di M. Torelli, in M. Torelli, M. Menichetti, G.L. Grassigli, Arte e archeologia del mondo romano, Milano 2011, pp.7-11.
1.La scoperta dell’arte romana: la Scuola di Vienna
Agli inizi del XX secolo, nella Vienna capitale di un grande impero centro-europeo al tramonto, ma la tempo stesso ricco di straordinari fermenti culturali che si possono ricapitolare nei nomi di Freud e di Musil, è stata posta per la prima volta in maniera moderna la questione dell’arte romana a opera di Alois Riegl e Franz Wickhoff, fondatori di quella che si usa chiamare “Scuola di Vienna”. È assai significativo che a contrapporsi al giudizio negativo e senza appello riservato dagli archeologi classici alla cultura figurativa romana siano stati due studiosi di tardoantico, la fase più negletta e disprezzata tra quelle alle origini dell’arte europea. Figlia dell’accademismo neoclassico dell’archeologia filologica dell’Ottocento da Brunn a Furtwängler, la critica ufficiale privilegiava manifestatamente la cultura greca e il momento della sua “perfezione” costituito dall’arte classica del V e IV secolo a.C.: ai loro occhi la cultura figurativa romana era soltanto il punto d’arrivo della lunga decadenza dell’arte greca. Con la loro valutazione positiva dell’arte di Roma i due studiosi viennesi introducevano nel panorama degli studi di storia dell’arte un’importante ventata di novità.

A Franz Wickhoff si deve la prima affermazione di autonomia dell’arte romana, espressa nel lavoro introduttivo all’edizione delle miniature del codice tardoantico della Genesi di Vienna (Die Wiener Genesis), pubblicata nel 1905. Per Wickhoff il contributo più rilevante dell’arte romana sarebbe la ricerca della spazialità, da lui individuata negli sfondi prospettici dei rilievi storici, soprattutto in quelli dell’arco di Tito di Roma, nei quali si avverte la circolazione dell’atmosfera; collegata alla spazialità per Wickhoff era l’introduzione del paesaggio, da lui considerato come un’altra conquista della cultura figurativa di Roma. Oggi sappiamo che sia la spazialità che gli sfondi paesistici appartengono alle scoperte della pittura ellenistica, di cui Roma si è largamente servita per le proprie esigenze rappresentative; resta comunque il fatto che per la prima volta in maniera chiara e per rappresentazioni di grande apparato, come i rilievi storici, la critica d’arte ha parlato di una grande arte prodotta nel contesto storico dominato da Roma. Conservatore del museo di arte industriare di Vienna e perciò stesso interessato allo studio della produzione seriale e minuta di epoca imperiale e tardoantica di oggetti di uso, Alois Riegl parte invece da una vera e propria manifattura primitiva, interrogandosi sulla genesi e sulla diffusione di questi oggetti e della loro ornamentazione, che accoglie e modifica temi e motivi di ascendenza classica per le esigenze decorative delle varie classi di materiale al centro dei suoi interessi. Riegl era già stato autore nel 1888 di Stilfragen (Questioni di stile), classificazione tipologica e generica dei motivi decorativi classici, che si iscrive ancora nel pieno della corrente di pensiero del positivismo; pochi anni più tardi, nel 1900, con Spätrömische Kunstindustrie (Industria artistica tardoromana), egli pone le fondamenta di una lettura stilistica delle opere d’arte romane, la cui influenza si fa ancora sentire nella critica d’arte contemporanea. La linea di ricerca di Riegl diviene ora quella ben riassunta dal termine da lui impiegato di Kunstwollen, letteralmente “volontà d’arte”, tradotto in modo abbastanza imperfetto in italiano con la parola “gusto”, espressione priva della forte connotazione scelta cosciente dal corrispondente tedesco: tutte le opere d’arte antica (e non solo quelle, com’è ovvio arguire) sono prodotte da una ben precisa “volontà d’arte”, frutto di un orientamento individuale e collettivo capace di indirizzare in maniera sia conscia che inconscia le tendenze dell’espressione artistica di una data epoca. I limiti di siffatta scelta di metodo sono evidenti, dal momento che il punto di arrivo di questa linea metodologica può essere – e spesso è – un vago giustificazionismo storico; ciononostante, la rinunzia a un modello di perfezione come era quello classico è esplicita e il salto di qualità nei confronti dell’imperante neoclassicismo enorme. Tuttavia, non meno dei suoi contemporanei di tendenze neoclassiche, anche Riegl contrapponeva a quello tardoantico, da lui sentito come genuinamente “romano”, il modo classico di esprimere le forme: per Riegl la forma tardoantica era optisch, “ottica”, mentre quella classica era haptisch, un neologismo tedesco tratto dal greco háptō, “toccare”, e quindi “tattile”, una contrapposizione quindi tra una visione pittorica, propria dell’espressione tardoantica, e una visione plastica, tridimensionale e volumetrica, che caratterizzerebbe invece l’opera d’arte greca. Soprattutto importante appare questa sua concezione della forma, che per la prima volta, sotto la suggestione delle scoperte moderne nel campo della psicologia e delle teorie della visione, superava il pregiudizio naturalistico di lontana origine aristotelica dell’arte come imitazione della natura, peraltro già sconfitta da un lato dalla fotografia e dall’altro dalle tendenze più avanzate dell’arte contemporanea, a partire dal trionfo della pittura degli impressionisti sin dal lontano Salon del 1861.

2.L’arte romana negli anni del fascismo e lo storicismo integrale di Bianchi Bandinelli
Questi fermenti nel campo della critica dell’arte antica, assieme a mille altre cose, vengono travolti dalla prima guerra mondiale. La Scuola di Vienna, nata attorno alla questione dell’arte romana, abbandona di fatto quel terreno, mostrando la propria vitalità soprattutto nell’ambito della storia dell’arte medievale e moderna, a opera di personalità molto diverse, come Arnold Hauser ed Ernst H. Gombrich; l’attività dei seguaci della Scuola giunge a toccare i nostri giorni, diffondendosi soprattutto nel mondo anglosassone, dove godrà di ampia fortuna, parallela a quella dell’altra grande scuola di storia dell’arte moderna fondata ad Amburgo da Aby Warburg e per le note vicende delle persecuzioni razziali trasportata a Londra. Le correnti irrazionalistiche di evidente origine provinciale e il trionfo della retorica nazionalista e fascista, che dominano la scena culturale italiana, non lasciano penetrare nel Paese i fermenti migliori della cultura di lingua germanica sviluppatisi tra la fine del XIX secolo e i primi tre decenni del XX. Come insegnano le impegnative operazioni di recupero e ricostruzione dell’Ara Pacis e l’allestimento della colossale Mostra Augustea della Romanità, personalmente volute da Mussolini per celebrare nel 1938 il bimillenario della nascita di Augusto, scoperto modello della figura del capo del fascismo, il romanesimo sostenuto dal regime a fini puramente trionfalistici, se da un lato ha favorito lo sviluppo di scavi e ricerche archeologiche di argomento romano, ha anche contribuito a lasciare nell’ombra ogni novità e le posizioni più moderne sia nel campo della storia dell’arte sia nell’ambito della metodologia nella ricerca archeologica. In particolare sono state del tutto ignorate le conquiste delle scuole storico-artistiche austriaca e tedesca, come peraltro le innovazioni nelle tecniche di indagine e di scavo elaborate nel mondo anglosassone, tradizionalmente legato alle scelte di matrice positivistica. Tutte queste novità appaiono di fatto trascurate ben oltre la caduta del fascismo, fino a dopo la metà del secolo: basti pensare che la prima traduzione italiana della Spätrömische Kunstindustrie di Riegl viene pubblicata solo nel 1950, dovuta a Sergio Bettini, non a caso uno storico dell’arte bizantina e non un archeologo.

In definitiva, uno scenario, quello italiano, connotato da un forte provincialismo, sul quale domina una classe accademica retriva e impermeabile al nuovo. La lezione della Scuola di Vienna di Riegl e Wickhoff verrà in qualche modo ripresa dal più grande e attento storico dell’arte romana dei nostri tempi, Ranuccio Bianchi Bandinelli, dominatore della scena della storia dell’arte romana in Italia nei quattro decenni a cavallo della metà del XX secolo, che non nascondeva il suo debito nei confronti dei due grandi viennesi. Figura di intellettuale anomalo di formazione crociana, Ranuccio Bianchi Bandinelli, dopo un primo periodo di disimpegno, negli anni della guerra sceglie di aderire al Partito Comunista clandestino, all’interno del quale profonderà per oltre trent’anni un impegno culturale di spicco. Spinto da una forte esigenza di dare sostanza storica alle opere d’arte e da un preminente interesse per l’arte preromana e romana, Bianchi Bandinelli elabora ben presto teorie improntate a uno storicismo molto sentito, articolato sulla base di una serrata lettura formale. Dopo il suo primo libro-manifesto Storicità dell’arte classica (1942, III ed. 1973), nel quale espone con diversi saggi vari aspetti del suo metodo storicistico, Bianchi Bandinelli marca un graduale distacco dagli assunti di partenza neo-hegeliana, evidente nella seconda raccolta di saggi Archeologia e cultura (1961), per approntare alle posizioni sue più mature con la trilogia L’arte romana al centro del potere (1969), La fine dell’arte antica (1970) e Etruschi e Italici prima del dominio di Roma (in collaborazione con Antonio Giuliano, 1973) e con l’ultima raccolta di saggi Dall’ellenismo al medioevo (1978). Secondo Bianchi Bandinelli l’arte romana è caratterizzata da un bipolarismo strutturale, tra forma greca ed esigenze espressive “nazionali” con tutto il loro retaggio di contenuti e di forme, tra arte del centro, realizzata per la classe dominante centrale con il proprio vertice nell’imperatore, e arte della periferia, quella cioè dei ceti subalterni dell’Italia dei municipi e delle province: quest’ultima, definita nel libro Dall’ellenismo al medioevo come “arte plebea”, in contrapposizione a quella aulica e neoclassica del centro del potere. L’altra polarità ravvisata da Bianchi Bandinelli è quella che egli espone nel 1956 in un libretto polemico dal titolo Organicità e astrazione (rist. 2005), tra una forma organica, che tende a rappresentare naturalisticamente le componenti della realtà (gli “organismi”), e una forma astratta: la prima, basata sulla razionalità, caratterizzerebbe la tradizione classica, e la seconda, fondata su scelte irrazionali, connoterebbe invece sia le produzioni periferiche del mondo antico che i movimenti artistici del XIX e XX secolo, in polemica con l’imitazione della natura della millenaria tradizione artistica occidentale, che, a partire dai primi trionfi dell’impressionismo, si mostrano dichiaratamente ispirati dall’irrazionalismo.
3.Le nuove tendenze

Il pensiero, per molti versi assai complesso, di Bianchi Bandinelli ha avuto un significativo seguito fra i suoi numerosi allievi diretti, ma anche fra studiosi di altre scuole: l’attenzione di tutti costoro non ha però proceduto sulle questioni relative alla forma, ma si è concentrata sui messaggi dall’arte romana e sulle mentalità che la governano, sulla composizione della committenza di epoca repubblicana e imperiale, sul rapporto molto articolato tra mondo greco e mondo romano in termini sia di stile che di circolazione della manodopera artigianale e artistica, sugli aspetti della produzione e della distribuzione dei manufatti, soprattutto – ma non esclusivamente – ceramici. Tra gli anni ’60 e gli anni ’80 la prospettiva di analisi dell’arte romana si è ulteriormente allargata alla cultura artistica della Cisalpina, importante cerniera tra l’ufficialità del centro e l’arte delle province, che ha trovato un prolifico interprete moderno in Guido Achille Mansuelli. Alla sua attività, proseguita dalla sua scuola e da una vasta cerchia di studiosi attivi in Italia settentrionale, si deve la classificazione sia delle architetture che delle produzioni soprattutto di scultura decorativa e di arti minori, tolte finalmente dalla penombra cui l’aveva condannata l’arte ufficiale promossa dalla capitale, centro di attenzione critica pressoché unico. A lui e alla sua scuola si deve anche un particolare interesse per gli aspetti programmatici degli apparati decorativi pubblici e privati e per gli impatti visivi creati dalle prospettive e dai percorsi creati dalle architetture. Notevole importanza e particolare seguito in Italia ha infine l’indirizzo metodologico perseguito da Salvatore Settis e dalla sua scuola in relazione sia allo studio non tradizionale delle iconografie perseguito in chiave warburghiana che alla storia culturale e alla sopravvivenza dell’antico, tendenza che sta scrivendo pagine molto importanti per la storia dell’arte antica e non solo per quella.

Fuori d’Italia le novità più importanti ci vengono ancora una volta dalla Germania, dove nel secondo dopoguerra, a partire dagli anni ’70, si è verificata una vera e propria rinascita di studi sull’arte romana, ma su basi metodologiche del tutto nuove rispetto alla tradizione filologica di studi, tenuti in vita tra gli anni ’30 e gli anni ’50 da una generazione di studiosi, che, con qualche significativa eccezione, come quelle di Richard Delbrück e di Georg Rodenwaldt, studiosi della tarda antichità, appaiono più impegnati nell’alta filologia che nella ricerca di nuovi indirizzi metodologici. Il nuovo corso dell’archeologia tedesca si è giovato dell’apporto di una generazione di storici dell’arte romana, tra i quali spiccano i nomi di Klaus Fittschen, Paul Zanker e Tonio Hölscher, che ha saputo coniugare il livello elevatissimo della tradizione filologica ben radicata in Germania con novità di approccio molto diverse fra loro, che vanno dalla psicologia sociale alla semiologia. In particolare nella serie di lavori dedicati all’età augustea da Zanker, che toccano sia l’architettura che la scultura, la ritrattistica e il rilievo storico, con attente consonanze nel campo letterario (Forum Augustum, 1968; Forum Romanum, 1972; Augustus und die Macht der Bilder, Augusto e il potere delle immagini, 1987) il concetto di Bildprogramm, di “programma iconografico”, ovvero il progetto di discorso per immagini, legato al messaggio che il committente intende trasmettere con l’opera d’arte. I suoi studi di ritrattistica pubblica e privata hanno messo in luce la sapiente manipolazione del ritratto ellenistico da parte delle élite romane e al tempo stesso la forte omologazione prodotta dal ritratto imperiale nella ritrattistica delle classi dirigenti locali, incarnata nel concetto di Zeigesicht, ossia di “volto dell’epoca”, che egli mette a fuoco in un lavoro a quattro mani con Klaus Fittschen (Herrscherbild und Zeitgesicht, 1982, 1983); non meno innovativi sono gli impulsi dati all’aspetto della percezione (e del connesso carattere persuasivo) delle architetture e degli spazi pubblici che occupano una parte importante delle sue ricerche più recenti.

A Klaus Fittschen, impegnato con successo anche sul versante della cultura figurativa greca, oltre a una serie di significativi studi di pittura pompeiana, i deve invece un brillante e acuto lavoro di sistemazione della ritrattistica romana e della classe dei sarcofagi, con l’introduzione del concetto di Bildnispropaganda, ovvero di “propaganda realizzata con il ritratto”. Tonio Hölscher infine, anch’egli interessato in pari misura al mondo greco e al mondo romano, ha innovato gli studi sul rilievo storico romano (Staatsdenkmal und Publikum, Monumenti di stato e il pubblico, 1984), ma soprattutto si è distinto e continua a distinguersi per l’elaborazione del concetto di Bildsprache, di “linguaggio delle immagini”, di cui propone una penetrante analisi dei sistemi semantici messi in campo dall’arte romana (Römische Bildsprache als semantisches System, Il linguaggio figurativo romano come sistema semantico, 1987; trad. it. 1991). Notevole è la sua tendenza alla riflessione metodologica sull’archeologia contemporanea, espressa in libri e articoli editi fino ad oggi, come Klassische Archäologie am Ende des 20 Jahrhunderts (L’archeologia classica alla fine del XX secolo, 1995), Formen der Kunst und Formen des Lebens (Forme dell’arte e forme della vita, 1995) e Klassische Archäologie. Eine Einführung (Archeologia classica. Un’introduzione, 2000) pubblicata in collaborazione con Paul Zanker e Adolf Borbein.

Le nuove tendenze di cui abbiamo parlato a lungo per l’Italia e la Germania si riproducono in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, dove però assumono il colorito proprio delle rispettive tradizioni culturali. In Francia il forte insediamento tenuto dall’antropologia nella cultura dominante fa mettere l’accento (anche se palesemente più orientato verso il mondo greco che su quello romano) sulla costruzione della mentalità e sul contributo della psicologia sociale manifestato negli indirizzi all’origine dei messaggi visivi, mentre un posto speciale è occupato dagli studi di architettura romana, soprattutto quelli fortemente innovativi di Pierre Gros (L’architecture romaine I-II, 1996-2001).

In Inghilterra, ma soprattutto negli Stati Uniti, accanto a una non secondaria sopravvivenza di studi di tipo accademico, ha profondamente interagito con le tradizioni locali un significativo influsso europeo derivante dalla presenza di cospicui gruppi di storici dell’arte e archeologi emigrati, fuggiti dalla Germania nazista, da Otto Brendel a Peter von Blanckenhagen. Oggi, nel contesto di scambi culturali sempre più intesi e profondi sollecitati dal processo di globalizzazione, possiamo senz’altro dire che nella comunità scientifica internazionale esiste un panorama sostanzialmente unitario negli orientamenti degli studi della storia dell’arte romana, nei quali terreno largamente comune per il XXI secolo è costituito dalla ricerca sui programmi decorativi, sui modi della circolazione dei messaggi, sul linguaggio delle immagini e sui rapporti di questo con la psicologia sociale, con le mentalità e i diversi livelli sociali e culturali della committenza. Tutto ciò non vuol dire che fra le varie scuole non sussistano più differenze. Nel mondo anglosassone, il vecchio pregiudizio neoclassico assegna agli studi di arte greca un posto di gran lunga superiore a quello attribuito agli studi di arte romana, così come in Francia il primato degli studi di antropologia del mondo antico, vero e proprio centro di preminente interesse delle ricerche di archeologia e di storia antica della nazione, ha fortemente condizionato lo sviluppo in direzione del mondo greco.

La tradizione italiana di studi di archeologia romana a sua volta si distingue fortemente dalle altre per più di un motivo. Particolarmente significativa è l’attenzione rivolta dagli studiosi italiani verso la dimensione sociologica, un tratto che per certi versi l’accomuna all’archeologia francese, retaggio della lezione e, in alcuni casi, dell’impegno politico di Ranuccio Bianchi Bandinelli. Ma ancor più rilevante è l’assoluta unicità dell’interesse della ricerca italiana per le fasi più antiche dell’arte di Roma, fortemente – e a torto – trascurato dalle altre scuole. Ciò si deve alla larga ed esclusiva diffusione in Italia, a somiglianza delle Antiquités nationales francesi, di studi di archeologia etrusca e italica, humus dell’arte di Roma almeno fino al II secolo a.C. (e per certi versi anche oltre), ma anche al sussistere negli altri Paesi dell’influenza della vecchia tradizione accademica, che, come abbiamo visto, considerava l’arte romana una sorta di prosecuzione e di impoverimento di quella reca e comunque “visibile” soltanto a partire dal collasso dei regni dei Diadochi in epoca tardo-ellenistica.
Questo carattere di “archeologia nazionale” rivestito in Italia dalla storia dell’arte romana non a caso si è accompagnato al sostanziale declino degli studi di storia dell’arte greca, da noi indirizzati, in maniera pressoché esclusiva e non priva di un sostanziale provincialismo, verso lo studio dell’archeologia della Magna Grecia, che per gran parte dell’Italia meridionale e per la Sicilia riveste il ruolo di “antichità nazionali”.
Arco di Tito looks magnificent, I wish I would see it one day live! 🙂
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