimilazione deriva innanzitutto dall’assenza in Grecia di condizioni e costrizioni ambientali quali incombono sul mondo mesopotamico. Il problema non è comunque quello di applicare meccanicamente modelli asiatici. L’idea che le monarchie micenee abbiano sviluppato un’amministrazione complessa sull’esempio delle regalità orientali e, più direttamente, di quelle minoiche appare diffusa. Sono stati però anche sottolineati: i limiti numerici del personale del palazzo, rispetto alla quantità presumibile degli abitanti dei regni micenei; la problematicità di un monopolio palaziale nell’importazione del bronzo, a differenza del forte ruolo che si deve attribuire al palazzo nel campo della tessitura e della costituzione del relativo personale (soprattutto femminile); le dimensioni ridotte del témenos del wánax (wa-na-ka-te-ro te-me-no).
D’altra parte un’assoluta equiparazione della monarchia micenea alle regalità omeriche e arcaiche è scongiurata da diverse considerazioni: 1) il carattere ristretto, e assai puntuale, dell’evidenza documentaria disponibile per le monarchie micenee, con la conseguente difficoltà di definire gli esatti rapporti quantitativi sussistenti tra le disponibilità del wánax e quelle degli altri protagonisti della scena micenea, nonché lo stesso grado di controllo del signore su quelle risorse che apparentemente appartengono ad altri; 2) la potenza dell’amministrazione palaziale, con la gestione di quell’importante strumento di controllo che è la scrittura; 3) la presenza di santuari tanto ricchi quanto, apparentemente, soggetti al palazzo, e in particolare l’assenza di un vero consiglio e di un’assemblea[7].

Quei centri politici ed economici, che sono i palazzi di età micenea, non vivono isolati dal resto del mondo greco, né da più lontane regioni dell’Oriente mediterraneo. Non mancano produzioni atte allo scambio di merci, anche se si tratta di scambio tra merce e merce, e non esistono ancora forme di economia monetaria (ma, semmai, espressioni di un’economia premonetale, come i famosi lingotti di rame, genericamente definibili “di tipo egeo”, che sembrano assolvere a una fondamentale funzione di tesaurizzazione e, al tempo stesso, costituire una qualche misura di valore).
È stato osservato che gli oggetti d’oro, d’argento, d’avorio provenienti da Cnosso come da Micene, da Tebe come da Tirinto, oltre ad attestare l’alto livello dell’artigianato miceneo, dimostrano l’esistenza di scambi commerciali tra quel mondo ed altre civiltà mediterranee, se non altro perché i Micenei dovevano in qualche modo procurarsi presso altri popoli quei materiali di cui essi non disponevano o disponevano solo in scarsa misura (Godart). L’archeologia documenta, d’altra parte, sempre più ampiamente (e solo in parte per un’epoca posteriore a quella delle tavolette) l’espansione (anche, e significativamente, nelle regioni del Mediterraneo occidentale, dall’Italia, alla Sicilia, alla Spagna) di ceramica micenea[8]. Certo, non è facile definire il preciso rapporto tra questo innegabile e cospicuo dato della ricerca archeologica e l’insieme delle strutture economiche e sociali che trovano la loro più visibile espressione nei palazzi di età micenea. Il fenomeno del commercio è comunque ampiamente documentato; esso fornisce il naturale orizzonte dei dati delle tavolette in Lineare B, dati che accennano: all’esistenza di forme di scambio; all’acquisto di prodotti dall’ambito di forme e strutture economiche extrapalaziali, o marginali rispetto al palazzo, e alla loro introduzione nell’ambito dell’economia palaziale; alla ricerca, forse in primo luogo, di metalli, di cui s’avverte l’esigenza e insieme la scarsità.

Sarebbe, d’altra parte, ingenuo credere che tutto ciò che attiene al commercio e agli scambi si svolga entro l’ambito miceneo, o sia solo attivamente mediato dai Micenei stessi. Altri fattori di scambio sussistono; basti pensare alla funzione di mediazione che può avere avuto la Creta minoica (Creta cioè prima dell’assoggettamento da parte degli Achei, circa il 1450 a.C.)[9], come autentico ponte tra la Grecia e le regioni del Vicino Oriente, dall’Egitto alla Siria; ai contatti che i Micenei si procurano a Oriente, in Asia Minore, come in Siria, o in Occidente; e non va dimenticato quel fattore presente, si può dire, negli interstizi del mondo antico, che sono i popoli mercanti, quali soprattutto i Fenici, che, almeno dalle fasi più tarde dell’età micenea, operano (e nella tradizione greca sono sentiti come attivi e presenti) nelle regioni dell’Egeo e della Grecia stessa, e i Ciprioti, così spesso evidenti nella documentazione archeologica: nello stesso Mediterraneo occidentale (senza affrontare spinose e irrisolvibili questioni di priorità) le loro rotte si intrecciano e fondono con quelle micenee. Con eccessiva disinvoltura ci siamo ormai abituati, per l’autorevole suggestione di Karl O. Müller, di Karl Julius Beloch, o di Martin P. Nilsson, a mettere nell’ombra tutto quello che la tradizione greca ci dice sui Fenici nelle isole dell’Egeo (Rodi, Samotracia, Tera) o nel continente greco (basti pensare alla saga di Cadmo a Tebe).
È proprio durante e dopo il dominio miceneo a Cnosso, forse finito circa il 1370, che si colloca, in base ai dati dell’archeologia, cioè essenzialmente in base ai ritrovamenti di ceramica del Tardo Elladico III A e B, il periodo di massima espansione micenea. Se i dati cronologici sopra indicati sono attendibili, ciò ha una conseguenza storica di interesse sia per la storia dei Micenei a Creta, sia per il problema più generale dell’espansione micenea. Le fonti egiziane non sembrano registrare i Micenei di Creta dopo il 1370; riferimenti a località micenee di Creta stessa come del continente ricorrono nella tavoletta egiziana di Kom el-Heitan, che si data appunto alla prima metà del XIV secolo a.C.[10] Ma la massima diffusione di ceramica, in Egitto, in Siria-Palestina (in moltissimi centri palestinesi, ma soprattutto a Ugarit-Ras Shamra, in Siria), a Cipro (in particolare a Enkomi), sulle coste dell’Asia Minore (dalla Cilicia alla Ionia), e naturalmente nelle isole (a Rodi, a Lesbo), si verifica proprio nel Tardo Elladico III A e B, cioè nel secolo e mezzo contemporaneo e posteriore alla crisi. Sembra dunque verificarsi, quanto meno, un rafforzamento dei processi d’espansione commerciale dopo la crisi del potere politico a Creta; ed allora è legittimo chiedersi quale sia (o quale sia divenuto nel corso del tempo) il rapporto tra l’artigianato e il commercio, da un lato, e il potere centrale (o piuttosto i diversi poteri centrali collegati con i palazzi) dall’altro.

È evidente, almeno per l’orizzonte cretese del problema, che il dominio miceneo non si presenta come una talassocrazia: innanzitutto, l’espansione commerciale per i Greci non è di per sé una talassocrazia, e quindi da sola la ceramica non dimostra un dominio sul mare, e poi, nei fatti, sembra esserci un certo scompenso tra il momento della potenza politica e quello della diffusione della ceramica micenea. Il problema diventa ancora più urgente, se si considera la diffusione di ceramica, o persino di forme architettoniche micenee, in Occidente. Punti di addensamento sono le isole Eolie (Lipari), la Sicilia orientale (Tapso), l’Italia ionia (dallo Scoglio del Tonno a Taranto, a Termitito tra Metaponto ed Eraclea), in definitiva l’Italia del Mar Ionio e del basso Tirreno: la presenza di ceramica micenea in punti più settentrionali è sporadica, e in parte può corrispondere a fatti di irradiazione e diffusione indiretta, mediata da altri vettori. Già le quantità di ritrovamenti micenei in Occidente, persino nei luoghi di maggiore addensamento, non sono comparabili con quelli dei siti del Mediterraneo orientale che documentano presenze, attività commerciali e artigianali, persino insediamenti micenei[11]. E poi, se la tradizione letteraria può suggerire qualcosa in proposito, si tratta di indicazioni che singolarmente concordano con la situazione di décalage tra il momento e il ruolo del potere politico e quello del commercio miceneo, per altra via evidenziato. La tradizione infatti, quando evoca mitici fondatori di epoca micenea per località occidentali, li riferisce, o li immagina, come esuli, fuggiaschi, o reduci sbandati della guerra di Troia. Siamo, in termini archeologici, ai periodi Tardo Elladico III B e III C, o addirittura a ceramica submicenea[12].

Se così stanno le cose, è ragionevole, per i problemi dell’espansione di questa prima fase della storia greca che è l’epoca micenea, delineare uno sviluppo di questo tipo: 1) dopo l’invasione del continente e l’assestamento, che si svolge nei secoli del Medio Elladico, si raggiungono assetti nuove forme di organizzazione sociale, economica e politica, che corrispondono alla fioritura dei palazzi nell’Elladico recente; 2) a metà del XV secolo a.C. questo assestamento, politico, economico e anche demografico, ha portato all’espansione anche nell’Egeo, a cui corrisponde l’insediamento di un principato miceneo a Cnosso (durato forse meno di un secolo) e forse anche a Rodi (se gli Ahhija-wa dei testi ittiti fossero da identificare con dominatori Achaioí dell’isola); 3) in parte in coincidenza con questo momento di sviluppo politico, ma (se valgono le cronologie sopra indicate per la storia di Cnosso) anche indipendentemente e successivamente, si verifica un poderoso fenomeno d’espansione commerciale, che segue vie proprie. È un fenomeno determinato da una crescita di popolazione greca che continua, anzi perfeziona, la grecizzazione della penisola, fino a delineare i contorni di quella immensa diaspora greca, che noi chiamiamo “mondo greco”, “grecità”, e che è un vivaio di espressioni analoghe e diverse fra loro. Sono le vie suggerite dallo scompenso tra le risorse e i bisogni; vi si mette in luce la capacità dei Greci di portare proprie conoscenze tecniche ed espressioni artistiche, di contrarre relazioni di ogni tipo, da quelle di amicizia e di ospitalità a quelle proprie di più stabili scambi (legami matrimoniali, intese commerciali, ecc.); e, in generale, va tenuto presente il ruolo del commercio ambulante. Vi si esprime la grande mobilità greca, cioè la straordinaria capacità di spostarsi, adattarsi a situazioni nuove, inserirsi in quadri sociali ed economici diversi. Se si guarda insomma al fenomeno dell’espansione micenea nel suo complesso, la sua matrice di appare il bisogno, più che la potenza; la potenza era stata invece la matrice dell’espansione minoica. Proprio per questa ragione, quest’ultima è più circoscritta e più definita nel tempo, cioè è una vera talassocrazia; l’espansione micenea è invece solo una realtà diffusa, che poi, alla periferia della vasta area che investe, è soltanto soffusa.

La controprova di questo aspetto di risposta a un bisogno che i poteri politici micenei non sono in grado di soddisfare, è proprio nella diversa entità e qualità dell’espansione greca, rispettivamente in età micenea e in età arcaica, nonché in Oriente e in Occidente. Si può dire che nel II millennio (che è anche quello dell’esistenza dei principati micenei) i Greci cerchino soprattutto interlocutori validi, società in grado di accoglierli e di fare uso dei prodotti o delle tecniche o dei servizi e delle funzioni di cui essi sono portatori; essi si appoggiano a società evolute insediate sulle coste del Mediterraneo. Ecco perché l’espansione micenea in Oriente ha valori così cospicui. In Occidente i Greci cercano qualcosa di analogo, e lo trovano, certo, ma necessariamente di meno. L’espansione di epoca arcaica (che sembra in gran parte riassorbita nell’orizzonte cittadino, cioè nella capacità delle póleis di programmare una propria espansione, in un momento di nuovo sviluppo demografico del mondo greco), anche per il suo carattere più sistematico, e la sua finalità di creazione di vere e proprie nuove póleis, cerca spazi vuoti: non vuole tanto inserirsi in società organizzate preesistenti, quanto contrastarle e sostituirle; cerca spazi vuoti per sé, non spazi occupati, regolati, civilizzati dagli altri.

La certezza dell’espansione commerciale micenea nel Mediterraneo non rende dunque superflua la ricerca di altri vettori delle merci che segnalano, con la loro presenza, scambi all’interno di quel mondo. Si potrebbe, per economia di ipotesi, immaginare che gli oggetti siriani, anatolici, egiziani, ciprioti, fenici (?), che si trovano sul continente o a Creta o in altre isole in età micenea siano stati portati dai Micenei nei loro viaggi di ritorno; e molte volte sarà stato anche così. Eppure questa tesi è economica solo nel senso del risparmio di ipotesi che permette; ma è un dato di fatto che, nella storia del commercio, almeno quanto questa diventa per noi evidente, i vettori delle merci di esportazione e d’importazione di una determinata regione non sono sempre gli stessi; un commercio di andata e di ritorno che si incarichi di svolgere tutte le operazioni relative non è mai verificabile, quando si disponga di un minimo di documentazione; ci potrà essere prevalenza di una sola delle due correnti, ma esse non si riducono mai ad una sola, che si svolga in due movimenti contrari[13].
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Note
[1] Cfr. Popham M.R., The Destruction of the Palace at Knossos. Pottery of the Late Minoan III A Period, Göteborg 1970; Godart L., La caduta dei regni micenei a Creta e l’invasione dorica, in Musti D. (a cura di), Le origini dei Greci. Dori e mondo Egeo, Bari 1985, 173-200. Vd. ulteriormente la bibliografia.
[2] Sulle influenze cretesi nello sviluppo della Lineare B nel continente, cfr. Godart L., op. cit., 174-175. Per una nuova testimonianza di scrittura sillabica greco-cipriota (su un obelós di bronzo), rinvenuta a Skales (Palaepaphos) e risalente addirittura al sec. XI a.C., cfr. Karageorghis V., Palaepaphos-Skales. An Iron Age Cemetery in Cyprus, Konstanz 1983.
[3] Circa 1200 sono le tavolette in Lineare B di Pilo, circa 4000 quelle di Cnosso. Sul problema della cronologia delle tavolette cretesi, Godart L., op. cit., 177-178; L.R. Palmer, in vari studi (p. es. Mycenaeans and Minoans, London 19652), ha preso posizione contro il divario di circa 200 anni che si ammette tra le tavolette di Cnosso e quelle di Pilo; Levi D., Festòs e la civiltà minoica, II, 1, Roma 1981, 79-80, ne condivide i dubbi. Mentre da Micene e Tirinto le tavolette si contano solo a decine, da Tebe ne possediamo circa 300, caratterizzate da una cospicua presenza di toponimi beotici (con cui sono congrui gli sviluppi territoriali di età classica in Beozia) nonché da interessanti dati culturali.
[4] Per i testi: Ventris M., Chadwick J., Docuements in Mycenaean Greek (2a ed., a c. di Chadwick J.), Cambridge 1973; Morpurgo A., Mycenaeae Graecitatis Lexicon¸ Romae 1963; Sacconi A., Corpus delle iscrizioni in Lineare B di Micene, Roma 1974; Ead., Corpus delle iscrizioni vascolari in Lineare B, Roma 1974; Godart L., Sacconi A., Les tablettes en Linéaire B de Thèbes, Rome 1978; Bennett E.L., Olivier J.P., The Pylos Tablets Transcribed I-II, Rome 1973-1976; Chadwick J., Godart L., Killen J.T., Olivier J.P., Sacconi A., Sakellarakis I.A., Corpus of Mycenaean Inscriptions from Knossos I, Cambridge-Rome 1986; Olivier J.P., Godart L., Seydel C., Sourvinou C., Index généraux du Linéaire B, Rome 1973.
[5] Godart L., L’economia dei Palazzi, in Maddoli G. (a cura di), La civiltà micenea. Guida storica e critica, Roma-Bari 1977, 97-114.
[6] Sul problema, sempre valida l’impostazione di Ventris M., Chadwick J., op. cit., 232-233; 443-444; utile anche De Fidio P., I «dosmoi» pilii a Poseidon. Una terra sacra di età micenea, Roma 1977 [in part., 132-175] (con la tesi, da verificare, dell’identificazione di una rilevantissima proprietà del sacerdote di Poseidone, e delle offerte intese come tributi al detentore della proprietà eminente).
[7] Sui poteri del wánax miceneo (che concepisce fondamentalmente come semplici privilegi), Carlier P., La royauté en Grèce avant Alexandre, Strasbourg 1984, in part. 44-134 (vd. anche Musti D., Recenti studi sulla regalità greca: prospettive sull’origine della città [vd. Carlier P., La royauté en Grèce avant Alexandre; Drews R., Basileus. The Evidence for Kingship in Geometric Greece], RFIC 116 [1988], 99-121). Sui due distretti del regno miceneo di Pilo (la provincia citeriore e la provincia ulteriore), Chadwick J., The Two Provinces of Pylos, Minos 7 (1961), 123-141.
[8] Stubbings F.H., Mycenaean Pottery from the Levant, Cambridge 1951; Taylour W., Mycenaean Pottery in Italy and Adjacent Areas, Cambridge 1958; Id., I Micenei, Milano 1966; Vagnetti L. (a cura di)., Magna Grecia e mondo miceneo. Nuovi documenti, Taranto 1982; e altre indicazioni in bibliografia.
[9] A Cnosso si verifica una continuità di impronta micenea, dal 1450 al 1370 circa (cioè sino alla fine del Tardo Minoico III A 2); in questo periodo Cnosso sembra dominare sull’intera isola; alla caduta di Cnosso micenea pare sopravvivere per qualche tempo un regno autonomo di Chanià. Cfr. Godart L., op. cit., 176-177; in generale, Milani C., I palazzi di Creta, Milano 1981. Per le iscrizioni cretesi in Lineare A, cfr. Godart L., Olivier J.P., Recueil des Inscriptions en Linéaire A, 5 voll., Paris 1976-1985.
[10] Per la possibile identificazione, nel testo egiziano di Kom el-Heitan dell’inizio del XIV secolo a.C., di centri micenei (Messene, Micene, Nauplia, Citera, Tebe, Pisa, Helos), cfr. Sergent B., La liste de Kom El-Hetan et le Péloponnèse, Minos 16 (1977), 126-173; Edel E., Die Ortsnamenlisten aus dem Totentempel Amenophis III, Bonn 1966. Ci sono anche nomi di località cretesi e forse di Ilio.
[11] Cfr. Taylour W., opp. citt. n. 8.
[12] La diffusione della ceramica in Occidente è soprattutto del periodo Tardo Elladico (Miceneo) III B e C (1300-1075 a.C. circa).
[13] Cfr. Bass G.R., A Bronze Age Shipwreck at Ulu Burun (Kaş): 1984 Campaign, AJA 90 (19869, 269- (ruolo mediatore di Cipro).
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[…] senza alcuna pretesa di storicità, proviamo a formulare un’ipotesi, alquanto peregrina, visto le idee alquanto vaghe che abbiamo sul mondo miceneo, che da una parte, dalla corrispondenza diplomatica egiziana e ittiti, pare un’entità […]
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[…] In ogni caso, anche la Grecia del Bronzo Medio, afflitta da gravi turbolenze, non sembra regredire a forme di completo isolamento: sono attestate relazioni con Creta e con l’ambiente insulare, con l’Anatolia, il Levante e addirittura con alcune aree dell’Europa continentale. Anche se della civiltà micenea sono oggi particolarmente valorizzate, senza escludere apporti esterni, le radici continentali, queste relazioni non furono prive di influenza sulle trasformazioni che, nella seconda metà del XVIII secolo (1750-1700 a.C.), si verificarono in Grecia portando alla nascita della civiltà micenea. […]
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