di I. Biondi, Storia e antologia della letteratura greca, vol. 2.A – Il teatro, Firenze 2004, pp. 193 sg.; testo greco di Sophocles, Antigone, in F. Storr (ed.), Sophocles. Vol.1: Oedipus the King. Oedipus at Colonus. Antigone, London-New York 1912; traduzione it. di F. Ferrari, in G. Paduano (a cura di), Il teatro greco: tragedie, Milano 2006.
Antigone, sorpresa dalle guardie di Creonte mentre rende gli onori funebri al corpo di Polinice, viene condannata a essere sepolta viva in una tomba scavata nella roccia. Inutilmente Emone, figlio di Creonte e fidanzato di Antigone, supplica il padre di graziare la ragazza; il sovrano si mostra inflessibile e la sentenza viene eseguita. Tuttavia, poco dopo, si presenta a corte l’indovino Tiresia, predicendo a Creonte le più terribili sventure per il duplice sacrilegio di cui si è macchiato, impedendo che un morto avesse sepoltura e seppellendo invece una creatura viva. Dapprima il sovrano reagisce con durezza, ostinandosi nella sua decisione; in seguito, però, le parole di Tiresia fanno breccia nel suo animo ed egli ordina ai servi di liberare immediatamente Antigone. Ma è ormai troppo tardi: la fanciulla, chiusa nel sepolcro, si è tolta la vita, impiccandosi con la cintura della veste. Emone, visto il cadavere della promessa sposa, non ha resistito al dolore e si è suicidato anch’egli, sotto gli occhi del padre giunto in tempo per assistere all’orribile scena di cui è il diretto responsabile. Ben presto, un altro lutto si abbatte su Creonte: sua moglie Euridice, informata della morte del figlio, si chiude in casa e si uccide. All’infelice sovrano non resta che meditare amaramente sulla sua brama di potere, fonte di tante sventure.

Κρ. = Κρέων; Χο. = Χορός
Κρ. – ἰὼ φρενῶν δυσφρόνων ἁμαρτήματα
στερεὰ θανατόεντ᾽,
ὦ κτανόντας τε καὶ
θανόντας βλέποντες ἐμφυλίους.
ὤμοι ἐμῶν ἄνολβα βουλευμάτων. 1265
ἰὼ παῖ, νέος νέῳ ξὺν μόρῳ
αἰαῖ αἰαῖ,
ἔθανες, ἀπελύθης
ἐμαῖς οὐδὲ σαῖς δυσβουλίαις.
Χο. – οἴμ᾽ ὡς ἔοικας ὀψὲ τὴν δίκην ἰδεῖν. 1270
Κρ. – οἴμοι,
ἔχω μαθὼν δείλαιος· ἐν δ᾽ ἐμῷ κάρᾳ
θεὸς τότ᾽ ἄρα τότε μέγα βάρος μ᾽ ἔχων
ἔπαισεν, ἐν δ᾽ ἔσεισεν ἀγρίαις ὁδοῖς,
οἴμοι, λακπάτητον ἀντρέπων χαράν. 1275
φεῦ φεῦ, ὦ πόνοι βροτῶν δύσπονοι.
Cr. – Ah, errori ostinati, errori fatali
della mia mente dissennata!
Guardate! Uccisori
e uccisi dallo stesso sangue.
Ahimè, infausta decisione!
Ah, figlio mio, di morte immatura sei morto:
ahimè, ahimè!
Te ne sei andato, per la mia,
non per la tua, follia.
Co. – Ahimè, quanto in ritardo riconosci il giusto!
Cr. – Ahimè infelice,
finalmente ho capito: un dio, sì un dio
allora mi percosse sul capo col suo peso enorme,
e su atroci sentieri mi traviò,
ahimè, e col piede calpestò la mia felicità!
Ah, patimenti intollerabili degli uomini!
Nel descrivere la disperazione di Creonte, Sofocle affrontò un tema tragico che gli era particolarmente caro: la reazione di un personaggio di fronte alla catastrofe di cui è il solo responsabile. Come accade nell’Aiace, in cui il messaggio di Calcante arriva troppo tardi per salvare l’eroe, così anche qui il ripensamento di Creonte è troppo tardivo per poter incidere significativamente sullo svolgimento dei fatti, mutandone il corso; perciò quando egli è costretto ad affrontare l’irrimediabile, la progressiva acquisizione della consapevolezza di ciò che ha causato, diviene per lui fonte di una disperata autocoscienza.
Degna di nota, in questo passo, l’insistenza del poeta sul tema della follia (δυσβουλία), la colpa di una «mente dissennata» (φρήν δύσφρων). Nel primo dialogo fra Creonte e Antigone, quando la ragazza, sorpresa a rendere onore al corpo del fratello, era stata presa dalle guardie e condotta dinanzi al sovrano, lei non aveva esitato a definire stolto il comportamento del re (vv. 469 sg.):
σοὶ δ᾽ εἰ δοκῶ νῦν μῶρα δρῶσα τυγχάνειν,
σχεδόν τι μώρῳ μωρίαν ὀφλισκάνω.
E se ti sembra che mi comporto come una pazza,
forse è pazzo chi di pazzia mi accusa.
Ma Creonte si era affrettato a ritorcere la stessa accusa contro di lei e la sorella Ismene (vv. 561 sg.):
τὼ παῖδε φημὶ τώδε τὴν μὲν ἀρτίως
ἄνουν πεφάνθαι, τὴν δ᾽ ἀφ᾽ οὗ τὰ πρῶτ᾽ ἔφυ.
Di queste due ragazze dico che una ha manifestato
ora la sua follia, mentre l’altra è pazza dalla nascita.
Anche durante il colloquio con Tiresia, Creonte, irritato dalle sue parole di rimprovero, accusa il vate di follia, ricevendone in cambio una significativa risposta (v. 1052):
ταύτης σὺ μέντοι τῆς νόσου πλήρης ἔφυς.
Proprio questa è il male di cui sei pieno.
Il ravvedimento di Creonte ha inizio proprio per opera di Tiresia, il cieco veggente che riesce a far breccia nell’ottusa cecità del cuore del sovrano con un lugubre vaticinio (vv. 1078-1086):
φανεῖ γὰρ οὐ μακροῦ χρόνου τριβὴ
ἀνδρῶν γυναικῶν σοῖς δόμοις κωκύματα.
ἐχθραὶ δὲ πᾶσαι συνταράσσονται πόλεις, 1080
ὅσων σπαράγματ᾽ ἢ κύνες καθήγνισαν
ἢ θῆρες ἤ τις πτηνὸς οἰωνός, φέρων
ἀνόσιον ὀσμὴν ἑστιοῦχον ἐς πόλιν.
τοιαῦτά σου, λυπεῖς γάρ, ὥστε τοξότης
ἀφῆκα θυμῷ, καρδίας τοξεύματα 1085
βέβαια, τῶν σὺ θάλπος οὐχ ὑπεκδραμεῖ.
Non passerà molto tempo e nella tua casa
echeggeranno lamenti di uomini, di donne.
e già un turbine d’odio si leva contro di te da tutte le città,
ora che i resti dei loro uomini sono seppelliti dai cani
e dalle fiere o dagli sparvieri, che trasportano
immondo fetore sino ai focolari delle città.
Poiché sei tu che mi provochi, con tutto il mio odio
scaglio contro di te, come fossi un arciere, questi strali
infallibili, di cui non potrai sfuggire il bruciore!
Nella frettolosa concitazione con la quale il signore tenta di annullare i suoi ordini, nell’illusoria speranza di prevenire il male che scaturirà comunque da essi, possiamo scorgere il primo manifestarsi di quella coscienza della propria responsabilità, che si rivela con tutto il suo peso nell’esplosione di angoscia di Creonte, costretto a riconoscere ad un tempo la propria follia, la potenza della divinità e, attraverso le sue personali sventure, l’universale miseria del genere umano.