C. Svetonio Tranquillo, De vita Caesarum, II – Augustus 99-100.
Supremo die identidem exquirens, an iam de se tumultus foris esset, petito speculo capillum sibi comi ac malas labantes corrigi praecepit et admissos amicos percontatus, ecquid iis uideretur minimum uitae commode transegisse, adiecit et clausulam:
«ἐπεὶ δὲ πάνυ καλῶς πέπαισται, δότε κρότον
καὶ πάντες ἡμᾶς μετὰ χαρᾶς προπέμψατε».
omnibus deinde dimissis, dum aduenientes ab urbe de Drusi filia aegra interrogat, repente in osculis Liuiae et in hac uoce defecit: «Liuia, nostri coniugii memor uiue, ac uale!». sortitus exitum facilem et qualem semper optauerat. nam fere quotiens audisset cito ac nullo cruciatu defunctum quempiam, sibi et suis εὐθανασίαν similem – hoc enim et uerbo uti solebat – precabatur. unum omnino ante efflatam animam signum alienatae mentis ostendit, quod subito pauefactus a quadraginta se iuuenibus abripi questus est. id quoque magis praesagium quam mentis deminutio fuit, siquidem totidem milites praetoriani extulerunt eum in publicum.
obiit in cubiculo eodem, quo pater Octauius, duobus Sextis, Pompeio et Appuleio, cons. XIIII. Kal. Septemb. hora diei nona, septuagesimo et sexto aetatis anno, diebus V et XXX minus.
corpus decuriones municipiorum et coloniarum a Nola Bouillas usque deportarunt noctibus propter anni tempus, cum interdiu in basilica cuiusque oppidi uel in aedium sacrarum maxima reponeretur. a Bouillis equester ordo suscepit urbique intulit atque in uestibulo domus conlocauit. senatus et in funere ornando et in memoria honoranda eo studio certatim progressus est, ut inter alia complura censuerint quidam, funus triumphali porta ducendum, praecedente Victoria quae est in curia, canentibus neniam principum liberis utriusque sexus; alii, exequiarum die ponendos anulos aureos ferreosque sumendos; nonnulli, ossa legenda per sacerdotes summorum collegiorum. fuit et qui suaderet, appellationem mensis Augusti in Septembrem transferendam, quod hoc genitus Augustus, illo defunctus esset; alius, ut omne tempus a primo die natali ad exitum eius saeculum Augustum appellaretur et ita in fastos referretur. uerum adhibito honoribus modo bifariam laudatus est: pro aede Diui Iuli a Tiberio et pro rostris ueteribus a Druso Tiberi filio, ac senatorum umeris delatus in Campum crematusque. nec defuit uir praetorius, qui se effigiem cremati euntem in caelum uidisse iuraret. reliquias legerunt primores equestris ordinis tunicati et discincti pedibusque nudis ac Mausoleo condiderunt. id opus inter Flaminiam uiam ripamque Tiberis sexto suo consulatu extruxerat circumiectasque siluas et ambulationes in usum populi iam tum publicarat.

Nell’ultimo giorno della sua vita, domandando di tanto in tanto se ci fosse già agitazione per la città a causa delle sue condizioni, chiese uno specchio, si fece sistemare i capelli e aggiustare le guance cadenti e, chiamati i suoi amici, domandò se sembrasse loro che avesse recitato bene fino in fondo la farsa della vita, e aggiunse la clausola tradizionale: «Se la commedia è stata di vostro gradimento, applaudite e tutti insieme manifestate la vostra gioia!». Poi li congedò tutti quanti e mentre chiedeva notizie a chi era venuto da Roma sulla figlia di Druso malata, improvvisamente spirò tra i baci di Livia, dicendo: «Livia, fin che vivi ricordati che siamo stati sposati. Allora addio!». Ebbe così una morte dolce, quale si era sempre augurato. Infatti, quasi sempre quando gli si annunciava che qualcuno era morto rapidamente e senza soffrire, pregava agli dèi per sé e per i suoi una simile “eutanasia” (proprio questo era infatti il termine di cui era solito servirsi). Prima di esalare l’ultimo respiro mostrò un unico segno di delirio mentale, quando colto da un improvviso sudore, si lamentò di essere trascinato via da quaranta giovani. Ma anche questo fu piuttosto un presagio che l’effetto del delirio, perché, infatti, proprio quaranta soldati pretoriani lo portarono fuori per esporlo in pubblico.
Morì nella stessa stanza in cui si spense suo padre Ottavio, sotto il consolato dei due Sesti, Pompeo e Appuleio, quattordici giorni prima delle Calende di Settembre (19 agosto), alla nona ora del giorno (alle tre del pomeriggio), all’età di settantasei anni meno trentacinque giorni.
I decurioni dei municipi e delle colonie trasportarono il suo corpo da Nola a Boville durante la notte a causa della temperatura della stagione: di giorno lo si deponeva nella basilica di ogni città o nel tempio più grande. A Boville lo prese in carico l’ordine equestre che lo portarono a Roma e lo ricomposero nel vestibolo della sua dimora. I membri del Senato sia nel disporre il funerale sia nell’onorare la sua memoria gareggiarono in zelo a tal punto che, tra le molte altre proposte, sentenziarono che il corteo funebre dovesse passare per la Porta Trionfale, preceduto dalla statua di Vittoria, che si trova nella Curia, al canto di nenie funebri intonate dai figli di ambo i sessi dei cittadini più eminenti; altri proposero che il giorno delle esequie si riponessero gli anelli d’oro e si indossassero quelli di ferro; altri ancora che le sue ossa dovessero essere raccolte dai sacerdoti dei collegi superiori. Ci fu perfino chi sostenne che si dovesse trasferire l’appellativo del mese di “Augusto” anche al mese di Settembre, perché in questo Augusto era nato e in quello era morto.
Un altro propose che tutto il periodo compreso tra il giorno della sua nascita e quello della sua morte si chiamasse “Secolo di Augusto” e registrato sotto questo nome nei Fasti. Posto un freno a queste onoranze, due volte fu pronunciato per lui l’elogio funebre: da Tiberio davanti al tempio del Divo Giulio, e da Druso, il figlio di Tiberio, sulla tribuna dei Rostri antichi, e, infine, i senatori lo portarono a spalla fino al Campo di Marte dove fu cremato. Non mancò naturalmente il vecchio ex-pretore che giurò di aver visto salire in cielo proprio il fantasma del defunto cremato. I membri più importanti dell’ordine equestre, in tunica, senza cintura e a piedi nudi deposero i suoi resti nel Mausoleo: lo aveva fatto costruire tra la via Flaminia e la riva del Tevere sotto il suo sesto consolato e fin da allora aveva aperto al pubblico i boschetti e le passeggiate da cui era circondato.